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Estratto da:
ASPETTI E PROBLEMI
DELLA RESISTENZA NEL
TRENTINO ALTO ADIGE
Il lager di via Resia – Bolzano

F) Bolzano e dintorni
È stato già spiegato perché la resistenza armata in Alto Adige fu attiva in
maniera assai minore di quella del Trentino o del resto dell'alta Italia.
Ciononostante una certa lotta armata ci fu: si trattò di azioni di
sabotaggio, di agguati e di raccolta d'armi, di propaganda nelle fabbriche,
di ostruzionismo in tutte le possibili versioni atto a ritardare o a mettere
in difficoltà le manovre delle truppe germaniche.
A ciò si aggiunga l'assistenza clandestina al campo
di concentramento di Bolzano, organizzata principalmente dal C.L.N. presente
in città, ma legata anche a piccoli gruppi isolati di cittadini che
intendevano alleviare le sofferenze degli internati.
Ma di ciò si
parlerà più ampiamente in seguito.
Su «Perché?» si legge: «Molti sono caduti, molti hanno subito le più atroci
torture, tutti hanno dato quanto hanno potuto, perché avevano sentito il
dovere, sia pure istintivo, di opporsi
alla criminalità, alla feroce oppressione, e non per ultimo di riscattare la
vergogna del fascismo».
Molti perciò furono i gruppi armati attivi in città e negli immediati
dintorni. I motivi ideologici, motori dell'azione armata, furono diversi :
l'antifascismo e l'antinazismo del gruppo facente capo a Longon;
il nazionalismo antitedesco della «Giovane Italia»; non ultimo
l'antinazismo dell' «Andreas Hofers Bund»,
operante nella val Passiria.
All'indomani dell'8 settembre '43 c'era
nell'aria la tensione che sarebbe poi sfociata il giorno dopo l'armistizio
con l'arresto da parte dei tedeschi di migliaia
di soldati italiani : ovunque discussione;
ovunque gruppi di operai, di intellettuali, di borghesi che si riunivano ad
esaminare la situazione;
ovunque la raccolta d'armi, perché si aveva sentore della loro prossima
utilizzazione.
Si presero quindi contatti con il resto d'Italia (la
regione era stata annessa al Reich); piccoli gruppi
salirono sulle montagne unendosi ai
partigiani nel Trentino.
In questa atmosfera nacque a Bolzano il C.L.N.; si
era agli inizi del 1944.
Ne fecero subito parte i1 direttore amministrativo dello stabilimento
«Magnesio», Manlio «Longon Angelo», del Partito d'Azione; Don Michele Longhi,
della D.C,; Enrico Pedrotti «Marco» e Rinaldo Dal Fabbro «Vincenzo», del
P.C.I.
Ingente fu l'opera svolta fino alla liberazione; l'organizzazione di
gruppi armati (come quello in val Cadino, o il battaglione «F. Filzi»);
propaganda antifascista nelle fabbriche; contatti con i C.L.N. di Trento,
Belluno e Padova; aiuto prestato agli sbandati o ai soldati Italiani che
tornavano dai lager tedeschi e, quando nel luglio
1944, fu allestito i1 campo di concentramento a Bolzano, l'attività
clandestina agli internati.
Molte furono le azioni di sabotaggio: fra queste quella alla galleria di
Campodazzo, che però fallì a causa di una delazione,messa in atto nel
febbraio 1944.
In quell'occasione vennero arrestati e internati nel campo di Bolzano sette
capi-cellula degli stabilimenti della zona industriale; Adolfo Beretta,
Tullio Degasperi "Ivan", Erminio Ferrari, Decio Fratini, Walter Masetti,
Gerolamo Meneghini, Romeo Trevisan, Il primo febbraio partirono da Bolzano
con l'ultima tradotta per Mauthausen, da dove non tornarono più.
Nella primavera 1944 il C.L.N. diffuse un manifesto bilingue
col quale si cercava una collaborazione tra popolazione di lingua tedesca e
antifascisti italiani. E questo tentativo ci fu pure, quando Longon, alla
fine del 1944; riuscì a collegarsi con Erich Amonn e Hans Egarter, esponenti
dell'antifascismo tedesco in Alto Adige; purtroppo gli eventi ebbero il
sopravvento: Longon venne catturato il 15 dicembre 1944 e, dopo esser stato
sottoposto a torture indicibili, venne ucciso il 31 dicembre dalla Gestapo.
La propaganda antifascista consisteva nella distribuzione di volantini,
giornali e manifesti.
A questo riguardo citiamo un passo da «Perché?»: «(...) Da Trento venne -
portato da Ivan (n.d.a.: Tullio Degasperi) - un ciclostile, che fu
installato in una casa sinistrata e disabitata di via Rosmini.
Furono procacciati i clichés, la carta in quantità sufficiente, si insegnò
agli improvvisati tipografi l'uso del ciclostile, che, si sa, non è il più
facile in condizioni di fortuna, volendo ottenere una nitidissima stampa; fu
preparata una rete di distribuzione, si fece venire da fuori materiale
giornalistico. Così, attraverso le più varie vicissitudini fra cui l'arresto
di alcuni amici di Remo — uno dei tre tipografi — si giunse alla vigilia del
primo numero di Nostra Lotta", quando l'imprevisto accadde.
La polizia che forse aveva notato il movimento nella casa disabitata, in una
irruzione, sottrasse il ciclostile dal quale erano già uscite le prime copie
del primo numero del giornale. Tutto da rifare.
Nell'ospedale civile di Bolzano c'era un nucleo di medici anti-fascisti; il
prof. Chiatellino, il dott. Fulvio Bailoni, il dott. Bruno Zanoni «Leone» e
il dott. Rizzi, e anche parte del personale, i quali cercavano di trattenere
ricoverati in ospedale gli internati, gli arrestati o i partigiani feriti il
più possibile, per impedire che cadessero nelle mani della Gestapo, fra i
quali, ad esempio. Luigi Emer «Avio», comandante del battaglione «Filzi»,
ferito nell'attacco alla stazione dei Carabinieri di Molina di Flemme.
Nel dicembre 1944 ci furono gli arresti di tutto il C.L.N. di Bolzano; i1 15
Longon e Don Daniele Longhi; nei giorni seguenti Enrico Pedrotti, Ferdinando
Visco Gilardi «Giacomo», direttore amministrativo della ditta F.R.O. di
Milano, che organizzava l'assistenza clandestina agli internati del campo di
Bolzano, Rinaldo Dal Fabbro, i1 socialista Marcello Caminiti, il liberale
Laraspata e altri.
Così scrive Enrico Pedrotti «Marco»: «Tra il 15 e il 20 dicembre 1944 il C.L.N, clandestino di Bolzano venne arrestato quasi al completo. Due giorni
prima era stato il turno di Manlio Longon e di Don Daniele Longhi. Lo
sapemmo subito e sarebbe stato facile non farci prendere a nostra volta.
Eravamo già avvertiti dalle nostre staffette che ci avevano cercati in casa.
Andò cosi: Gilardi (Giacomo) ed io ci trovammo assieme. La decisione era
grave; il suo ragionamento era chiaro. Avevamo le nostre famiglie
controllate regolarmente attraverso le carte annonarie, bisognava pur
mangiare. Certamente avrebbero preso loro. «Noi in qualche modo ce la faremo
— concluse Giacomo — comunque tocca a noi».
L'attesa non durò molto; li sentii salire per le scale. I tedeschi hanno un
passo inconfondibile. Suonarono alla porta; li seguii con uno stupefacente
senso di distensione.
Avevamo tutti i nervi a pezzi quel periodo: un passo dietro la schiena ti
faceva trasalire. Una macchina che si avvicinava dava un senso angoscioso.
Niente di tutto questo ora. Corpo d'Armata. Mi ripulirono per bene di ogni
cosa che avevo con me, poi li seguii tranquillo fino da Schiffer al terzo
piano. Schiffer era maggiore delle S.S.; aveva trasformato i sotterranei del
Corpo d'Annata in uno dei più spaventosi luoghi di sofferenza, dove eseguiva
di persona gli «interrogatori» dei poveri prigionieri, sotto gli occhi della
sua segretaria ed amante Christa Roy, che metteva tutto a verbale. (Gianni
Bianco, «La lunga notte di Bolzano» in «Alto Adige» del 16-5-1965). Era
molto allegro quel giorno il maggiore, e mi accolse sorridente mentre
l'interprete traduceva le sue parole: «Lei sa cosa l'aspetta, tra mezz'ora
l'interrogheremo, e non tenti d'ingannarmi, Mein lieber Mann (Schiffer
soleva rivolgersi, ipocritamente, agli interrogati sempre con queste gentili
parole.)». Aveva un certo modo di sibilare questa parola, e sorrideva sempre
di più.
Mi portarono da basso, poi ancora più giù fino ad una grossa porta
sprangata, poi più giù ancora attraversando un lungo corridoio con i grossi
tubi delle caldaie.
A sinistra un passaggio con quattro porte di ferro, quattro celle
tristemente famose. Mi rinchiusero nell'ultima.
Quattro metri sopra, uno spiraglio di luce dall'inferriata. Ero sempre
straordinariamente calmo. Una brandina ad un palmo da terra con una coperta,
nient'altro. Mi sedetti e attesi in un perfetto silenzio.
La mezz'ora di Schiffer era passata, almeno così mi sembrava, poiché
l'orologio era sparito assieme alla cinghia dei pantaloni ed alle stringhe
delle scarpe. (...)
Eppure mi sembravano delle voci come da lontano: ascoltai meglio, non
riuscivo a seguire le parole. Mi buttai per terra con l'orecchio il più
vicino possibile alla fessura della porta. Proprio così, si parlavano da una
cella all'altra. Ero teso come una corda, quella voce la conoscevo: era
«Angelo» Manlio Longon. Parlava da una cella lontana dalla mia, e rispondeva
l'altra, più vicina che non conoscevo.
Mi rimaneva poco tempo ormai, e chiamai forte: "Angelo" sono Marco. Mi
riconobbe immediatamente e ci salutammo. Alternando alla fessura la bocca e
l'orecchio, riuscimmo a stabilire un dialogo serrato. Presto sarebbero
venuti a prendermi. Dovevo «sapere» il più possibile. Angelo aveva potuto
parlare nei due giorni precedenti con lo stesso sistema con gli altri
compagni nostri. Domande e risposte si seguivano concitate: «Sanno dei
recapiti?». «Sì».
«Quali indirizzi?». Angelo elencava tutto con precisione, i fatti, i nomi
conosciuti da loro, quelli evitati.
«Sanno dell'organizzazione del Campo?». «Sì».
«Della missione alleata. Imperative"?. «Tutto».
Tenni per ultima la domanda per me più angosciosa : «T'hanno chiesto della
missione "Vital"? «No, mai».
«Ne hai sentito parlare dai compagni?» «No, sicuramente».
Respirai. C'erano di mezzo tutti i miei. Il tempo passava per mia fortuna.
Seppi così tutto quanto «sapevano», e quando gli stivali rimbombarono sul
cemento armato fino alla mia cella, Angelo ebbe ancora il tempo di gridarmi
«coraggio Marco». «Coraggio Angelo, coraggio».
Nell'uscire vidi la sua cella. La n. 3.
Qualche giorno dopo era il triste Natale 1944.
Stavolta il colloquio continuò nelle celle del «Lager». Lo stesso sistema e
la faccia incollata a terra contro la fessura sotto la porta. Qui avevamo
tempo tutta una lunga notte, e la conversazione si allargava: "Angelo",
"Giacomo", ,,Dani", ,,Vincenzo", ,,Mario", ,,Trevi", ,,Tullio". Tutti
insomma. Quando le SS dormivano incominciava il dialogo incrociato tra i
compagni, ognuno rinchiuso nella sua cella. Un saluto, una parola di
conforto, un particolare inedito per poter sgusciare ai continui
interrogatori.
«Come va Angelo?». «Sono riuscito
ad avere notizie dei miei. Tutti bene».
Qualcosa non erano ancora riusciti a spezzare nella
nostra rete. Qualcuno rischiava ancora la vita per far avere a noi delle
celle una parola, due righe care, una preziosa informazione. Ciascuno di noi
presto o tardi ebbe contatti con l'esterno, che a sua volta informava con
mille sotterfugi quelli che erano in ansia per noi.
Sapevamo chi doveva andare agli interrogatori. La notte seguente
«sapevamo» com'era andata. Avevamo sempre l'esatta percezione di «come era
andata» solamente dal tono della voce, quando erano in grado di rispondere.
La vigilia di Capodanno ”Angelo", Manlio
Longon, venne portato al Corpo d'Armata.
Lo uccisero sotto interrogatorio, simulando poi la beffa di un suicidio.
Tutti noi del blocco celle avemmo la triste percezione di ciò che era
accaduto la stessa notte dell'assassinio.
“Angelo" non rispose più ai nostri richiami, mai più avrebbe risposto.
La mattina di Capodanno 1945 l'SS Mann Otto cantava a squarciagola. Cantava
sempre Otto quando morivano quelli delle celle».
I gruppi di resistenza che operarono a Bolzano e negli immediati dintorni
non avevano motivazioni ideologiche ben definite in senso strettamente
politico, ad eccezione forse della «Giovane Italia», la cui derivazione
nazionalista era abbastanza visibile. In seguito questi gruppi si
denomineranno «Bari», «Livorno», «Pasubiana» e, appunto «Giovane Italia». A
Merano operava un altro gruppo e .così a Terlano e a Fortezza. L'attività di
questi gruppi era sopratutto di sabotaggio, alla zona industriale, alle
comunicazioni, di assistenza ai detenuti del campo di concentramento e
d'informazione grazie alla presenza in zona di «missioni» con radio
ricetrasmittenti collegate con l'esterno. In questa attività, isolata, ci
furono alcuni feriti e anche qualche caduto. La situazione andò avanti così
fino a quando a Bolzano non giunse il comandante Franco (Libero Montesi) con
il compito di aggregare questi gruppi sparsi in un organismo meglio idoneo
ad affrontare la situazione che stava volgendo alla stretta finale.
«Fui comandato a Bolzano — racconta Libero Montesi — dal CLN Triveneto su
richiesta di Longon, presidente del CLN bolzanino. I motivi erano chiari.
Già al termine del 1944 si prevedeva la fine del conflitto entro l'estate
dell'anno successivo. Ciò voleva dire per Bolzano la concentrazione nella
sua zona di un ammassamento di truppe naziste in fuga verso la Germania. Il
compito che dettero a me fu quello di preparare un piano militare e le forze
necessario per la protezione della zona
industriale, il salvataggio di depositi e magazzini anche tedeschi, delle
centrali elettriche e cosa più difficile, di costringere il comando
germanico a trasferire l'amministrazione della zona direttamente, senza
passaggi intermedi, al CLN di Bolzano. Parlai a lungo con Longon di questi
problemi in due successivi colloqui. Quando Longon e gli altri membri del
CLN di Bolzano furono arrestati, fui consigliato di lasciare momentaneamente
l'Alto Adige. In bicicletta andai a Venezia. Ritornai in gennaio e con
l'unico membro del
CLN ancora vivo e in
libertà, il dottor Bonvicini, andammo a Milano per un colloquio con i
rappresentanti del CLN Alta Italia, i quali mi confermarono i compiti
assegnatimi in precedenza, avvertendomi che la fine del conflitto si
prevedeva entro la primavera inoltrata. Mi dettero anche una somma di denaro
per acquisto di armi e per le spese
necessario. Al ritorno presi subito
contatto con i capi dei
gruppi di resistenza già operanti a Bolzano e incominciai l'opera
di raggruppamento di quella che poi si sarebbe chiamata «Divisione Alto
Adige».
Della «Bari» ecco una testimonianza di Sandro Bonvicini e di Giuseppe
Bombasaro, secondo i quali quei partigiani provenivano dal bellunese,
attraverso i collegamenti tra la «Lancia» di Cismon del Grappa e la «Lancia»
di Bolzano: «Questo gruppo svolgeva azioni di sabotaggio alla «Lancia» e
negli stabilimenti della Zona industriale, grazie al collaudatore Lorenzo
Monteggia, a Giuseppe Carelli e Giovanni Fagiano». Alla «Lancia» si
costruivano autocarri per l'esercito nazista.
Il gruppo «Livorno» aveva il suo centro alla Cassa di Risparmio e si
dedicava soprattutto ad azioni informatrici e di sabotaggio.
Il gruppo della «Pasubiana» fu attivissimo nel sabotare auto carri
dell'esercito hitleriano e treni carichi di anni.
I «Bracchi dell'Alpe», al comando di Antonio Reggio, operarono nella zona di
Chiusa, Funes e Ponte Gardena.
Iniziarono la loro attività nei primi mesi del 1944 con azioni di
sabotaggio.
Il gruppo di Terlano, capeggiato da Giuseppe Galas, si occupò degli aiuti ai
prigionieri italiani del campo di concentramento situato vicino al paese di
Settequerce e organizzò alcune evasioni.
Il gruppo di Fortezza ebbe compiti informativi, in collegamento con una
missione alleata che agiva fuori regione.
Nell'aprile 1945 il comandante Giorgio Zordan e i suoi uomini passarono alla
lotta armata con l'occupazione dell'impianto idro-elettrico Montecatini a
Ponte Gardena.
In val Passiria operò un gruppo antinazista di lingua tedesca: 1' «Andreas
Hofers Bund».
Si trattava di un'organizzazione che aveva collegamenti con tutta Europa.
Venne fondata nel novembre 1939 e il primo a capeggiarla fu il dott. Voigger;
questi ne rimase alla guida fino al settembre 1943, quando venne catturato e
internato a Dachau.
Gli successe Johann Egarter, il quale impresse all'organizzazione un
carattere bellico, che, negli ultimi tempi della guerra, ebbe il sopravvento
su quello propagandistico.
Si ebbero anche azioni di sabotaggio.
Nel gruppo confluirono gran parte dei disertori sudtirolesi che avevano
prestato servizio nei reparti di polizia «Alpenvorland», «Bozen», «Brixen» e
«Schlanders».
E fu grazie a costoro che potè iniziare la raccolta di armi.
In stretto contatto con Egarter era l'antinazista Erich Amonn, il quale
permise all'organizzazione di collegarsi col prefetto di Bolzano Karl Tinzl,
successo a Peter Hofer, e col capo del C.L.N. bolzanino, Manlio Longon.
Quest'ultimo tentativo però fallì in seguito all'arresto da parte della
Gestapo di Longon alla fine del '44.
Nella nostra provincia operarono anche due missioni radio paracadutate dagli
Alleati: la missione «Imperative» e la «Norma».
La prima, giunta in regione nel luglio 1944, prese immediatamente contatto
col C.L.N. di Bolzano, il quale la affidò al radiotelegrafista Mario Puecher.
Parteciparono alla missione una sessantina di persone. L'apparecchio radio
venne installato in casa Angelucci, da dove si collegò per la prima volta
con la propria base, poi via via in casa della signora Turra , ”Anita", in
casa Filippi, Bonvicini e in altre.
Ecco due testimonianze, una del signor Bombasaro e una della signora Turra,
su un episodio accaduto nel periodo in cui la radio trasmetteva in casa
Turra: «Una sera ,,Bepi" (n.d.a.: Bombasaro) si trovava a casa mia, quando
udimmo bussare alla porta; erano due soldati tedeschi ubriachi che volevano
perquisire il mio appartamento ; avevamo in casa la radio della missione
,,Imperative".
Che fare?
Mettemmo la radio fuori dalla finestra, appesa ai ganci per le gabbie degli
uccelli. Pensavamo: «Mentre vanno a vedere alla finestra, noi tagliamo la
corda ! ».
Nel frattempo i soldati smisero di bussare e si rivolsero alla porta
accanto, dove abitava un partigiano che operava alla Lancia e al Magnesio,
Francesco Verga ,,Baldo". (cfr. sopra), il quale ci avverti bussando alla
parete».
I luoghi d'incontro delle staffette della missione erano i ristoranti «Tre
Gobbi», «Italia», «Stella d'oro» e il «Bar Milano», a Bolzano.
I depositi di armi o di materiale in genere furono la centrale elettrica di
Cardano, gli operai della quale furono gli ultimi a cedere ai tedeschi 1'8
settembre '43 e i primi a ribellarsi durante l'insurrezione del '45, la
questura di Bolzano, l'asilo infantile di Cristo Re in via Torino, la casa
di Paolo Stancher e altre.
Per l'accrescersi della sorveglianza tedesca a Bolzano la missione si
trasferì, in autunno, a Cavalese, da dove, quando lì la situazione divenne
critica, tornò a Balzano nell'asilo di
via Torino. Si era nel dicembre del '44.
Prima di trasferirsi a Cavalese erano giunti alla base alleata una
cinquantina di messaggi riguardanti i movimenti delle truppe germaniche.
Sempre in dicembre ci fu un rastrellamento nella zona di piazza Matteotti;
la radio sarebbe stata sicuramente scoperta, ma le suore riuscirono a
convincere i tedeschi a non perquisire l'asilo. Nel frattempo avevano fatto
fuggire i radiotelegrafisti Pettaccini e Tres.
Vennero tuttavia arrestati Armando Padda, appena evaso dal campo di
concentramento, e Don Daniele Longhi (precedentemente arrestato con Longon e
gli altri, ma scarcerato dopo poco tempo), che lo aveva aiutato.
Seguì un periodo di inattività in cui l'apparecchio radio, grazie alla
collaborazione dell'agente di P.S. Leopoldo Germiniani, venne depositato
addirittura al Corpo d'Armata.
Il 29 dicembre venne arrestato Puecher, che, per poter proseguire la sua
missione, finse di mettersi al servizio della Gestapo. Ciò gli permise di
far fuggire molti prigionieri, ed egli stesso, alla prima occasione, scappò
con la radio in Valtellina, dove portò a
termine il suo compito.
Andrea Mascagni ci descrive il Puecher come un personaggio assai ambiguo, ma
la mancanza di elementi ci impedisce di formulare un giudizio su costui: «Da
qualche tempo è giunta nella regione un'altra missione radio, la missione
«Imperative» col radiotelegrafista Mario Puecher, che si stabilisce a
Bolzano. Mario chiede contatti col partito comunista di Trento.
Nell'incontro che ho con lui mi dice di aver avuto dalla direzione del
partito e personalmente da Togliatti l'incarico di assumere immediatamente
la responsabilità del partito dell'intera regione. Vanta esperienze e lunga
milizia. Non gli credo e glielo dico. La mia risposta è l'unica possibile :
il partito rimane affidato alle persone che da tempo ne guidano
l'organizzazione e l'azione.
I rapporti con Mario saranno difficili e non sempre chiari. Egli svolge una
notevole attività informativa a Bolzano in stretta collaborazione con un
gruppo di giovani della formazione di impronta nazionalistica, di cui prima
ho fatto cenno (n.d.a.: la «Giovane Italia»).
Ma i contatti col partito gli vengono negati.
Un giorno sono chiamato d'urgenza a Bolzano. In un appartamento dell'INCIS
davanti all'ospedale trovo Mario in condizioni pressoché irriconoscibili,
col volto tumefatto.
Mi racconta una vicenda che mi lascia perplesso : sorpreso da sentinelle
tedesche in un comando militare in cui è riuscito nottetempo a penetrare per
appropriarsi di documenti, viene mal menato, ma riesce a sfuggire alla
cattura. Il racconto mi pare in verosimile. Considero opportuno tagliare i
ponti col Puecher.
Verrà catturato successivamente dai nazisti e per salvarsi (ci dirà della
sua liberazione) farà finta di mettersi al loro servizio. Nonostante tutti i
sospetti che ho sempre avuto per questa persona, effettivamente non risulta
che nessuno sia stato catturato per sua delazione o informazione. Nel
dopoguerra sarà arrestato a Bolzano anche dal comando militare alleato.
Dico: figura difficilmente comprensibile e non aggiungo altro».
La missione «Norma» operava nella zona di Braies.
Iniziò la sua attività nel marzo 1945 col compito di preparare la regione
all'arrivo degli Alleati.
Essa permise nei giorni dell'insurrezione il collegamento tra il C.L.N. e il
gen. Clark, comandante delle forze alleate al quale il Comitato venne
delegato a trattare la resa con il gen. Vietinghoff, comandante delle forze
germaniche.
I contatti tra la missione e il C.L.N. di Bolzano avvenivano grazie alla
dottoressa Celestina Pietrobuono in Petrone, unica vittima del gruppo:
«(...) una sera, verso le dieci e mezza, tornando dall'ospedale di Gries, in
uno di quei vicoletti dove ora ci sono orti e giardini, venne uccisa da una
fucilata anonima (...)»
II 26 aprile 1945 il C.L.N. fece pervenire ad Innsbruck, ai comandanti delle
truppe tedesche in Alto Adige gen. Vietinghoff e gen. Wolff, un invito ad
iniziare le trattative di resa dell'esercito germanico. La risposta fu
affermativa ma poneva due condizioni : a) che il C.L.N. di Bolzano avesse la
delega del gen. Clark; b) che la resa si intendesse per tutte le truppe
tedesche in Italia.
La prima condizione presentava il problema di come riuscire a collegarsi con
il gen. Clark ; il comandante della divisione Libero Montesi ,,Franco" e un
inviato del C.L.N. Alta Italia poterono prendere contatto con la missione
«Norma» che, come già detto, permise loro di ottenere la delega.
«Le trattative — racconta Libero Montesi, che vi partecipò — furono lunghe.
Ormai l'esercito tedesco era sconfitto e in rotta e noi facevamo leva sulla
minaccia di far confluire in zona formazioni partigiane di altre regioni che
quegli ufficiali tedeschi ben conoscevano. Si poteva evitare, dicevamo, un
inutile spargimento di sangue. Delle trattative si teneva informato
costantemente via radio il comandante in capo alleato in Italia, generale
Clark. Da parte tedesca trattavano il gen. Vietinghoff, comandante in capo
dell'armata tedesca in Italia, il gen. delle SS Wolff e altri. Dopo molte
tergiversazioni si giunse alla fine a un accordo limitato, uno dei punti del
quale prescriveva che, in attesa dell'inviato del gen. Clark per la
continuazione delle trattative, Merano e il campo di concentramento di
Bolzano fossero consegnati alla Croce Rossa e che depositi, magazzini vari e caserme fossero controllati da pattuglie miste di
partigiani e soldati tedeschi. Poi successe qualcosa che lì per lì ci restò
inspiegabile, Da parte tedesca ci fu un irrigidimento, forse dovuto
all'intervento intransigente del gen. Kesserling, comandante dell'esercito
tedesco. In questa situazione drammatica giunse via radio l'ordine di Clark
di occupare la provincia ad ogni costo. Contemporaneamente ci fu rinnovato
l'ordine dal CLN Alta Italia di far assumere dal CLN di Bolzano
l'amministrazione di Bolzano, Nella notte del 2 maggio cominciò
l'insurrezione».
Fu una grossa battaglia?
«La battaglia ci fu — risponde Libero Montesi — e raggiunse momenti
disperati, I soldati tedeschi erano molti e bene armati, noi pochi e male
armati. Per noi l'accordo era valido, nessuno l'aveva disdetto, perciò
inviai reparti ai posti stabiliti per formare pattuglie miste con i
tedeschi. Sembrava che potesse funzionare,
invece
l'accoglienza fu diversa. Gli scontri si succedettero violenti In vari punti
della città, soprattutto nei dintorni della zona industriale,
dove c'era il comando. La battaglia si sminuzzò in tanti episodi, ma io
credo che il fallimento dell'accordo si dovette a reparti che affluirono a
Bolzano prima che riuscissimo a chiudere la strada proveniente da Trento.
Dopo circa due ore di aspri combattimenti, montai su una jeep di un
colonnello tedesco fatto prigioniero e insieme a lui riuscimmo a
raggiungere, passando in mezzo a un crepitio infernale di colpi, il comando
tedesco dove trovammo anche il dottor de Angelis inviato a Bolzano dal CLN
Alta Italia. Dopo una drammatica discussione alla presenza dei generali
Vietinghof, Wolff e Dolmann, venne presa la decisione di far cessare i
combattimenti ripristinando l'accordo : pattuglie miste, passaggio ai
rappresentanti del CLN dell'amministrazione della provincia e dei comuni.
Ecco un'altra testimonianza :
«Noi abitavamo in piazza Matteotti; il campo di concentramento era stato
aperto due o tre giorni prima della liberazione. A casa mia c'erano tre
persone di Conegliano Veneto; erano rifugiate da noi e cercavano un
automezzo per tornare a casa, perché bisognava essere sicuri : la ritirata
era in atto, passavano soldati, camions, carretti. Per due o tre notti si
sentì il rumore di tutti questi automezzi che tornavano, di gente a piedi,
in motocicletta, sbandati. Erano i soldati tedeschi. E queste tre
persone aspettavano di tornare in tranquillità.
Il 3 maggio si sentì sparare. Si sparava alla zona industriale; si sparava
ai «Piani» di Bolzano; si cominciò a sparare in cima a via Torino,
all'incrocio, dove adesso c'è il «Bar Moretti». Lì c'era un'autoblinda che
sparava rasente verso piazza Matteotti. In casa mia, in camera da letto, si
vedevano i fori dei proiettili sulla parete. Appena vedevano qualcuno alla
finestra, gli sparavano. Durò 4 o 5 ore.
Il motivo per cui si era cominciato a sparare stava nel fatto che le truppe
tedesche che arrivavano da sud e che non erano a conoscenza dell'accordo
raggiunto tra CLN e comando germanico.
Giunte alla zona industriale, esse attaccarono i partigiani, i quali
risposero al fuoco.
In un attimo i combattimenti si estesero a tutta la città.
Quel giorno, quando ormai in tutta Italia si pensava già alla ricostruzione,
caddero 25 partigiani e 20 civili, più che altro operai degli stabilimenti
della zona industriale.
Ma non solo a Bolzano fu dolorosa la fine della guerra : a Merano, il 30
aprile, caddero 10 persone che facevano parte di un corteo che festeggiava
la fine della guerra; a Lasa, il 2 maggio, morirono altri 10 partigiani,
uccisi dalle SS mentre si curavano del mantenimento dell'ordine favorendo la
ritirata tedesca.
IL LAGER DI BOLZANO SIGNIFICATO ED IMPORTANZA DEL CAMPO
«Alla periferia della città di Bolzano, e precisamente ai margini del
rione popolare delle Semirurali, denominato di «S. Giovanni Bosco», sorge il
tristemente noto campo di concentramento o «Durchgangslager», nel quale,
durante la dominazione tedesca, furono detenuti moltissimi patrioti, che
avevano svolto attività clandestina ai danni dei tedeschi, o comunque erano
detenuti come ostaggi.
Il campo di concentramento, che è a un chilometro dalla Zona industriale,
occupa una superfìcie di circa due ettari di terreno : all'intorno era
recintato da un muro alto non più di tre metri; ai quattro lati sorgevano le
garretto, da dove, come al cancello di ferro d'entrata, rivestito a sua
volta e ricoperto di tavolame, per evitare distrazioni esterne ai detenuti e
soddisfazione ai curiosi che avessero osato spiare dentro, le SS vegliavano
per... l'incolumità di chi stava dentro, con il mitra sempre carico. (...)»
II lager di Bolzano iniziò la sua attività alla fine del luglio 1944 con
l'arrivo di prigionieri evacuati dal campo di concentramento di Fossoli,
vicino Modena.
Scrive la dottoressa Ada Buffulini, anch'essa internata a Bolzano, che già
«fin dall'inverno 1943 alcuni detenuti altoatesini, civili e militari, erano
detenuti nello stesso campo, che funzionava allora come una specie di
compagnia di disciplina. Ma verso l'estate iniziarono i lavori per ricevere
un gran numero di prigionieri».
Con l'arrivo dei detenuti da Fossoli — questo perché l'avanzata degli
Alleati sembrò ai tedeschi molto più veloce di quanto in realtà non fu — il
campo assunse la denominazione di «Polizeiliches DurchgangsIager-Bozen -
Campo Concentramento - Bozen», come appare sulla carta da lettera intestata
del campo, e sugli «Entlassungsschein», i certificati di rilascio,
dell'aprile 1945, dopo la liberazione.
Da Fossoli, oltre ai detenuti, arrivarono anche gli stessi organizzatori e
sorveglianti: il maresciallo Haage, il «semidio del campo», cioè la maggiore
autorità del campo; il tenente Tito, che, pur essendo di grado superiore ad
Haage, gli era di fatto inferiore davanti agli occhi di tutti; Hilde
Lodscher, la «tigre»;
Otto Seit e Mischa Seifert, due giovanissimi SS ucraini, ma di origine
tedesca, assegnati al blocco celle, dove compirono impunemente efferati
assassini; altri sorveglianti italiani e sudtirolesi.
Per la struttura del campo vennero utilizzate le preesistenti costruzioni:
degli hangar per automezzi militari già appartenenti al Genio militare
dell'esercito italiano.
In questi capannoni «vennero erette delle tramezze, dividendoli in grandi
vani, i cosiddetti blocchi A B C D E G; fu allestita una cucina e una
tettoia per i servizi igienici.
Davanti ai blocchi la piazza dell'appello; dirimpetto alcune baracche in
legno ospitavano la mensa delle SS e l'infermeria. All'ingresso la palazzina
del comando delle SS. Dietro all'infermeria una casetta ospitava la
lavanderia e alcune baracche erano destinate alle officine dei meccanici,
falegnami, elcttricisti.
In un tempo successivo (ottobre 1944 e mesi successivi) furono costruite la
prigione del campo (le cosiddette
«celle») e tutte le altre baracche per prigionieri dalla Galla M.
Fin dall'inizio il blocco A era destinato ai lavoratori interni del campo,
compreso il capocampo, i falegnami, elettricisti, meccanici, sarti, ecc.
Il blocco F era destinato alle donne, politiche ed ebree. Il blocco E
all'inizio ospitava una ventina di giovani stranieri, con i quali non ci fu
mai alcun contatto; erano di nazionalità diverse, probabilmente soldati, e
furono fucilati una mattina al Castello (n.d.a.: Castel Firmiano) senza che
si fosse riusciti a sapere niente di loro. (1)
In seguito il blocco E fu sempre destinato ai cosiddetti «pericolosi», con i
quali non si poteva comunicare, (n.d.a.: fino agli inizi del '45 il blocco E
era quello femminile, mentre il blocco F quello dei «pericolosi»».
Don Daniele Longhi ricorda: «Entrando in campo, si passava a uno a uno
all'ufficio matricola presso il comando; prendevano le generalità, notavano
il nome e l'indirizzo dei congiunti più prossimi (i quali avrebbero dovuto
pagare in caso di evasione), consegnavano due fettuccie col numero di
matricola; da quel momento si diventava «numeri»:
è umiliante.
È il massimo della degradazione nella scala della dignità umana! Da quel
momento addio al nome di battesimo, addio alla parentela. Era la prima
stazione della «via Crucis» di dolore, di sofferenza, di umiliazioni
incredibili, inimmaginabili».
Oltre al numero di matricola si riceveva un triangolo di stoffa di
differente colore a seconda della categoria di prigionieri, cui — senza
alcun rigido e preciso criterio — si veniva assegnati. Questo pezzo di
stoffa doveva venir cucito assieme al
numero di matricola sulla tuta blu da lavoro che si doveva indossare sopra i
propri indumenti.
I triangoli rossi erano per i politici, i verdi per gli ostaggi, i rosa per
i rastrellati e le stelle gialle per gli ebrei.
In realtà la composizione degli internati era molto più varia e dettagliata.
Laura Conti distingue: :
i bambini;
ebrei, zingari gitani o slavi, qualche volta ostaggi, che stavano nel
blocco F assieme alle madri.
b) le donne;
1- ostaggi ; il gruppo più numeroso, costituito da mogli, madri o
parenti di partigiani o di ricercati politici latitanti. 2- politiche o
partigiane; indistintamente partecipanti attive o passive della lotta
antinazista: combattenti, organizzatrici,
staffette (come la signora Mascagni, che, pur essendo una staffetta venne
internata col triangolo rosso, o donne
che avevano offerto aiuto e rifugio a partigiani e ad evasi. Il gruppo era
non molto numeroso, ma sicuramente il più politicizzato e il più generoso
d'aiuti agli altri internati. 3- ebree;
di parecchie nazionalità. Poco politicizzate e d'estrazione borghese. Il
gruppo non raggiunse mai un numero elevato perché era sempre il primo a
subire le deportazioni in Germania. 4-
zingare; per la differente lingua non poterono mai comunicare con le altre e
rimasero sempre isolate. Erano gitane, spagnole e slave con un numeroso
gruppo di bambini. Avevano,assieme alle ebree, la precedenza a partire per i
campi di sterminio. 5- prostitute e ladre: una quarantina circa, vennero in
seguito liberate per lo scarso pericolo che rappresentavano. 6-
fasciste italiane e naziste tedesche ; piccolo gruppetto isolato, le cui
componenti erano state arrestate per reati commessi nell'esercizio delle
loro funzioni.
Nonostante questa frammentarietà il gruppo delle donne fu sempre più unito
di quello degli uomini.
gli uomini;
era il gruppo più numeroso (arrivò ad occupare fino a 10 baracche), e
perciò meno unito di quello femminile, anche perché
la divisione in molti blocchi e le continue deportazioni impedirono la
conoscenza reciproca.
1- partigiani, renitenti alla leva, rastrellati; rappresentavano un cospicuo
gruppo composto di elementi d'estrazione borghese, operaia e contadina.
Molto sospettosi e introversi verso tutti gli altri e tra loro stessi per la
precedente attività clandestina. Venivano equiparati ai : 2- politici ; cioè
rappresentanti e militanti dei partiti antifascisti, agenti alleati e del
S.I.M. (Servizio Informazioni Militari), leali al re e a Badoglio. 3-
militari; ufficiali italiani leali al re arrestati dai repubblichini ;
militari americani e agenti segreti alleati. Morirono tutti fucilati o nei
lager in Germania. 4- ebrei e zingari. 5-
giovani disertori. 6- fascisti che non godevano più della fiducia nazista.
7- ladri, contrabbandieri, borsaneristi, rapinatori. 8-
ostaggi.
Gli ultimi 5 gruppi rappresentavano una minoranza di tutta la popolazione
del campo.
Quindi il lager di Bolzano aveva caratteristiche differenti da quelli
tedeschi; la caratteristica più importante era la mancanza di quel sistema
di sterminio proprio di Auschwitz o di Mauthausen. Infatti il campo di
Bolzano era semplicemente un «Durchgangslager», campo di smistamento, da
dove i prigionieri partivano per la morte.
Per Bolzano passarono almeno 11.500 persone; si parla però di almeno il
doppio, il che purtroppo non è documentabile per l'avvenuta distruzione dei
documenti e per il fatto che uno stesso numero di matricola veniva assegnato
a più di un prigioniero. man mano che si succedevano nuovi arrivi e nuove
partenze.
Episodi di violenza non mancarono neppure in questo campo di concentramento.
Scena ne fu soprattutto il «blocco celle» costruzione in muratura a un piano
divisa in 48 celle di varia misura e capienza. Le celle per due persone
avevano la dimensione dì m. 1,20 x 3, e i quattro quinti dello spazio era
occupato dal castello di legno a due piani dove dormivano i due prigionieri.
Le celle che ospitavano quattro prigionieri erano il doppio di larghezza
però la lunghezza era sempre la stessa cioè 3 metri. Nel blocco celle
venivano rinchiusi i prigionieri considerati pericolosi in attesa di
processo, oppure gli evasi dai blocchi che avevano la sventura di essere
ripresi. Il «blocco celle» è e deve essere il sacrario del Campo di
Concentramento di Bolzano.
Il buio era completo a tutte le ore del giorno: una finestra-abbaino col
vetro e l'imposta inchiodata accuratamente; la luce e l'aria entravano da
una fessura praticata alla porta. Da una apertura praticata alla porta, a
ore fisse ti scagliavano in faccia il pane di farina di pioppo del peso di
gr. 120, la razione giornaliera.
In segregazione la cella era la tomba : il freddo, la fame, (...)
l'abbandono dal resto del mondo, l'impressione di essere dimenticato da
tutti, in balia dei tormentatori, padroni della vita e della
morte.
Le lunghe, interminabili ore, supini sul sacco di segatura, intirizziti,
sfiniti dal tormento massimo, quello della fame, venivano rese ancora più
tormentose e febbrili di passione, ribellione, dalle urla strazianti
dei seviziati e dai colpi sordi del bastone e delle verghe ferrate, che
cadevano giù a due, a quattro, con tutta forza dai tormentatori e aguzzini
energumeni».
«Gli SS Mann Otto Seit e Mischa Seifert commisero 14 assassinii nelle celle,
dei quali fummo testimoni uno per uno. L'ultimo, un povero ragazzo
partigiano, accusato di aver rubato del pane. I due compari lo uccisero la
notte di Pasqua (n.d.r.: del 1945), sbattendolo a turno con la testa contro
i muri della cella, e squarciandogli il ventre : si chiamava Bortolo Pissuti.
Nessuno del blocco celle dimenticherà mai quel giorno: urlo per urlo, colpo
per colpo.
Altri vennero strozzati. In quelle occasioni i due circolavano per il
corridoio con i guanti di pelle nera. Erano diventati un simbolo, e quando
li vedevamo in quel modo, un brivido correva per le celle. Non si sapeva a
chi toccava il turno. Una sera la «tigre» venne a consegnare due povere
donne ebree. Sembra che le dessero fastidio perché, malate, si lamentavano.
Vennero finite nel modo più bestiale : spogliate in pieno gennaio,
annaffiate con secchi d'acqua, lasciate senza cibo. Madre e figlia. La
giovane, che tardava a morire, venne affogata in un secchio. Almeno in venti
di noi la udimmo fino all'ultimo rantolo.
Era perfetta anche la contabilità del blocco celle. Tutto era schedato alla
perfezione. (...) Sui cartellini degli assassinati vi era scritto in calce :
«Zum Teufel».
Cosi scrisse un giovane internato alla propria madre: «Alcune volte,
osservando la natura stupenda che circonda il nostro campo, mi sembra un
sogno, mi sembra impossibile che Dio possa permettere tanti orrori, quando
la vita è così bella e grandiosa».
Degli internati, una buona parte veniva mandata a lavorare alla I.M.I.,
nella galleria del Virgolo; a pulire le villette degli SS; a sgombrare le
macerie dopo i bombardamenti alleati; a rimettere in sesto la linea del
Brennero, che subiva sempre interruzioni per i bombardamenti.
Gli internati avevano diritto a due «pasti» giornalieri; gli altri —
invalidi, vecchi, bambini — solo ad uno.
Si cercava in ogni modo di far ricoprire agli stessi internati il maggior
numero di incarichi possibile, poiché i sorveglianti e le SS erano in pochi
per poter provvedere da soli al buon funzionamento del campo.
Persino in infermeria c'erano dottori internati : la dottoressa Ada
Buffulini di Milano, il prof. Drena di Torino, il dott. Pitschiller di
Bolzano, il dott. Pisciotta, cittadino americano, il dott. Ferrari, che
diverrà poi sindaco di Milano, il prof. Egidio Meneghetti che diventerà poi
Rettore dell'Università di Padova.
Venne aperto un campo di concentramento proprio a Bolzano perché la città
era nell'Alpenvorland, quindi annessa al Reich. Perciò il campo era al di
fuori di ogni pericolo proveniente dalla popolazione italiana.
Bolzano rappresentava «la sede migliore per un campo di concentramento (...)
che permetteva ai nazisti di contare non solo sul diretto controllo del
campo, (...) ma anche sulla garanzia che dava loro il possesso del
territorio circostante. In zone isolate dal resto d'Italia dove erano rese
difficili le comunicazioni di persone e notizie con l'esterno, poteva
tranquillamente essere creato un campo di concentramento : le notizie su
quanto vi avveniva non sarebbero filtrate, gli internati non avrebbero
potuto contare su alcuna forma di appoggio esterno, la situazione sarebbe in
definitiva rimasta ben controllabile per i nazisti».
A ciò si aggiunga anche che Bolzano era situata sulla linea del Brennero, il
che permetteva di eseguire i trasferimenti dei prigionieri con notevole
velocità.
L'ASSISTENZA CLANDESTINA INTERNA E ESTERNA AL LAGER DI BOLZANO.
A) L'assistenza interna.
La caratteristica principale del campo di concentramento di
Bolzano è che al suo interno vi fu
un'organizzazione clandestina di resistenza e assistenza, — che, tra
l'altro, non venne mai scoperta dai tedeschi — la quale aveva contatti con
una corrispondente organizzazione all'esterno del campo.
Del resto la stessa struttura organizzativa del campo fu di copertura
all'attività clandestina di assistenza, condotta, con l'aiuto dell'esterno,
da alcuni internati in favore della popolazione del lager.
Infatti nella vita del campo si possono distinguere quattro livelli
organizzativi:
1) L'amministrazione nazista —Essa era a carico dei due ufficiali
delle SS tenente Tito e maresciallo Haage, entrambi già al comando del campo
di Fossoli. Ai loro ordini c'era un piccolo gruppo di SS formato da
tedeschi, sudtirolesi, italiani e
ucraini. A causa del loro esiguo numero, essi affidarono il maggior numero
di incombenze possibile agli stessi detenuti, che ogni giorno
dovevano tenerli al corrente della situazione del campo
e dovevano rispondere del loro operato.
In tal modo essi credevano che si sarebbe accentuata all'interno del
campo fra la popolazione quel senso di sospetto e di diffidenza che avrebbe
sicuramente facilitato il loro compito di sorveglianza e di repressione
(l'antica regola del «divide et impera).
Ma il solo fatto che all'interno del campo ci fosse un'organizzazione di
assistenza clandestina giocò a sfavore di questa loro opinione.
2) Organizzazione ufficiale degli internati — Era composta da
internati scelti dai nazisti, che s'occupavano dello svolgimento
dell'ordinaria amministrazione di cui sopra si parlava. «A capo di questa
organizzazione c'era un capo-campo, coadiuvato da un vicecapo-campo, cui
facevano riferimento i singoli capo blocco che avevano il compito principale
di sovrintendere alle pulizie del rispettivo blocco e di fornire ogni
mattina al capo-campo la lista degli internati in forza al blocco in grado
di essere adibiti ai lavori interni ed esterni al campo». A Bolzano il primo
capo-campo fu Armando Maltagliati.
Sebbene la sua carica lo mettesse in condizioni assai difficili ed ambigue
al cospetto dei suoi compagni di prigionia, egli fece di tutto per
favorirli. Lo sta a dimostrare una dichiarazione della dottoressa Buffulini:
«(...) Armando Maltagliati sicuramente non è stato una spia delle SS nel
campo di Bolzano, né dopo la sua liberazione. Egli aveva in mano molti
documenti compromettenti per noi e per altri compagni, mentre risulta che
nessuno è stato ricercato dai fascisti o dalle SS per colpa sua. (...)
Ricordo particolarmente il caso delle rivoltelle trovate nel campo,
questione che avrebbe potuto provocare la fucilazione di diverse persone e
che fu da lui risolta in modo soddisfacente evitando ogni rappresaglia da
parte del comando tedesco».
Un'altra dichiarazione dell'ex comandante la Piazza di Genova in quegli
anni, Carlo Venegoni, datata Genova, 12 giugno 1945, dimostra l'attività
antitedesca del Maltagliati : «Dichiaro che Maltagliati ha collaborato con
noi, socialisti e comunisti, nel mese di settembre e di ottobre, al campo di
Bolzano. Ha cercato di evitare la partenza di compagni per la Germania e si
è adoperato per favorire la nostra organizzazione nel campo. In fede,
Venegoni Carlo».
Venegoni era riuscito ad evadere dal campo assieme ad altri compagni ai
primi .di novembre del 1944. C'era
inoltre un intendente cui veniva affidata la custodia e la distribuzione dei
viveri e del vestiario conservati nei magazzini ; il cambio della valuta
italiana in buoni aventi valore all'interno del campo, grazie ai quali si
potevano comperare a prezzi da borsa nera e con pochissima possibilità di
scelta presso lo spaccio del campo generi vari; infine l'esercizio
dell'attività sanitaria nell'infermeria del campo, se «infermeria» poteva
essere chiamata: l'organizzazione sanitaria in generale era precaria a causa
dell'insufficiente alimentazione e delle frequenti infezioni; ai pidocchi
neanche più si badava: erano di casa ormai !
3) Organizzazione ufficiosa degli
internati — Quest'organizzazione, di cui il Comando tedesco era a
conoscenza e che esso tollerava perché
buon mezzo per allentare la tensione presente fra gli internati, «era
formato dai consiglieri di baracca, il compito dei quali era l'instaurazione
di buoni rapporti fra gli internati (compito che comprendeva la esplicazione
di indagine circa i nuovi elementi, la presentazione dei nuovi venuti alla
baracca, la cura di impedire abusi e prepotenze, etc.) e la ripartizione più
avveduta e sensata delle risorse esistenti nel campo, provenienti da fonti
legali».
Ma il compito più importante dell'organizzazione, e che essa svolse a
dovere, fu quello di fornire una copertura all'organizzazione clandestina,
di tatto la più attiva e la portatrice di maggiori benefici.
4) Organizzazione clandestina degli internati — In nessun contatto
con le altre, essa s'era formata autonomamente. Era costituita
principalmente da un C.L.N. clandestino «formato in gran parte
dall'organizzazione già operante a Fossoli», che era in contatto con il
C.L.N. di Bolzano e con il C.L.N. Alta Italia di Milano, e che organizzava
l'assistenza clandestina agli internati grazie all'aiuto proveniente
dall'esterno.
«Primo compito del C.L.N. interno al campo era quello di fare un continuo
censimento della popolazione del campo, che tra arrivi e partenze cambiava
continuamente, individuare i politici, tenerli uniti, aiutarli per quanto
era possibile, organizzare delle fughe».
I collegamenti avvenivano grazie all'aiuto fornito dagli internati che
uscivano dal campo o da quelli che invece vi entravano a lavorare (i
cosiddetti lavoratori «liberi»): costoro portavano con sé «bigliettini» del
formato il più piccolo possibile, tanto da poter essere occultati
agevolmente», con i quali gli internati comunicavano con le famiglie o il
C.L.N. interno forniva gli elenchi di gente da assistere o da far evadere
all'organizzazione esterna.
Spesso l'organizzazione fu messa in imbarazzo dalla non voluta parzialità
che essa adottava nella distribuzione di quanto arrivava da fuori; ad ogni
modo essa cercò sempre di venire in aiuto ai più bisognosi, a coloro, cioè,
che, non avendo alcun parente a Bolzano, non ricevevano i pacchi che le SS
lasciavano entrare nel campo due volte alla settimana.
L'organizzazione interna, di cui fecero parte, tra gli altri, la dott. A.
Buffulini, Laura Conti, il dott. Bartellini (morto in Germania), Armando
Sacchetta (morto tre mesi dopo la liberazione per le conseguenze dovute alla
sua detenzione), raggiunse un'importanza tale che potè far distribuire nel
campo tessere d'iscrizione al PCI, per di più stampate nella stessa
sorvegliatissima tipografia del campo.
«All'inizio del 1945 si cercò anche di preparare un'eventuale rivolta del
campo in previsione che i tedeschi all'ultimo procedessero ad un massacro
dei prigionieri, specialmente di quelli delle celle. Le possibilità erano
poche (si disponeva solo di alcune rivoltelle, mentre i tedeschi erano bene
armati), però i .prigionieri erano 2.000
e le guardie circa una trentina, e si poteva sperare sulla sorpresa.
La preparazione risultò poi inutile, perché
il campo fu evacuato dagli stessi tedeschi agli ultimi giorni di aprile,
quando già era intervenuta la Croce Rossa Internazionale».
B) L'assistenza esterna.
Quando nel luglio 1944 venne aperto a Bolzano il Campo di Concentramento,
l'attività di soccorso del C.L.N. si intensificò sempre più e si organizzò
in modo tale, da poter fornire un valido contributo agli internati.
Responsabile della neo-nata organizzazione
d'assistenza fu Ferdinando Visco Gilardi "Giacomo", direttore
amministrativo dello stabilimento F.R.O. a Bolzano, residente allora solo da
quattro anni nel capoluogo altoatesino, e milanese di nascita.
Gilardi «aveva mantenuto amicizie e contatti nel capoluogo lombardo. La sua
maturazione politica e spirituale (Gobetti era stato il faro più luminoso
per la sua giovinezza) aveva formato in lui il terreno adatto perché vi
germinasse il seme della Resistenza : tuttavia non fu lui a prendere
l'iniziativa, ma la resistenza venne a lui per il «canale» milanese che gli
fornì indicazioni e mezzi per organizzare l'assistenza e le fughe dei
reclusi nel «Lager» di Bolzano».
Del «canale» milanese faceva allora parte Lelio Basso, il quale ricorda :
«(...) ero amico del Dr. Gilardi in tempi anteriori alla guerra (...) lo
avevo perso di vista, ma l'incontrai per caso a Verona in occasione di una
visita che avevo fatto ai compagni della città durante la Resistenza. Lo
pregai allora di assumersi a Bolzano il compito di assistenza al campo per
introdurre viveri, rifornimenti e lettere clandestine che io indirizzavo al
gruppo socialista nel campo. Il mio punto di riferimento era principalmente
la dottoressa Ada Buffulini e successivamente anche Laura Conti
«Giacomo» naturalmente accettò.
I contatti col C.L.N. di Milano erano assicurati grazie a due donne :
Virginia Scalarmi e Gemma Bartellini.
«Furono esse a rifornire Gilardi di generi
alimentari e capi di vestiario, spediti in casse a Bolzano con la
collaborazione dell'allora direttore delle Acciaierie, ing. Ventafridda, che
mise a disposizione i trasporti per conto della fabbrica bolzanina da
Milano: sui camion, in mezzo alla merce «legale», c'era anche quella
destinata al "Lager"».
Si era allora verso la fine d'ottobre del 1944, cioè tre mesi dopo
l'apertura del campo di concentramento.
Prima dell'incontro di Gilardi con L. Basso c'era
già una certa assistenza, ma era dovuta alla buona volontà di pochi
volenterosi,che cercavano con sporadici tentativi di alleviare le sofferenze
di tutti quei militari che, dopo 1'8 settembre, vennero deportati a migliaia
in Germania, o dei detenuti in carcere o nel campo d concentramento.
Ricorda la signora Turra : «Dapprincipio deboli e isolati furono i
nostri tentativi di aiuto alle carceri e al campo di concentramento:
eravamo disorganizzati, non avevamo viveri ne
vestiario ne denaro sufficiente per dare
un aiuto veramente efficace. Raccoglievamo
qua e là zucchero, farina, pane e
indumenti (ben poca cosa) che portavamo a sconosciuti, gente senza nome e
senza volto, la più bisognosa, fidando ingenuamente nel senso di umanità dei
guardiani».
E così Gilardi formò quest'assistenza, basata su una
ben precisa organizzazione, la quale consisteva, oltre che nel fornire
viveri e lo stretto necessario agli internati, anche nel favorire eventuali
evasioni e nel preparare documenti necessari per poter tornare gente
«normale».
A questo scopo c'era tutto il materiale occorrente: le foto venivano
fornite da Pedrotti "Marco", che aveva uno studio fotografico; le carte
d'identità, i lasciapassare, i timbri a secco, provenienti dal comune di
Milano, venivano forniti da Renato Serra, "Nigra", che era stato inviato a
Bolzano da Ferruccio Parri "Maurizio", mentre quelle del comune di Cles da
Giuseppe Bombasaro.
La prima evasione dal campo che ebbe risultato
positivo fu quella di Luigi Cinelli ,,Gigi", nell'autunno del 1944: ,,Gigi"
sfruttò il piano di fuga che avrebbe dovuto servire per far fuggire Bobbio,
milanese, figlio di un consigliere delegato dell'Edison, il quale però,
all'ultimo momento, rifiutò di fuggire ; e questo gli costò molto : morì in
Germania. Il piano fu elaborato da Serra e da Gilardi.
Quest'ultimo riuscì a prendere contatto con Bobbio e ad accordarsi sui
particolari della fuga.
Racconta Serra: «(...) il piano era molto semplice. Si trattava di
lasciare una bicicletta, con una giacca sul manubrio, appoggiata al muro di
una delle casette del villaggio italiano (n.d.a. : le Semirurali), dove i
prigionieri venivano accompagnati a lavorare. Bobbio avrebbe dovuto
inforcarla, indossare la giacca ed allontanarsi: all'angolo della strada uno
dei nostri (n.d.a.: Bruno Salvotti "Brunelli") lo avrebbe affiancato ed
accompagnato ad un rifugio sicuro.
Bobbio non potè o non volle farlo. Ne approfittò invece Luigi Cinelli
(...)».
Cinelli venne nascosto in casa di Gilardi, poi in
quella di Marcello Caminiti, dove fu fotografato da Pedrotti ,,Marco". Pochi
giorni dopo egli potè lasciare la città, con un camion della «Lancia»
diretto a Milano, fornito di documenti falsi.
La schiera di persone che collaborarono all'assistenza clandestina aumentò ;
l'organizzazione ebbe l'aiuto di gente nuova : Franca Turra ,,Anita", Pia e
Donatella Ruggiero, Fiorenza e Vito Liberio, Elena Bonvicini, Giuseppe
Bombasaro ,,Bepi", Armando Condanni, Tarquinio Pavan e figlio,
la moglie di Gilardi, Mariuccia e altri.
Ricorda la signora Turra: «Ognuno di noi aveva un suo pseudonimo ed
agiva in una ristretta cerchia di pochi, senza diretti e personali contatti
al di fuori : ciò era indispensabile per salvaguardare l'organizzazione dai
gravi pericoli che comportava la nostra attività. Una delazione o anche
un'imprudenza sarebbero state sufficienti per la deportazione».
E ce lo conferma anche il signor Sandro Bonvicini, che svolse attività
partigiana molto intensa a Bolzano e in Val di Non:
«Si viveva e si agiva sempre in una condizione di paura e di clandestinità:
bisognava diffidare di chiunque, evitare qualsiasi persona, anche se si
fosse presentata come antifascista. I rapporti di lavoro esistevano solo
all'interno di una ristretta cerchia di pochi».
Ed inoltre era sempre meglio sapere il meno possibile in caso di tortura.
Il denaro occorrente allo svolgimento di questa attività proveniva dal
C.L.N. di Milano, portato da gente come Nigra o la Scalarini. Esso veniva
diviso tra i mèmbri dell'organizzazione,
che provvedevano a farlo entrare clandestinamente nel campo, grazie agli
internati che uscivano a lavorare, o a consegnarlo alle famiglie bisognose
che avevano qualche parente internato cui dover mandare viveri e vestiario.
Con esso si potevano confezionare pacchi, contenenti mezzi di prima
necessità o di primo consumo, destinati agli internati.
Occorreva, però, fare molta attenzione a non confezionare i pacchi tutti
alla stessa maniera: il contenuto non doveva essere sempre lo stesso; la
carta da confezione doveva essere sempre diversa; la calligrafia degli
indirizzi del mittente e del destinatario non doveva essere sempre uguale.
Dopodiché si potevano recapitare consegnandoli alle guardie all'ingresso del
campo.
Racconta la signora Turra: «II nostro compito consisteva nel preparare
questi pacchi che portavamo personalmente al campo; e poiché
questo era molto distante dalla città, il C.L.N.A.I. aveva provveduto a
fornirci di biciclette.
Si andava quasi giornalmente.
I pacchi dovevano essere confezionati (...) in maniera tale che dessero
l'impressione di essere stati preparati dalle famiglie; quindi facevamo di
tutto per dare loro un che di familiare e di casalingo. I nazisti infatti
non dovevano accorgersi che c'era tutta un'organizzazione
clandestina dietro. (...) Io sola sono riuscita a mandare almeno 500 pacchi.
(...) Un giorno mi venne comunicato dall'interno che era nato un neonato e
che, perciò, occorrevano dei vestitini. Cercai di raccoglierne il più
possibile e andai a consegnarli. Pioveva e le strade erano tutte infangate.
Il custode mi disse rabbiosamente: «Lei manda un pacco ad un ebreo?!»; aprì
il pacco violentemente e gettò tutto in terra, in mezzo al fango : «Un'ebreo
non deve avere queste cose!» (...)
Anche il nostro aspetto variava: cercavamo di camuffarci e di trasformarci
il più possibile per non farci riconoscere e per non far insospettire i
nazisti».
Inoltre bisognava portare i pacchi due-tre per volta, e non a grandi
«infornate», e ciò era un problema perché i pacchi erano molti mentre le
persone disposte a portarli poche; per questo si ricorreva anche ai
travestimenti.
Per quanto riguarda i collegamenti interno-esterno
e viceversa, essi avvenivano, come avemmo già modo di dire, attraverso
lettere, biglietti e comunicazioni orali affidate a coloro tra gli internati
che uscivano dal campo a lavorare o a coloro che, per andare a lavorare, vi
entravano.
«Centralino» di questi collegamenti era il casello ferroviario di via Resia,
dove i bigliettini o le lettere venivano depositate e ritirate. La stessa
funzione ebbero anche casa Pavan o casa Dal Pollo.
Con questi collegamenti clandestini si potevano liberamente fare
comunicazioni atte a favorire una qualsiasi opera d'assistenza :
erano elenchi di persone da assistere o far evadere; piani di fuga o
richieste di medicinali, vestiario e cibo. Ci si serviva di questi contatti
anche per accordare un preciso significato a parole o frasi contenute in
lettere ufficiali provenienti dal campo (agli internati era permesso
scrivere ai propri familiari due volte al mese), sottoposte sempre a censura
da parte delle SS.
Quindi queste comunicazioni erano di grandissima utilità.
Sempre nell'autunno del 1944 venne ideato da Gilardi
e Serra un altro piano di evasione per il dottor Lepetit, industriale
farmaceutico di Milano che molto aveva contribuito con il suo stabilimento
alla fornitura di mercé per l'assistenza.
Così racconta Renato Serra: «Lepetit avrebbe dovuto accusare dolori
appendicolari, per cui era previsto il ricovero all'ospedale civile di
Bolzano. Di là sarebbe stato fatto
fuggire, lungo un passaggio poco noto che comunicava con la Chiesa
dell'ospedale. Tutti i medici e gli infermieri da noi contattati, si erano
dichiarati disponibili ad aiutarci.
Al resto avremmo pensato noi.
Purtroppo Lepetit, che lavorava nell'infermeria
del campo cui aveva fatto arrivare grossi quantitativi di medicinali, aveva
ricevuto assicurazioni dal tenente medico tedesco che non sarebbe stato
inviato in Germania. E così non volle o non potè tentare la fuga». Lepetit
fu deportato in Germania da dove non fece più ritorno.
Cosi continua Serra : «II piano ,,Lepetit"
servì ugualmente, ma per un altro; l'avvocato Elmo di Milano. Servendosi dei
seghetti da noi forniti, molti prigionieri assiepati nei carri bestiame dei
convogli ferroviari diretti in Germania, riuscirono a segare le sbarre dei
finestrini e a gettarsi dai treni in corsa.
Alcuni rimasero feriti nella caduta, e tra questi appunto l'avv. Elmo, che
riportò la frattura di un braccio, un vistoso taglio da orecchia a orecchia
e ferite alla testa. Raccolto semisvenuto da contadini, venne avviato
all'ospedale.
Il giovane figlio di un farmacista di Bolzano (n.d.a.: Sandro Bonvicini?)
(...) venne ad avvertirmi che se non avessimo prelevato subito l'avv. Elmo
dall'ospedale, sarebbe stato sicuramente arrestato, avendo dovuto il
piantone di servizio segnalare alla Questura il suo ricovero per ferite.
Accompagnato dal giovane mi recai all'ospedale civile con due biciclette, di
cui una da donna, e mi appostai davanti alla porta della Chiesa;
contemporaneamente feci avvertire i medici.
Poco dopo l'avv. Elmo, accompagnato da un infermiere, uscì: aveva il volto
tutto bendato ed un braccio ingessato. Dovemmo aiutarlo per farlo salire
sulla bicicletta. Lo guidai, spesso sospingendolo tra lo stupore dei
passanti, a casa di Caminiti, dove purtroppo non c'era nessuno. Non mi
rimase che riportarlo, passando di nuovo davanti al comando tedesco con tanto
di sentinelle, alla«Magnesio», dove Longon lo fece nascondere
temporaneamente in una cantina.
Scese la notte, potemmo trasferirlo in un ricovero più sicuro, mandargli un
medico e quindi avviarlo a Milano.
In quei giorni ci trovammo a dover nascondere oltre una ventina di evasi :
il che voleva dire nutrirli, vestirli, tornirli di documenti ed avviarli
verso Milano.
Tra questi c'era anche il notaio Neri, un repubblicano romagnolo, ferito
alla testa e febbricitante, che aveva trovato rifugio nel garage di un
fascista. Il quale però non denunciò né
lui né me, né il medico che si recò a
curarlo. Altri evasi, rimasti più o meno indenni nel salto dal treno,
preferirono evitare Bolzano e dirigersi subito all'avventura verso sud».
In dicembre Serra cessò la sua attività a Bolzano e tornò a Milano.
E sempre in dicembre venne arrestato dai nazisti
tutto lo stato maggiore del C.L.N. di Bolzano: Longon, Pedrotti e Gilardi,
Dal Fabbro e tanti altri.
È una mandata di arresti che si estende a molti altri, tra i quali Caminiti
e Laraspata. Tutti saranno internati al campo di concentramento di Bolzano in
via Resia, al blocco celle, dove vengono stipati i pericolosi. «Si praticano
le più raffinate torture ai «pericolosi» con specialissimo riguardo ai
comunisti, operazioni che si compiono particolarmente al Corpo d'Armata sede
della "Gestapo"».
Gilardi e Dal Fabbro saranno seviziati e torturati, ma non parleranno. Il
loro comportamento permise all'organizzazione di rinascere in un tempo
relativamente breve. Gilardi riuscì a mantenersi in continuo contatto con
l'organizzazione interna e potè dare le direttive d'azione a quella esterna.
Uscì dal campo solo alla fine della guerra.
Il posto di Gilardi fu assunto dalla signora Turra "Anita", coadiuvata
dalla moglie di Gilardi, Mariuccia, dai Liberio, da Bombasaro, dai Pavan,
dai Ruggiero e altri.
Ecco quanto dice "Anita" (I): «Eravamo rimasti un piccolo, sparuto numero
di volonterosi ; ci erano venuti meno i collegamenti con il campo per
l'arresto di Ferdinando Gilardi. Piccoli indizi ci aiutarono nella ripresa,
la moglie di Gilardi ci indicò un nome; bastò per allacciare la
corrispondenza con il comitato interno del campo.
Laura Conti, Ada Buffulini, Armando Sacchetta cominciarono ad
indirizzarmi le loro missive. Le notizie dal campo non erano
tranquillizzanti, i processi dei nostri/ compagni di Bolzano si susseguivano
lasciandoci alternativamente tra la speranza e il timore;
un giorno Enrico Pedrotti mi scrisse: «Cara Anita,
grazie infinite. Vi prego, fate moltissima attenzione, siamo già in troppi a
soffrire. Qui è l'inferno. Fame, angoscia, botte e disperazione, passerà.
Giacomo è qui sereno come sempre, malgrado la grave apprensione per la
moglie, sembra, arrestata, e i bimbi in istituto. Vedete voi. Daniel (n.d.a.:
Don Daniele Longhi) è molto giù, ma sano. Rispettivamente sono al numero 28
e 40. Io al 47. Di A. (n.d.a.: Longon) niente di preciso, ma manca.
Cari saluti. M. (arco)».
Manlio Longon ci diede l'esempio di come si moriva per la libertà.
Con la sua barbara uccisione crebbe il nostro dolore e si rafforzò la nostra
volontà di lotta.
Per opera di Condanni ebbi il primo contatto diretto con Virginia (n.d.a.:
Virginia Scalarini), incaricata dell'assistenza dal C.L.N. Alta Italia. Da
lei mi pervenivano le disposizioni del C.L.N.A.I.
il denaro e i mezzi per continuare.
Con l'aumentare delle difficoltà e dei pericoli le nostre capacità di lotta
si affinarono di fronte al proposito delle SS di stroncare ogni tentativo di
resistenza attiva; si continuava nonostante tutto ad organizzare fughe, a
raccogliere armi, a distribuire propaganda».
Con la ripresa dell'attività cambiò qualche ruolo: Virginia Scalarini
divenne addetta all'assistenza su ordine del C.L.N.A.I, mentre il suo posto
di staffetta fu assunto dal prof. Bruno Zambiasi ,,Vois".
Si riprese a confezionare pacchi e a ideare piani di evasione. La signora
Turra ne ricorda due, cui lei partecipò personalmente: «Partecipai di
persona ad una evasione organizzata da me e da Bepi Bombasaro, avvenuta ai
primi di marzo del 1945. Dovevamo far evadere due donne. Angela Molimi e
Antonietta Bianchi, arrestate a Genova perché proprietarie di una tipografia
clandestina e condannate a morte. Ci scrivevano supplicandoci di aiutarle ad
evadere.
Esse venivano portate a lavorare in una delle casette semirurali vicino al
campo, dove c'erano gli alloggi degli ufficiali delle SS.
Uscivano al mattino scortate dalle guardie ed andavano in questi
appartamenti a fare le pulizie.
Dapprima Bombasaro le avvicinò : fu possibile parlare con loro perché
la villetta in cui lavoravano aveva un giardino attorno, delimitato da un
muro.
Ogni tanto le ragazze scendevano in questo giardinetto e così si poté
comunicare con loro.
La preparazione durò una settimana, dopodiché,
il giorno stabilito, riuscimmo a far entrare all'interno della casetta,
aiutati da alcuni detenuti che lavoravano il giardino, alcuni vestiti
borghesi e degli occhiali neri.
Ci appostammo lì vicino alle 7 di mattina con 3 biciclette, 2 per le ragazze
e 1 per «Bepi».
L' «ora O» era stabilita per le 11,
quando i detenuti del giardino, con cui eravamo d'accordo, avrebbero dovuto
attirare l'attenzione delle guardie facendo molta confusione ; così le due
donne avrebbero potuto scavalcare di nascosto il muro con il filo spinato e
fuggire.
Fortuna volle che proprio alle 11 suonasse l'allarme per un bombardamento,
cosicché esse furono facilitate dalla
crescente confusione.
Il muro era altissimo, perciò dovettero portare con sé uno sgabello, dando
prova di grandissimo coraggio.
Tutto andò bene e Bombasaro, che le aspettava dietro una staccionata con le
biciclette, le portò in casa dei Liberio, dalla quale, pochi giorni dopo,
partirono per Milano fornite di documenti falsi.
Intanto io mi avviai verso casa a piedi. Pochi minuti dopo, però, suonò
l'allarme al campo : i tedeschi avevano scoperto l'evasione.
Essi uscirono in motocicletta a perlustrare i dintorni. Riuscii a salvarmi
solo grazie all'aiuto di una famiglia delle Semirurali che mi nascose in
casa finché l'aria non si calmò.
Organizzammo e portammo a termine anche un'altra fuga, con l'aiuto di
Bombasaro: facemmo scappare un'intera squadra composta da otto detenuti che
lavorava al ponte Talvera e convincemmo a ruggire, un po’ con le buone, un
po’ con le cattive, anche la sentinella che li sorvegliava : era un uomo
della ,,Schutzpolizei" altoatesina di Pieve Livinalongo. II sig. Bombasaro è
in possesso dei documenti personali di questo poliziotto, tra cui un «Sodbuch»
e un piccolo taccuino sul quale l'uomo annotava i suoi spostamenti. Li
rifornimmo di documenti falsi e di abiti borghesi e li nascondemmo nella
sede della RAI di via Leonardo da Vinci, dove avevamo a disposizione
l'appartamento di un partigiano di nome Paladino, che s'era dato alla
macchia.
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La notte portavamo loro da mangiare, finché
partirono per Milano con i camion della Lancia».
Non si conosce con precisione il numero delle evasioni attuate
dall'organizzazione clandestina; Laura Conti, nella sua «Ricerca» (1), parla
di 80 evasioni, delle quali parecchie non videro la fine per l'avvenuta ri
cattura degli evasi, con conseguenze durissime
che arrivarono fino alla deportazione in Germania.
È certo che le evasioni organizzate prima
dell'arresto di Gilardi furono almeno 23.
L'attività assistenziale, oltre che dal C.L.N. bolzanino, venne
svolta anche da privati o da organizzazioni minori legate ai movimenti di
lotta partigiana che operavano in regione.
Ricordiamo l'attività svolta dalla brigata «A. Bari», che consisteva in
aiuti materiali agli internati con l'invio di pacchi contenenti cibo,
indumenti e altri generi di prima necessità. Il gruppo organizzò anche delle
evasioni servendosi di camion della Lancia.
Anche la brigata «Giovane Italia» svolse attività assistenziale, soprattutto
con la raccolta di denaro.
Accanto a questi bisogna ricordare l'opera svolta dal vescovo di Belluno,
Mons. Bortignon.
Qualche altra organizzazione era presente anche nel resto d'Italia.
A questo proposito la signora Carlini (3) ci ha parlato di una
organizzazione nella zona di Vicenza o Rovigo che, tramite
il padre della signora che lavorava per l'ufficio viaggi di Bolzano,
spediva dei pacchi «formato standard», già pronti.
Questi pacchi, una volta arrivati a Bolzano, venivano disfatti dalla
signora, che allora era una ragazzina, e da sua madre, e di altre persone
della zona di via Torino, rifatti in maniera tale che non avessero tutti lo
stesso aspetto, ma che sembrassero confezionati da mani diverse.
Venivano introdotti nel campo grazie ad una donna tedesca che vi lavorava
dentro.
Sempre tramite questa donna .avvenivano
le richieste da parte degli internati di medicinali, cibo, denaro e
indumenti.
Queste ultime organizzazioni, però, facevano in modo di saltare la
mediazione del C.L.N. e di far arrivare gli aiuti direttamente in mano agli
interessati; il che, pur ammettendo la buona fede e i buoni propositi,
rendeva difficile una imparziale ed equa distribuzione degli aiuti.
C) La liberazione dei prigionieri del Lager di Bolzano.
Il 25 aprile in tutta l'Italia settentrionale era scoppiata
l'insurrezione.
Ormai anche a Bolzano la fine della guerra era imminente, e con essa anche
la liberazione dei prigionieri del campo di concentramento.
In questi giorni l'amministrazione del campo passò dalle mani delle SS a
quelle della Wehrmacht, che avrebbe provveduto a far tinteggiare, ripulire e
riordinare le costruzioni del «Lager», per consegnarle, assieme ai
prigionieri, alla Croce Rossa Internazionale (e ciò avvenne il giorno 30
dello stesso mese).
Ma prima che ciò si verificasse, il 27 aprile, accadde un episodio che
avrebbe potuto mettere in serio pericolo la vita di tutti i prigionieri.
Ascoltiamo la testimonianza di Bruno Zanoni ,,Leone", che svolse la propria
attività d'assistenza all'ospedale civile di Bolzano: «La preoccupazione per
i ,,nostri" del Campo di concentramento
divenne grande quando, sul finire della guerra, si seppe che le SS, in sede
di sloggio, provvedevano a liquidare i politici e gli ebrei.
Bisognava perciò tentare di liberarli al più presto prima della fine.
Se ne incaricarono Luciano e Leone (n.d.a. : Luciano Bonvicini e l'autore,
Bruno Zanoni); si trattava di fingersi delegati della Croce Rossa
Intemazionale per trattare la liberazione di alcuni detenuti del campo.
Uno svizzero, sedicente rappresentante della Croce Rossa Internazionale a
Merano, sulla cui figura ancora oggi sarebbe difficile dire una parola
sicura, fornì una delega con tanto di timbro (sicuramente falso) ed un
elenco degli ebrei rinchiusi nel Campo (questo tristemente autentico).
Leone e Luciano si mossero verso Bolzano assillati da molti interrogativi;
si sarebbe visto ai posti di controllo come avrebbe funzionato la delega.
Per comparire al Campo fu scelta l'ora del mezzogiorno. Il primo caldo di
fine aprile e la rilassatezza dell'ora di siesta sembrarono elementi
favorevoli all'avventura.
L'ingresso al Campo non fu infatti diffìcile;
i
due vennero condotti subito dal tenente Tito, il comandante. Superati i
preliminari senza incidenti, Luciano si trattenne nella baracca-comando a
discutere la lista degli ebrei, il cui conto non tornava, come si prevedeva
; Leone trovò il varco aperto verso l'infermeria e le celle, e con
naturalezza vi si infilò.
Nell'infermeria c'era il vecchio Meneghetti (n.d.a. : Egidio Meneghetti, di
Giustizia e Libertà), berretta bianca in testa come fosse al mare, che
medicava il capo di un uomo piagato.
Non dubitò quando Leone gli disse: «Professore, si prepari ad uscire. È
libero». Subito cominciò a riempire il sacco delle sue robe, continuando a
ripetere : «Caro, caro ! »
Da quel momento Leone si sentì più sicuro e proprio investito della sua
parte di delegato.
Il corridoio delle celle era aperto; i «nostri» c'erano tutti.
Alzarono la testa dubitosi quando sentirono di doversi preparare per uscire,
liberi. Non credevano. Vincenzo (n.d.a.: Rinaldo Dal
Fabbro) disse anzi: «Ciò, anca ti i tè ga ciapà?!». Senio (n.d.a.: Senio
Visentin) sorrideva triste come una capra malata. Paolo, Marco, Marcelle (n.d.a.:
Gilardi, Pedrotti, Caminiti) sembravano dei convalescenti da tifo.
Dato l'ordine, Leone uscì per tornare in appoggio al capo
delegazione, all'ingresso del Campo.
Ma, ad un tratto, tutto cambiò. Nella (n.d.a. : N. Lilli in Mascagni),
urlando, cercava di uscire dal reticolato; botte da orbi. Il cuoco ebreo,
urlando anche lui, precipitò dalla scaletta della cucina sotto i colpi di un
guardiano, e Haage ,il maresciallo Haage, mitra in pugno, affrontò Leone
inchiodandolo colla canna dell'arma contro la cucina.
«Tu li vuoi fuori perché facciano i maquì? Perché ci sparino alle spalle? Ma
prima tu sei morto!». Era proprio la «tigre» in quel momento; fremeva di
rabbia e il dito gli tremava sul grilletto, notoriamente facile. Luciano,
afferrato da qualcuno, finì anche lui spalle al muro.
L'ultimo residuo del «Delegato» risorse
in Leone che disse quali con calma: «Haage,
la guerra è finita. Uccidere adesso sarebbe un assassinio e la giustizia di
pace trova sempre gli assassini».
Perché Haage tacque di colpo? In questa frazione di torturante silenzio
Tito, alle spalle di Haage, quasi dolcemente gli toccò il braccio proferendo
con voce bassa e decisa: «Maresciallo! Mi attenda in baracca! Non si
impicci di cose che riguardano il comandante».
E Haage ubbidì, sotto gli occhi sbalorditi di tutto il Campo. Tito e Luciano
comunicarono a Leone quanto avevano convenuto: tutto rimandato alla sera.
I politici di Bolzano, previo esame del Corpo d'Armata, dovevano recarsi al
Guncina e non muoversi di lì. Gli altri politici e gli ebrei sarebbero stati
liberati a partire dalla sera ad almeno cento chilometri da Bolzano. (...) I
«delegati» risalirono decorosamente nel furgoncino della Lancia che li aveva
accompagnati. Avevano appena infilato l'uscita del Campo, quando,
strombazzando e con tutti i contrassegni regolamentari, entrava una grossa
vettura nera, scoperta, della Croce Rossa Internazionale».
Il 28 aprile nel campo regnava l'esultanza: la notizia dell'imminente
liberazione si era sparsa tra i prigionieri.
Ecco quanto scrive Nella Lilli in Mascagni: «Cara mamma e caro papà, oggi è
un giorno meraviglioso : i guardiani delle nostre celle se ne sono andati.
Questa notte dormirò per la prima volta senza il terrore di essere tirata
fuori dalla cella nel cuore della notte, di venir bastonata a sangue o di
essere uccisa. Mi sembra un sogno, quasi troppo bello per essere vero; ma la
mia gioia è stata ancor più grande, oggi nel pomeriggio, perché ho avuto
notizia che Andrea (n.d.a.: A. Mascagni) è sano e salvo. Dio sia
ringraziato. Questa notte dormirò all'aperto perché i tedeschi tinteggiano
le celle ! ! ! ! Forse pensano che la guerra non debba finire mai. (n.d.a.: in realtà il motivo è un altro : far apparire il campo agli occhi dei
delegati della C.R.I. come un campo «modello») (...) Nella».
Il 29 e il 30 gli internati ricevettero un regolare «Entlassungsschein»
(certificato di rilascio), firmato dal comandante del campo.
Per evitare rappresaglie o reazioni da parte dei prigionieri, i tedeschi
provvidero a liberarli a scaglioni, in varie località sufficientemente
distanti l'una dall'altra e dal campo stesso.
Il 30 aprile non era presente nel campo neppure una SS; perciò i detenuti
rimasti si liberarono da soli. Si concludeva così l'odissea degli internati
nel Lager di Bolzano sopravissuti fino alla fine.
Per poter capire quali proporzioni ebbe a Bolzano l'assistenza clandestina,
si legga questo resoconto, spedito da Bolzano dalla signora Turra, a Milano,
a Virginia Scalarmi ; esso è datato 10.5.45: «Cara Virginia, (...).
Ed ora una brevissima relazione sull'assistenza.
Dei fondi ricevuti mi erano rimaste, al giorno della scarcerazione dal
campo, L. 141.551,90, che ho consegnato ad Ada (n.d.a.; A. Buffulini), la
quale ha continuato l'assistenza tra i compagni scarcerati. A lei ho
consegnato pure le 100.000 lire che dovevano servire alla fuga del prof.
Ferrar! (n.d.a.: era stata proposta al professore l'evasione da parte
dell'organizzazione clandestina interna al campo, ma questi l'aveva
rifiutata, ritenendo più importante la sua figura di medico nell'infermeria
del campo), ed un prospettino delle spese sostenute nei mesi di febbraio,
marzo e aprile.
Complessivamente le spese sono queste: per l'assistenza in viveri al Campo
L. 457.098,10; fondi in contanti al Campo L. 146.000; assistenza alle
famiglie L. 47.000; per le fughe L. 31.269,10; per spese varie L. 32.550.
Dal febbraio in poi, tu sai che l'assistenza al Campo è stata assai intensa,
pressapoco 200 pacchi settimanalmente entravano in Campo; qualche settimana
anche di più.
(...) Ora la nostra assistenza continua per i rimpatriati dalla Germania. Le
100.000 di Ferrara ti saranno restituite
dalla Ada, la quale ti darà pure un resoconto delle 141.551 lire che le ho
consegnato. (...) Tua Anita». |
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