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Alto Adige - 16.05.65
 

DAL SETTEMBRE DEL 1943 ALL’APRILE DEL 1945 L’ALTO ADIGE RIMASE OPPRESSO DALLA BRUTALE TRACOTANZA NAZISTA
La lunga notte di Bolzano
Un documento agghiacciante sulla camera di tortura del famigerato maggiore Schiffer delle SS – Come venne seviziato ed ucciso il capo del CLN bolzanino, Manlio Longon – Il racconto di Ferdinando Visco Gilardi sull’organizzazione delle fughe dal campo di concentramento

 
Vent’anni fa, nel maggio del 1945, l’autorità del Governo italiano, tramite il Comitato di Liberazione Nazionale ritornava ad assumere i poteri in Alto Adige dopo quasi due anni di dominazione nazista. Sul. fosco periodo che precedette quei giorni, sui primi mesi del ritorno alla normalità, molto si è scritto negli ultimi tempi, spesso con opposti intenti. Nel marasma delle fonti, abbiamo tentato una ricostruzione organica di quegli eventi attraverso testimonianze, scritti e documentazioni di varia fonte nel duplice intento di dare un contributo di orientamento a quanti desiderino conoscere di più su quell’epoca, e di confermare - se è vero, come è vero che sulla Resistenza armata e non armata ma esplicantesi in mille altre forme fonda le sue basi la Repubblica democratica  - la legittimità dell’assunzione dei poteri civili da parte italiana nella provincia di Bolzano. Da quest’ultimo assunto prende avvio la nostra sintesi riferendo sui movimenti clandestini che operarono in Alto Adige - senza dimenticare che quanti vollero abbracciare la resistenza armata dandosi alla montagna, dovettero spostarsi nelle province vicine, massime in val di Fiemme - e che pagarono con il sangue questo loro opporsi tenace ai negatori della libertà.
 

“Il maltrattamento di De Biasio è avvenuto nel modo più consueto e cioè facendo passare una stanga di ferro fra i gomiti e le ginocchia e appendendo il corpo a una scala a pioli, quindi colpendolo con una frusta. De Biasio deve essere stato bastonato da Andergassen”.
“Il dirigente del partito comunista, impiegato dell’ufficio del registro di Bolzano, Del Fabbro, è scappato anche lui e più è stato arrestato a Venezia e portato a Bolzano. Anche lui è stato interrogato due volte da Schiffer con Tribus come interprete ed è stato maltrattato due volte. Dato che Del Fabbro non ha voluto confessare senz’altro, sono stati messi in opera i tre gradi di tortura e cioè quello descritto, dell’appendere fra scale a pioli e la bastonatura, e poi, come ulteriore grado l’appendere alla scala per le mani e, procurare dolori a mezzo d’un apparecchio elettrico” ….
“C’era qui a Bolzano un capo d’un cosiddetto Comitato d’assistenza per gli internati. Esso veniva diretto da un comitato centrale di Milano che lo finanziava. Come capo funzionava un certo Gilardi che era direttore della ditta FRO. Gilardi era solo un uomo rispettabile e buono che voleva aiutare la gente. Dato però che dapprima non voleva assolutamente dir niente e negava tutto, nonostante le prove, ha dovuto soffrire molto. Egli aveva fatto in modo che internati fuggiti venissero alloggiati e mandava nel Lager continuamente pacchi con biancheria …”
Questi tre brani, agghiaccianti per il distacco burocratico con cui vi si descrivono torture delle più bestiali, sono tratti da un documento inedito, i verbali d’interrogatorio che or sono vent’anni tra il maggio ed il giugno del 1945, vennero resi in Bolzano da Christa Roy, segretaria ed amante del “boia di Bolzano”, il maggiore delle “SS” Schiffer, il quale aveva trasformato i sotterranei del Corpo d’Armata in uno dei più spaventosi luoghi di sofferenza.
Sono una ventina di pagine l’ultima delle quali porta la data del 21 giugno 1945 e la firma Commissario Criminale Arthur Schoster incaricato dal comando Alleato di redigere un rapporto sulla morte di Manlio Longon. In quei tre frammenti è sintetizzato il dramma del gruppo di resistenza che pagò col sangue la sua opposizione, in Bolzano, al regime nazista, fra il 1943 ed il 1945.
De Biasio, di cui si parla nel primo frammento, era un operaio di Brunico. Allorché, verso la fine del 1944, Manlio Longon, che era a capo del CLN bolzanino, decise di passare ad operazioni di sabotaggio, si mise i contatto con il forte gruppo di resistenza del Bellunese tramite il prof. Coleselli di Belluno, il quale dispose l’invio di alcune casse di esplosivi, appunto attraverso il Di Biasio, dalla val Pusteria. La cosa fu risaputa dal comando delle “SS” (come spiega appunto la Roy in altra parte degli interrogatori) per la delazione di un autotrasportatore di Brunico, certo Voppa. De Biasio e Coleselli furono subito presi e torturati, e così vennero fuori i  nomi di Longon e di altri, come Del Fabbro, che furono arrestati e torturati. Dopo giorni e giorni di inumane sofferenze, Longon morì.
Sostiene la Roy che non fu Schiffer a dare l’ordine di sopprimerlo, e che anzi essa stessa era convinta che egli si fosse tolto la vita non resistendo più alle torture. Ma l’inchiesta stabilì che Manlio Longon, ormai ridotto ad un rottame umano, venne strangolato in una cella del corpo d’Armata dalle “SS” che lo legarono per il collo ad un termosifone e quindi lo tirarono per i piedi finché spirò. Quanto a Schiffer, riuscito a fuggire in un primo momento da Bolzano, venne rintracciato dagli americani in Tirolo e pagò con la forca la sua carriera di carnefice.
Con la morte di Longon, arrestato sullo scorcio del 1944, il CLN bolzanino accusava un duro colpo e doveva rinunciare ai piani, in realtà di troppa ardua attuazione per la mancanza di collaborazione della popolazione locale, relativi ad attività di guerriglia e sabotaggio.
Continuava invece l’attività lungo un secondo filone, quello indirizzato al salvataggio ed alla assistenza degli internati del “Durchgangslager” di Bolzano. Ed ecco, a questo proposito il nome di Ferdinando Visco Gilardi, fatto dalla stessa Roy, che fu l’anima di questa operazione fino a quando non finì a sua volta sotto la tortura e nel campo di concentramento, dal quale venne liberato il 30 aprile 1945, e che nell’anno e mezzo successivo fu vice prefetto di Bolzano.
Gilardi vive attualmente a Milano, appartato da qualsiasi attività pubblica, dedito alla cura dei suoi sei figli dopo la scomparsa di sua moglie, avvenuta immaturamente tre anni fa, ed immerso in un autentico sacrario di letture, tra migliaia di libri in mezzo ai quali sta prendendo corpo una sua rievocazione di quei tragici anni che, a Bolzano, lo videro in posizione di protagonista. Il volume dovrebbe essere completato entro l’anno.
Gilardi, milanese di nascita, s’era stabilito dal 1940 a Bolzano, ma aveva mantenuto amicizie e contatti nel capoluogo lombardo. La sua maturazione politica e spirituale (Gobetti era stato il faro più luminoso per la sua giovinezza) aveva formato in lui il terreno adatto perché vi germinasse il seme della Resistenza: tuttavia non fu lui a prendere l’iniziativa, ma la Resistenza venne a lui per il “canale” milanese che gli fornì indicazioni e mezzi per organizzare l’assistenza e le fughe dei reclusi nel “lager” di Bolzano. Una ragione di maggior sicurezza consigliava il minor numero di contatti possibili con il gruppo locale del CLN, ed in effetti Gilardi ebbe solo più tardi approcci con Longon, quando la sua organizzazione era  già da tempo efficiente.
I contatti fra Gilardi e la centrale milanese, principalmente con Lelio Basso, vennero stabiliti attraverso i viaggi di due donne, Virginia Scalarini, figlia del noto vignettista politico-satirico dell’ “Avanti”, e Gemma Bartellini. Furono esse a rifornire Gilardi di generi alimentari e capi di vestiario, spediti in casse a Bolzano con la collaborazione dell’allora direttore delle Acciaierie, ing. Ventafridda, che mise a disposizione i trasporti per conto della fabbrica bolzanina da Milano: sui camion, in mezzo alla merce “legale”, c’era anche quella destinata al “Lager”. In questo era consentito a parenti e conoscenti portar pacchi ai detenuti, che facevano la fame. Gilardi però dovette creare un’organizzazione che confezionasse pacchi tutti differenti l’uno dall’altro, per non indicare la stessa matrice di rifornimento.
La via dei pacchi divenne dunque anche la via dei messaggi clandestini in entrata ed in uscita, che consentirono di preparare le fughe dei detenuti; in quest’opera furono validi collaboratori di Gilardi due idraulici che avevano ogni tanto accesso al campo per eseguirvi lavori, Degasperi e Brunelli, nonché la dottoressa Ada Buffulini, che era medico consultore al campo e la dottoressa Laura Conti che, pur essendo internata, svolgeva mansioni che le consentivano una certa libertà di movimenti nel recinto e di approcci con tutti i detenuti.
Le fughe potevano essere organizzate o favorite. Nel secondo caso si trattava di fornire subito ai fuggiaschi documenti falsi, vestiario, danaro, cibo e ospitalità per i primi giorni. Il danaro arrivava in sufficiente quantità da Milano, assieme a carte di identità in bianco, che poi Gilardi riempiva con generalità false e le foto dei fuggiaschi. Inoltre aveva trovato un certo numero di famiglie italiane di Bolzano che si prestavano, spesso più in uno slancio di umanità e solidarietà che per calcolo politico, ad ospitare i clandestini quando ciò non era possibile nella stessa abitazione di Gilardi. Infine venivano organizzati i trasporti per Milano.
Per le evasioni preparate dall’esterno questa fase doveva essere preceduta da altre, più rischiose: si dovevano stabilire l’ora e le modalità della sortita, far trovare al fuggiasco un mezzo di trasporto, in genere una bicicletta, nei pressi del Lager, e quindi indicargli il primo rifugio utile. Ventitre furono le fughe di questo tipo organizzate da Gilardi prima del suo arresto.

Il fuoco davanti agli occhi
Ferdinando Visco Gilardi cadde nelle mani dei nazisti il 19 dicembre 1944. In precedenza si era consumata la tragedia di Manlio Longon. Negli interrogatori degli appartenenti a questo gruppo era stato fatto più volte il suo nome, sia pure di sfuggita. Il maggiore Schiffer lo mandò a prendere in fabbrica da due “SS” altoatesini che lo caricarono senza complimenti su una vettura e lo portarono al Corpo d’Armata. Iniziava per Gilardi il calvario di tutti quelli che erano sospettati di attività antinaziste. Si cominciava con il trattamento “psicologico”: due ore di permanenza in una cella contigua alla “camera delle torture”, a sentire le urla di chi era di turno sotto le mani degli “specialisti” di Schiffer. Questo che doveva essere un prologo sufficiente a far sciogliere la lingua ai meno forti, fu in realtà l’occasione che Gilardi ebbe, preso così alla sprovvista, per organizzare la sua difesa personale nel tentativo di conseguire il duplice scopo di riportare a casa la pelle senza danno per l’organizzazione da lui stesso creata.
Si costruì pertanto una serie di ammissioni da rilasciare, tali da confermare quanto era probabile che i nazisti già sapessero sulla sua attività, senza peraltro compromettere altre persone reali, integrandole con una serie di fatti del tutto inventati ma molto verosimili. Il tutto da riferire poco a poco, sotto forma di confessione strappata e non volontaria, onde attribuire al torturatore la sua parte di merito fittizio e di reale soddisfazione.
E venne il suo turno. Lo aspettava per l’interrogatorio Schiffer in persona, al quale Gilardi si rivolse in lingua tedesca mirando a stabilire un più facile contatto e quindi a far sì che, sia pure nella efferata brutalità dei torturatori, questi avessero sempre presente la sensazione di avere dinanzi una persona, non una cosa. Erano particolari, ma egli ritenne, a ragione, che avrebbero avuto il loro peso, come il togliersi dignitosamente da solo la giacca, anziché farsela strappare dagli aguzzini che lo spogliavano. Fin dalle prime battute si rese conto che Schiffer sapeva ben poco di lui, e quel poco favoriva la sua posizione, nel senso che egli appariva anziché un resistente, un filantropo che si era dedicato ad aiutare gli internati. Gilardi lo assecondò in questa sensazione, il che però non gli risparmiò la tortura che, preliminarmente, toccava a tutti. Incominciarono con lo “spiedo”, così come descritto nel verbale di interrogatorio della Roy: spogliatolo e legatolo sull’asta di ferro, il suo corpo veniva fatto ruotare e percosso a nerbate che gli strappavano la pelle. Dopo un’ora e mezza di quel trattamento le sue carni erano tutte una piaga ma Gilardi aveva mantenuto coscienza sufficiente per lasciare andare poco a poco le sue ammissioni fasulle o comunque innocue, così come le ricorda a stessa Roy che era presente “per stenografare”. A questo punto Schiffer introdusse il “secondo grado”, appendendolo per le mani ad una carrucola e “strappando” e poi il terzo. Alle tempie del torturato vennero applicati due elettrodi e lo stesso maggiore azionò la corrente elettrica onde renderla progressivamente più intensa.
“Era allucinante – ricorda Gilardi – dal dolore non riuscivo a tenere aperti gli occhi, ma distinguevo dinanzi a me un gran globo di fuoco, e di mano in mano che la corrente aumentava di intensità il globo diminuiva di ampiezza. Schiffer continuava a chiedere, ma io non dissi altro anche perché mi rendevo conto che, qualsiasi cosa avessi detto la mia posizione non sarebbe per nulla migliorata, anzi. Tanto valeva resistere. Mi sentivo venir meno, ma capivo che fino a quando avessi percepito almeno un puntino di quella luce, sarei sopravvissuto. A quel puntino mi tenni aggrappato, concentrandomi disperatamente in esso, finché tolsero la corrente. Non feci a tempo a respirare che mi applicarono gli elettrodi alle ferite infertemi con la cinghia: il dolore però non era differente. Poi smisero del tutto”.
Lo gettarono in una cella del Corpo d’Armata promettendogli che la musica sarebbe ricominciata. Intanto poteva pensarci su, se voleva confessare ancora. Attese per due giorni, durante i quali probabilmente Schiffer controllò se le sue affermazioni potevano in qualche maniera essere contraddette. Evidentemente cominciava a convincersi della storia del filantropo e così gli fece avere carta e matita perché mettesse per iscritto quello che aveva da dire. Gilardi ripeté il racconto già fatto. Il  terzo giorno venne inviato al “Lager”, in cella di segregazione.
Nel campo ebbe modo di constatare che la sua organizzazione funzionava ancora: attraverso la “bocca di lupo” della cella poté mettersi in comunicazione con gli altri ed avvertirli di quanto lui aveva detto alle “SS” perché non lo contraddicessero e perché non si lasciassero a loro volta mettere in trappola. Riuscì persino a far avere una lettera a sua moglie, fornendole tra l’altro indicazioni sull’assistenza agli evasi dal campo che si trovavano ancora in città, ed una all’ing. Ventafridda perché avvisasse gli amici di Milano della situazione e della sua cattura. Pur restando segregato poté allacciare contatti con Laura Conti, con la signora Mascagni, il professor Leoni e il prof. Zieger con Del Fabbro e con Pedrotti detenuti al pari di lui. Vi rimase per quattro mesi, testimone dei quotidiani misfatti delle “SS” la cui ferocia pareva accrescersi paradossalmente di mano in mano che si avvicinava, e tutti lo percepivano, il giorno della disfatta.
Ogni giorno la vicenda del “Lager” allungava il suo elenco di angherie, brutalità, soprusi, sevizie. Gilardi stesso fu testimone “auricolare” se così si può dire, di tre assassinii, avvenuti nella cella contigua alla sua. Una volta vi furono rinchiusi due militari italiani sorpresi mentre tentavano la fuga: furono massacrati sbattendo le loro teste contro il muro, finché morirono. Un’altra volta toccò a una donna rimasta sconosciuta: in questa macabra opera si distinguevano due “SS” di origine ucraina. La donna venne rapata a zero, costretta a star nuda e scalza dal pavimento allagato, in pieno inverno, senza potersi mai sedere: il supplizio durò per quattro giorni, quanti la poveretta poté resistere. Poi ai suoi lamenti subentrò il silenzio, rotto più tardi dal tonfo del corpo sbattuto in una cassa e dal lugubre martellar sul coperchio.
L’elenco potrebbe continuare a lungo. Gilardi, dal canto suo, venne prelevato ancora una volta e bastonato a puro titolo di sadismo. Ma la liberazione si avvicinava. In quegli ultimi giorni di aprile molti detenuti ebbero la sensazione che, prima di abbandonare il campo le “SS” li avrebbero fatti fuori tutti. Invece, inaspettatamente, il 30 aprile arrivarono gli incaricati della Croce Rossa: era finita, era la libertà per tutti coloro che avevano potuto conservare la vita. Gilardi seppe allora che tra le varie forze che s’erano agitate per la liberazione di quanti erano ancora detenuti nel “Lager”, c’era stato un gruppo di notabili altoatesini non compromessi col nazismo. Costoro avevano fatto presente al comando germanico l’opportunità di evitare una carneficina finale, sia per ragioni d’umanità (che in qualsiasi altro momento non avrebbero avuto alcun peso nei confronti dei nazisti ma che in quel momento, firmata già la resa delle truppe tedesche in Italia, avevano un certo peso, specie sul generale Wolf, che ci teneva a non essere poi processato come criminale di guerra) sia perché le truppe tedesche se ne sarebbero poi andate ma quel sangue inutilmente sparso sarebbe rimasto a Bolzano ben difficile da cancellare. Purtroppo in quelle stesse giornate altro sangue innocente sarebbe stato sparso sia a Bolzano che a Merano.

Gianni Bianco