indietro  |

 

Estratto da
LA MEMORIA E LA STORIA
Alto Adige – Südtirol
Circolo Culturale dell’A.N.P.I. di Bolzano

LA CITTÀ INVISIBILE
Dietro la quotidianità:
testimonianze
di lotta e di libertà

Il campo di concentramento di Bolzano
«Polizeiliches Durchgangslager Bozen»

Al concorso indetto dall'A.N.P.I. di Bolzano, intitolato «LA MEMORIA E LA STORIA» abbiamo pensato di aderire con questo lavoro. Le direttive che ci hanno guidati in questo impegno sono:
1) Raccolta di testimonianze orali, o reperite, di chi, avendo vissuto di persona l'esperienza della Seconda Guerra mondiale è o è stato in grado di attingere dalla memoria; utilizzazioni di vecchie testimonianze.
2) Selezione del materiale acquisito. In tale fase ci ha guidati un criterio di particolare attenzione nei confronti delle esperienze vissute da coloro i quali sono stati internati per periodi più o meno lunghi nel campo di concentramento di via Resia, a Bolzano.
3) Organizzazione del lavoro in modo da dare parte predominante alle vicende personali di chi ha vissuto tale esperienza direttamente, e ne porta tuttora i segni, oltre che nel corpo, soprattutto nella mente. In questa ricerca di microstoria, molto importante per noi l'aver conosciuto in maniera così viva un passato che, letto nei testi scolastici, assume una luce tanto diversa.
Se in principio lo stimolo che ci ha mosso a tale lavoro era semplice curiosità, oggi ci sentiamo di poter affermare, insieme a coloro che ci hanno seguiti ed aiutati con i loro racconti, che lo scopo di questa ricerca, dev'essere quello di non lasciare che la memoria di un passato così denso di insegnamenti preziosi vada smarrita.
Bolzano, 11 Febbraio 1991
David Piccoli Chiara Poznanski
Classe 5a A

Liceo Scientifico «Torricelli» Bolzano

Alla periferia di Bolzano, ai margini del rione popolare delle semirurali denominato di «S. Giovanni Bosco», sorgeva il «Durchgangslager», cioè «Campo di Concentramento di transito».
La sua attività iniziò alla fine del luglio 1944 con l'arrivo di prigionieri evacuati dal campo di Fossoli, vicino a Modena. Per la sua costruzione vennero utilizzati degli hangars per automezzi appartenenti al Genio militare dell'esercito italiano: questi vennero divisi in grandi vani con alcune tramezze e diedero così luogo ai cosiddetti blocchi. Furono allestite anche una cucina ed una tettoia per i servizi igienici. In un tempo successivo furono costruite una vera e propria prigione ed altre baracche. Gli internati venivano contraddistinti, oltre che con il numero di matricola, con un triangolo di stoffa colorato: rosso per i politici, verde per gli ostaggi, rosa per i rastrellati. Gli ebrei dovevano invece portare cucita sulla divisa una stella gialla.

Una ricerca di Laura Conti, medico di Milano partigiana internata, tuttora vivente, individua tra gli internati la seguente composizione:
A) BAMBINI: ebrei, zingari gitani o slavi, in un blocco, con le madri;
B) DONNE: erano mogli, madri o parenti di partigiani o di ricercati politici, politiche o partigiane esse stesse, ebree di ogni nazionalità, zingare, ed anche prostitute o ladre. Il gruppo delle donne fu sempre più unito di quello degli uomini.
C) UOMINI: costituivano il gruppo più numeroso e, a causa della divisione in blocchi e delle continue deportazioni, meno unito. Erano partigiani, disertori, rastrellati, politici, ebrei, ufficiali italiani leali al re, agenti segreti alleati ed anche zingari, ladri o contrabbandieri.
In generale il campo di Bolzano fu di smistamento, tappa intermedia ai massacri di Auschwitz, Mauthausen, Dachau, vi passarono almeno 12.000 persone, stimate per difetto, per il fatto che uno stesso numero di matricola veniva assegnato successivamente a più di un prigioniero nel susseguirsi degli arrivi e delle partenze. Altre stime fanno ammontare a circa 30.000 il numero di coloro che furono internati nel Lager di Bolzano. L'amministrazione del Lager era affidata a due comandanti delle «SS», tenente Tito e maresciallo Haage, alle cui dipendenze era un gruppo di militari, anche SS, tedeschi, sudtirolesi, ucraini.
Essi tendevano a demandare parte delle questioni organizzative agli stessi detenuti, che ogni giorno dovevano relazionare sulla situazione. Le «SS» si proponevano in tal modo di fomentare tra gli internati sospetti e diffidenze, ma l'organizzazione clandestina interna valse a contrastare decisamente questo loro proposito. L'organizzazione interna priva di contatti con l'esterno, era nata ad opera di detenuti operanti nel campo di Fossoli prima dell'estate '44. Uno degli obiettivi che questi temerari si erano proposti consisteva nel fare un censimento della popolazione del campo e di tenerlo costantemente aggiornato. Inoltre essi soccorrevano i detenuti più provati.
Tra gli appartenenti a tale gruppo ricordiamo: le dottoresse Buffulini, Laura Conti, il dott. Bartellini e Armando Sacchetta. Va ricordato che le provincie di Bolzano, Trento, Belluno vennero di fatto annesse al Reich dopo 1'8 settembre 1943 e costituirono una delle due «zone d'operazioni», assoggettate all'autorità tedesca. La prima, che comprendeva le tre provincie di Bolzano, Trento e Belluno venne denominata Operationszone Alpenvorland Zona d'Operazione delle Prealpi; la seconda fu la Operationszone Adriatisches Kustenland Zona di operazione del Litorale Adriatico. Scrive a questo proposito Happacher (L. Happacher, II Lager di Bolzano. Trento 1979)' «A differenza di quanto avvenne nel resto dell'Italia occupata, dove, almeno formalmente, la Repubblica Sociale Italiana poteva esercitare una sua autorità, il regime di occupazione tedesco cancellò ogni forma di autorità centrale italiana nelle due zone di Operazione, stabilendo di fatto, se non di diritto, l'annessione di questi territori al Reich e provocando reazioni da parte della R.S.I.
Preoccupazione del Gauleiter del Tirolo, Franz Hofer, fu subito quella di alzare una cortina protettiva a difesa dei confini dell'Alpenvorland da intromissioni della R.S.I. Né persone, né informazioni potevano entrare nell'Alpenvorland, neppure se fasciste, senza l'autorizzazione delle autorità locali. L'Alpenvorland veniva progressivamente a configurarsi come un'isola sotto il diretto e totale controllo del Commissario Supremo; l'Adriatisches Kunstenland, seppure in misura minore, subiva la stessa sorte. Non casuale sembra quindi la presenza dei due maggiori campi di concentramento in Italia nelle rispettive «capitali» delle Zone di Operazioni: Bolzano e Trieste. La sede migliore, cioè, per un campo di concentramento, era quella che permetteva ai nazisti di contare non solo sul diretto controllo del campo, come avvenne a Fossoli, ma anche sulla garanzia che dava loro il possesso del territorio circostante».
Enrico Pedrotti (trentino residente a Bolzano, fu uno dei promotori della Resistenza in Alto Adige. Catturato dalla Gestapo nel dicembre 1944, venne internato nel campo di concentramento, nelle celle dei pericolosi, e sottoposto a torture) in un suo scritto pubblicato molti anni addietro dice in proposito che in effetti il Lager fu creato in una situazione ideale, dato che «un Lager in Italia non avrebbe certamente avuto vita facile, malgrado le S.S.».
Il Lager di Bolzano, l'inizio delle cui attività è da fissarsi secondo Ada Buffulini (medico di Milano, internata al Lager di Bolzano, scomparsa nel luglio 1991) alla fine luglio del 1944, fece, secondo Pedrotti, «pienamente onore» ai suoi ideatori nazisti. Riuscì infatti a convogliare, dal '43 al '45, secondo certe stime, intorno ai 30.000 italiani, dei quali il 90%, avviati via via ai campi di sterminio specializzati di Dachau e Mauthausen, non fece più ritorno.
Nell'articolo sopra citato Pedrotti ricorda che la «consegna» dei detenuti veniva fatta alle S.S. del Lager in gran parte dai camerati fascisti della vicina Repubblica di Salò: «Li abbiamo visti coi nostri occhi, i fascisti, portare nel Lager gruppi di compatrioti, di partigiani laceri e feriti e darli in mano alle S.S. naziste, che come prima accoglienza li cacciavano a pedate con la faccia rivolta contro il muro d'ingresso per fare l'appello».
I capitoli centrali dell'opera di Happacher riguardano la popolazione del campo, nelle sue suddivisioni, secondo le motivazioni determinanti l'arresto, la deportazione e l'internamento, e 1' organizzazione del campo, sia quella ufficiale che quella clandestina.

L'ORGANIZZAZIONE DEL CAMPO

Dopo la chiusura del Campo di Fossoli, con la brutale strage, i primi internati del campo di Bolzano furono, per l'appunto gli internati di Fossoli, tra i quali anche alcuni fascisti «di fronda»: non si è appurato, a quanto finora risulta, per quale ragione essi fossero internati, se per reati comuni o se come essi sostenevano, perché una posizione politica «frondista» li rendesse infidi ai nazisti o a qualche formazione fascista.
Il campo continuò poi a funzionare come luogo di raccolta e di smistamento dei prigionieri partigiani e politici provenienti dalle carceri dell'Italia occupata dai nazisti: gli internati provenivano principalmente dalla Liguria, dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto, dal Friuli, dall'Emilia. I convogli si susseguirono, in treno e in camions militari, fino al marzo del '45, con un ritmo, all'incirca mensile o bimensile. Il convoglio di marzo diretto ai campi di concentramento in Germania ritornò indietro per l'impraticabilità della ferrovia. Da quell'epoca per i continui arrivi a Bolzano di nuovi prigionieri il campo si trovò'ad ospitare molte più persone di quante ne potesse contenere.
Nei blocchi ricavati dagli ampi capannoni con lunghe fila di «castelli» (una specie di giacigli sovrapposti), venivano ammassati i detenuti:
un tavolato, un sacco di trucioli, un paio di coperte. Quando andava bene vi era disponibile l'intero pagliericcio. In condizioni normali il Lager di Bolzano poteva accogliere qualche centinaio di detenuti. Ebbene, i nazisti riuscirono a farcene stare oltre 3.500, nei periodi precedenti alle deportazioni in Germania. Ammassati in tre, in quattro per tavolaccio in condizioni inenarrabili. Nel blocco delle celle, che poteva contenere al massimo 80 persone, ne vennero ammassate fino a 150 circa.

LA RESISTENZA INTERNA

Secondo Laura Conti, nella citata ricerca, «... resistenza interna e resistenza esterna furono strettamente collegate: l'una non avrebbe potuto far nulla, o quasi nulla, se non fosse esistita l'altra. La resistenza esterna fu organizzata da un gruppo di persone residenti a Bolzano, che decisero di aiutare gli internati.
La resistenza interna aveva la sua base in un'organizzazione clandestina piuttosto rigida, che si richiamava ai criteri organizzativi dei Comitati di Liberazione Nazionale, sulla base della cooperazione tra i diversi partiti.
La vita clandestina del Lager era difatti guidata da un comitato; ad esso facevano capo i rappresentanti di ogni baracca; l'organizzazione andò perfezionandosi, anche formalmente, a tal punto che vennero distribuite anche tessere d'iscrizione ai partiti e salvacondotti del C.L.N.. A coloro che al momento dello scioglimento del campo avrebbero assunto responsabilità direttive vennero distribuiti bracciali e distintivi, al fine di facilitare il servizio.
Di preciso si sa anche che vennero preparate numerose evasioni con diversi sistemi: particolarmente fughe dai luoghi di lavoro, o dai vagoni ferroviari dei convogli in partenza per la Germania.
L'insieme di queste attività ebbe, secondo Laura Conti, non solo «il significato di una lotta per la sopravvivenza, ma il significato integrale di ogni lotta della Resistenza». Il comando SS riuscì a scoprire alcuni dei segreti di Bolzano: di conseguenza numerosi i catturati. Riportiamo alcuni passi della «testimonianza» di Enrico Pedrotti pubblicata nel 1964:
«Tra il 15 e il 20 dicembre 1943 l'organizzazione del C.L.N. clandestino di Bolzano venne catturata quasi al completo, inizialmente Manlio Longon e don Daniele Longhi, quindi Rinaldo Dal Fabbro e molti altri. Lo sapemmo subito e sarebbe stato facile non farci prendere a nostra volta. Eravamo già avvertiti dalle nostre staffette che ci avevano cercati. L'attesa non durò molto; li sentii salire per le scale. I nazisti avevano un passo inconfondibile; suonarono alla porta... Mi portarono al Corpo D'Armata ... poi giù, fino ad una grossa porta sprangata, poi giù ancora, attraversando un lungo corridoio con i grossi tubi delle caldaie. A sinistra un passaggio con quattro porte di ferro, quattro celle tristemente famose. Mi aveva trattenuto il timore per la famiglia. Mi rinchiusero nell'ultima... Mi sedetti e attesi in perfetto silenzio ... Eppure avvertivo delle voci, come da lontano: ascoltai meglio, non riuscivo a seguire le parole. Mi buttai per terra con l'orecchio il più vicino possibile alla fessura sotto la porta ... Ero teso come una corda, quella voce la conoscevo: era «Angelo», Manlio Longon (Manlio Longon, presidente del C.L.N. di Bolzano, uno dei maggiori organizzatori della Resistenza in Alto Adige, in collegamento con il C.L.N. Alta Italia di Milano. Catturato nel dicembre 1944, fu lungamente torturato, quindi ucciso. Medaglia d'oro al valor militare.)... Mi rimaneva poco tempo, ormai, e chiamai forte: «Angelo, sono Marco» ... Riuscimmo a stabilire un dialogo serrato ... Presto sarebbero venuti a prendermi ... Dovevo «sapere» il più possibile .... Seppi così tutto quello che conoscevano di noi e quando gli stivali rimbombarono sul cemento armato fino alla mia cella, Angelo ebbe ancora il tempo di gridarmi «coraggio Marco!» ... Qualche giorno dopo, la vigilia di Capodanno, Angelo venne portato al Corpo d'Armata ... Lo uccisero sotto interrogatorio, simulando la beffa di un suicidio. Tutti noi del blocco celle avemmo la triste percezione di ciò che era accaduto la stessa notte dell'assassinio. «Angelo» non rispose più ai nostri richiami, mai più avrebbe risposto. La mattina di Capodanno 1945 l'SS Mann Otto (Otto e Misha, due spietati guardiani, ventenni, erano SS ucraini di origine tedesca, «promossi» alle loro indicibili gesta dalla reclusione in un riformatorio per giovani delinquenti) cantava a squarciagola: Cantava sempre Otto, quando morivano quelli delle celle».
La rete dell'organizzazione interna, riferisce Laura Conti, non venne invece mai scoperta, ma si tenne miracolosamente in piedi fino all'ultimo. Laura Conti cita il nome di coloro che a Bolzano si prodigarono nell'opera di collegamento con il Lager e particolarmente a favore di quelli che riuscivano ad evadere:
Mariuccia Visco-Gilardi e Maria Pedrotti, i cui mariti erano rinchiusi nel blocco-celle, Franca Turra, Margherita Bonvicini, Fiorenza e Vito Liberto, Luigi Rocco Biamino ed i dirigenti di allora delle fabbriche Acciaierie, Magnesio e Lancia, tutti di Bolzano.

FERDINANDO VISCO GILARDI E L'ORGANIZZAZIONE DELL'ASSISTENZA

Con la morte di Longon, il C.L.N. bolzanino riceveva un duro colpo e doveva rinunciare alle azioni di guerriglia e di sabotaggio, anche per la impossibilità di sostegno da parte della popolazione locale.
Continuava, invece l'opera di salvataggio ed assistenza degli internati del campo di concentramento. Tra coloro che si prodigarono in questa attività Ferdinando Visco Gilardi. Gianni Bianco in una rievocazione di anni addietro così ne delinea la figura: «Gilardi, milanese di nascita, s'era stabilito dal 1940 a Bolzano, ma aveva mantenuto amicizie e contatti nel capoluogo lombardo.
La sua maturazione politica e spirituale (Gobetti era stato il faro più luminoso per la sua giovinezza) aveva formato in lui il terreno adatto perché germinasse il seme della Resistenza: la Resisenza venne a lui per il canale milanese che gli fornì indicazioni e mezzi per organizzare la assistenza e le fughe di reclusi nel Lager di Bolzano.»
Vengono poi descritti i contatti tra Gilardi e la «centrale» milanese, dato che, per ragioni di sicurezza, era opportuno avere scarsi rapporti con i gruppi locali: «I contatti tra Gilardi e la centrale milanese, principalmente con Lelio Basso, vennero stabiliti attraverso i viaggi di due donne, Virginia Scalarmi e Gemma Bartellini. Furono esse a rifornire Gilardi di generi alimentari e capi di vestiario, per gli internati, materiale spedito in casse a Bolzano con la collaborazione dell'allora direttore delle Acciaierie, ing. Ventafridda, che mise a disposizione i trasporti per conto della fabbrica bolzanina da Milano: sui camions, in mezzo alla mercé legale, c'era anche quella destinata al Lager ...
La via dei pacchi divenne dunque anche la via dei messaggi clandestini in entrate ed in uscita, che consentirono di preparare le fughe dei detenuti: in quest'opera furono validi collaboratori di Gilardi due idraulici che avevano ogni tanto accesso al campo per eseguirvi lavori, Degasperi e Brunelli, nonché le internate, come già ricordato, dottoresse Ada Buffulini, medico consultore al campo, Laura Conti, ambedue milanesi. Le fughe potevano essere organizzate o favorite. Nel secondo caso si trattava di fornire subito ai fuggiaschi documenti falsi, vestiario, denaro, cibo e ospitalità per i primi giorni. Il danaro arrivava in sufficiente quantità da Milano, assieme a carte d'identità in bianco, che poi Gilardi riempiva con generalità false e le foto dei fuggiaschi. Inoltre venne trovato un certo numero di famiglie italiane di Bolzano che si prestavano spesso più in uno slancio di umanità e solidarietà, che per impegno politico, ad ospitare i clandestini. Infine venivano organizzati i trasporti per Milano. Per le evasioni preparate dall'esterno questa fase doveva essere preceduta da altre più rischiose:
si dovevano stabilire l'ora e le modalità della sortita, far trovare al fuggiasco un mezzo di trasporto, in genere una bicicletta, nei pressi del Lager e quindi indicargli il primo rifugio utile. Numerose furono le fughe di questo tipo organizzate da Gilardi prima del suo arresto. Gilardi cadde nelle mani dei nazisti il 19 dicembre 1944. È perfettamente nota la sua sorte: il trasferimento al Corpo d'Armata, l'interrogatorio da parte del maggiore Schiffer. Fin dalle prime battute Gilardi si rese conto che Schiffer sapeva ben poco di lui e quel poco favoriva la sua posizione, nel senso che egli appariva, anziché un resistente, un filantropo, che si era dedicato ad aiutare gli internati. Gilardi lo assecondò in questa sensazione... Si costruì pertanto una serie di ammissioni da rilasciare, tali da confermare quanto era probabile che i nazisti già sapessero sulla sua attività, senza peraltro compromettere altre persone reali, integrandole con una serie di fatti del tutto inventati, ma molto verosimili. Il tutto da riferire poco a poco, sotto forma di confessione strappata e non volontaria. Nonostante ciò non gli fu risparmiata la tortura, le cui fasi sono descritte negli stessi verbali d'interrogatorio che tra maggio e giugno del 1945 vennero resi in Bolzano da Christa Roy, segretaria ed amante del «boia di Bolzano», il citato maggiore delle «SS» Schiffer, il quale aveva trasformato i sotterranei del Corpo d'Armata in uno dei più spaventosi luoghi di sofferenza.
Gilardi stesso ricorderà le atrocità subite, dalla tortura allo «spiedo» (legato all'asta di ferro, il suo corpo veniva fatto ruotare e percosso a nerbate che gli strappavano la pelle) fino alla tortura degli elettrodi (alle tempie gli venivano applicati due elettrodi e lo stesso maggiore azionava la corrente elettrica, onde renderla progressivamente più intensa).
Dopo alcuni giorni Schiffer si convinse e prese per buone le ammissioni fasulle o comunque innocue che Gilardi aveva fatto sotto tortura;
gliele fece mettere per iscritto e lo inviò al Lager, in cella di segregazione. Nel campo Gilardi potè constatare che la sua organizzazione funzionava ancora. E fu in grado così di continuare il lavoro. Attraverso la «bocca del lupo» della cella Gilardi poté mettersi in comunicazione con gli altri ed avvertirli di quanto lui aveva detto alle «SS», perché non lo contraddicessero e perché non si lasciassero a loro volta mettere in trappola. Riuscì persino a far avere una lettera a sua moglie, fornendole tra l'altro indicazioni sull'assistenza agli evasi dal campo che si trovavano ancora in città ed una all'ingegnere Ventafridda, direttore delle «Acciaierie», perché avvisasse gli amici di Milano della situazione e della sua cattura. Pur restando segregato, potè allacciare contatti con Laura Conti, con Nella Mascagni, con il professor Leoni, Dal Fabbro e Pedrotti, detenuti al pari di lui.
Vi rimase per quattro mesi, testimone dei quotidiani misfatti delle «SS», la cui ferocia pareva accrescersi, paradossalmente, di fronte all'imminenza, che tutti percepivano, della disfatta.
La sera del 28 aprile si diffuse nel campo la notizia che erano in corso trattative tra la Croce Rossa Internazionale e il Comando del Campo per la liberazione degli internati. La sera stessa si tenne una riunione del CLN clandestino del campo e fu scartata la possibilità che era stata ventilata tempo prima, di una rivolta degli internati disarmati contro le SS che li custodivano.
Gli internati ricevettero un regolare Entlassungsschein, firmato dal comandante del campo e con questo furono rilasciati. Il 30 aprile, dopo gravi peripezie degli ultimi giorni, che fecero temere a tutti il pericolo di una imminente fine, la Croce Rossa Internazionale, entrata dalla Svizzera, trovò modo, pur tra incessanti difficoltà, di sbloccare la situazione
.

Testimonianze dal «Campo»
(Continua la ricerca Piccoli-Poznanski)

Orali: hanno il grande valore dell'immediatezza, del provenirci direttamente da chi ha vissuto certe esperienze in prima persona. Questa, oltre ad essere la caratteristica che le rende così preziose ed interessanti, ne rappresenta pur il limite maggiore. Innanzitutto per l'inevitabile soggettività di chi testimonia e porta su di sé i segni fisici e psicologici di un passato seppur così lontano. Poi per quella che è un 'inevitabile censura che la memoria applica ad ogni dato che in lei risiede ed in particolare su avvenimenti così dolorosi e traumatici, incidendo talvolta anche considerevolmente, a livello inconscio, sulla realtà. Così avvenimenti possono essere rimossi o «arricchiti» di particolari. In questo genere di analisi ci si scontra poi spesso con quella che pare essere una strana tendenza, insolitamente diffusa tra le persone che hanno vissuto la seconda guerra mondiale: quella di voler insabbiare e dimenticare fatti tanto dolorosi. Fattore questo che potrebbe forse portare a reticenze più o meno volontarie.
Scritte: potenzialmente potrebbero essere le più valide tra tutte. Si tratta di lettere, cartoline, biglietti scritti in quel tempo, che avrebbero il solo limite della inevitabile parzialità (limite, questo, che se riconosciuto con un'attenta analisi, potrebbe in realtà fornire oggi ulteriori, preziose informazioni). Purtroppo, però, le lettere da noi raccolte di internati del campo di concentramento di  Bolzano hanno rivelato un certo scrupolo, un timore a parlare troppo realisticamente di ciò che in esso accadeva; una rigida censura vagliava ogni messaggio e, oltre a cestinare quelli giudicati illeciti, provocava dure punizioni verso chi trasgrediva alle regole. Per quanto riguarda poi i biglietti usciti illecitamente, vi si trovano solo vaghi accenni alle reali e crudeli vicende di vita nel Lager, in quanto i prigionieri cercavano più che altro di fare elenchi di cose di cui abbisognavano e di tranquillizzare le famiglie, evitando loro i particolari più degradanti della loro condizione.


Testimonianza di LUIGI GATTI di Bolzano

Luigi Gatti, detto «Cianci», persona molto nota a  Bolzano, è nato a Innsbruck nel 1920, da madre svizzera e padre italiano. È stato per numerosi anni insegnante di lingua italiana nelle scuole medie di lingua tedesca. Ha svolto e tuttora in parte svolge attività nel campo dello spettacolo e dell'intrattenimento

.
Quando è stato arrestato e perché?
Fui catturato i primi di gennaio a Bolzano. Mi avvicinarono due persone in borghese, che poi si rivelarono per due SS. Mi condussero al loro ufficio di Gries e da lì al Corpo d'Armata. Mi arrestarono perché ero disertore della Repubblica di Salò. I repubblichini invece di mandarci al fronte contro l'avanzata Anglo-americana, avevano deciso di impiegarci in rastrellamenti contro i partigiani: compito ignobile che io non potevo sopportare. Ma i nazisti ritennero di aver preso una staffetta o un emmissario del C.L.N. Per tre giorni al Corpo d'Armata mi sottoposero a sevizie. Cercarono di estorcermi confessioni, ma io non ero in grado rispondere anche se avessi ceduto, perché in realtà non sapevo niente. Ogni tanto svenivo. Le sevizie consistevano nell'attorcigliare fili elettrici dietro le orecchie e far passare la scossa più forte dopo ogni domanda. Durarono tre giorni le torture e le bastonature. Non ottenendo, ovviamente, nessun risultato, mi inviarono nel carcere di Via Dante. Da lì al Lager di Bolzano, dove fui assegnato al blocco K. Ricordo solo che quelli del blocco degli ostaggi erano trattati meglio. Potevano comunicare con l'esterno, ricevere pacchi, portati da qualcuno in portineria.


Come erano trattati gli ebrei?
Non potrei dirlo, penso che venissero trattati come tutti gli altri. La domenica quando c'era un'ora o due di passeggiata si potevano vedere. Certo per loro il destino era più oscuro perché destinati ai Lager in Germania. Analoga sorte toccava ai politici. Anch'io dovevo seguire quella sorte, ma grazie ai continui bombardamenti sulla linea del Brennero il mio convoglio non partì. Rimanemmo fermi nel carro merci cinque o sei giorni logicamente senza mangiare. Eravamo in 50 dentro un vagone. In campo parlavamo fra di noi molto raramente:
non avevamo nulla da dirci. Il servizio sanitario era controllato dalle guardie. Le persone che uscivano per andare a lavorare avevano modo di comunicare con l'esterno. Certe volte portavano dentro sigarette, biglietti, qualche cosa da mangiare.

Vorremmo sapere della sua giornata, a che ora si alzava, cosa le portavano da mangiare, se lavorava?
La mattina molto presto dovevamo saltare già dal giaciglio a castello che arrivava anche a tré piani. Questi letti erano di legno e sprovvisti anche del pagliericcio. Seguiva l'adunata, se la memoria mi aiuta; con precisione ricordo che l'adunata si faceva anche la sera prima di rientrare nei blocchi. Dal campo uscivano le squadre che andavano al lavoro, gli altri rimanevano dentro. Verso mezzogiorno ci portavano la minestra di cavoli e qualche volta un pezzo di patata. Non vi era colazione. Forse qualcuno stava meglio, questo dipendeva dalla guardia più o meno ligia. Una sera, spinti dalla fame, i miei compagni arrivarono a farsi la minestra con la segatura, che serviva per il riscaldamento della cella. Una famiglia a me molto cara, i Nulli (La famiglia Nulli, di Iseo, era legata di stretta amicizia a Rino Gatti, pure di Iseo, padre di «Cianci». I Nulli erano stati arrestati per aver favorito partigiani della Val Camonica), mi fece avere attraverso il capo campo, delle polpette che io poi divisi con i miei compagni. I Nulli, che appartenevano al blocco ostaggi, avevano una radio clandestina con la quale potevano ricevere radio Londra. Secondo una notizia che mi venne riferita, il blocco degli ebrei era il più litigioso. Alla sera, all'appello, bisognava uscire in fila ben inquadrati. C'era il comando «Cappelli giù». Possedevamo infatti chi uno straccetto, chi un berretto, chi un passamontagna. Eravamo rapati a zero, ma per distinguerci dagli altri, noi politici avevamo una striscia di capelli in mezzo alla testa che ci rinnovavano ogni due o tré giorni. Un mio compagno che non aveva obbedito all'ordine «cappelli giù» fu picchiato a sangue da un certo Cologna (Cologna era un sudtirolese, guardiano del campo, appartenente alla «Gendarmerie»)
Ancor oggi suscita in me una certa impressione il ricordo dei pidocchi. Ve ne erano a manciate e non eravamo in grado di liberarcene in nessun modo. Ci furono tentativi di fuga riusciti. Sarei potuto scappare anch'io, ma sapevo che avrebbero preso i miei genitori come ostaggi. L'aviazione alleata cercò di colpire con una bomba il campo per farci fuggire ma il suo tentativo fallì.

Testimonianza di NELLA MASCAGNI

Fu arrestata nel novembre del '44 a Cavalese e trasferita alle carceri di Trento, dove rimase fino a pochi giorni prima del Natale '44. La lasciarono libera nella speranza che qualche compagno di lotta prendesse contatto con lei: i nazisti avrebbero avuto modo di arrestare altri partigiani. Questo, per fortuna, non si verificò. Fu nuovamente arrestata nel febbraio del '45 e internata nel campo di concentramento di via Resia, a Bolzano, dove rimase fino alla liberazione, che avvenne alla fine dell'aprile dello stesso anno.
La signora Mascagni era staffetta di una formazione partigiana che operava in vai di Flemme; quando la formazione dovette sciogliersi, a seguito di un rastrellamento compiuto dalle «SS», i superstiti si trasferirono in vai di Non e si unirono ad altre forze partigiane, operanti in quella zona, dove agiva anche una missione radio alleata, la «VITAL» che con la trasmittente si era installata in una grotta sopra il lago di Molveno. La rice-trasmittente era fatta funzionare dall'R.T. Brunetti, paracadutato assieme alla radio, affiancato in questo suo compito dai partigiani, anzitutto da Enrico Pedrotti e Andrea Mascagni.
Il compito di una staffetta era quello di portare ordini, di tenere i contatti tra le varie formazioni in montagna e il comando del C.L.N. che operava clandestinamente a Trento e a Bolzano. Aveva anche il compito di trasportare armi, munizioni, viveri ed informazioni.

Tra giugno e dicembre del '44 tutti i dirigenti della resistenza trentina e bolzanina furono catturati, a Trento per delazione di un traditore, a Bolzano per una spietata sorveglianza nazista alla quale il CLN e i suoi collaboratori non riuscirono a sottrarsi.
Il campo si presentava diviso in due grossi blocchi che un tempo ospitavano gli automezzi del Genio Militare. Al centro, fra i due blocchi, i nazisti avevano costruito una serie di baracche adibite ad infermeria, cucina, lavanderia e docce. Trasversalmente a questa serie di costruzioni, parallelamente al muro di cinta del campo, fu costruito il «Blocco-Celle» che ospitava intorno a 150 prigionieri, i quali, non essendo stati ancora processati, erano a disposizione delle «SS». In questo Blocco Celle visse per tutto il periodo dell'internamento la signora Mascagni. Nei blocchi vivevano partigiani e prigionieri politici provenienti da altre carceri italiane o dal campo di concentramento di Fossoli, che fu smobilitato all'avvicinarsi delle truppe alleate alla Linea Gotica. I due comandanti del campo di Fossoli divennero così comandanti del campo di Bolzano.
Della vita che si svolgeva nel campo la signora Mascagni poté sapere ben poco, perché, come tutti gli internati delle celle, visse un lungo periodo di segregazione in una cella da cui usciva solo per essere portata agli interrogatori, su un furgoncino nero senza finestrini, al Corpo d'Armata, dove era il comando della Gestapo. Se gli interrogatori non erano troppo cruenti l'internato tornava al campo, mentre se veniva torturato e seviziato rimaneva alcuni giorni nelle celle dei sotterranei del Corpo d'Armata.
I prigionieri del Blocco-Celle, e con loro la signora Mascagni, potevano uscire ogni giorno all'aria per 20 minuti, ma non avendo alcun diritto al lavoro dovevano trascorrere il resto del giorno nella loro cella (m. 2,50x1, 50), quasi impossibilitati a muoversi perché la maggior parte della cella era occupata dal letto a castello. Il blocco celle ospitava quasi esclusivamente prigionieri politici, partigiani e ostaggi.
C'era, anche un piccolo blocco di ebrei, sempre poco popolato perché essi venivano mandati regolarmente, dopo una breve permanenza a Bolzano, in Germania, nei campi di sterminio. I prigionie! dei blocchi, sia uomini che donne, lavoravano all'esterno del campo stesso. Uscivano la mattina all'alba in piccole squadre, con la divisa a righe degli internati, per essere portati nei vari luoghi di lavoro: le donne lavoravano nella galleria del Virgolo, dove era sfollata la ditta «I.M.I.» di Ferrara che costruiva cuscinetti a sfere, oppure erano destinate alla pulizia delle caserme, delle abitazioni dei vari ufficiali nazisti, o ancora venivano impiegate nella sartoria del campo. Gli uomini erano addetti alla falegnameria del campo, alla rimozione delle macerie dopo i bombardamenti, e al pericoloso disinnescamento delle bombe inesplose. I lavoratori esterni erano i più fortunati, perché dalla popolazione italiana delle Semirurali ricevevano aiuti per il loro sostentamento. Gli internati dei blocchi vivevano però sempre con l'incubo delle «chiamate», che per loro rappresentavano la deportazione in Germania.
La vita nelle celle d'altronde era un inferno per la tensione continua, la mancanza di movimento, l'incubo degli interrogatori e il terrore continuo delle «morti notturne»; naturalmente anche i bisogni corporali venivano soddisfatti nella cella, dove i detenuti avevano a disposizione un recipiente di latta, detto «bugliolo». Nelle celle si conosceva anche la fame più nera, perché, diversamente da quanto accadeva a coloro che lavoravano all'esterno del campo, i detenuti delle celle non potevano ricevere alcun aiuto dalla popolazione, e perciò erano costretti a subire il più duro razionamento di cibo.
La generosità di tante persone libere non si limitava solo all'aiuto alimentare. Accadeva spesso che si facessero tramite fra i detenuti e i loro parenti, fornendo notizie e facendo pervenire lettere. Preziosa fu l'opera dei ragazzini di 13-14 anni, che riuscivano ad intrufolarsi tra le squadre di lavoro per «recapitare» biglietti, messaggi, lettere od altro. La giornata nel campo per gli internati nei blocchi cominciava assai presto con il famoso «appello» per controllare eventuali evasioni. Volutamente gli internati erano lasciati a lungo in piedi con il ghiacciò, la neve, la pioggia; poi venivano fatti rientrare e ricevevano una tazza «di liquido nero». Il loro cibo consisteva in una minestra di rape o verze ed un pezzo di pane nero sia a pranzo che a cena. Per gli internati delle celle il cibo era più scarso, in quanto essi, secondo i carcerieri, «non producevano», e consisteva in una tazza di liquido nero senza zucchero all'alba, in un mestolo di piselli o ceci lessati senza sale a pranzo. Sulla superficie della «minestra» navigavano strani vermiciattoli. Verso le sedici veniva distribuita una pagnottella piuttosto piccola di pane spesso raffermo od ammuffito, e il pasto serale ricalcava quello del mezzogiorno.
Verso i primi di aprile, anche per gli internati delle celle cominciarono ad arrivare i primi pacchi del comitato di assistenza al campo (per la verità molto pochi anche perché trattenuti dai «padroni» del campo) e quelli dei familiari.
L'assistenza al campo era stata organizzata nel 1944, per la precisione nella tarda estate del '44 su iniziativa di Lelio Basso alto esponente politico di Milano e, a Bolzano, da Ferdinando Visco-Gilardi, che riuscì a coinvolgere un considerevole numero di patrioti locali.
Un compito fondamentale della Resistenza a Bolzano fu quello di aiutare ed assistere gli internati del campo non solo con viveri e vestiario, ma anche organizzando le fughe. Tutte le fughe sono state infatti possibili grazie a quel meraviglioso gruppo di partigiani che si sono prodigati fino al limite delle loro forze, alcuni dei quali hanno sacrificato la loro vita ed altri sono finiti nello stesso lager di Bolzano:
Manlio Longon, ucciso al Corpo d'armata, Visco-Gilardi e Dal Fabbro, torturati e seviziati. Ed ancora Franca Turra, i coniugi Liberio ed altri ancora.
La dottoressa Laura Conti di Milano, internata nel Lager, teneva il collegamento con la signora Turra, la famosa «Anita», facente parte del comitato di assistenza al campo per organizzare fughe di personaggi politici che sarebbero sicuramente stati destinati alla deportazione, e quindi a morte sicura. Le fughe avvenivano con difficoltà ma sempre con la preziosa collaborazione degli abitanti delle Semirurali, veramente degni di ammirazione nel rischiare le rappresaglie dei nazisti, ospitando anche per più giorni i prigionieri evasi. Questi venivano poi prelevati dai compagni delle cellule partigiane della «Lancia» e, per mezzo di camion che da Bolzano tornavano a Torino, raggiungevano le formazioni partigiane del Piemonte.
Nella Mascagni sottolinea ancora una volta come questa «resistenza senza armi» sia stata fondamentale per la vita e la sopravvivenza degli internati: molti di questi eroici operai delle fabbriche hanno pagato con la vita la libertà altrui: infatti Beretta, Degasperi, Ferrari, Frattini, Masetti, Meneghini e Trevisan furono catturati, inviati nel campo di Mauthausen, da dove non sono più tornati. Di Degasperi rimane un biglietto alla moglie, biglietto fatto passare attraverso lo spioncino del vagone merci del treno che lo portava in Germania. Il centro di raccolta degli aiuti che giungevano a Bolzano dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia di Milano era la chiesa di Cristo Re. Qui i responsabili dell'assistenza al campo con l'aiuto di civili antifascisti e degli stessi padri Domenicani confezionavano i pacchi per gli internati. In verità al blocco celle ne pervennero molto pochi, perché gli internati di questo blocco solo raramente potevano avere contatti con gli altri internati, essendo sempre guardati a vista, durante il passeggio, da «SS» armate.

Nella Mascagni precisa che il primo pacco ricevuto, contenente pane, mele e polvere antisettica veniva dal Vescovo di Belluno. Per quanto riguarda i suoi contatti con la famiglia, fu aiutata da un suo ex scolaro della polizia trentina che a volte entrava per servizio nel Lager. Tre o quattro volte riuscì a dargli un biglietto da consegnare ai genitori. C'era anche una via regolare per scrivere ai familiari, che imponeva lettere chiaramente false sulla realtà che gli internati stavano vivendo; lettere che venivano regolarmente censurate.
Durante la sua permanenza al campo la Signora Mascagni ricorda di una tentata fuga di due detenuti, non riuscita e della conseguente punizione: un pestaggio tale da causare la morte dei due internati. Oltre che di episodi agghiaccianti di sofferenze e soprusi, la signora parla pure di esempi di grande solidarietà tra gli internati, i quali, uniti dallo stesso ideale, si scoprivano più vicini che mai nel dolore, nell'angoscia e nel bisogno.
Molte volte le donne si sono rivelate dotate di grande coraggio. A questo proposito è emblematico l'episodio di Tea Palman, staffetta di una formazione partigiana nel Bellunese, già processata e condannata, che, per aver fatto pervenire un biglietto compromettente fuori del campo, caduto in mano alla Gestapo, fu portata al Corpo d'Armata, sede della Gestapo, picchiata selvaggiamente per giorni e notti. Venne ricondotta in cella in uno stato pietoso. Alla signora Mascagni, che chiese ai guardiani un po' d'acqua per alleviare le sofferenze della compagna, fu risposto che l'acqua non c'era, ma c'era sempre l'orina. Gli ultimi quindici giorni di prigionia Nella Mascagni fu incaricata del compito di «scopina» delle celle, cosa che le procurò il grande vantaggio di non essere chiusa a chiave. Essa ricorda con una certa gratitudine un vecchio sergente alsaziano che le permetteva di cuocere durante la notte qualche patata da dare ai compagni più provati; a turno, qualche volta, li faceva nascostamente uscire dalle celle per farli passeggiare un po'. Era vergognosa consuetudine che i guardiani nazisti si appropriassero spesso dei pacchi che i familiari inviavano agli internati.
Il 21 e 22 aprile, mentre l'Italia settentrionale si preparava all'insurrezione, i nazisti decisero di tinteggiare le celle e i detenuti furono costretti a trascorrere la notte all'aperto, in attesa che il colore asciugasse.
Il 28 e 29 aprile '45, tutti gli internati furono radunati al centro del campo forse destinati alla sorte di quelli dei campi di sterminio nazisti. Fu un momento drammatico per tutti. Improvvisamente si senti un suono di claxon all'ingresso del Lager. Il cancello fu aperto ed entrò un automezzo della Croce Rossa Internazionale da cui scesero il Dott. Zanoni, che insieme ad altri medici aveva operato attivamente al centro di resistenza dell'Ospedale, il Dott. Bonvicini, che fu il primo sindaco politico di Bolzano dopo la liberazione, ed un ufficiale inglese.
I tre parlarono con il comandante del campo e dopo breve trattativa furono messi al muro. Fu un momento di grande angoscia per tutti. Gli internati vennero rimandati nelle loro baracche. La signora Mascagni ed il cuoco ebreo, vinta la paura, rimasero a guardare, ma scoperti da una guardia delle «SS» furono picchiati. Per fortuna l'intraprendenza del Dott. Zanoni e la presenza dell'ufficiale inglese (giunto a Bolzano dalla Svizzera) ebbero il sopravvento sull'ottusità dei comandanti nazisti (l'Italia era già tutta liberata e gli Americani erano già alle porte di Bolzano). Dopo poche ore iniziava l'evacuazione del campo.

Nella Mascagni

Lettera di Nella Mascagni
6-4-45
Miei cari, spero che quest'oggi venga quel mio scolaro e di potervi fare avere così questo mio biglietto. Ho passato una Pasqua tragica ma adesso tutto va bene. Per quanto il campo sia zeppo non si parla più di partenze per la Germania. Non ho più la febbre. Il prof. Meneghetti mi ha fatto pervenire in cella attraverso la Ada delle aspirine, e la febbre è passata quasi del tutto. Le due guardie delle nostre celle sono più feroci che mai, anche due notti fa hanno ucciso uno che era appena arrivato. Passiamo notti da incubo. Mamma cara, domenica attraverso un foro del legno che copre il finestrino della cella ti ho visto vicino a Don Piola. Non venire più mammina, mi fa soffrire troppo vederti e non poterti parlare. Se potete mandatemi sigarette. Il maestro Mascagni sta un po' meglio. Io sono serena. Aspetto di essere libera e di volare da voi.
Vi bacia tanto la vostra Nella

Prima lettera alla famiglia
Cara mamma e caro papa,
sono nel campo di concentramento di Bolzano, non so se rimango qui o se ci mandano in Germania, state tranquilli e non preoccupatevi per me. Vi mando questo biglietto attraverso un mio ex-scolaro che ora è nella polizia trentina, se potete, attraverso di lui, mandate un qualche cosa da mangiare e qualche sigaretta. Soldi ne ho abbastanza. Qui con me ci sono tanti compagni, ho visto Pedrotti, se vedete la moglie ditele che sta bene (abita in via Padre Giuliani al numero 1).
Vi bacio tanto tanto. State tranquilli. Io sono forte.
la vostra Nella