|
Melchisedec - mercoledì, 22 febbraio 1967
Caro signor B.,
Le dirò che sono anch’io barthiano (e non buonaiutiano), pur non
appartenendo alla sua scuola E non appartengo alla sua scuola semplicemente
perché non sono un teologo. Nel dichiararmi (adesso, con Lei) barthiano,
questo non significa ch'io lo sia “in toto” né, tantomeno, che lo sia “a
modo mio”. Sarebbe, questa, un'indebita soggettivazione. Nessuno ha il
diritto di manomettere cose altrui, di manipolarle a suo uso e consumo. Per
natura, sono fortemente attratto dalle "cose in sé", ed il mio sforzo
costante è di comprenderle per quel che sono.
Sto parlando di me, solo a titolo d'esemplificazione, ma aggiungo subito
(sempre parlando di me) che mi ripugna anteporre il mio Io alle cose.
Amo profondamente Goethe, il quale mi ha fatto capire che cos'è il “rein
Obiektiv”, la pura obiettività, che nulla ha in comune con lo sterile
obiettivismo storicistico. Sono un marxista convinto ma, anche qui,non “in
toto”, e non integrato.
Ogni dottrina ha il suo tallone d'Achille, il suo punto vulnerabile. Questo
punto vulnerabile è il suo “peccato”. Il "barthismo non sfugge a questa
regola dell’immanenza. Che si dovesse (parlo metaforicamente) usare la
parola di Cambronne all'indirizzo del liberalprotestantesimo subito dopo la
prima guerra mondiale, era sacrosanto. E le "anime belle"? Pur esse non
vanno esenti dal significato di quella parola. Ma il barthismo, con i suoi
forti accenti del dio corrusco, è immanente alla storia e di questa porta i
contrassegni.
Quando guardo in viso ad alcuni giovanissimi barthiani (ormai integrati nel
sistema), e nell’immaginazione li proietto alla distanza di qui a quarant'anni,
me li vedo capi gelosi del futuro 'Vorstand' e, dietro loro, le nuove
reclute dei teologi che dissentono e scalpitano. Non si tratta qui di
“avvicendamento” delle generazioni, dell'abusato cliché dei giovani contro i
vecchi; ma si tratta sempre di quel famoso tallone.
Che una visione della vita rinnovatrice e, quindi, rivoluzionaria debba
essere unilateralmente intransigente, in quanto soltanto in tal modo
si riesce nello spacco e si sfonda (con gli Erasmo non si cambia volto alla
storia, e dei violenti è il Regno dei cieli, e dei tiepidi sappiamo che cosa
e stato detto dall'Alto), è da capire e da intendere anche se,
dolorosamente, in alcune circostanze un qualsiasi Michele Serveto ci rimette
la pelle.
Ma se l'unilateralità e, quindi, la parzialità si conservano
dopo l'avvenuto urto, nel momento in cui fatalmente succede il processo di
decantazione, allora la validissima concezione o dottrina maturatasi nel
periodo nascente - sollecitatrice di energie prorompenti -, si consolida e
si cristallizza in testo sacro tramutandosi in ideologia.
L'incapacità, a volte, degli epigoni di superare l'unilateralità di
una dottrina nei periodi successivi al suo iniziale affermarsi e
dispiegarsi, porta inevitabilmente al conservatorismo il quale, a sua volta,
richiama il sorgere di idee e forze nuove tendenti ad abbatterlo.
I “violenti” (non necessariamente di temperamento focoso), sono gli artefici
delle rivoluzioni (intese queste come apportatrici di nuovi con tenuti
vitali a beneficio della generalità), ma non ne sono i diretti
responsabili per gli eccessi che, a volte, nelle rivoluzioni si
verificano.
I veri responsabili di quanto solitamente si depreca per effetto della
cosiddetta violenza sono coloro che già prima (prima di generazioni)
del momento rivoluzionario usano sistematicamente violenza nei confronti di
coloro che vogliono a ragione, e non a torto, che le cose cambino
(indicando come debbano e possano cambiare) quando queste
palesemente sono cagione di sofferenze inaudite, sofferenze - dobbiamo dirlo
- che sono “contro i voleri di Dio”. Non è poi detto che le rivoluzioni, per
loro natura o per definizione, debbano essere cruente.
Negli anni in cui si concepiva l'“assoluta Alterità” e il “pessimismo
antropologico”, venne fuori - in tutt'altro contesto – “stato e
rivoluzione”. Barth e Lenin non sono coetanei, ma sono contemporanei di quel
clima storico. Con differenti obiettivi, ma con un assalto sostanzialmente
non difforme contro lo “spirito borghese”, la teologia della crisi
nell'ambito protestante, e il leninismo nel movimento operaio, hanno assolto
il proprio.rispettivo compito che tuttora positivamente perdura. Il
barthismo ha arricchito il patrimonio protestante, e il leninismo, del pari,
ha dato un nuovo impulso al marxismo. Ma l'uno e l'altro hanno i
propri limiti.
È Barth un uomo di Dio? lo lo credo fermamente. E l'ateo Lenin? Anche.
Ma non lo sono né Cesare Borgia né Hitler. Ma questi due saranno “salvati”?
Saranno salvati! Qui riposano il “paradosso” e lo "scandalo" che procurano
il voltastomaco alle persone moralissime, prese da vertigini a tale dire.
Dio innalza, sì, il furfante e abbassa l'uomo saggio; ma non già nel senso
che quest'ultimo – “per la Sua imperscrutabile volontà” - può essere
“dannato”, e il primo “salvato”. Può certamente accadere (ma diciamocelo,
non è frequente!) che il saggio degeneri a bruto e il furfante risalga
dall'abisso in cui s'è cacciato, ma ciò - com'è evidente - è tutt’altro
discorso, e nulla ha a che vedere con la pretesa arbitrarietà di Dio.
E se qual che umile mortale, portato a credere che Dio salvi e danni a
capriccio (come gli hanno dato a intendere) pronunciasse in cuor suo un bel
“porco iddio” in tutto tondo, ne possiamo andar certi che questa “bestemmia”
sarà bene accetta al “Padre nostro ch'è nei Cieli”» Bene accetta, perché in
tale bestemmia sta il rifiuto della Sua deformazione.
Lei mi chiedeva se fossi un discepolo (o giù di li) del Buonaiuti: voleva
appiccicarmi un'etichetta? Glielo dico di chi sono discepolo. Appartengo
all'ordine di Melchisedec, re di Salem!
La saluto fraternamente,
Suo
f.v.g. |
|