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Riforma

I protestanti nella Resistenza

Nei numeri scorsi abbiamo parlato a lungo dei protestanti, della loro storia, della loro ideologia, del loro peso nella vita italiana ed europea. Niso De Michelis interviene ora su un argomento già accennato: quale contributo diedero i protestanti alla Resistenza?

Sulla base del principio del "sacerdozio universale", anche nella sua vita politica il protestante è portato a diffidare di ogni intermediazione che si frapponga tra la sua persona e la realtà in cui è chiamato a vivere. O, se lo si vuoi dire altrimenti, ad una assunzione diretta di responsabilità nel quadro della più totale libertà in cui cerca di vivere. Questo principio è certamente alla base della larga partecipazione dei protestanti alla Resistenza, non solo quando essa si manifestò in lotta aperta e guerreggiata negli anni Quaranta, ma anche prima, quando l'essenza del fascismo e del nazismo apparve chiara agli occhi di molti. E ciò avvenne quando le chiese ufficiali erano obbligate ad una politica di prudenza, che sola poteva consentirne la sopravvivenza; proprio perché la presa di coscienza individuale andava ben oltre le posizioni ufficiali delle chiese, in quanto il "sacerdozio universale" rendeva ciascuno liberamente responsabile delle sue azioni e dei suoi atteggiamenti.
Già verso la fine degli anni Venti Giuseppe Gangale e la sua rivista Coscientìa furono, finché le autorità del regime lo consentirono, una testimonianza sinceramente antifascista del protestantesimo italiano. Già in quegli anni una chiesa protestante dava rifugio e conforto non solo morale ad un sacerdote cattolico (che cattolico rimase, sia pure a suo modo) come Ernesto Buonaiuti, prima vittima del famigerato articolo 5 del Concordato, e ad un professore ebreo espulso dalle università italiane, come il Dalla Seta. Ed ancora nello studio della teologia dialettica di Karl Barth (che consigliava di accompagnare alla Bibbia la lettura del giornale, e del giornale socialista), Giovanni Miegge dava vita a quelle giornate teologiche del Ciabàs (in val Pellice) da cui uscì fra gli altri M. A. Rollier, comandante militare della Lombardia durante la lotta armata.
Non stupisce quindi il fatto che, quando la Resistenza uscì allo scoperto, tutti questi fermenti che animavano il mondo evangelico, si manifestassero in una ampia partecipazione di protestanti alla lotta. Non si vuoi dire che ci fosse una Resistenza caratterizzata come protestante (salvo ovviamente nella lotta condotta nelle valli Pellice e Germanasca, a popolazione largamente valdese), ma piuttosto che la presenza individuale dei protestanti fu consistente e notevole. Del resto, ad incitare gli evangelici ad una partecipazione concreta servì anche l'esempio della Chiesa confessante tedesca, che rappresentò in Germania una presa di posizione non limitata a condanne verbali, ma attivamente impegnata nella più vistosa azione resistenziale in quel paese: l'attentato a Hitler del luglio '44, alla cui preparazione partecipò in prima persona — e ne fu punito con la morte — un pastore e teologo della importanza di Dietrich Bonhoeffer. La partecipazione protestante alla Resistenza in Italia si materializzò soprattutto nel quadro del Partito d'Azione, pur non mancando elementi attivi anche nelle Brigate Matteotti e Garibaldi, con differente matrice ideologica. E non pare strano che quella del P.d'A. fosse la scelta della maggioranza dei protestanti italiani, proprio perché nelle file scarsamente ideologizzate di quel partito trovava luogo più favorevole quella partecipazione personale di fondo che resta la corrispondente politica più concreta del teologico "sacerdozio universale".
Due nomi vorrei fare, in quanto in essi l'essere protestanti e la partecipazione alla Resistenza facevano parte di un solo imperativo. Dico di Jacopo Lombardini, maestro di scuola, obbligato a vivere fuori dalla scuola per il suo antifascismo che lo rese vittima di botte e di olio di ricino; uscito da famiglia operaia di stampo mazziniano; convertito al protestantesimo per aver trovato nella Chiesa Metodista di Carrara risposta ai suoi problemi esistenziali; predicatore laico; dal '41 prefetto al collegio valdese di Torre Pollice; impegnato con i giovani, coi quali era a contatto in una costante predicazione inevitabilmente antifascista. Nel '43, a cinquant'anni di età, decide di seguire in montagna i suoi giovani che si fanno partigiani e diventa Commissario politico della locale brigata G.L. Caduto in mano ai nazisti nel marzo '44, viene chiuso a Fossoli e di qui trasportato a Mauthausen, dove viene gasato il 25 aprile '45. Esempio tipico di uomo che ha sentito l'obbligo di non interrompere la sua predicazione evangelica, ma di continuarla all'interno della Resistenza a rischio della sua vita. Uno che fu resistente perché protestante, tale rimanendo, come molte testimonianze asseriscono, anche nel campo di sterminio dove trovò la morte.
E dico di Ferdinando Visco Gilardi, uomo non solo di fede ma anche di cultura, che vide la sua attività di editore e libraio resa impossibile dalle persecuzioni fasciste; per non cedere finì impiegato a Bolzano, tappa obbligata di tutti i treni di deportati che andavano in Germania; e fu qui che seppe organizzare un servizio di assistenza ai deportati che assicurò a molti la libertà (quante fughe ben organizzate!) e a moltissimi un indispensabile conforto; soffrì la galera quando la sua organizzazione fu scoperta, ma seppe soffrirla con dignità senza cedere di un millimetro. Un uomo che visse la Resistenza come espressione della sua fede, sapendone trarre per i suoi compagni tutti i benefici che le circostanze gli permettevano.

Niso De Michelis