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Scritti - 1963

Articolo pubblicato su
VOCE METODISTA, n° 1 – gennaio 1963

Dell'ecumenismo (in questo momento)

Desidero raccogliere brevemente le mie impressioni e fare alcune considerazioni in merito alle discussioni sorte durante il convegno tenutosi per iniziativa dei Consigli di chiesa delle Comunità evangeliche di Milano il lunedì 26 novembre nella sala di via Cesare Correnti - Esposizione del Pastore valdese dr. Alberto RIBET sul tema "IL CONCILIO VATICANO II”.
Sorvolando sull'esposizione introduttiva dell'oratore, contenuta nei termini di una narrazione dei fatti salienti che portarono alla realizzazione dell'attuale Concilio a 92 anni di distanza dal Concilio vaticano del 1870 (il quale venne interrotto in seguito agli avvenimenti politici del tempo; la guerra franco-prussiana e la susseguente entrata delle truppe italiane in Roma), nonché dello svolgimento dei lavori del Vaticano II, nel quale si è delineato un diverso e contrapposto schieramento dei “curialisti” da una parte, tendenti a esercitare un controllo - in senso conservatore - nelle commissioni e, quindi, sull'andamento dei lavori e, dall'altra, della maggioranza dell'episcopato che tende, invece, a sottrarsi a tale intronamento e a deliberare sulle questioni pertinenti in modo consapevole e autonomo; sorvolando, ripeto, di entrare nel merito delle circostanze di fatto, peraltro abbastanza note, debbo rilevare semmai - in linea- pregiudiziale - che, in quanto evangelici, il nostro interesse e la nostra simpatia debbono orientarsi verso quelle forze che, in seno alla cattolicesimo, lottano contro il prepotere della Curia e contro gli indirizzi conservatori e illiberali, presenti (e, spesso, prevalenti) nelle varie istanze della Chiesa romana.
Orbene, fu nella seconda parte - riservata al dibattito e alle conclusioni -.che alcune affermazioni e il tono generale delle argomentazioni portate in campo, dettero motivo a giustificate perplessità (non disgiunte da qualche vivace reazione), se non altro perché nettamente contrastanti con quello spirito ecumenico (e atteggiamento irenico) che deve informare i nostri pensieri e i nostri atti.
La discussione verteva, in sostanza, sul giudizio che da parte protestante dovesse darsi al riguardo delle possibilità rinnovatrici della Chiesa romana. "Non facciamoci illusioni" fu detto, poiché il cattolicesimo non verrà mai meno ai suoi presupposti religiosi, dottrinali e disciplinari (oltreché istituzionali). Si avanzò la tesi (che suscitò non poco scontento) che, per noi evangelici, il pericolo maggiore era rappresentato da quelle correnti progressiste in seno al cattolicesimo (in quanto - evidentemente! - non ottusamente cattoliche e quindi più genuinamente tali), che non dalle forze retrive e reazionarie. Si disse inoltre, a comprova di detta tesi, che nei periodici contatti che da qualche anno avvengono tra il nostro pastorato e alcune personalità del clero cattolico, si era potuta notare la cristallina perspicuità di qualche sacerdote dal quale non c'era minimamente d'attendersi che incrinatura alcuna potesse scalfirlo; si tratta, in effetti, di gente "dura" (così si disse). Al che venne spontaneo ad uno dei presenti di ravvisare in tale tesi qualcosa che stranamente assomigliava al deprecato "tanto peggio,tanto meglio" (a torto, dalla propaganda politica, attribuito ai comunisti).
Quanto sopra s'è riferito, sarebbe semplicemente sbalorditivo se non desse luogo a considerazioni ben più gravi per quel che riguarda la mancanza di consapevolezza che, in frequenti occasioni, viene dimostrata nella trattazione del complesso problema dell'unità delle chiese cristiane. Se da un lato,si deve approvare una presa di posizione contraria ad un ‘irenismo’ troppo corrivo che si presta a sottovalutare importanti e vitali questioni di principio in gioco, dall'altro e invece da biasimare quel certo complesso d'inferiorità d'alcuni tra di noi (indice di scarsa convinzione del valore, tuttora attuale, della nostra ‘protesta’), che induce a paventare che i protestanti potranno essere, tosto o tardi, fagocitati dalla Chiesa cattolico-romana (il pericolo sussiste, ma non a motivo dell'ecumenismo bensì per altre ragioni dipendenti soprattutto dalla poca consistenza religiosa di taluni e conseguentemente dalla non chiara visione dei termini del problema). È quindi da salutare – con un assentimento senza riserve - la posizione assunta a questo proposito dall'ultimo Sinodo valdese il quale ha ribadito solennemente che "l'ecumene cristiana, e cioè l'unità delle denominazioni cristiane, non ha niente a che vedere col ritorno alla Chiesa di Roma" (vedi “Il Mondo” del 4-9-'62). Se l'unità non è pensabile per via di un processo di assorbimento da parte della Chiesa romana (il che condurrebbe all'uniformità delle chiese), altrettanto non s'otterrebbe qualora si pervenisse alla giustapposizione delle tre chiese (cattolico-romana, ortodossa, protestante) allo stato presente della loro configurazione storica. L'unità della Chiesa non s'otterrà quindi mai dalla somma aritmetica delle singole chiese» L'unità è sintesi, fusione e non confusione.
Inoltre, non già in virtù di uno sforzo (sia pur lodevole, ma non troppo!) tendente al compromesso si potrà giungere, quando che sia, all'unità poiché lo spirito di compromesso non e mai separabile da una finalità utilitaristica volta, comunque, a conseguire un proprio vantaggio. E alla capacità di saper rinunziare, implicita nel compromesso, è sempre presente la riserva di riprendere domani ciò che è opportuno, o conviene, perdere oggi. Quel che si dimostra valido ed efficace (il compromesso) nel mondo degli affari o sul terreno della competizione politica, non è fecondo di risultati positivi nell'ambito della vita religiosa,. All'unità si perverrà soltanto se tutti coloro che la vogliono (e molti a parole dicono di volerla ma, in realtà, non la vogliono), saranno animati e condotti dallo Spirito di verità che è il Cristo vivente e operante in ciascuna chiesa, nessuna esclusa (beninteso, tale Spirito e presente ovunque lo si ricerchi: nella multiforme vita degli uomini e nel corso della storia).
Nel convegno si accennò altresì alla tradizione cattolica in termini rieccheggianti le vecchie posizioni controversistiche dell'Ottocento nel momento in cui - ammonendo che "i nostri padri sono morti" nell'affermazione della propria fede - si dimenticava che anche da parte nostra non si prescindeva dalla tradizione (da 'tradere' che significa trasmettere).
Eppure ai fini del conseguimento dell'unità auspicata, bisogna saper distinguere tradizione da tradizione. Sotto un certo profilo, anche il contenuto della Bibbia è il retaggio della tradizione poiché prima che la viva parola fosse scritta, la trasmissione avveniva oralmente e quando - prima gli Ebrei e dopo i Cristiani - fissarono ciascun d'essi un canone con diversi criteri d'attribuzione e classificazione, ci si appellò alle rispettive tradizioni (non senza, com'è comprensibile, contrasti e dispute),affinché risultasse quali dei libri fossero da escludersi (considerati poi apocrifi), e quali altri portassero il segno della permanente validità e dovessero far parte di quel ‘corpus’ da consegnarsi alla progrediente umanità fino all'avvento del Regno di Dio.
Data la doppia natura, divina e umana, della Chiesa e necessariamente delle singole chiese storiche (fino a- quando durerà l'economia presente e non si sarà giunti ad un nuovo ciclo e ad una nuova terra), sussisterà una tradizione divina e umana: la prima porta, il suggello dell'eterno e la seconda ha carattere accidentale e transeunte. L'unità della Chiesa postula, per altro verso, il sopravvento dell'eterno (che è incondizionatamente unitario) sul contingente (che è particolaristico e condizionato). Da questo punto di guardatura, la Parola di Dio e la Tradizione (quella, per intenderci, che appartiene al processo creativo del divino nel mondo), sono la stessa ed identica cosa.
C'è quindi una Tradizione divina comune a tutt'e tre le chiese rappresentata dal dogma unitario (che non s'identifica con la dottrina dogmatica né col dogmatismo che, come ognun sa, è altra cosa.).
L'unità delle chiese è già in potenza sebbene ancora non lo sia in atto. E il moto tendenziale verso l'unità effettuale non sussisterebbe se non ne esistessero i presupposti; se ogni singola chiesa non fosse, di per sé stessa, potenzialmente tutta la Chiesa. Tale moto è ineluttabile ancorché remore e battute d'arresto potranno incombere. Ma qui ci deve soccorrere una visione dialettica della storia e della vita: il tempo intercorrente tra l'attuale fase di lievitazione che preannunzia l'avverarsi dell'unità delle chiese cristiane e il giorno in cui l'unità della Chiesa sarà organicamente compiuta nella sua più libera articolazione, non potrà soltanto essere un periodo di fiduciosa attesa: senza atti creativi compiuti dagli uomini di ‘buona volontà’, ispirati dallo Spirito di verità, la sperata mèta apparirà ancor sempre lontana. Il giorno in cui il momento caratterizzato dall'esortazione "Che tutti siano uno" confluirà in quello nel quale "tutti sono (saranno) uno" (riferiti tali termini alle chiese), assisteremo ad un vero ‘salto di qualità’ e pertanto i rapporti tra gli uomini verranno a configurarsi in tutt'altro modo da. quello attuale. (Non s'insinui il dubbio che qui possa trattarsi di una visione utopistica poiché il Cristianesimo che è, per definizione, il messaggio della salvezza, non mira unicamente alla salvezza individuale - di questo o di quello -, ma s'indirizza all'umanità tutta per trasformarla essenzialmente e sostanzialmente).
Diventando il patrimonio peculiare di ogni singola chiesa, il patrimonio di tutte,
la Chiesa indivisa, risulterà, arricchita.
È un processo d'endosmosi già in atto tra le forze più vive e avanzate della Cristianità. Tale processo è possibile nella misura che gli aspetti tradizionali transeunti – particolari ad ogni comunità, cristiana - vengono rimossi ‘ab intra’ dagli stessi componenti delle medesime con la rinnovata affermazione (qui si giustifica l'intransigenza di quei valori non effimeri della propria tradizione la quale affermazione non è contrastante – sul piano dello spirito - con gli altrettali valori, propri alla tradizione delle restanti comunità, cristiane. In sostanza, si tratta di un'autoliberazione reciproca dai sedimenti e dalle incrostazioni particolaristici, depositatisi nel corso della storia presso ciascuna confessione cristiana (scorie che, ovviamente, in origine potevano non essere tali, ma erano - a volte - l'espressione di posizioni e affermazioni anche del tutto valide nell'epoca in cui sorsero; c'è d'aggiungere, tuttavia, che non sempre quel che originariamente viene ad espressione e s'afferma nella vita delle chiese, può trovare giustificazione; accanto alla verità alligna l'errore ed i sedimenti di questo, son certamente più nefasti di quelli che rispecchiano posizioni inizialmente valide). Tale autoliberazione favorisce, nel contempo, la graduale accettazione dei postulati di verità, insiti nella tradizione altrui.
NB. sia lecito formulare un'ipotesi (che va intesa con molto grano di sale); una volta che le chiese avessero fatta propria l'idea pancristiana (senza esser ancora pervenute all'unità organica), non si dovrebbero più verificare tra i fedeli conversioni da una confessione all'altra in quanto del tutto superflue. Potrebbe si verificarsi il passaggio da una chiesa, all'altra. sia per ragioni soggettive (es.: maggiore rispondenza alla propria sensibilità per quella, data forma di culto o di predicazione ovvero per l'accentuazione, sul piano ideologico, di vitali aspetti della problematica cristiana), sia per ragioni obiettive (interventi restrittivi di natura disciplinare o quant’altro tenda a limitare – in quel momento o in quel luogo - la libera esplicazione del credente per atti a manifestazioni non censurabili sul piano morale, ma non suscettibili di convalida o d'approvazione dall’"ordine costituito" di quella data chiesa); ma ambedue questi ordini di ragioni (di carattere pratico) non implicano, dal punto di vista ecumenico, l'abbandono di una 'fede' per un'altra.
A conclusione della presente nota, ed in conformità ai punti risolutivi qui appena accennati, risulta chiaro che quanti - appartenenti al movimento evangelico italiano - vogliono che l'unità della Chiesa diventi realtà, debbano nella misura delle proprie forze e dei propri doni, sentirsi impegnati a combattere la buona battaglia., prima di tutto nell'àmbito della propria comunità ed, in secondo luogo, nei contatti che potrebbero avere con il mondo cattolico-romano. Si tratta, tuttavia, di un buon combattimento su due fronti: all'interno e all'esterno. Testimonieremo (per quanto ne sappiamo) di ciò che è il valore non perituro del cattolicesimo fra i nostri fratelli evangelici e diremo chi sono e che cosa vogliono i protestanti, presso i sinceri fedeli cattolici.
4 dicembre 1962
(Ferdinando Visco-Gilardi)