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Gioventù Evangelica n. 5/1970
Un uomo della nostra generazione
di Giorgio Bouchard
Nel pomeriggio del giovedì santo, una piccola folla di amici e di fratelli
era riunita nel cimitero di Sesto S. Giovanni per dare il suo addio a
Ferdinando Visco-Gilardi: erano presenti uomini di chiesa, uomini del
movimento operaio, intellettuali della sinistra indipendente: ma era chiaro
per tutti che quest'uomo di 65 anni, dal quale ci stavamo accomiatando, era
un uomo di fede. Perciò abbiamo letto davanti alla sua tomba aperta quel
testo di Paolo che tante cose dice ai credenti della nostra generazione:
«Nessuno di noi vive per sé stesso, e nessuno muore per sé stesso; perché,
se viviamo, viviamo per il Signore, e se moriamo, moriamo per il Signore;
sia dunque che viviamo o che moriamo, noi siamo del Signore» (Romani
14/7-8).
Noi sappiamo bene che cosa c'è dietro questa affermazione dell'apostolo
Paolo: quel grandioso affresco della «storia dei popoli» abbozzato nei primi
capitoli, ripreso al centro dell'epistola, in cui la storia è intuita in
tutta la sua complessità e ricchezza, ma anche nel suo insuperabile
carattere di dilemma preso fra scelte ultimative e contraddittorie; e
l'affermazione, centrale nell'epistola, che Gesù di Nazaret ha operato in
questa storia una svolta irreversibile, liberatrice e impegnativa per quelli
che l'accettano, interrogativa e inquietante per quelli che non l'intendono.
Da questa affermazione centrale discendono due conseguenze: una di
carattere, diciamo così, teorico, e una di carattere pratico. Da un punto di
vista teorico, si può e si deve affermare che questa svolta operata da Gesù
di Nazaret, avrà un giorno una verifica, convincente e definitiva: il Regno
di Dio; da un punto di vista pratico, una parziale verifica è già possibile
subito, ed è il nostro «compito»: questa verifica è infatti realizzabile
nell'«agape», cioè nell'assumerci l'iniziativa di portare avanti il nostro
prossimo, pur rispettandone la libertà.
«Vivere per il Signore» significherà allora lasciarsi coinvolgere in quella
svolta operata da Gesù di Nazaret, sia nella ricerca teorica che nell'azione
pratica; e «morire per il Signore» significherà sapere che la verità di cui
siamo testimoni nella storia ci verrà incontro oltre la storia. O in altri
termini: scegliere un «vivere» che non consista né nella ricerca del proprio
interesse (individuale o di classe, mediato o immediato) né nella illusione
di scoprire in sé stessi (o nell'umanità) il senso della propria esistenza
(o della storia); vivere proiettati verso un orizzonte lontano, ma definito:
il momento in cui ciò che fu parziale e momentaneo (Gesù di Nazaret e la sua
parola) verrà universalizzato «a » Dio e «per» gli uomini.
Questa linea di fede è stata per il nostro fratello Ferdinando
Visco-Gilardi. il fondamento di alcune scelte storicamente definite:
- la partecipazione alla lotta antifascista prima (la combattuta e poi
soffocata libreria-editrice «Gilardi e Noto», in piazza del Duomo a Milano,
con la pubblicazione di opere di Croce, Buonaiuti e Rensi, proprio quando il
fascismo imperava, alleato al più gretto provincialismo e al clericalismo
più repressivo), alla resistenza partigiana poi, infine agli sviluppi, alle
sconfìtte e ai rinnovamenti del movimento operaio italiano dal dopoguerra
fino ad oggi;
- la partecipazione aperta e dichiarata alla vita e alla testimonianza della
chiesa evangelica ai vari livelli: l'ACDG di Milano, di cui era stato un
animatore; la chiesa di Via Cesare Correnti, di cui era consigliere; la
Conferenza Metodista d'Italia, di cui era membro; il gruppo di Cinisello, di
cui era collaboratore quotidiano e discreto, e a cui lascia l'eredità d'una
vastissima rete di contatti, di aperture, di indicazioni;
- la responsabilità davanti al "quotidiano, senza porre alcuna differenza
tra l'educare i propri figli o gli altrui, tra l'ascoltare o il dare dei
consigli;
- infine, il rifiuto di rinchiudersi in «un» programma (ecclesiastico, o
politico): cioè l'apertura completa al programma di Dio, e a quello
soltanto.
Marxista convinto da oltre quarant'anni, egli poteva scrivere righe come
queste:
« L'Incarnazione, la Croce, e la Resurrezione sono eventi di tale portata,
che fanno del Cristo l'Unico nella storia del mondo, e l'Unigenito nella
vita dell'umanità. Chi intende tutto questo, non può non comprendere come
corrisponda a una esigenza razionale la sconvolgente affermazione: “Io sono
la via, la verità e la vita”: tutto quanto nel mondo traccia una via nella
verità per l'avanzamento della vita (contro la corruzione e la morte) porta
la connotazione del Figlio dell'uomo».
Così, in un tempo in cui gli uomini sembrano costretti ad essere ciechi
davanti a Dio, o chiusi davanti agli uomini, gli è stato concesso il dono di
essere insieme sensibile alla infinita, imprevedibile grandezza di Dio, e
alla ricchezza di possibilità esistenti nell'uomo, «senza mai confondere le
due cose».
Questo dono gli permetteva da una parte di riconoscere alla sfera politica
la sua piena razionalità e laicità («approdo a Treviri» egli chiamava
poeticamente e clandestinamente il suo passaggio al marxismo, nei biglietti
che mandava ai suoi bambini dal Lager di Bolzano, quando sembrava che la sua
condanna a morte stesse per essere eseguita); e, dall'altra parte, di tenere
l'occhio sempre rivolto a ciò che vi è di più alto e di più profondo della
sfera del politico: lo Spirito: non quello dell'amico Croce, e forse nemmeno
quello degli amici Buonaiuti e Janni: ma il vento che soffia dal Regno di
Dio in direzione della nostra storia di uomini, e la qualifica, e la
illumina.
Da tutto ciò nasceva uno «stile di vita» straordinario, collaudato nelle
situazioni più diverse: nell'editoria o nel lavoro industriale, nella camera
di tortura o al capezzale di un malato, al momento della perdita della donna
della sua vita, o nel colloquio coi giovani dell'ultima ondata; o nella
creazione di quella sua biblioteca che subito affascina il visitatore,
perché non è un insieme di volumi, ma un «discorso», aperto eppure coerente
e rigoroso. Uno stile di vita che si esprimeva, da una parte, in una
generosa disponibilità di sé, senza calcolo dell'attivo e del passivo:
quante lettere, quante telefonate, tutte destinate a un lavoro collettivo, e
spesso anonimo! E dall'altra parte, una estrema «discrezione»: uomo forte,
sapeva rispettare, o provocare, la libertà altrui: proponeva, non prevaleva.
Aveva capito che la vita è una moneta da spendere, e l'ha spesa tutta.
E alla base di tutto questo operare scevro d'ambizione, si sentiva sempre la
profonda fiducia che la verità, presto o tardi, finirà per farsi strada.
Non abbiamo detto queste cose per lodare un uomo: sappiamo che egli è
vissuto ed ha operato così, solo per «Grazia», inserito cioè in quel tessuto
di relazioni in cui si disegna l'iniziativa di Dio nella storia. Ma sappiamo
anche che questa stessa iniziativa prolungherà le linee della testimonianza
di Ferdinando Visco-Gilardi: la stessa iniziativa che ha fatto di quest'uomo
un «segno» nella nostra generazione, continuerà.
Perciò non siamo tristi, anche se sappiamo di aver perso «molto»: poiché il
Signore in cui crediamo, e viviamo, è l'Alfa e l'Omega, e da qualsiasi parte
ci volgiamo - verso la vita o verso la morte - noi incontriamo le tracce
della sua opera. |
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