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Testamento
spirituale
(il testo originale è stato rielaborato e integrato da FVG più volte)
Dalla cella 28 del Campo di concentramento di Bolzano, il 13 gennaio 1945
Caro tesoro mio,
io non credo che la mia esistenza venga ad essere troncata per l’attività
che ho svolta, dato che nulla di veramente grave è emerso a mio carico. Ma
non è escluso che considerazioni d’ordine politico siano tali da determinare
per il momento e il luogo in cui ci troviamo una soluzione sbrigativa nei
miei confronti, cosa di cui (essendo ciò nel novero del possibile), è bene
che mi premunisca anzitempo col fissare, in mancanza di meglio, quelli che
sono i miei pensieri per il conforto tuo e perché tornino essi di qualche
pratica utilità ai figlioli nel cammino che sta a loro dinanzi.
Come tu sai, nella mia vita non ho mai cercato il successo esteriore, quale
che potrebbe essere offerto da prospere condizioni economiche. Le mie
capacità personali, non sono state quindi prevalentemente indirizzate verso
il conseguimento del lato utilitario della vita, sebbene anche questo
aspetto di essa non sia stato da me trascurato e, nell’ambito delle mie
pratiche condizioni, io abbia sempre desiderato, per me e la famiglia, di
non essere ritenuto un incapace e uomo, quindi, di dubbio rendimento.
Ma quello a cui soprattutto ho mirato, è stato di costruirmi una vita, per
quanto possibile, ricca di contenuto interiore in tal modo che potessi
essere atto a superare gradatamente le incertezze, le pecche e le
insufficienze che la natura e l’educazione hanno posto nel mio tessuto
morale. Fondamentalmente un orientamento religioso-razionale m’ha guidato in
ciò che dalla vita avrei dovuto accogliere e in ciò che avrei dovuto
respingere. L’adesione cosciente, in età più matura, al filone aureo della
tradizione cristiana, mi ha messo in grado di dare unità e concretezza agli
intimi bisogni del cuore e della mente che fin dalla fanciullezza avvertivo
in maniera ancora informe.
Debbo dire che tale adesione poté determinarsi mercé l’ausilio che mi venne
offerto, nella prima fase della mia vita, dall’ambiente protestante in cui
mi trovavo inserito. Successivamente, mi tornarono assai proficui i contatti
che ebbi in Germania (negli anni 1923/24) con il movimento
scientifico-spirituale che faceva capo al Dr Rudolf Steiner (il cui
insegnamento, tuttavia, non esercitò alcun influsso sugli esponenti della
cultura del primo dopoguerra a tutt’oggi, a motivo quasi certamente della
componente “esoterica” in esso contenuta: non posso , comunque, dubitare che
l’opera dello Steiner, nei decenni avvenire, non venga “scoperta” per poi
entrare ‘in circolo’ con le correnti di pensiero di quando sarà), nonché con
quelli che personalmente ebbi poi in Italia con il Dr Ugo Janni, Ernesto
Buonaiuti, Giuseppe Gangale e Piero Martinetti. E, per altro verso,
discordante con tali indirizzi spiritualistico-religiosi, intrapresi lo
studio della filosofia di Benedetto Croce, del pensiero di Antonio Labriola
e, attraverso quest’ultimo, approdai a “Treviri” [Marx] che tanta influenza
esercitò sul giovane Croce (a tacer del resto). Ancor prima, subito dopo il
mio rientro dalla Germania, l’azione e l’opera di Piero Gobetti - mio quasi
coetaneo - m’entusiasmò e di quella breve ed indomita vita mai dimenticai la
pregnante forza.
Da tali vari ed eterogenei indirizzi, debbo dirti, non feci un’ibrida
mistura e quel che avevo appreso mi si andava configurando in una struttura,
per me, organica di pensiero. Dal momento che, professionalmente, non ero un
“intellettuale” e, pertanto, di quel che potevano essere le mie “idee” e le
fonti da cui erano sorte non ero tenuto a rendere conto alla generalità, ma
soltanto a me stesso (o a una ristretta cerchia di persone le quali,
peraltro, non potevano sempre cogliere le implicazioni né i nessi), tale
fortunata circostanza mi ha consentito di coltivare indisturbato il mio
orto, e di poter scegliere nei diversi aspetti della cultura quel che più mi
potesse andare a genio e, ciò, non disordinatamente.
Quindi un acuito amore per il sapere mi spinse sempre a ricercare e ad
accogliere ciò che di valido mi era dato scoprire e, senz’essere giunto –
per i limiti delle mie forze e per le esigenze pratiche della mia esistenza
– ad assimilare tutto il molteplice e vario contenuto di quello che la
cultura offre a piene mani, credo d’essere pervenuto alla “sintesi” (non mai
definitiva” di una conoscenza in sé non disprezzabile che, svolta nei suoi
particolari aspetti con intuizione profonda e con sicuro metodo da un
congeniale studioso, che più di me possedesse e capacità mentale e dottrina,
potrebbe forse tornare di qualche beneficio all’avanzamento del sapere. In
altre parole, voglio dire che – prescindendo dalla mia persona – l’arco
degli interessi che obiettivamente venne a configurarsi nella “storia della
mente”, ha di per sé un valore ed una portata ch’io ritengo di qualche
stimolante efficacia.
Faccio qui, in conformità alle iniziali premesse, la mia professione di fede
(ch’è quanto dire l’apertura ad una “Weltanschauung”):
Io credo in un ordinamento divino del mondo e del cosmo, e per ordinamento
divino intendo che ogni cosa è retta secondo una sua particolare finalità
che si rende palese per l’intelligibilità che tutte le cose contengono in
sé. Nel mondo fenomenico è dato di riscontrare più stadi di differenziazione
e svolgimento dell’intelligibile ed è ciò che comunemente si designa come
regno minerale, vegetale e animale. Ai quali regni, però, va aggiunto il
regno umano, che anche dal semplice punto di vista naturalistico, non può
essere confuso con il regno animale o, meglio, non può identificarsi
interamente con quest’ultimo.
Sono questi, tutt’insieme, i quattro aspetti della natura la cui finalità
integralmente si rivela in quello che l’entità umana ha di più eccelso: lo
spirito. Lo spirito è l’autocoscienza dell’essere nella sua compresenza
totale: in ciò che è introflesso, in ciò che si estroflette ed in quello che
è l’accoglimento unitario dei due momenti. Lo spirito è, quindi, il
compimento della natura nel suo processo risolutivo che è l’uomo. E l’uomo,
di conseguenza, rappresenta il passaggio necessario affinché tutta la
natura ritorni allo spirito nella misura in cui l’uomo stesso gradatamente
riesca a risolvere in sé, spiritualizzandoli, i dati naturali insiti nella
propria complessione ed operanti tuttora laddove il proprio spirito non è
giunto a dominarli se non parzialmente. Da questo punto di vista, possiamo
apprendere l’importanza grande che ha l’ascesi orientale e che ha avuta la
mistica occidentale pullulante, in varia forza e misura, nell’età di mezzo.
Vediamo così che l’entità umana è di natura mista e simbolica: mista in
quanto riscontriamo — come in stato di simbiosi — l’interdipendenza dei
fattori naturali e spirituali per cui abbiamo, nell’uomo una contaminatio
dello spirito se gli aspetti “naturali” tendono a prevalere e, viceversa,
abbiamo un “affinamento” della natura (lo spogliarsi di essa da contenuti
materialistici) se le forze, o le facoltà, dello spirito hanno su quelle
naturali il sopravvento; simbolica nel senso di quanto sarà la destinazione
futura dell’umanità: l’assunzione, cioè, di essa nel regno dello spirito. Il
simbolo (come pure il mito), non è un’astrazione o una “proiezione”
fantastica qual è, ad esempio, l’allegoria, ma è la parvenza rappresentativa
di realtà spirituali in atto che profeti-poeti hanno intravisto e
comunicato in linguaggio parabolico ed extrarazionale (non irrazionale).
Come per intendere ogni più sublime manifestazione dell’arte, occorre un
affinamento del senso a ciò preposto, così pure la trascrizione del simbolo
in termini attuali di cultura, occorre essere sorretti da un’intuizione che
si fa luce in noi da pari passo con l’adempimento di conquiste interiori, le
quali ci rendono – in modo progrediente – atti all’auscultazione e alla
visione delle verità nel simbolo contenute (non si tratta d’alcunché di
“mistico”, ma per quanto possa valere un paragone, il processo è simile a
quello che condusse il Goethe a “vedere” la Urpflanze, la quale è una
realtà e non un’astrazione come, ad esempio, lo è l’”homo œconomicus”).
Quando diciamo “uomo”, implicitamente affermiamo la personalità
umana. E nel concetto di personalità, abbiamo la nozione dell’individuazione
dello spirito nel possesso di quelle facoltà che rappresentano la
strumentalità dell’essere umano, quali sono il pensiero, il sentimento e la
volontà. Ed il centro dell’individuazione dello spirito, è ciò che diciamo
“Io”, condizione e risultato insieme della personalità.
Il complesso delle manifestazioni della personalità, riceve la sua impronta
univoca da ciò che indichiamo come carattere , vale a dire che, in
ultima analisi, è il carattere che dà conto di sé a mezzo dell’”insieme”
delle manifestazioni di quella data persona. Il carattere è l’espressione
concreta della personalità umana e quanto più questa trovasi ad un alto
livello di differenziazione per una maggiore ricchezza di contenuti
interiori, tanto più il carattere si rivela con una delineazione più netta e
con una fisionomia tutta propria. Ma accanto alla psicologia come scienza,
si farà strada una compiuta caratterologia la quale, a differenza
della prima, non si volgerà allo studio delle facoltà e delle
azioni-reazioni della psiche, considerate nella loro obiettiva tipizzazione
fenomenica, ma avrà per oggetto lo studio dei dati caratteriologici della
personalità umana equivalente all’indagine del comportamento dei
rispettivi moventi che guidano l’uomo (inteso come personalità),
all’affermazione di sé quale ente spirituale in discorde concordia con la
propria specifica naturalità (nell’accezione più sopra considerata).
Tale affermazione è, per l’appunto, ciò che rivela il carattere e,
dall’esame dei vari comportamenti, possiamo determinare la natura dei
diversi caratteri di cui l’umanità, nei suoi peculiari aspetti, è dotata.
Utili a questo riguardo e di preannuncio ad una caratterologia, sono le fini
osservazioni di Kant nella sua “Antologia prammatica”, l’originalissimo
romanzo di Jean Paul Richter “Levana”, la sapiente raffigurazione di un
conflitto d’anime nelle “Affinità elettive” di Goethe, le acute disanime di
Otto Weininger nel suo “Sesso e Carattere” e, per ultimo, i saggi di Ludwig
Klages; ma soprattutto vi è doviziosamente da meditare e da apprendere dal
grande Dostojevskij, l’’insuperato “caratterologo” dei tempi moderni. Non
comprendo in tale ambito Freud e la sua scuola in quanto la psicanalisi,
sotto un certo aspetto e con riferimento a quel che ho designato come
caratterologia, è un derivato delle psicologia sperimentale.
Io ritengo che oltre la personalità non si possa andare per quel che
concerne la forma compiuta dello spirito, come oltre la sfera non
esistono forme geometriche che la superino in compiutezza mentre tutte le
forme essa stessa comprende.
Infine, che cosa è la coscienza? La coscienza è lo stato di consapevolezza
che la personalità ha del proprio carattere ed è per essa che giungiamo alla
valutazione dei moventi delle nostre azioni in rapporto alle premesse etiche
che la coscienza ha fatto sua nella misura di ciò che la personalità ha in
sé edificato della propria visione del mondo. La coscienza è quindi il
ricettacolo dell’anima ove confluisce l’esperienza, la quale altro non è che
la risultante della nostra azione sulla vita e dell’azione di questa su noi.
E come l’esperienza con i suoi molteplici apporti, arricchisce la coscienza,
così questa illumina quella secondo il grado di consapevolezza cui è giunta.
La coscienza, secondo la delineazione qui fattane, è anche ciò che si
designa come autocoscienza.
***
Ciò detto, mi si offre ora di fare alcune considerazioni sull’analogia che
intercorre fra la personalità umana e quella di Dio.
Noi non possiamo concepire Dio altro che come persona nella perfezione delle
sue facoltà e nell’assolutezza dei suoi attributi, non già a motivo di
quanto fu detto dagli antichi che un bue non potrebbe far altro che
rappresentarsi Giove a sua immagine con tanto di corna, ma unicamente perché
il concetto di personalità implica, come ho accennato, la determinazione
della forma più completa delle spirito. La nozione di personalità non è di
derivazione antropomorfica, ma di valore universale.
So che la concezione della personalità in Dio contrasta con tutto
l’indirizzo della filosofia moderna: dal naturalismo del Telesio alla
cosmogonia del Bruno fino al panteismo dello Spinoza, da Cartesio agli
Illuministi inglesi fino a Kant e dalla filosofia tedesca dell’età romantica
fino all’idealismo contemporaneo. Un tale indirizzo è un momento
necessario nella storia del pensiero, il quale doveva dispogliarsi dal
dogmatismo scolastico prima, e procedere poi, sicuro della riconquistata
autonomia, ad ingaggiare la lotta contro il risorgente medioevalismo del
periodo della Controriforma ed oltre. Assistiamo, quindi, ad un processo
cosiddetto di laicizzazione del pensiero filosofico che gravita verso un
immanentismo sempre più radicale quale si ravvisa, ad esempio, oggi nella
concezione del Croce da lui chiamata storicismo assoluto. Questa sorta di
immanentismo non è soltanto una negazione di Dio quale trascendenza, ma
anche ovviamente, quale personalità.
Contrariamente all’accennato indirizzo che sfocia in un immanentismo senza
residui, io dunque affermo l’assoluto valore della personalità di Dio.
L’aspetto “verità” in Dio cui è dato dalla sua persona che è la plenitudine
dell’essere. Ed è in questa plenitudine che viene a risolversi la
contrapposizione trascendenza-immanenza in virtù del fatto che Dio è
pensabile non unicamente come assoluta Trascendenza (il che è anche
vero, come dirò poi), ma come la trascendenza dell’immanente e come
l’immanenza del trascendente. Nell’assunzione dell’immanente nella
trascendenza, abbiamo contenuta in Dio “tutta” l’essenzialità del
Creato, e nell’effusione del trascendente nell’immanenza ritroviamo nel
Creato la presenzialità di Lui.
Se Dio, nella sua trascendenza, accoglie in sé l’essenzialità del creato (la
quale essenzialità non è altro che ciò che di Lui immane nel cosmo) e, nella
sua immanenza, è presente e operante in esso cosmo (che è quanto dire
ch’Egli lo rende partecipe della sua trascendenza), tuttavia tale
inseparabilità di Dio dal creato, ci dice pure che Egli è distinto
senza essere confuso con esso. È nel momento di questa distinzione
che è legittimo l’accoglimento del concetto di Dio come Trascendenza
assoluta, più sopra, di sfuggita, accennata. Dio nella sua distinzione, è il
Totalmente-altro-dal-mondo, è l’”Io sono colui che sono”, l’Inaccessibile e
l’Invisibile (beninteso, da tutti coloro, e sono la sterminata maggioranza,
che ‘non possono’ accedere a Lui né vederlo faccia a faccia): è, quindi,
l’assoluta Trascendenza (che vuol dire la non confusione, la non commistione
con tutto ciò che nel cosmo non riguardi l’essenzialità che in Lui ha
origine). Nella religiosità ebraica,ritroviamo l’affermazione solenne di
tale carattere distintivo di Dio quale personificazione della giustizia,
della legge: affermazione che si rivela angosciante per la tragica
apprensione del male, del “peccato”. La nozione del male, come conseguenza
di “ribellione”, come di ciò che ha prodotto una frattura nell’ordine
cosmico, è inseparabile dall’idea di Dio distinto dalla creazione, come di
Dio legislatore e giudice, poiché Dio, riguardato in questa dimensione, non
può aver nulla in comune con la natura corrotta. L’”inesorabilità” che
discende dal concetto di legge “divina”, dall’assoluta giustizia, non ha
nulla di comune con l’idea della “vendetta” proveniente da un nume terribile
e “ascoso”. E tale carattere di inconciliabilità tra Dio e il
“mondo”, trasfusosi dall’ebraismo nel cristianesimo, ha trovato, in Paolo e
Agostino (manicheismo) prima, nei Riformatori poi, specie in Calvino, ed,
ancora, in Giansenio, in Kierkegaard e, fino ai giorni nostri, in Karl Barth,
i più decisi assertori.
Se Dio, a causa del corrompimento, si mostra inconciliabile con la natura
(irredenta) e, quindi, con l’uomo, d’altra parte la sua inseparabilità dal
creato, per la sua immanenza nel processo creativo dello spirito, lo
rende solidale con esso. L’inconciliabilità di Dio ci avverte della
sua legge e la solidarietà di Lui ci avverte del suo amore.
***
L’amore di Dio è la forza creatrice e redentrice che culmina
nell’apparizione del Cristo sulla scena visibile di questo mondo.
Dobbiamo ora stabilire che senza l’avvento del Cristo sulla Terra, la forza
creatrice e redentrice, che promana dall’amore di Dio, non avrebbe potuto
avere il definitivo sopravvento sulla caducità della natura in se
stessa e conseguentemente su quella dell’uomo. Ma siccome, d’altra parte, la
plenitudine dell’essere nella persona di Dio non poteva non avere tale
sopravvento, dobbiamo considerare la venuta e l’azione del Cristo come il
compimento necessario dell’immanenza di Dio nel creato per mezzo dell’uomo
che sta al “vertice” di tutto il processo naturale-creaturale.
Il Gesù storico non è un dio, ma un uomo nel senso più completo
dell’integrità dello spirito, ma la cui personalità, per l’altissimo livello
morale da lui raggiunto, era atta all'accoglimento di ciò che in Dio
sussiste di “eterno” e di “vero” non senza aver dovuto Gesù, nella sua vita
terrena (esistenziale”), passare prima attraverso tutte quelle prove
che, vittoriosamente superate, rappresentano quello che l’umanità, nel suo
solidale complesso, deve compiere per debellare in se stessa e nella natura,
la corruzione e la morte.
Il confluire dell’”eternità” e della “verità” di Dio in Gesú uomo
rappresenta l'atto (che non poteva non verificarsi in “quel” momento della
storia dell'umanità) in cui la persona del Padre s'identifica nel Figlio,
nella creatura in possesso della plenitudine del Padre che è il Cristo:
l’Uomo-Dio. Gesù uomo e Cristo Dio, dunque.
Il carattere distintivo di Dio, pur indietro considerato (inconciliabilità
con la natura corrotta), se si integra (senza confusione) nel Cristo per la
compiutasi identità con il Padre, permane tuttavia verso tutto ciò
che, pur dopo la venuta del Cristo, resta d’irredento nella vita del cosmo e
dell'umanità. Ma il fatto grandioso e unico dell'avvento del Cristo,
rappresenta la condizione, e la promessa insieme, che tutta la natura
sarà riscattata dal dolore e dalla morte, conseguenze, queste,
dell’alterazione originale le cui cause ci sono sconosciute,. ma nondimeno
stanno a noi dinanzi gli effetti.
La redenzione di tutto il creato dalla caducità, è condizionata dal fatto
che l'umanità in Cristo venne conquistata interamente dalla
personalità di Dio ed è, per mezzo dell’umanità, per l'azione
vivificatrice del Cristo, che il graduale riscatto sarà possibile fino
all'assunzione totale della natura dello spirito.
Cristo, da questo punto di vista. è il Dio‑Umanità (Soloviòv), ed è per noi
il simbolo vivente dell'uomo e dell’umanità futuri: “Ecce homo!”. Tale
divenire ascensionale di ciò che è vivente, costituito dall’immanenza
dell'essere in ogni cosa, si svolge e si svolgerà sempre evolutivamente (il
che non esclude affatto il "salto qualitativo” intravisto, credo, dal De
Vries, il botanico olandese, nella sua teoria delle mutazioni), per cui,
nella metamorfosi delle strutture e delle forme dal piú semplice al piú
complesso, il trapasso ad uno stato superiore, porterà alla sintesi di più
stati immediatamente inferiori. Avremo così una liberazione graduale degli
esseri dalla loro soggezione particolaristica i quali, senza perder nulla di
ciò che è essenziale alla funzionalità della nuova forma che verranno
ad assumere (la quale forma è pur dotata di nuovi contenuti), si
spoglieranno di tutto quello che risulterà una scoria incompatibile alla più
perfetta articolazione della struttura superiore (in effetti, è in
dipendenza di tale incompatibilità che ciò che non è ancora “scoria”,
diventa scoria). Ma pur si può accertare quest’altro fenomeno:
l’incompatibilità a che un dato organo, attualmente nello stadio inferiore e
quindi ancora idoneo alla presente funzione, possa poi, senza scompensi o
insufficienze, funzionare nella strutturazione superiore; tale
incompatibilità viene quasi ad anticiparsi e porsi come un “avvertimento”
che, come tale, è già una forza preformante. Essa forza plasmatrice, nella
fase di transizione, di passaggio, cioè da una forma all’altra, trasforma
dall’interno l’organo medesimo e lo rende perfettamente atto a collocarsi,
in senso funzionale, nella nuova struttura che sta per nascere. In questo
caso, ciò che diverrebbe incompatibile (inidoneo), non richiede il formarsi
e l’abbandono di scorie, bensì implica la trasmissione morfologica
dell’organo o di dati elementi organici e inorganici che, per l’avvenuto
“mutamento”, risponderanno ‘ad hoc’ ai bisogni dell’organismo (o
strutturazione) nella nuova (e superiore) dimensione vitale (il cosiddetto
“vitalismo” del Rignano, ad esempio, non vede il processo in questo modo, ma
in senso meccanicistico quale eredità positivistica di pensiero). Questo
processo evolutivo di liberazione dai limiti imposti dalla
materializzazione, non deve dunque essere considerato meccanicisticamente,
ma va riguardato come la risultante di un impulso creativo cosciente,
sempre in atto, che proviene dal mondo spirituale la cui finalità è che ogni
essenzialità, temporaneamente inserita (ma non, necessariamente,
prigioniera) nella naturalità, ritorni costitutivamente nello
spirito.
Non entrerò in ulteriori particolari su questo punto per non dare l’abbrivo
a considerazioni che potrebbero apparire fantastiche. Basterà, per
concludere, il solo accenno che dalla Divinità all’uomo e da questi alla
natura non v’è soluzione di continuità (non sussiste, in realtà, alcuno
iato), e che dall’avvento del Cristo in poi, e questo è molto importante!,
la storia dell’umanità (che è, in altri termini, la storia della libertà
intesa precipuamente come liberalizzazione e, quindi, quale progressivo
dispiegamento di libertà) e l’evoluzione della natura (che è il processo di
affinamento, di più varia e complessa articolazione, di riscatto dal peso
della materialità), assumono, dal punto di vista conoscitivo, un valore
cristocentrico.
***
La concezione fin qui svolta, può urtare in più di un punto la sensibilità
di noi razionalisti moderni ed io, quindi, mi provo, a mo’ di commento, di
fornire qualche opportuna delucidazione.
Se guardiamo la volta stellata e pensiamo all’incommensurabilità dello
spazio ove sono disseminati molteplici sistemi planetari e miriadi di stelle
e riflettiamo altresì sulle nozioni dello spazio, del tempo e del moto,
apprese dalla filosofia, dalle matematiche, dall’astrofisica e dalle scienze
naturali in genere, ci sembrerà quanto mai primitiva e frutto d’ignoranza,
nonché di un certo “provincialismo” umano-terrestre, l’affermazione che la
nostra Terra possa rivestire un’importanza cosmica qual è quella che le è
stata più sopra attribuita; un’importanza tale, per di più, che farebbe
nientemeno “discendere” Iddio, l’Ente Supremo, l’Artefice dell’Universo
infinito, sul nostro insignificante (rispetto a quell’incommensurabilità)
globo terracqueo. Il nostro pianeta non è altro che un “pulviscolo”
confrontato con le altre unità stellari, ed assurda, quindi, è la pretesa di
farlo centro del cosmo, pretesa che ci porterebbe indietro al più vieto
scolasticismo telemaico che il grande Keplero ben seppe cosa significasse
quando volle affrontare la cosmogonia (in verità, imponente) dell’astronomo
Tycho Brahe. E, anche, qualcuno potrebbe maliziosamente far osservare che,
senza troppo scomodare e filosofia e scienza, il semplice buon senso
dovrebbe avvertire a tenersi distanti dalle suesposte considerazioni, che
oltre ad essere “temerarie”, hanno il sapore di apparire, più che altro,
delle elucubrazioni o, peggio ancora, delle farneticazioni. Meglio sarebbe,
quindi, rifugiarsi negli ignorabimus, nei sette enigmi dell’universo
che il fisiologo tedesco Emilio Du Rois-Reymond enunciò nel secolo scorso, o
nel “mistero” che la Chiesa ammonisce di tener sempre presente affinché la
fede non venga insidiata dai molteplici dubbi che il Maligno, sotto sotto,
sussurra alle coscienze intemerate: Vade retro Satana!, dunque. Infine, la
cautela dovrebbe essere d’obbligo per chi volesse, come qui sembra, dar la
scalata all’universo in quanto la storia della filosofia insegna che
esistono le aporie della ragione (che conducono all’incertezza
quando di un dato problema esistono due tesi contrarie ugualmente
ragionevoli), oppure che ci sono le antinomie di kantiana memoria
(secondo cui la ragione, necessariamente, s’imbatte in due opposizioni
contraddittorie, le quali, sebbene contraddittorie, possono essere
giustificate da argomentazioni di uguale validità ed efficacia): cose,
queste di cui il predetto “scalatore”, pare, non abbia tenuto conto.
Risponderò, anzitutto, col notare che le accennate obiezioni, d’impronta
intellettualistica, da una parte, e fideistica, dall’altra, prescindono da
ogni considerazione di natura spirituale e non sono fondate sulla ragione
nel senso di una sua più estesa applicazione. Nel dire spirituale,
io mi discosto da una concezione cosiddetta “spiritualistica” in quanto
questa è una posizione ideologica contrapposta a quella
“materialistica” (in senso metafisico), ambedue unilaterali e insufficienti.
Tuttavia, tali obiezioni (anche quelle che s’appellano al buon senso) sono
informate da presupposti scientifici, generalmente accettati, che partendo
dal metodo sperimentale in cui il dato sensibile viene
“obiettivamente” studiato nella sua accezione quantitativa, non possono
conseguentemente entrare nel merito di quant’altro sfugga alla percezione
sensoriale (le nuove teorie atomiche con riferimento alla “costituzione
della materia”, ancorché non abbiano come finalità di farti percepire
gli atomi e le molecole, pur tuttavia non prescindono, né potrebbero
prescindere, dai fatti sensoriali). Tali obiezioni, inoltre (anche quelle
d’intonazione fideistica) a tutto ciò che le sottende, sono vincolate al
clima storico-culturale dell’epoca presente; ma da ciò come poter escludere
che con il progresso delle scienze (sia pur proseguendo esse, senza mai
dipartirsene, sul terreo sensibile-fisico), le quali sono sempre “in
cammino” non si potrà sostanzialmente mutare, nel prossimo avvenire, la
visione prospettica dei rapporti che intercedono tra noi e il cosmo?
In secondo luogo, dirò che nulla sappiamo dell’abitabilità dei mondi (anche
se vogliamo restringerci al nostro sistema planetario), e del possibile
stato di differenziazione degli esseri; ma anche nell’ammissione ipotetica,
per quello che analogamente osserviamo sulla terra, che il cosmo, o zone di
esso, sia abitato da esseri dotati d’intelligenza, sensibilità e coscienza,
ciò nulla toglie al valore della destinazione che l’umanità verrà in
futuro ad assumere e dell’influsso che quest’ultima potrà esercitare,
nell’ambito dello spirito, sui supposti abitatori, poniamo di Sirio o
Cassiopea, siano essi superiori o inferiori all’uomo nel grado evolutivo da
esso raggiunto. Sarebbe, dunque, arbitrario voler inferire negativamente nei
riguardi dell’uomo e dell’accennata sua missione spirituale dell’implicita
supposizione che, essendoci possibilmente esseri a livello umano o
super-umano, questi, dopotutto, niente avrebbero da attendersi
dall’evoluzione progressiva dell’umanità in quanto, tra l’altro, gli
sviluppi nell’economia terrestre, essendo eterogenei rispetto a quelli delle
altre sfere, non potrebbero ripercuotersi né positivamente né negativamente
al di là dell’ambito in cui tali sviluppi si condizionano. In definitiva, un
compartimento stagno, sia pure di non disprezzabili proporzioni, ma sempre
un compartimento, una dimensione, chiusi senza, quindi, aperture. È
sostenibile filosoficamente una simile ammissione, una tesi siffatta?
Ogni conquista d’ordine spirituale, intercedente in qualsiasi spazio,
diventa un patrimonio inalienabile nel mondo dello spirito per l’unità
che questo ha con le proprie manifestazioni le quali, in esso generatesi, ad
esso ritornano, direi circolarmente, arricchendolo di contenuti sempre nuovi
e vitali.
***
Se noi riflettiamo sull’apparizione dell’uomo di genio e del genio
universale quali sono, ad esempio, Socrate, Dante, Goethe, apprendiamo che
l’opera sua, compiutamente originale e irripetibile, ha fecondato lo spirito
umano di nuovi veri che appartengono definitivamente al patrimonio comune
dell’umanità. Del pari, noi osserviamo che la “civiltà” di un popolo (ad
esempio del greco, del romano), oppure di un’epoca (il Medioevo, il
Rinascimento), ha dato al mondo concezioni, espressioni d’arte, istituzioni
giuridiche e forme di religiosità particolari e universali insieme che,
conclusosi con il processo storico che le ha generate, sopravvivono tuttavia
perenni (con la perdita di ciò che poteva esserci, d’accidentale e di
contingente), nel deposito spirituale della vita associata.
Queste rapide esemplificazioni (sia per quanto riguarda gli uomini di
eccezione, e sia per quel che riflette la civiltà di un popolo e di date
epoche storiche) ci orienteranno verso la comprensione della missione
spirituale che può rivestire l’umanità intera insediata sul nostro pur
piccolo pianeta nei riguardi del cosmo. Dal punto di vista della prospettiva
dello spirito, l’umanità è un solo organismo vivente all’apice del
progrediente divenire della Terra il cui genio è Cristo. Se, dunque, a noi è
dato costatare, nel quadro della “Weltgeschichte”, la feconda influenza che
l’opera del genio esercita sulla comunità degli uomini che innumerevoli si
succedono nelle generazioni; del genio, cioè, che nella sua apparizione
individuale è il solo esponente del verbo, del “linguaggio”, da lui
rivelato, ma pur come uomo, nella sua naturalità e sul piano esistenziale, è
simile a tutti gli altri uomini che vivono sulla faccia del globo; se
costatiamo questo, ci troviamo che tutto ciò è conforme a ragione,
non deve ripugnare ad essa l’accettazione di una concezione che, implicando
la interdipendenza di natura e spirito e la finale risoluzione della prima
nel secondo, per l’effettiva preminenza di questa su quella, affermi, nella
visione unitaria della vita spirituale, che il compito dell’umanità sulla
terra, in seguito alla redenzione operata dal Cristo, rivesta
un’importanza cosmica decisiva.
Un altro interrogativo che l’uomo di oggi può porsi, e si pone, è quello
relativo alla divinità di Cristo. Soprattutto perché l’accettazione
razionale di questo postulato della fede può riuscirgli ostica e sembrargli
limitativa, quindi, dei poteri universali di Dio che egli ben ritiene al di
sopra di ciò che i ristretti concetti umani possano in proposito addurre. Ed
io qui prescindo dalla teologia, non perché non ne consideri la validità o
ne sottovaluti il valore, ma semplicemente perché essendo essa una
disciplina di quasi esclusiva pertinenza degli ecclesiastici e non avendo
potuto, quindi, entrare con pieno diritto di cittadinanza, nei vitali canali
della cultura, non ha potuto fornire a questa nessun reale contributo, né
ricevere dalla stessa il bagno rigeneratore cui ogni corrente di pensiero o
disciplina si sottopone, per evidenti ragioni. La teologia, quindi,
risentendo di un che di chiuso, di arcaico e di “corporativo” a differenza
dell’esegesi biblica, coltivata dai circoli accademici protestanti sia in
Germania e sia in Inghilterra, non viene da me citata a conferma di quanto
ho sin qui esposto e di quanto andrò ulteriormente ad esporre.
Per l’uomo colto di oggi, dicevo, ammettere l’incarnazione del Verbo, cioè
la presenzialità personale di Dio in sembianze d’uomo, gli parrà
quanto meno una sopravvivenza di credenze mitologiche contrastanti con i
concetti che della Divinità (anche a motivo della rivoluzione nelle idee
operatasi in virtù del cristianesimo), l’uomo moderno deve possedere, il
quale, per istinto, rifugge da ogni forma di mitologismo, senza peraltro
dover escludere, riguardo a questo specifico problema, quel ch’è già stato
detto dianzi a proposito delle obiezioni che si possono fare contro dati
presupposti di una visione cosmologica.
Dirò, su quest’altro punto di contrasto con le mie affermazioni, che
ammettendo tanto la personalità di Dio, quanto quella dell’uomo, si deve
poter razionalmente convenire che tra l’una e l’altra sussista un rapporto
che è la conseguenza della derivazione e della connaturazione (nel senso del
concetto di personalità, esplicato all’inizio), dell’uomo da Dio. In tale
rapporto si compendia tanto l’azione “provvidente” di Dio nei riguardi della
conservazione e dello sviluppo della specie umana, quanto la sua azione
“ispiratrice” per la graduale apprensione, da parte dell’uomo, della sua
verità (che è la Verità tout-court).
Nella rivelazione mosaica che Iddio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza
e nell’intuizione greca che l’uomo è la misura di tutte le cose, è fissata
completamente ed integralmente l’idea della natura della personalità umana
la quale, essendo di filiazione divina, contiene in sé virtualmente tutti
gli attributi per l’apprendimento e ed il dispiegamento della verità nelle
cose stesse che Dio ha posto a fondamento della sua opera creatrice.
Orbene, da quello che apprendiamo comparativamente dai testi sacri di quasi
tutte le grandi religioni storiche, il primitivo stato d’innocenza e purezza
dell’uomo è stato compromesso in seguito ad un disordine cosmico originato
da entità spirituali (Arimane, Lucifero) che si ribellarono (“titanismo”) ai
voleri di Dio, disordine da cui sorge il principio (sia nel senso di
origine e sia in quello di idea, di norma) del male che operò e opera nel
creato e che l’uomo accettò e accetta (tentazione, peccato).
L’aspetto sensibile del male nel creato, riposa nella materialità
delle cose, e nell’uomo sussiste nella sua “carnalità” che, come peccato,
non è già l’eros, vale a dire l’amore tra due persone di differente
sesso (in quanto il vero amore non sorge dalla carnalità, ma ha una
estrinsecazione e una finalità extrasessuali), bensì è consistente in tutto
quello che si riduce all’“appetizione” e la “consumazione” di atti sensuali
fini a se stessi (soddisfacimento della gola, della libidine, brama ed
esercizio dispotico del potere, e consimili estrinsecazioni, anche nel
pensiero, che non tendono a porsi in relazione alle esigenze delle cose per
quel che chiedono o per quel che valgono, ma che vengono dislocate,
dirottate, verso il soddisfacimento che arrecano al soggetto).
Il carattere fisico della materialità (che si polarizza verso la
solidificazione), e quello psichico della carnalità, sono complementari
e interdipendenti; ed ambedue, nell’uomo, sono quello che inizialmente venne
indicato come la sua naturalità, la quale, se non illuminata e guidata dallo
spirito, si rivela impotente, da sé sola, a far fronte al male per
antonomasia: al male morale (egoismo, menzogna, malvagità, crudeltà,
contravvenzione deliberata e cosciente di quanto è d’uopo sia compiuto) che
prende dimora nella naturalità dell’uomo ottundendone i connotati
spirituali (e fisionomici).
Tale triplice carattere del male (fisico, psichico e morale) è avvertito
come dolore, come “morte” ed il gemito della creazione in travaglio, trova
una risposta nell’amore di Dio che vuole l’adempimento del totale
riscatto.
Il dolore del mondo postula il richiamo dell’essere umano alla religiosità,
la quale intimamente non sorge dalla “paura” come qualche etnologo o
antropologo, in senso naturalistico, ha posto; ma è originata dall’angoscia
dell’uomo nei confronti della propria impotenza costituzionale a liberarsi
dal male che avverte nella propria naturalità. E l’amore di Dio risponde
secondo il grado d’accoglimento da parte dell’uomo di esso amore, sia se
tale accoglimento lo si riguardi come un fatto “provvidenziale”, ovvero sia
come un’”ispirazione” dal profondo (che prescinda, anche, dalla nozione e
dalla fede in Dio). Sia detto di passata, Bismarck, il “cancelliere di
ferro”, ebbe al termine dei suoi anni, momenti d’angoscioso rimpianto per la
carneficina che le guerre da lui volute avevano provocata.
In cotale stabilito rapporto fra la personalità di Dio e quella umana, è
implicito il carattere della domanda, dell’invocazione che affiora
dalla coscienza dell’uomo nelle diverse epoche della storia le quali,
religiosamente, rappresentano quel grado di accoglimento più
sopra accennato. Nel mutuo rapporto fra la domanda (invocazione) dell’uomo e
la risposta di Dio, sta il fondamento di ogni religione storica che
è, a sua volta, il principio informatore di ogni civiltà.
Da questo punto di vista, ritengo ogni religione fondamentalmente
vera, come quella che da Dio ha ricevuto la luce di un particolare
aspetto della sua verità, e non già nel senso che tutte quante siano di pari
eccellenza, essendo che ognuna ha accolto e dispiegato quell’aspetto che ad
essa sola era accessibile, ma pur era limitata alla conformità del
proprio genio, della propria sensibilità morale (che è certamente qualcosa
di ben diverso di quanto intendiamo oggi, noi occidentali, con tali termini)
che, come tali, nell’ambito soggettivo, non sono di pari
valore di un altro “genio o di un’altra moralità.
Se l’esigenza di verità, contenuta in ogni grande religione storica (Brahmanesimo,
Buddhismo, la religione egizia, caldaico-assiro-babilonese, greco-romana),
ha dato o dà ad ognuna di esse diritto di cittadinanza per quanto attiene
alla “conoscenza” che le medesime hanno della Divinità, non per questo nella
storia religiosa dell’umanità, possa sorgere, o sia già sorta quella
religione che tutte le sublimi, che tutte le inveri in una sintesi superiore
per l’integralità del possesso di verità che tale religione abbia accolto in
sé. Sia detto, tra parentesi, questa concezione non è riferibile al
“sincretismo” religioso propugnato dal Max Müller.
Ora, se questa religione dichiarerà d’essere quella dell’umanità e non di
questo o quel popolo, e conterrà tutti quegli elementi per siffattamente
autoproclamarsi, noi potremo ragionevolmente ammettere che essa sia arrivata
al più alto grado d’eccellenza e alla stessa potremo accostarci affinché,
nella sua luce, ci sia meglio dato di conoscere le altre religioni ed
accogliere da queste, certi imperituri valori dello spirito che
esplicitamente svolti, nella loro peculiarità, da que11e singole religioni
storiche, siano implicitamente contenuti nella rivelazione
sintetica della religione dell’Umanità.
E quale sarà, dunque, la religione dell’umanità intera se non quella da cui
l’uomo riceve la promessa (che diventa certezza ad un superiore grado di
coscienza per l’esperienza interiore che fa), che tutto ciò che
impedisce il libero volo del proprio spirito verso la partecipazione
all’opera di Dio nel mondo, verrà debellato e l’uomo stesso assorgerà alla
dignità di un Dio fra gli Dei? Questa visione escatologica è la ragion
d’essere del Cristianesimo, che proclamando la divinità del Cristo
suggella pure la divinità dell’uomo non nel solo senso creaturale di
derivazione da Dio ma, nel1’ambito della sua destinazione futura, di
collaboratore cosciente dei piani stessi del Padre nel mondo dello Spirito.
Se noi consideriamo che i fondatori delle grandi religioni storiche, come
geni religiosi, si trovano ad un più alto livello spirituale che non il
genio universale del pensiero, della poesia e dell'arte, da me ricordato più
addietro, e per la vita e l'opera loro ci é d’uopo ravvisarli come uomini
che hanno accolto, con varia colorazione e intensità, la luce della
verità di Dio, non disdegneremo di ammettere, anche per un'esigenza che
rientra nell’acquisizione 1ogica, che sia pur sorto dal seno stesso
dell'umanità un genio religioso che per l'eccelsa purezza della sua
personalità, abbia ricevuto integralmente la luce del Padre per la quale
tutto il suo essere, come uomo, si è trasfigurato in Dio. In Gesù Cristo
questo processo d'endosmosi spirituale ha ricevuto il suo compimento
summo modo, e a lui possiamo guardare come alla perfetta immanenza del
trascendente; perfetta perché in Cristo sono apparse, per la prima volta
nella storia, la compiuta umanità di Dio e la completa divinità dell'uomo.
L'avvento del Cristo, inoltre, non ha nulla d'antistorico poiché rappresenta
il punto di sutura di un doppio processo (metatastorico e storico
insieme) in cui, da una parte, assistiamo alla graduale e progrediente
soggettivizzazione dell’indidualità umana e alla nascita del pensiero
razionale evolventesi da quello meramente immaginativo e, dall'altra,
scorgiamo come il risalire della soggettività dell'io, alla conquista di una
progressiva obiettività in virtù del fermento cristiano che valorizza la
personalità umana nell’unitarietà degli intenti che spingono innanzi il
divenire del cosmo. Da una parte, quindi, abbiamo come una discesa dell'io
nelle singole monadi le quali, a mano a mano, vanno cosi differenziandosi
dall'io collettivo di gruppo o di tribù e, dall’altra, assistiamo come al
risalimento del tragitto in cui 1’io, già differenziato soggettivamente,
tende all'ampliamento dei propri confini individuali per possedersi come
personalità cosciente dei valori imperituri dello spirito. L'uomo nel suo
percorso risalente potrà quindi, a ragione, definirsi un microcosmo il cui
respiro diventerà sempre più sincrono con il ritmo spirituale del
macrocosmo.
***
Questa abbozzata visione che culmina nella “palingenesi” dell’umanità, va
tuttavia considerata sinteticamente, poiché se ci soffermassimo
separatamente all’analisi, cioè al periodizzamento storico delle varie
epoche e civiltà, potremmo trovare non tutto conforme a quanto in quest’ultima
parte è stato esposto tanto per il periodo precristiano, quanto per l’era
volgare. E se ci limitassimo, per esempio, di questo secondo periodo, a
considerare la lunga parentesi medioevale che, dopo il dissolversi
dell’unità del mondo romano, non appare affatto un’epoca in cui la società
feudale, sia negli istituti pubblici e sia per quanto riguarda il quasi
inesistente diritto privato, possa dirsi variamente articolata e
differenziata ed in cui gli individui si sentissero persone con la
conseguita capacità che il mondo, in essi, si rispecchiasse con contorni
netti e precisi. Ma ci par quasi d’assistere al ritorno di una primitività
uniforme nella quale la conoscenza immaginativa ha il sopravvento su quella
razionale. L’aspettazione del Millennio (e di tutto ciò che esso potesse
significare), il diffuso simbolismo, lo slancio mistico e l’attivismo degli
ordini mendicanti, S.Francesco e la leggenda francescana, Gioacchino da
Fiore e la sua visione di un rinnovamento della Chiesa, l’idea imperiale
germanica, la teocrazia e la libertà della Chiesa: tutto questo affiorare e
intrecciarsi di intuizioni, ispirazioni e motivi religiosi e politici (in
notevole misura anticipati dalla “teologia della storia” della Chiesa
paleocristiana e da Agostino, e, successivamente, sistematizzati nel
grandioso edificio della filosofia di Tommaso d’Aquino), tutto ciò ci
conferma che il climax spirituale (entro il quale il razionalismo
scolastico, imbevuto d’aristotelismo, nasce concludendo il Medioevo) della
lunga parentesi, è prevalentemente caratterizzato da un afflato
simbolico-immaginativo-profetico che dà forma e contenuto a tutta quest’epoca.
Ebbene, se tutto questo può essere assunto per caratterizzare il periodo
medioevale (e, quindi, per quanto prima si diceva, ciò possa apparire
contrastante con l’accennata intuizione secondo cui, con l’avvento del
Cristo, si assisterebbe, monadisticamente, alla metamorfosi dell’Io di
gruppo in quello dei singoli soggetti i quali accedono, gradualmente, alla
dignità di persone e, pertanto, al possesso della strumentalità razionale
per mezzo della quale il mondo appare come “oggetto”), ci soccorra, per
dirimere l’apparente contrasto, la concezione del Vico che la storia ha i
suoi corsi e ricorsi insieme con l’altra che ci dice che il progresso dello
spirito si muove in forma di spirale, come genialmente osservò il Goethe,
per cui abbiamo quasi un ritorno, in senso longitudinale, di atteggiamenti
storici apparsi in precedenza, ma un ritorno, però sempre in un punto più
alto (il che significa un ritorno dell’antico in presenza di nuovi contenuti
che si sono poi andati affermando). Per cui, se riflettiamo su quanto Vico e
Goethe hanno affermato al riguardo di un siffatto moto pendolare della
storia, per attenersi ad un’altra immagine, non discordante dalle
precedenti), ravviseremo, nella parentesi di cui si discute, non già
un’epoca di stasi o d’involuzione dello spirito (come un superstite
razionalismo illuministico dei nostri giorni ancora afferma), ma una fase di
raccoglimento e di preparazione insieme, preludio, anche per effetto
dell’apporto del pensiero, geometricamente rarefatto, dell’Aquinate, di
un’esplosione di nuove forze vitali; fase in cui un’intensa vita sotterranea
plasmerà l’unità europea erede, questa, di un patrimonio storico
ineguagliabile in ricchezza e varietà, quale quello accumulatosi nel capace
alveo mediterraneo in cui dalle matrici di fondo delle civiltà dell’antico
oriente (indiana, egiziana, assiro-caldaico-babilonese) sono sorte, non per
incanto, dicevo, e la severa religiosità dell’ebraismo, e l’incantevole
fioritura ellenica, e l’insigne maestà del romanesimo: le quali correnti di
vita vanno a confluire nel Cristianesimo che configura di sé quell’occidente
europeo (non senza il grosso pungolo dell’Islam), la cui formazione prende
inizio, come abbiamo visto, dall’età di mezzo.
Con l’imponente forza della concezione mosaica del Dio unico e del
radicalismo ebraico da una parte, con l’influsso del pensiero greco (da
Talete a Plotino) dall’altra, e qui non si trascuri Filone Ebreo
(d’Alessandria) e gli Esseni (di cui diffusamente nel secolo scorso s’è
occupato il valoroso rabbino Elia Benamozegh) che rappresentano il “momento”
di confluenza dell’ebraismo e dell’ellenismo, i tempi erano maturi
affinché nel vasto quadro dell’organizzazione politica romana, sorgesse e si
propagasse il nuovo Verbo di redenzione e di riscatto dell’umanità.
***
La venuta del Cristo, dunque, si attua nel punto d’intersecazione del doppio
processo storico da noi considerato: quello compiutosi fino al suo avvento,
e quello iniziatosi un breve tratto d’allora (duemila anni sono, in
verità, un breve cammino dall’avvento di Palestina rispetto alla storia che
lo precedette e ralativamente al tempo che ne seguirà), e che va, via via,
svolgendosi fino al termine dell’economia presente che, per quanto è stato
fin qui detto, segnerà l’inizio del regno dello Spirito.
Ed è in questa visione d’insieme che ho affermato che l’evoluzione della
natura (che, per quanto riguarda le forme organiche, come giustamente ha
intravisto il darwinista Ernesto Haeckel, nello sviluppo ontogenetico
“ripetono”, in modo abbreviato, la filogenesi), non separabile dall’uomo,
in quanto questi è la più alta espressione della natura perché sintetizza
e comprende in sé il regno minerale, quello vegetale e quello animale) e la
storia dell’umanità, per l’ulteriore conoscenza che di esse,
evoluzione e storia, dovrà farsi, vanno considerate da un punto di vista
cristocentrico.
Né Krishna, né Buddha, né Zoroastro, né Mosé, né alcun altro mai, ha potuto
di sé affermare come il Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita”. La
via della salvezza, lo spirito della verità e l’impulso creativo della vita
provenienti dalla personalità di Dio, si sono immedesimati nel prototipo
dell’umanità. La personalità del Cristo diventa per l’uomo sinonimo di
verità. A lui dobbiamo riguardare, affinché la luce di essa, alimentata
dall’amore, orienti il nostro spirito nel retto pensiero, nel retto
sentimento, nella retta volontà. In codesta rettitudine delle facoltà
dell’anima, la personalità umana, possedendo una strumentalità volta verso
il polo positivo della vita, diventa creatrice di valori e, pertanto, si
pone nell’ambito dello stesso processo creativo assecondandone, più o meno
coscientemente, i fini.
L’affermazione di Anassagora che l’uomo è la misura di tutte le cose prende,
dal Cristo in poi, un nuovo rilievo nel senso che la misura stessa non è più
un valore mediato dell’uomo a Dio, ma sussiste immediatamente nel
riferimento che di essa misura facciamo a Cristo: la pietra angolare della
verità e del processo creativo della vita.
A questo punto può sorgere legittima l’obiezione che ci sono pure individui
che informano il proprio orientamento di vita secondo verità, e quindi con
rettitudine, senz’essere, per questo dei cristiani. Ed io risponderò dicendo
che non si è nella verità in quanto si sia “cristiani” (e ciò è di per sé
lampante: non è una scoperta), ma si è cristiani se si ama la verità e si
opera conformemente ai suoi dettami, prescindendo dell’appartenenza e meno
alla denominazione di “cristiano”. Se si è cristiani anche senza essere
iscritti all’albo presso l’anagrafe dell’appartenenza.
……………………………………………………………………..
Vent’anni dopo (questa parte è in corso di rifacimento)
Rileggendo queste pagine non ulteriormente allora proseguite, alla distanza
di quasi un ventennio, l’estensore delle medesime vede oggi come potrebbe
modificarle per quanto riguarda la visione d’insieme.
Esse furono scritte, nelle condizioni di tempo e di luogo indicate dalla
lettera, che funge quasi da introduzione, utilizzando residui di carta a
disposizione e non sempre a portata di mano, durante un periodo di tre mesi
circa. Periodo alquanto lungo se si pensi che in condizioni normali e
potendo disporre di libri per le necessarie consultazioni, tale compimento
si sarebbe potuto stendere nel giro di pochi giorni.
Si tratta, come si vede, di un piccolo “quaderno del carcere” sui generis
che affronta un dato ordine di problemi, per lo più inconsueti, ad usum
delphini, cioè, avendo l’estensore il pensiero rivolto ai figli che
sarebbero potuti restare orfani del padre.
Nella lettera dedicatoria, si accenna a “Treviri” che, come ognuno oggi può
intendere, voleva significare Carlo Marx e il marxismo, ma è pur certo che
una concezione qual è quella sviluppata negli sparsi foglietti raccolti,
apparirà, da chi si pone nella visuale del marxismo-leninismo, come un fatto
imprevedibile e assurdo. Ma se poi viene a sapere che colui che l’ha
delineata, si professi marxista, la circostanza assumerebbe ancor più
l’aspetto di un che d’imprevedibilmente assurdo. Il che non è.
Se l’internato per motivi “politici”, riteneva allora, e ritiene oggi,
valido il marxismo per la sua carica rivoluzionaria intesa al sovvertimento
(graduale o violento: di ciò hanno deciso e decideranno le condizioni
“obiettive”), della società borghese come tale, e alla edificazione di una
società nuova in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione venga
abolita e cessi, di conseguenza, lo sfruttamento dell’uomo per mezzo
dell’uomo; ebbene, tutto ciò si configura, senza possibilità di
contraddizione, nella sua visione, ancorché il marxismo abbia dovuto
necessariamente prescindere da ogni considerazione di natura religiosa non
solo, ma abbia considerata la religione come ideologia intravedendo in
quest’ultima il “supporto” mistificatorio di cui i detentori del potere, in
ogni tempo e in ogni luogo, si sono serviti per impedire che si pervenisse,
una volta che si fosse imboccata la strada giusta, all’instaurazione di
quella “società degli uguali” (qui è detto emblematicamente senza un diretto
riferimento a Babeuf, ed è inteso “uguali” come punto di partenza e non
coercitivamente come punto di arrivo).
Non sfuggiva, pertanto, all’intendimento del recluso la ragione per la quale
il diritto di proprietà dovesse considerarsi “sacro”, come pure i motivi per
cui la detenzione e l’esercizio del potere fossero un tempo (e ancora oggi)
intesi come voluti da Dio (in persona!), con il conseguente fraintendimento
di ciò che doveva essere il “momento” necessario del potere in sé, con
quello che, invece, era la persona o la classe politica alle quali il potere
era stato conferito, oppure venne da esse strappato (ogni potere è più o
meno “strappato” e ancora attualmente, nell’ambito degli Stati moderni retti
a “democrazia”). E veniva pure, all’internato politico, a maggiormente
chiarirsi come il vero intendimento della personalità di Dio poteva
interamente informare quella stessa razionalità che si poneva come
distruttrice di “Dio”, inteso quale entificazione umana a supporto e a
suggello di ogni infamia e di ogni aberrazione. “Gott mit uns”, si leggeva
sulla placca della cinghia dei pantaloni indossati dalla soldataglia
hitleriana e “Francisco Franco Caudillo per la gracia de Dios”, si legge
tuttora sulle monete spagnole. “Porco dio”, era l’incontenibile grido che
venne fatto d’udire nelle trincee quando il combattente, maledicendo con i
pugni serrati protesi verso il cielo, s’abbatteva fulminato dalla mitraglia
o dalla scheggia di grata; ed il cappellano militare, che gli fosse stato
accanto, se era un vero credente pregava in silenzio affinché l’anima del
morente non si dannasse e se, invece, il cappellano fosse stato acceso del
cosiddetto “amor di patria” e fosse del pari tutto votato a santi, madonne,
miracoli e chiesa, non era guari che in cuor suo gli augurasse di andare
all’inferno (come a noi, in tempo posteriore, venne gridato in faccia dalle
SS d’andare “zum Teufel”, cioè al diavolo).
Ma molti non s’avvedono che la bestemmia diventa infrenabile e agisce come
terapia “d’urto”, come un’accusa terribile contro coloro che,
scandalizzandosene o facendo le viste d’indignarsi (come potrebbe accadere,
adesso ad un tipo quale l’on. Oscar Luigi Scalfaro), sono i diretti
responsabili dei quel che, secondo loro, offenderebbe la Divinità
provocandone l’ira ed il castigo.
E non è a caso che le leghe degli zelanti “contro la bestemmia” (ai quali
non vogliamo negare che facciano opera di bene), diventino attive specie nei
periodi e nei luoghi in cui all’oppressione clericale s’aggiunga pur quella
di tutte le varianti di fascismo.
I cartelli invitanti a non bestemmiare si trovano per lo più affissi negli
spacci di bevande alcoliche e in qualche negozio di periferia, dove si
ritiene che il turpiloquio sia più “facile” a un dato pubblico composto
d’operai, da gente di fatica, dal “popolo minuto” in genere.
Ed è significativo che nell’opinione dei benpensanti, che tende a imporsi
come opinione corrente, si associ la bestemmia al turpiloquio i quali
possono sì coesistere, ma , a ben vedere, non sono motivati o condizionati
da identiche cause. La bestemmia non scurrile, spoglia d’oscenità e
d’intrusioni falliche o erotiche, è qualcosa che sorge dal profondo; è
un’invettiva, una sfida contro l‘ipocrita concezione di Dio che le classi
dominanti vogliono coonestare e imporre. E siccome tali classi sociali e le
loro frange clientelistiche sono pur quelle che, in parecchie occasioni e
nei più vari modi, compiono atti che sono vere bestemmie al cospetto
di Dio e degli uomini, non accadrà mai di notare cartelli affissi contro la
bestemmia nelle hall dei grandi alberghi né nelle boutiques né nei night né
al Savini di Milano (in quanto in tali ritrovi non si fa turpiloquio come ,
del resto, non è difficile immaginare).
La ragione, che può varcare i limiti della mera sensorialità, era in grado
di distruggere quel “Dio” considerato e imposto come il
Supremo-reggitore-dell’universo che null’altro è quel “Dio” che
un’”immagine” caricaturale dell’Iddio vivente, un’immagine untuosa,
“castigatrice” e blasfema che l’ignoranza, l’infingardaggine e la viltà
degli uomini s’erano foggiata e della quale le classi egemoni (non esclusi i
reggitori ecclesiastici), si sono servite e si servono per soggiogare le
moltitudini. Le cerniere che tengono ideologicamente e materialmente avvinte
le masse ad un sistema truffaldino e iniquo (nel mentre le stesse reclamano,
con forza ormai dirompente, la propria libertà di essere uomini in tutta
l’estensione del termine), non potranno che ineluttabilmente saltare! (E qui
non si riecheggia lo sdegno carducciano).
C’è ora da aggiungere che nella stessa misura in cui l’uomo ami Iddio, od in
eguale intensità tutto quel di menzognero si appelli al Suo nome. Ma v’è di
più: colui che è nemico della menzogna in tutte le sue manifestazioni e
spende, a volte, tutta la sua vita per smascherarla ove essa si annida, e
così operando riesce a trasformare (per usare termini assai familiari) il
male in bene, questi sarà l’uomo che veramente ama Dio (ed è da Dio amato),
sebbene possa accadere che un uomo siffatto non “creda”, nel senso come
generalmente s’intende, in Dio. Abbiamo qui una radicale “trasmutazione dei
valori”, non alla maniera nietzscheana (ché tale trasmutazione significava
gettar via, insieme con l’acqua sporca, anche il bambino accovacciato nella
tinozza), ma nel vero senso del termine, cioè di una radicale inversione di
tutto quello che si ritiene siano i valori e in realtà non lo sono affatto:
sono tutte bottiglie etichettate con contenuto adulterato.
Gli atei, che sono per lo più persone rispettabili, comunque, assai meglio
rispettabili degli atei “cristiani” (se non altro perché qui c’è patente
contraddizione tra la denominazione e la sostanza umana, e là contraddizione
non c’è), scrivono, non a torto, dio con la “d” minuscola e ne hanno ben
donde, in quanto quello che viene propinato ufficialmente e comunemente con
tale termine (ma con la “D” maiuscola), non è un dio fantoccio (con o senza
barba e triangolo). Soltanto i negatori di dio, nel senso indicato, erano
atti, in talune precise circostanze storiche, ad essere realmente degli “apoti”,
cioè di quelli che “non la bevevano” e sputavano anche in faccia a coloro
che volevano “darla a bere”.
Un altro tipo (e giova rammentarlo), tra quelli che credevano di darla a
bere, ma di diverso contrassegno politico del sopraricordato Scalfaro, è l’on.
Gaetano Martino, il quale da buon liberale, scienziato e volterriano, non
disdegnò a genuflettersi con compunzione al cospetto dell’allora regnante
Pio XII. Ed un altro nostro parlamentare ed ex ministro (che, tuttavia, non
crediamo s’inginocchierebbe poiché, fintanto che il suo partito non getterà
alle ortiche il marxismo come hanno pur fatto i socialdemocratici tedeschi,
egli si considera “marxista” ed in tale veste, com’è evidente, sarebbe assai
disdicevole inginocchiarsi al Papa), il quale fa parte della medesima
schiera di propinatori d’acqua non sempre potabile, è l’anticlericale Paolo
Rossi che, in merito alla questione della sovvenzione alle scuole private da
parte dello Stato, non pare si sia comportato all’altezza del sottinteso suo
laicismo. Ed anche per questa figura d’uomo, ci siamo lasciati andare ad un
divertissement, a conforto e ammaestramento di tutti quelli che,
divertendosi pure un po’, sappiano trarre le dovute conseguenze e non
vengano distratti dalle apparenze, vale a dire dalle varie etichette invalse
sul mercato. E qui torna opportuno ricordare, a suo merito e lode, però un
altro Paolo, vale a dire, Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano, il
quale in un pubblico dibattito, tenutosi or non molto alla Casa della
Cultura, affermò, tra le proteste di qualcuno presente in sala, quanto
ardentemente egli, durante l’ultima guerra, e in servizio militare per
giunta, desiderasse la sconfitta della diletta Italia: unico mezzo, questo,
che ci avrebbe liberati dall’odiato fascismo. Tale affermazione non era
soltanto scandalosa per molte orecchie, ma rappresentava una inaudita
bestemmia, che noi mettiamo sullo stesso piano di protesta di quella
sfuggita al labbro del “milite ignoto” della prima guerra mondiale e a cui
abbiamo, implicitamente, reso un doveroso omaggio. Che tuttora tali
bestemmie contro la maestà di “Dio” e della “patria” suscitino l’ira delle
più svariate canaglie del nostro Paese ove “il sì suona”, ciò è la comprova,
a luce meridiana, di quanto quelle “bestemmie” non siano affatto tali, e a
proposito della trasmutazione dei valori accennata sopra, abbiamo in questo
caso la “reciproca”, cioè la dimostrazione inversa che quanto viene
considerato un accadimento negativo, quindi da condannare, è invece qualcosa
di molto positivo, pienamente valido.
Per cui non possiamo esimerci dal dare il nostro plauso al direttore del
“Piccolo” e a quanti che, al pari di lui, non si arrestano né si arrendono
di fronte ai vari tabù in circolazione che, come moneta cattiva, scacciano
quella buona. E la moneta buona è, a nostro avviso, la facoltà di saper
vedere in ogni circostanza di luogo e di tempo, come effettivamente siano le
cose in se stesse e nelle loro reciproche e mutevoli relazioni. Ci piace
ancora accomunare il nome testé fatto, quello di Lelio Basso, di Ernesto
Rossi e di Mario Melloni, i quali quattro, pur nelle diverse sfere in cui
agiscono, sono spinti da una congeniale attitudine, in quanto “apoti”, ad
ammonire gli ignari a tenere bene aperti gli occhi quando dovessero, al
caso, transitare nei pressi di via Montenapoleone o di via Veneto (a tacer
del resto!). Torna utile fare anche notare che tali uomini, oltre a “non
volerla bere”, non sono per nulla disposti a “darla a bere” e da qui ci
sorge il dubbio (non è una malignità), che quei quattro, ciascuno
nell’ambito della propria competenza ed esperienza (che non è trascurabile),
saranno difficilmente invitati a tenere conferenze all’Istituto per gli
Studi di Politica Internazionale e al “Centro” (d’alta cultura) Pirelli
situato nell’omonimo svettante grattacielo.
È necessario poi chiarire, in merito al termine apoti, che noi lo abbiamo
usato con un significato assai diverso da quello impressogli dal conio
prezzoliniano e da cui detta locuzione ebbe origine. Per Prezzolini e per
quant’altri della sua mentalità, il non volerla bere era un atteggiamento
tra lo scettico e l’infastidito, per cui non valeva proprio la pena di
mettersi in mezzo ai disputanti di cui ognuno volesse dir la sua; si
stimavano, i prezzoliniani, di non essere così “grulli” da prestare
attenzione alle varie accese e inconcludenti dispute del momento (non
volevano, in sostanza passare per “fessi”). Da parte, invece, di quelli che
ho nominato, non si tratta affatto di “non berla” e…. lasciar correre, cioè
“lasciar pur che il mondo dica”, ma si tratta di un atteggiamento né
spassionato né “distaccato”, di un reale impegno, politico e morale,
tendente soprattutto a far sì che gli altri non bevano! Il che, ognuno lo
vede, “è un’altra cosa”, come da tempo lo slogan di una nota
aranciata ci aveva insegnato (la quale peraltro, malgrado il prezzo un
tantino sostenuto, vien “bevuta” in quantità).
La scomparsa della dimensione statuale e di quanto essa implichi come
“dittatura”, rappresenta il punto più avanzato dell’intuizione
avveniristica del marxismo nella quale, peraltro, alcuni marxisti hanno
creduto di scorgere qualche venatura di “utopia”. Ora, dal nostro punto di
vista, non solo la scomparsa dello Stato sarà un fatto certo in una società
comunista perfettamente articolato, ma quando ciò sarà pienamente attuato,
si dischiuderanno, com’è intuitivo, ben altre possibilità di libero sviluppo
dell’uomo per quel che riguarda il potenziamento della sua complessione
“caratteriologica” nel senso di quanto venne avvertito discutendo del
“carattere” nella riportata notazione del carcere. Non vogliamo apparire
immodesti, ma non ci sembra immotivata la persuasione che, qualora Antonio
Gramsci si fosse “incontrato” con una siffatta previsione (che non ha nulla
di “profetico”, di vaticinio), egli, da par suo, non l’avrebbe respinta, o
quanto meno, non avrebbe disdegnato di considerarla valida come “ipotesi di
lavoro”.
Un magnifico esempio di carattere, è rilevato dalla lettera che un operaio,
il conciapelli Joseph Dietzgen, indirizzò al “signor dott. Karl Marx a
Londra”, il 7 novembre 1867 da Pietroburgo (esattamente 50 anni prima dello
scoppio della Rivoluzione d’Ottobre), nella quale si può leggere quanto
segue:
«(…) Lei esprime per la prima volta in forma scientifica, chiara e
irresistibile, ciò che d’ora innanzi sarà la tendenza cosciente dello
sviluppo storico, quella cioè di subordinare alla coscienza umana la forza
naturale, finora cieca, del processo sociale di produzione. Aver dato
ragione a questa tendenza, averla aiutata a comprendere che la nostra
produzione è avventata, questo è il suo atto immortale, stimatissimo
Signore! Il tempo gliene recherà riconoscimento generale, glielo dovrà
recare. Leggo tra le righe della sua opera che il presupposto della sua
profonda economia è una filosofia profonda.
Siccome quest’ultima mi ha dato molto da fare, non posso reprimere il
desiderio di metterla a conoscenza delle mie aspirazioni
scientifiche, confessandole nello stesso tempo che sono un conciatore con
istruzione soltanto elementare.
Il mio obiettivo è stato fin dall’inizio, una sistematica concezione del
mondo; Ludwig Feuerbach me ne indicò la via. Molte cose però le devo al mio
proprio lavoro, cosicché posso ben dire di me: le cose universali, la
natura dell’universale, oppure “l’essenza delle cose” mi è scientificamente
chiara. Ciò che mi rimane da sapere sono le cose particolari. (…) La
base di ogni scienza sta nella conoscenza del modo in cui si svolge il
pensare. (…) Ogni essere è un apparire più o meno costante,
ogni apparire è un essere più o meno costante.
Tutte le cause sono effetti e viceversa. Entro una serie di fenomeni
susseguentesi, ciò che precede, in generale si chiama causa. Di 5
uccelli, per esempio, a causa dello sparo, 4 si alzano in volo. Dunque lo
sparo si chiama causa del volo dei 4 e l’impavidità causa del fermarsi
dell’uno. Se, invece, 1 vola e 4 rimangono fermi, allora non è più lo sparo,
ma la paurosità che si chiama causa del volo. (…) Pesando una balla di merci
si maneggia a libbra la gravitazione, senza riguardo alla materialità
del peso. Quell’insipido di Büchner disse: “Ora, ciò che mi occorre sono i
fatti”, ma egli non sa quello che gli occorre; alla scienza non importano
tanto i fatti quanto la spiegazione dei fatti, non tanto le materie quanto
le forze. (…) “La forma non è visibile”. Eh, via, il vedere stesso e ciò che
vediamo è pura forza. (…) La differenza tra apparire ed essere non è
quantitativa. La facoltà del pensare, dal molteplice compone l’uno,
dalle parti il tutto, dal perituro l’imperituro, dagli accidenti la
sostanza. (…)
Voglia perdonarmi, stimato Signore, se mi sono permesso di approfittare in
tal modo del suo tempo e della sua attenzione. Ho creduto di farle piacere
dimostrando che la filosofia di un operaio è più chiara che non la media dei
nostri professori. Un plauso sarebbe da me apprezzato assai di più di quanto
lo potrebbe essere la nomina di qualche accademia che mi volesse accogliere
tra i suoi membri. Termino con la rinnovata assicurazione della mia fervida
partecipazione ai suoi sforzi che oltrepassano di gran lunga la nostra
epoca. (…)»
Qui è dato scorgere quanto la forma di un carattere che s’avviava
coscientemente alla comprensione del mondo, avesse sicuri presentimenti
avveniristici in virtù di una capacità di pensiero che sapeva bruciare,
all’istante, le erbe, per esso già disseccate, di un positivismo
scientifico, culturale e ideologico che ancor tanta influenza doveva
esercitare sulle menti nello scorcio del secolo. Questo era
sorprendentemente in atto quasi cent’anni fa, quando, da noi, uomini (per
indicare alcune personalità dell’Italia risorgimentale e
post-risorgimentale), disparatissimi tra loro sia per le diverse matrici
culturali da cui provenivano, sia per età e sia come individui quali, ad
esempio, Terenzio Mamiani Della Rovere, Cesare Cantù, Augusto Vera, Ruggero
Bonghi, Enrico Nencioni, Gaetano Negri, Isidoro Del Lungo, Ferdinando
Martini; uomini, peraltro, “probi e preclari”, come allora si sarebbe potuto
dire di loro, erano ben lontani dal concepire qualcosa ch’equivalesse, in
forza ed in “modernità”, al pensiero dell’operaio tedesco-russo.
Come pure oggi, dal dopoguerra in poi, se analogamente scegliamo alcuni nomi
di uomini pur preclari sebbene, forse, non tutti probi (in parte, nel
frattempo, defunti e in parte viventi, e dai più anziani ai più giovani),
come Ettore Janni, Giulio Caprin, Alberto Bergamini, Giovanni Conti, Enrico
De Nicola, Luigi Einaudi, Bernardo Berenson, Pantaleo Carabellese, Tommaso
Gallarati Scotti, Mario Missiroli, Emilio Cecchi, Fausto Nicolini, Epicarmo
Corbino, Luigi Salvatorelli, Panfilo Gentile, Novello Papafava de’ Carraresi,
Vincenzo Arangio Ruiz, Mario Vinciguerra, Giovanni Ansaldo, Giuseppe
Maranini, Nicolò Carandini, Vittorio de Caprariis, Francesco Compagna,
Giovanni Spadolini e altri ancora; potremmo constatare che, non avendo noi
operato accostamenti “ibridi”, sebbene non perfettamente omogenei (Compagna
non andrebbe certamente a braccetto con Spadolini, ancorché ciò non possa
escludersi, in assoluto, in seguito ad un eventuale futuro “voltafaccia”
dell’uno o dell’altro, né, tanto meno, si può ragionevolmente ritenersi che
Carandini proponga a Mario Pannunzio la collaborazione di Ansaldo per il
settimanale “Il Mondo”, pur nella considerazione che, dopotutto, costui
collaborasse illo tempore a “La rivoluzione liberale” di Piero
Gobetti), il quadro culturale che detti nomi complessivamente rivelano, è
alquanto impermeabile all’accoglimento di tutto ciò che possa sopravanzare
le promesse ideologiche proprie all’assetto capitalistico-borghese.
E per tornare a Joseph Dietzgen, non possiamo esimerci dal riflettere che un
tale esempio di vita, una simile esistenza, facesse parte dell’immenso
anonimato di una società: per cui ne consegue che uomini di siffatta
tempra vivono e si avvicendano nel tempo sconosciuti (e non
“emergono” sia per ragioni obiettive e sia per ragioni soggettive senza
potersi escludere che intervenga in alcuni di essi il deliberato proposito
di non “farsi avanti”, di non “farsi strada”, di non “essere qualcuno”). Sia
detto incidentalmente, gli apostoli, per quanto possiamo arguire, erano
degli sconosciuti nella società palestinese di quel tempo ed anche noi, ad
eccezione di Pietro, Giacomo di Zebedeo, Giovanni, Matteo, Tomaso e Giuda,
ben poco conosciamo della loro personalità all’infuori di ciò che è
leggendario. Ma non per questo, tuttavia, detti uomini sono meno
“produttivi” delle personalità di “chiara fama” le quali, peraltro, nella
quasi generalità dei casi, sono impediti da ciò che dipende dalla
“risonanza” del proprio nome (dal fatto di essere “personaggi” e interpreti)
per non esporsi a compiere quanto essi potrebbero effettivamente fare, a
profitto della generalità, e non fanno. Gli uomini conosciuti, molto
spesso, hanno più che altro (specie quando sono arrivati in vista del
“traguardo”), un patrimonio cosiddetto “morale” da difendere, acquisito per
doti naturali, in virtù pure di perseveranza e tenacia e conquistato anche
con abilità e accorgimenti vari; per cui, non raramente, sono mal disposti a
“compromettersi” per il reale avanzamento dei propri simili sebbene non
sempre entrino in gioco, grettamente, considerazioni che riguardino il
periodo “particulare”. E tra costoro intravediamo molte facce di uomini del
nostro tempo che in privato ti parlano in un modo, mentre quando scrivono o
s’indirizzano agli astanti in un pubblico dibattito (anche ora che l’Ovra
non funziona più da un pezzo!), parecchie argomentazioni dette a tu per tu,
non vengono accennate e svolte perché: “che cosa ne penserà il tale che è
qui presente in sala?”. E noi, altresì, sappiamo quanta gente produca
intellettualmente rivolta con pensiero o con l’immaginazione a questo o a
quelli pubblici e non tanto perché, nel migliore dei casi, ciò corrisponde
ad una esigenza quale è quella di dover, nelle proprie considerazioni,
tenere presente un dato pubblico che abbia raggiunto quel sottinteso livello
di comprensione di modo che quell’adeguazione diventi proficua, stabilendo
essa un intellegibile rapporto tra “l’intellettuale” ed il suo universo
(adoperiamo qui una locuzione invalsa nelle “ricerche di mercato”); quanto
perché l’adeguazione stessa vuol diventare, comunque, motivo di approvazione
stessa per trarre quei vantaggi d’ordine pratico che l’approvazione stessa
può offrire. Abbiamo, dunque, in questo secondo caso, più la preoccupazione
del successo esteriore che non il bisogno di affermare qualcosa di
valido in sé.
Da qui mette conto aggiungere che la teoria del successo considerata come
strenua affermazione dell’individuo sia negli affari e sia in qualsiasi
altro campo della vita sociale, non è congruente ai fini della reale
affermazione della personalità, poiché il miraggio ed il conseguimento del
successo si svolgono sempre in una dimensione “esterna” senza che possa
sussistere, in dipendenza della prevalente e permanente estroflessione
che ne deriva, alcuna relazione (o intermediarietà) con ciò che di razionale
l’uomo avverte per il suo benessere.
Il benessere dell’uomo riposa essenzialmente nella sua capacità di compiere
atti che non ledano i diritti della sua “interiorità” e quella degli altri.
Il successo non tiene in nessun conto tali diritti; esso li sacrifica (e li
richiede in contropartita a colui che al successo mira e del quale,
sostanzialmente, è schiavo), e “succhia” dal soggetto che è l’uomo (come se
si trattasse di una specie di vampirismo), quell’energia di “equilibrio”
delle facoltà e tra le facoltà, senza la quale il soggetto non può che
“alienarsi” nel senso marxiano e come vedremo in seguito da alcune
considerazioni kafkiane.
Non è un mistero che l’uso dei tranquillanti, specie negli Stati Uniti, che
serve pur anche alla logica irrazionale (non è una contraddizione in
termini) di avere sempre a disposizione l’ennesimo prodotto da vendere, è la
conseguenza di quello squilibrio, determinato dalla spinta al successo ad
ogni costo. Il successo per antonomasia, nelle presenti condizioni della
società, è l’accaparramento del danaro, della ricchezza, come fine a se
stesso. Ricchezza che diventa strumento di potere nell’illusione che il
comandare alla gente, sottoposta a un dato condizionamento, equivalga
all’effettivo esercizio del potere, il quale non può realmente esplicarsi in
mancanza di consenso (espresso o tacito), di coloro che dovrebbero
ubbidire. Non ci sono human relations che tengano finché la
“proiezione” del successo e dell’acquisizione ad ogni costo del
danaro (o di beni economici), solleciti irrazionalmente l’uomo a far rigetto
dei propri diritti di personalità cosciente. Tale suggestione non può, alla
fine, che portare all’inaridimento dell’uomo per l’imposta sua
“integrazione” (senz’alcun altro scampo se non l’evasione) nella sola
sfera esterna. La sfera esterna, da sé sola, è illusione. Non è,
quindi, affatto il successo quello che veramente conti, ma quello che è
soprattutto importante, essenziale, per l’uomo moderno (come ognuno se ne
può avvalere), sta nell’essere compos sui, cioè essere in possesso
dell’equilibrio di tutte le sue facoltà. La differenza tra l’uomo libero
(cioè colui che non tende mai al successo come scopo essenziale ) e l’uomo
integrato (cioè colui che non vive che in funzione del successo) sta
nel fatto che il primo, di fronte ad un insuccesso o, anche, di una serie
d’insuccessi, trae occasione per correggere se stesso e, quindi, influire
diversamente e meglio sulle cose (possiede l’”energia” sufficiente); mentre
il secondo, pur possedendo doti da lottatore, può essere indotto a
considerare un insuccesso (di una certa portata) come un “fallimento e,
quando un uomo si ritiene fallito, bisognerà tutt’al più ricorrere allo
psicanalista.
La filosofia moderna che s’instaura con la dissoluzione della Scolastica e,
attraverso la cultura rinascimentale, la riforma religiosa, il misticismo
tedesco, la rivoluzione copernicana, l’epoca delle grandi scoperte
geografiche, l’empirismo inglese, il razionalismo franco-olandese, l’età
dell’Illuminismo, la rivoluzione francese, si “sistemizza” con Kant, e poi
riprende rigogliosamente procedendo fino a Hegel, e qui si assiste ad una
seconda dissoluzione che sarà altrettanto benefica; attraverso tale processo
storico, la filosofia moderna non poteva che giungere all’”uomo copernicano”
(Banfi) di oggigiorno, al marxismo che realmente sta trasformando il
mondo. Il marxismo, “punto d’approdo della filosofia classica tedesca”, per
il clima storico-culturale in cui è sorto ed in vista dell’immane compito
che gli stava innanzi, doveva far tabula rasa di ogni idealismo, di
ogni trascendentalismo (nei quali acutamente vedeva, e vede, annidato, al
caldo, le forze della conservazione e della reazione a tutto disposte
purché nessuna cosa cambi che attenti alla fruizione del loro potere.
Vorremmo qui aggiungere, sempre tra parentesi e in forma di domanda: e chi
non ricorda il “costi quel che costi” di degasperiana memoria, se tale
pervicacia, seminatrice di zizzania e conducente alla “legge truffa”, non
impallidisse di fronte alla pubblica dichiarazione, fatta in America dall’on.
Pella, che per la propria figlia sarebbe stata desiderabile la morte atomica
piuttosto che vivere sotto un regime comunista?), e attestarsi nella
dimensione “materiale”, concreta, della vita del mondo.
Ed è pur qui, se vogliamo, che s’attua il processo risolvente dello Spirito
che butta a mare lo “spiritualismo” (che, tra l’altro, il fatuo Mussolini si
dilettava considerare caposaldo della “dottrina” gentiliniano-fascista dello
“Stato etico”). Ed è altresì qui che i genuini “uomini di Dio” (quelli senza
frode, che vennero nel “quaderno” sopra riportato, considerati quali
“collaboratori”), si associano contro tutto ciò che vi è di mistificatorio
nella ”religione”, i quali uomini non vogliono affatto impegnare i “figli
del secolo” a “credere” in Dio, dato che tale “credenza” (che non significa
fede), li distoglierebbe infruttuosamente dal compito di far “massa”,
affinché l’assetto capitalistico-borghese vada in frantumi.
Nell’ora presente e in siffatte condizioni, a che serve, per il progresso
dello Spirito e dell’umanità, trovare, sul piano delle idee, una
composizione “dottrinale” che voglia conciliare il marxismo con il pensiero
“cristiano” (quale?).
Cui prodest? Non è ciò che risponde al “porro unum necessarium”
dell’ora che volge. Ciò che occorre, ciò che è “indilazionabile” e “fatale”,
è uscire dall’attuale condizionamento dei “alienazione” in tutti i
campi della vita associata. Riportiamo qualche riflessione di colui che ha
colto alcuni aspetti di alienazione (non clinica), senza forse aver saputo
che tali aspetti si sarebbero potuti ricondurre a quel che Marx disse in
proposito e a quel che oggi generalmente s’intende con detto termine:
“come quando uno deve salire solo cinque gradini bassi, e un altro uno
scalino soltanto, ma per lui così alto come quei cinque messi insieme: il
primo farà senza fatica non solo quei cinque, ma cento e mille altri, avrà
condotto una vita grande e faticosa, ma nessuno dei gradini superati avrà
per lui l’importanza che per il secondo ha quell’unico gradino, troppo alto
per le forze, che non riesce a salire e tanto meno a mettersi dietro le
spalle (…) e un po’ quando uno aspetta di essere impiccato. Una volta
impiccato, muore e tutto è finito. Ma chi deve vivere tutti i preparativi
per l’impiccagione e solo quando il capestro gli pende davanti il viso,
viene a sapere di essere stato graziato, quello può continuare a soffrire
tutta quanta la vita. (…) È come se uno fosse prigioniero e volesse non
soltanto fuggire, il che forse sarebbe possibile, ma anche trasformare la
sua prigione in un meraviglioso castello. Se fugge, non può costruire, e se
costruisce non può fuggire. (…) Sposarsi, mettere su famiglia, accettare
tutti i figli che vengono, provvedere a loro in questo mondo insicuro,
guidarli anche un po’ è, secondo la mia convinzione, la meta più alta che un
uomo possa proporsi. Che in apparenza tanti vi riescano facilmente non
dimostra il contrario: anzitutto non sono proprio molti quelli che realmente
vi riescono, e poi questi non-molti non scelgono, ma accettano”.
(…) /[Il padrone definiva]/“i dipendenti nemici pagati; forse lo
erano, ma prima che lo diventassero, /[il padrone]/mi sembrava il loro
nemico pagante. (…) /[se si potesse]/”essere liberi da angustie,
comprensivi, contenti, non despoti (…) bisognerebbe che quanto è accaduto
non fosse accaduto, noi stessi dovremmo essere cancellati” (da Franz Kafka:
“Lettere al padre”).
Da un simile trambusto angoscioso, sterile e vano; dagli stretti margini
consentiti per operare, in realtà, non liberamente e che tendono vieppiù a
restringersi; dalla conseguente dispersione di vitali e produttive energie,
occorre hic et nunc uscire. Dopo di che ci sarà tempo e modo per
“comporre”, sul terreno delle idee, le contrapposizioni esistenti le quali,
dopo che avremo raggiunta l’altra sponda, verranno ad assumere tutt’altra
configurazione e potranno anche risultare non più “contrapposizioni”.
A questo proposito, ci sia consentito di citare quanto l’estensore della
presente nota, ebbe a scrivere nel 1946 in polemica con un responsabile dc
di Bolzano a proposito della sciocca alternativa “o Roma, o Mosca”.
“S.Agostino concepiva per lui “due città”, la civitas Dei
(Gerusalemme) e la civitas terrena (Babilonia). Tale concezione è a
fondamento della sua filosofia della storia e rappresenta la doppia natura
dell’umanità e l’antinomia della vita del mondo. Egli, fra l’altro, ci dice
testualmente: “Le due città sono frattanto mescolate insieme. Il grano e la
paglia stanno mischiati sull’aia. Le due città lottano a gara, l’una a
favore dell’iniquità, l’altra a favore della giustizia. E la mescolanza nel
tempo è così sostanziale e profonda che può capitare, a volte, che i
cittadini di Babilonia amministrino le cose (sante) che appartengono a
Gerusalemme e gli ‘apparenti’ cittadini di Gerusalemme amministrino
effettivamente le cose (inique) appartenenti a Babilonia”.
Che significa ciò? Ciò significa che nessun organismo (sia pure quello
eletto per l’amministrazione delle cose di Dio), è esente dalla
corruttibilità e, quindi, ‘può capitare, a volte’, che tra i custodi del
tempio, tra gli appartenenti al gregge del Signore, si trovino coloro
che si adoperano ‘a favore dell’iniquità’, mentre al di fuori del sacro
recinto possono annoverarsi i proclamatori della verità, gli apostoli della
giustizia, gli eroi dello spirito. E ai primi sarà negata la facoltà di
erigersi a giudici poiché si sono resi indegni dei compiti loro affidati.
Essi saranno invece chiamati a giudizio dagli oltraggiati figli della ‘città
terrena’. (…)/[E dunque]/, non potrà succedere che gli iscritti all’anagrafe
della ‘materialistica Mosca’ siano in grado, a tempo e a luogo, di insegnare
agli ‘apparenti’ cittadini di Roma, come si amministrano le cose dello
spirito dopo che ben ebbero provveduto a sfamare gli affamati, a
dissetar gli assetati, a vestire gli ignudi, che è quanto dire aver
provveduto per tutti ai loro bisogni materiali?”
Oportet ut scandala eveniant e non dubitiamo che il presente
documento e la chiosa aggiuntiva non siano uno scandalo per molte orecchie,
timorate e non timorate.
Quanti degli epigoni “volterriani”, cioè i laicisti borghesi, non si
troverebbero oggi, in realtà a mal partito se volessero esprimere qualcosa
di valido tendente a distruggere la legittimità di una visione qual è
quella abbozzata nelle notazioni riportate? E quali mai sarebbero gli
anatemi che dalla parte più retriva degli esponenti ecclesiastici e del
laicato confessionale, verrebbero scagliati contro coloro che si dicessero
non in disaccordo con le idee qui espresse?
Un fatto, però non risulta dubitativo ed è questo: prescindendo dalla
persona che in un momento della sua vita ed in particolari circostanze è
stato indotto a fissare il suo pensiero, nel modo in cui l’ha fissato, la
semplice constatazione che nel quadro di una “Weltanschauung” siffatta (il
cui arco spazia oltre i consueti limiti entro i quali oggi i problemi
generalmente si pongono), il marxismo trovi il riconoscimento che gli è
dovuto per il valore universale che in sé contiene al di là delle
premesse filosofiche che possono condizionarlo e lo condizionano; la
constatazione, dicevamo, di una simile circostanza non può che rimettere in
discussione ab imis tutta quanta la tematica di coloro che tuttora si
dichiarano fieri avversari del marxismo e del movimento comunista mondiale.
Dal nostro punto di vista la “rottura” cinese, tendenzialmente si pone come
una frattura “ideologica”, ma non sarà mai tale da ostacolare (forse,
a momentaneamente rallentare) l’avanzata in atto del socialismo, senza che
si debba escludere che, alla fine, tale rottura (considerata rispetto ai
problemi di fondo), possa risultare un accadimento positivo per il movimento
proletario nel suo complesso. Diremo più innanzi quanto il caso
possa, a volte, rappresentare nel gioco politico una circostanza favorevole
o sfavorevole con riferimento a dati rapporti di forza.
Inoltre, pur ammettendo la possibilità, del resto intuibile, che pensatori
marxisti e militanti socialisti e comunisti non siano disposti ad accettare
una concezione qual è stata delineata in queste pagine, nulla può essere
tolto, in dipendenza di tale rifiuto, né alla visione prospettata né al
marxismo in quanto tale (che è tuttora un sistema aperto volto alla
comprensione della realtà effettuale per poterne, con cognizione di causa,
operare la trasformazione). E il fatto che, comunque, ai fini del
progressivo sviluppo dell’uomo integrale, ci siano uomini che,
partendo da premesse d’ordine spirituale (e non spiritualistico, come
abbiamo già detto), si dichiarino alleati del movimento comunista, non v’è
alcun dubbio che — malgrado una diversa (e legittima) prospettiva della
visuale marxista — tale alleanza (senza che necessariamente intervengano da
una parte e l’altra negoziati o intese), non potrà mai ragionevolmente
essere respinta dai responsabili del movimento stesso. Mentre, se
un’apertura di ostilità potrà verificarsi contro un modo di concepire la
realtà dello spirito di cui qui s’è data notizia, essa non potrà che
provenire dall’altra parte dello schieramento e ciò vorrà significare che
non tanto importi a codesta schiera l’accettazione o non, in sede teorica,
dei pensieri qui espressi quanto, invece, ci si preoccuperà – senza qualche
fondato motivo – degli effetti pratici che una posizione, per molti versi
impreveduta e imprevedibile come la nostra, può condurre.
Tale schiera ben s’avvale di ogni caso fortuito che non
infrequentemente s’affaccia e incidentalmente si produce nella successione
dei fatti, per dirottare in senso ad essa favorevole il corso degli eventi,
in nulla preoccupata delle palesi contraddizioni che emergono dall’abbandono
di una linea per un’altra; abbandono dovuto, per l’appunto, alla
disposizione di rincorrere la casualità e utilizzarla a proprio vantaggio.
Lo sfruttamento del caso in modo conseguente ai fini della conservazione e
della reazione, riesce a protrarre per decenni situazioni irrisolte in
quanto esso, dopo esser stato utilizzato, consente, per altro verso,
soluzioni di recupero alla classe dirigente e tutto ciò si verifica a danno
della maggioranza della collettività, sol perché è proprio l’esercizio del
potere che più efficacemente (e con effetti più duraturi), consente ai
detentori del potere stesso di operare in settori in cui lo sfruttamento del
caso fortuito – ad essi favorevole – non può essere reso inoperante se non
dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Ed il caso fortuito, che diventa
favorevole per coloro che se ne possono avvantaggiare, si presenta, in
misura uguale e contraria, come un ostacolo pure fortuito e decisamente
sfavorevole per tutti quelli che non sono nelle condizioni – per i rapporti
di forza esistenti – di neutralizzare, quanto meno, gli effetti della
casualità che interviene nella lotta politica.
Del ruolo che giocava il caso negli accadimenti storici, si fa menzione
nella lettere del 17 aprile 1871 che Carlo Marx indirizzava al Kugelmann,
quando gli insorti di Parigi stavano per essere schiacciati dalla
solidarietà franco-prussiana in senso antiproletario (solidarietà che ancor
oggi si ripropone con l’asse Parigi-Bonn). Diamo qui di seguito il contenuto
essenziale della lettera allo scopo di meglio precisare quanto sopra detto e
per offrire una dimostrazione sul “vivo” di ciò che debba intendersi per
caso nel senso contemplato:
(…) “Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si
accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente
favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di natura assai mistica se
le ‘casualità’ non vi avessero nessuna parte. Queste casualità rientrano
naturalmente esse stesse nel corso generale della evoluzione e vengono a
loro volta compensate da altre. Ma l’accelerazione e il rallentamento
dipendono molto da queste ‘casualità’ tra cui figura anche il ‘caso’ del
carattere delle persone che si trovano da principio alla testa del
movimento.
Il ‘caso’ decisamente sfavorevole non è da cercare affatto questa
volta nelle condizioni generali della società francese, bensì nella presenza
dei prussiani in Francia e nella loro posizione alle porte di Parigi. I
parigini lo sapevano bene. Ma lo sapevano bene anche le canaglie di
Versailles. Perciò esse posero ai parigini l’alternativa di accettare la
battaglia o soccombere senza battaglia. La demoralizzazione della classe
operaia in quest’ultimo caso sarebbe stata una sciagura molto più grave
della perdita di un qualsiasi numero di ‘capi’. La lotta della classe
operaia contro la classe capitalistica o il suo Stato è entrata, grazie alla
lotta di Parigi, in una nuova fase. Qualunque sia il risultato immediato, un
nuovo punto di partenza di importanza storica universale è conquistato”.
A questo punto siamo portati ad un diverso ordine di considerazioni
tendente, tra l’altro, a stabilire come una classe egemone, in fase
regressiva, non sarà giammai in grado di creare quelle condizioni che
favoriscano l’accoglimento di date “verità” che potrebbero, non diciamo
risultare ad esse “pericolose”, ma che la non “maturità” dei tempi non
sarebbe in condizione di ricevere. Mentre, per converso, l’egemonia di una
società su se stessa (vale a dire di una società senza classi), attua
condizioni tali per cui l’inserimento del nuovo nella circolazione
delle idee, non sarà mai condizionato, e quindi impedito, da una possibile o
pretesa immaturità dell’epoca in cui il nuovo stesse per sorgere.
Com’è risaputo, nel 1794 Kant venne colpito da un’ordinanza del seguente
tenore: “La nostra sovrana Persona ha rilevato con disgusto che voi abusate
della vostra filosofia per menomare e disprezzare alcune dottrine capitali e
fondamentali della Sacra Scrittura e del Cristianesimo. (…) Noi esigiamo,
quindi, sotto la nostra stretta responsabilità, e ci aspettiamo che d’ora in
poi non commetterete più simili colpe; ma che piuttosto impiegherete,
conforme al vostro dovere, la vostra autorità ed i vostri talenti a
secondare per il bene del paese le nostre paterne intenzioni; nel caso poi
di resistenza ulteriore potete aspettarvi immancabilmente dei provvedimenti
spiacevoli”. In un foglietto lasciato da Kant si afferma poi quanto segue:
“La ritrattazione o smentita del proprio intimo convincimento è spregevole
cosa; ma tacere in certi casi come il mio, è dovere di suddito; e se ancor
tutto ciò che si dice può essere vero, non è sempre dovere dire
pubblicamente la verità” (Paulsen: Kant).
Sia detto en passant, qualcosa di analogo, nel senso di quanto possa
il potere costituito e l’invalsa ideologia che lo sottende e pur tende a
importi e s’impone, è accaduto a Benedetto Croce, ad Alessandro Casati e a
qualche altro del sodalizio crociano (tra cui, credo, il sen. Abbiate, colui
che, all’indomani della Liberazione, fu commissario della Montecatini)
quando si trattò di “donare l’oro alla Patria” in occasione del conflitto
etiopico; i quali aderirono alla richiesta di offrire “liberamente” la
medaglietta di appartenenza al “Senato del Regno”. Dopo essersi consultati
tra loro, ritennero che un gesto di rifiuto si sarebbe dimostrato non esente
da faziosità e “antipatico” per tutti quelli che, dopotutto, non potevano
prescindere dal “bene della patria”, ancorché questa fosse retta da tiranno
di allora.
L’accadimento occorso al grande filosofo di Königsberg, ci interessa qui non
per entrare nel merito sia del modo in cui le autorità del potere costituito
sempre si comportano nei confronti delle idee che hanno una “carica”
progressista, e sia dell’atteggiamento (non certo lusinghiero né edificante)
di Kant in tale occasione, ma per sottolineare quanto in quell’avvenimento
possa sussistere d’implicito e di non dichiarato.
Avviene, infatti, che molte verità, sebbene pensate, non vengono in date
circostanze dichiarate (e non già per tema di possibili sanzioni d’ordine
pratico che minaccino il quieto vivere di alcune persone), perché coloro che
potrebbero esprimerle, s’avvedono che dette verità o, quanto meno, si
ritengono tali – per le condizioni di luogo e di tempo in cui essi si
trovano e agiscono – sarebbero irricevibili (com’è il caso di una
nota diplomatica che non può essere presa in considerazione e della quale
non si accusa nemmeno ricevuta). L’ambiente, o il condizionamento storico
determinato, opporrebbe il suo “fin de non recevoir” a qualsiasi
affermazione – validissima in sé e per sé – che si discosti da una tematica,
da premesse culturali che implicitamente ne possano legittimare la validità.
E qui – e si badi bene -, non si tratta fatta affatto di conformismo o non
conformismo, poiché anche le tesi più rivoluzionarie e, quindi, le meno
conformistiche che si possono immaginare, s’inseriscono, alle volte con non
scarse possibilità di accoglimento nell’ambito di una data dimensione
culturale, ancorché posizioni ufficiali consolidate e rispecchianti una
ideologia o diverse ideologie che hanno libero corso, si dichiarino
decisamente ostili e muovano all’attacco di quelle nuove tesi o adottino,
nei loro confronti, la vecchia tattica della “conspiration du silence”.
Ne sappiamo qualcosa – a conferma di quanto possa l’ambiente o un dato
momento influire sulla fortuna di un’opera – dell’azione che avrebbe potuto
esercitare la filosofia di Giambattista Vico, ad esempio, e non esercitò nel
suo tempo come avrebbe meritato. Le storie della filosofia che vanno per la
maggiore (con esclusione di quella del De Ruggiero), o tacciono del Vico
oppure dedicano ad esso brevi ragguagli. Ciò non toglie che, per iniziativa
di valorosi studiosi che succedano a quel tempo, non venga poi in luce la
validità di un pensiero che nell’epoca in cui sorse fu negletto; per cui,
perduta che fu l’”occasione storica” affinché esso si inserisse nelle più
vive correnti della cultura, quel pensiero poteva correre l’àlea di non
essere, nemmeno successivamente, conosciuto nella sua reale portata. Per la
precisione, dovremmo però avvertire che – nel caso considerato – non fu
l’occasione storica che andò perduta, bensì fu la particolare contingenza
storica quella che rischiò di perdere, anche per l’avvenire, un dato
messaggio rivolto ai contemporanei. Ogni scoperta fatta in ritardo, di un
fecondo filone di pensiero, sebbene sia doverosa ed encomiabile, non può
sfuggire dalla colorazione che essa poi riceve di una “rivendicazione”, di
una giustizia da riparare, di una “ingratitudine” commessa o dai
contemporanei, ignari di quel filone, o dalla storia tout-court; ed il
compianto che, di solito, accompagna ogni vittima, mal s’addice al più
favorevole accoglimento di una filosofia sfortunata.
Tuttavia, la questione dell’irricevibilità da noi considerata, riposa su
un’altra circostanza del tutto “obiettiva”: finché in un ambiente culturale,
o in una contingenza storica, non sussistano addentellati o agganci (anche
sotterranei), che garantiscano e sollecitano le pretese o la fiducia dell’isolato
pensatore che quel che di vero egli ritiene di poter esprimere, sia
suscettibile d’essere preso in considerazione. Finché tutto questo non è
sussistente, il suo discorso non troverebbe alcuna effettiva eco e, quindi,
di fronte a tale eventualità può accadere che il pensatore, o lo scrittore,
taccia. Ma si dà anche il caso che un pensatore, per nulla “isolato”, e che
già occupi il posto che gli compete nella vita culturale del suo tempo, non
si arrischi, a volte, di render noto quant’altro avrebbe da dire (questo lo
riserbo per me), sia per le ragioni anzi dette al riguardo dell’irricevibilità
e sia anche — in dipendenza di ciò — per il timore (a volte, non
ingiustificato), che se aggiungesse quel “nuovo” che potrebbe esternare,
tale aggiunta rischierebbe d’infirmare la validità, l’efficacia e
l’universale consentimento di ciò che ha prodotto in precedenza. Per cui le
cose non dette e, quindi, non fatte non sono purtroppo, in sede storica, in
nessun modo verificabili. Però non è detto che la storia non si muova anche
nel senso di ciò che è stato taciuto.
E quel che è stato taciuto (insieme con quello che non lo è stato), potrebbe
essere la componente della cosiddetta “antistoria” (Cousin) cioè di quella
storia che non si è fatta e che si sarebbe potuta attuare o, meglio, di
quella che avrebbe dovuto essere “se” … (il naso di Cleopatra qui non
c’entra). Qui ci sarebbe da raccomandare agli storici (e da noi qualcuno c’è
arrivato, sorretto da un impegno morale e politico insieme) di saper vedere
nella contrapposizione di storia e antistoria quanto giochi la dialettica
conservazione-reazione e progresso (progresso non nel solo senso dell’idea
liberale dello scientismo: tra i due non c’è identità, storicistica e di
derivazione romantica l’una, “classificatorio” e di derivazione
illuministica l’altro), ma nel più vero senso di espansione-liberazione
umana nell’ambito della dinamica sociale).
In riferimento con ciò che abbiamo detto sopra, è senz’altro legittimo
ritenere che quanto più e quanto meglio il momento “”progresso” tenda a
prevalere sul suo contrario, tanto minori saranno le possibilità che la
“voce” che discopra il nuovo si taccia. Con più favorevoli condizioni di
ricevibilità di atti creativi, anche ciò che viene considerato antistoria,
verrà a perdere il carattere di un’occasione mancata o perduta per
concretizzarsi in storia vera e propria.
Oggi, e da sempre, non si può scrivere storia senza “documento” e laddove
questo manchi, la congettura, l’ipotesi, l’interpretazione analogica,
tendono a colmare la lacuna. Ma non crediamo d’azzardar troppo se diciamo
che in futuro (non ha importanza quando sarà), l’eventuale difetto di
documentazione (quanto più si progredirà nel senso di una più libera
esplicazione dell’uomo), non comporterà motivi di perplessità per
ricostruire e interpretare un accadimento, o un insieme di accadimenti,
sulla base di citazioni (che difetterebbero), che suffraghino quelle
ricostruzioni o interpretazioni. La storiografia, sempre intesa come
espressione di scrupolosa esattezza e di verità, potrà – in più casi – dare
la documentazione come cosa scontata in quanto l’evidenza
dell’accertamento che risulterà dalla narrazione, dipenderà dal diverso modo
in cui i problemi saranno allora posti, come ci industrieremo, più avanti,
di dimostrare.
In linea teorica, conservazione e processo verso ciò che dev’essere
ulteriormente acquisito o attuato, sono i due momenti necessari allo
sviluppo e al divenire dell’umanità. Si tende, infatti, a conservare
quel che rappresenta un “valore” sempre in atto o tuttora in atto. Nessun
rivoluzionario mai, ha inteso di non conservare (di “rivoluzionario”)
le conquiste di una rivoluzione: tali conquiste sono valori da non
disperdere, ovviamente. In questo senso, la conservazione diventa pur essa
la condizione necessaria dello sviluppo e del progresso. Ma se nel corso
progrediente della storia, vien fatto sì che il momento della conservazione
si ponga come volontà, come forza ostacolatrice per conservare un
disvalore che è quanto dire un volersi pervicamente attaccare, ormai, a
un “fossile” (rappresentato da una ideologia, da abitudini e costumi, da
mentalità, da istituzioni: da tutto quanto non è potenzialmente di vita),
allora la conservazione non è più tale, ma si converte in reazione. La quale
non sarà più un momento necessario allo sviluppo dianzi accennato, ma si
convertirà in una non-necessità e, quindi, si porrà come ostacolo,
come reale impedimento al processo, sempre in atto, di ciò che invece è
necessario si attui per il benessere della vita associata.
Orbene, se la conservazione è necessaria al progresso (e tacciamo della
spinta all’avanzamento in quanto questa è, per antonomasia, progresso), e la
reazione non necessaria, è lecito ritenere che nell’ulteriore cammino della
storia, tale non-necessità tenderà a scomparire poiché ciò che è necessario
(e quindi libero), avrà la prevalenza su quel che necessario non è. Allora –
si dirà – questo è un modo di concepire la storia senza conflitti, senza
lotta: tutto ciò significherebbe approdare alla quiete assoluta ed essa non
è concepibile (né, tanto meno, desiderabile) nelle vicende umane.
Tale modo di ragionare è comune a molti i quali ritengono che ciò che è un
disvalore, un non-bene e, quindi, un male, sia necessario affinché
l’uomo assurga alle più alte vette (della conoscenza, dell’arte,
dell’affidamento delle sue facoltà). Ma qui sta proprio l’errore in cui lo
stesso Croce è caduto nella sua concezione della storia e nella sua visione
del divenire.
Per raggiungere una meta più avanzata, per conquistare un più alta cima, non
è affatto detto che occorra ci sia qualcuno, di dietro, a trattenerti per la
giacca. L’impegno virile, l’energia che occorre spendere, i sacrifici che si
dovranno affrontare per arrivare a un dato traguardo che, in un dato
momento, una persona o più persone ritendono necessario “tagliare”, tutto
ciò è lotta bell’e buona. Gli impedimenti a che si pervenga ad una precisa
conquista sempre ci saranno (e stanno nella natura delle cose e dell’uomo).
E tali impedimenti sussisteranno anche se, in diverse condizioni sociali,
l’uomo non impedisca al suo simile di operare come meglio intende operare.
Se dopo il lancio del primo sputnik si è poi pervenuti a metterne in
orbita parecchi altri, con uomini a bordo per giunta, e si spera d’arrivare
in avvenire sulla luna, il semplice senso comune ti dice che tutto ciò è
avvenuto ed avverrà, non certo, come si berrebbe un bicchiere d’acqua. Tutto
questo ha comportato lotte e sacrifici ben intuibili e immaginabili, ma non
ha significato una lotta contro qualcuno (o molti) che si sia adoperato – in
quanto avesse interesse – a che le cose andassero alla rovescia. C’è
quindi da ritenere che l’impedimento al progresso, determinato dalla volontà
degli uomini contro altri uomini (impedimento in sé e per sé non necessario,
sia per l’avanzamento dell’uomo e sia in quanto pretesa condizione
indispensabile per “lottare”), non possa affatto costituire una componente
irrinunciabile per il progresso del genere umano.
C’è anzi d’affermare esattamente il contrario (com’è, del resto, nella
stessa logica comune che ogni impedimento rappresenti un che di negativo).
Quanto più verranno neutralizzate le forze (rappresentate da interessi
umani), tendenti a impedire le conquiste in ogni campo, tanto più gli uomini
saranno liberi di lottare come si conviene contro la natura delle
cose (la quale come “dato di fatto” è impedimento).
Altro che assenza di lotta, di competizione, di emulazione! Nel quadro di
una condizione di vita che tenda all’eliminazione di una causa che
induce gli uomini a combatterne altri, affinché questi ultimi siano
impediti, o non riescano, nel loro intento di progresso, non è affatto
pensabile che con ciò si raggiunga la dolce quiete del “paradiso terrestre”
o si debba morire di noia per mancanza del “male”, pungolo e stimolo agli
uomini per non impigrire. C’è qualche filosofo che, ritenendo il “male”
condizione indispensabile per l’avanzamento dell’uomo, doveva poi concludere
che il cosiddetto “male” non era male. Nossignori! Le carte non possono,
così, voltarsi in tavola. Il male è una realtà come tale e non lo si elimina
affatto mettendogli il belletto. Il belletto è una mascheratura e, quindi,
un inganno. Dobbiamo chiamare ogni cosa con il proprio nome e se accade che
l’uomo è in grado di trionfare dei lacci che la nequizia [?] dell’altro uomo
gli tende (ed in ciò riuscendo, naturalmente, gli si aguzza l’ingegno e la
sua tempra morale si rafforza), tutto questo non è niente affatto necessario
per il “miglioramento” degli uomini e per il progresso della vita
collettiva. L’uomo si irrobustisce e si migliora senza che ci sia il bisogno
che l’altro gli faccia lo sgambetto per buttarlo a terra. Un malinteso
darwiniano, portato in campo sociale, ha voluto, senz’avvedersene forse,
giustificare la canaglieria con la teoria selettiva che elimina il più
debole a vantaggio del più forte.
E da noi un filosofo, a cui non possono negarsi meriti insigni, nel mentre
ironizzava su consimili teorie battezzandole per “pseudo concetti”, pur
tuttavia, nella sia visione storica, la canaglieria poteva non più essere
considerata tale e si trasformava ai suoi occhi come una delle componenti
necessarie affinché l’uomo, insorgendo contro di essa, si ritemprasse e,
quindi, avanzasse. La legge della giungla avrebbe per coloro che
siffattamente opinano, il grande merito di giovare al progresso! Ben
s’avvede chiunque abbia del buonsenso (che qui non di filosofia teoretica si
tratta), che tutto ciò ha dell’assurdo. C’è invece da dire, contro tal modo
di ragionare, che in una condizione di benessere (bene-essere) per tutti,
si sprigionano forze creative impensabili. Non si rende, dunque,
indispensabile procedere dal male al bene (o dal male al meno-male), ma si
procederà (sempre più avvertitamente a mano a mano che gli attuali ceppi e
catene che condizionano i movimenti – ed i moventi – degli uomini si
allenteranno) “di bene in meglio” e questo tragitto non avrà mai fine!
Detto tutto questo, volgiamo riprendere il filo del discorso a proposito
dell’irrilevanza che, in futuro, la non reperibilità del documento, in
alcuni casi, assumerebbe pur dovendosi, tuttavia, considerare non priva di
validità la narrazione storica di un avvenimento senza citazione delle
fonti.
In un mutato clima storico nel quale non esisterà più (o quasi) la
contrapposizione reazione-avanzamento, in cui non s’avvertirà più il bisogno
di evocare l’antistoria per giudicare complementarmente la storia, in
cui le forze umane in gioco non rappresenteranno (per evidenti ragioni)
opposti schieramenti in lotta per la supremazia del potere, nel quale clima
non potrebbero né influire interessi contrastanti tendenti a falsificare i
dati oppure a fornire interpretazioni distorte dei fatti; giunti che si sia
a codesto punto d’approdo, la questione del “documento” perderà (rispetto ad
oggi) parte del suo valore. Lo perderà in quanto la caratteristica
probatoria del documento, si trasferirà più che altro nel modo in
cui sarà condotta l’indagine. Oggi permane (e non ingiustificatamente),
l’esigenza giuridica della “prova”, della pezza d’appoggio, del corpo del
reato, del documento, delle testimonianze giurate, in quanto è sottinteso
che la prova – tanto più se è “inoppugnabile – è decisiva. Per che
cosa? Evidentemente contro la “controparte” che tende ad affermare, per la
difesa dei propri interessi (prestigio, tutela della reputazione, difesa
patrimoniale, risarcimento di danni materiali e morali, ecc.), esattamente
il contrario la quale a sua volta, produce documenti e controprove.
Interviene, quindi, il giudice che “vaglia” l’una e l’altra circostanza,
s’avvale dell’opera periziale di esperti e tecnici, fa appello al proprio
discernimento guardando in faccia le parti, i testimoni a carico e a
discarico, interrogando or gli uni ora gli altri ed, infine, emette il
proprio giudizio che si ritiene “spassionato” e obiettivo.
Non esattamente, ma analogamente si comporta lo storico, per chiarire a se
stesso e agli altri quanto fino allora non era noto o, anche, scarsamente
noto oppure perché, approfondendo meglio alcuni particolari da altri
trascurati, la visione d’insieme che ne deriva di un dato avvenimento assume
tutt’altra prospettiva. E dicevamo non esattamente, perché il compito dello
storico — come già fu detto ripetute volte — non è quello di condannare o
assolvere, ma è quello di capire ed intendere come si sono verificati alcuni
fatti in dipendenza di un “problema” che lo storico si è posto: in
conformità alla domanda che si pone, l’accertamento dei fatti e la
“verifica” dei documenti che li comprovano sono operazioni, fino a prova
contraria, indispensabili. Per incidenza, vorremmo tuttavia avanzare una
piccola riserva relativamente al fatto che lo storico non ha il compito
della condanna e dell’assoluzione; tutto questo è vero se egli si pone
dall’esterno come di colui che giudica e manda, ma dato che egli deve – una
volto postosi il problema storico – indagare e accertare come effettivamente
i fatti si sono svolti e come vengono insieme a configurarsi, detta ricerca
tende ovviamente ad una conclusione (che è poi l’oggetto del problema, della
domanda). Detta soluzione si trova – in un certo senso – già nel modo in cui
il problema è stato formulato. Lo storico pre-vede (e, quindi, anticipa)
quale potrà essere la conclusione senza che in tale atto egli intenda
“forzare” i documenti per amore della tesi oppure lasciarsi conquistare
dalla previsione a tal segno che questa si converta in un che di
precostituito, in un preconcetto, che attenterebbe – se così fosse – alla
serenità del vagliare e del giudicare. Il problema, inoltre, sorge in base a
dati precedenti, d’ordine obiettivo e soggettivo, che si sono andati via via
maturando fino al momento in cui lo storico veda “già chiaro” e passi,
quindi, alla formulazione del quesito, il quale segna le dimensioni ed i
limiti dell’indagine.
Ora che cosa vuole l’indagatore? Vuole fornire la dimostrazione che quanto
egli ha intuito e previsto (in seguito ai precedenti maturatisi in lui in
base a fatti ancora prima accertati e che gli davano contezza di altri
fatti, da ricercare), corrisponde al vero. E che cosa è questo vero che,
“come volevasi dimostrare”, si dimostra alla fine evidente? Non è esso un
implicito giudizio? In altri termini, non è esso un’assoluzione o una
condanna di qualcosa, vista ciascuna dall’interno e senza che sussista il
bisogno (il che guasterebbe) che lo storico stesso intervenga, dall’esterno,
in veste di giudice? È quella verità, precedentemente intravista che, come
un lume, guida i passi del ricercatore nella sua indagine e gli dà modo di
verificare (e fa verificare ad altri), che le cose stanno così e così, e non
altrimenti con riferimento alle iniziali premesse. Cosicché ogni giudizio
storico è un giudizio di valore e ogni giudizio di valore sottende che cosa
(ed in qual misura)) si debba approvare e qual sia un’altra cosa (o fatto)
con la quale non si può consentire.
Analogamente, dunque, al giudice, lo storico è sollecitato alla ricerca
della “prova” ugualmente inoppugnabile. Qui non entrano in gioco (o, meglio,
vogliamo trascurarle), le considerazioni di tutelare il proprio buon nome di
studioso serio che tale non sarebbe se basasse le proprie interpretazioni su
congetture, fantasie e documenti di seconda mano (come faceva a suo tempo il
Ludwig con le sue storie “romanzate”, allora assai lette e oggi del tutto
dimenticate), bensì entrano in gioco altre considerazioni che si basano
principalmente sul fatto che qualsiasi lavoro storiografico, tanto più se
perviene a risultati positivi per quanto riguardi la scoperta di una o più
“verità”, è sottoposto al vaglio “critico”, in qualsiasi campo; non può
sfuggire (come, del resto, è bene che ciò sia) al giudizio, che può essere
“severo”, di coloro che “se ne intendono”.
Però la sottesa o implicita (e, fors’anche, inconsapevole) esigenza
giuridica di portare le prove di quanto si afferma, non è sempre determinata
da una necessità intrinseca al dettato storiografico, ma tale esigenza si
pone per il semplice fatto che, prescindendo dalle premesse d’ordine
critico, nella generalità del pubblico ci sono sempre quelli (che siano
studiosi o non, che siano “specialisti” o non specialisti), il cui interesse
(anche personale) dà a costoro la figura di una “controparte”
effettivamente, o potenzialmente, avversa a quello storico e alle sue tesi.
Costui si deve, quindi, giustamente cautelare e non deve mai, potendo,
prescindere dalla prova la quale, sotto tale profilo, dovrà risultare
incontrovertibile per sconfiggere, in partenza, gli avversari.
Il documento, pertanto, assume quella rilevanza “in tutto tondo”, da potersi
toccare con mano, per l’esigenza, proveniente dall’esterno e, quindi,
estrinseca al compito storiografico propriamente detto, di non dire cose che
non si possono provare. E tale esigenza diventa come un “imperativo
categorico” per lo storico il quale, quasi sempre, si trova in posizione
polemica con altri storici o con altre scuole. L’”acribia” per uno storico
che si rispetti, diventa quasi una seconda natura dello stesso e tal senso
di esattezza e di precisione, è pure in funzione di quella necessità che lo
studioso avverte di bene documentarsi soprattutto per o contro “gli altri”.
Infatti, le esercitazioni di storia e le tesi di laurea d’indirizzo storico,
sono prevalentemente orientate alla ricerca della documentazione “originale”
sulla quale lo studente potrà poi discettare finché ne ha voglia. E se
documenti nuovi, per ulteriori indagini, non sono più reperibili, allora
vien fatto (non senza profitto) di ricorrere al miglior approfondimento
filologico dei testi per cui, alquanto spesso, ci si accorge che, quando
essi vennero precedentemente utilizzati, contenevano trascrizioni errate,
omissioni, interpolazioni o altro ancora che ne alteravano la genuina
lezione.
Crediamo, dunque, sia lecito e consentito avanzare l’ipotesi - come noi
abbiamo fatto in base alle argomentazioni portate in campo - che nel momento
in cui si pervenga a un tipo di società non più condizionata dalla lotta
degli uomini tra di loro tendenti, ciascuno, ad affermare se stesso a
detrimento dei suoi simili, il carattere di prova giuridica che ha oggi il
documento, avrà perduto ogni giustificazione relativamente al suo sottinteso
valore in tal senso, e, pertanto, la storia potrà essere scritta non già
sottovalutando la portata del documento in sé (sempre illuminante ai fini
dell’accertamento dei fatti che anche allora non sarà lecito solo supporre),
ma prescindendo, per l’appunto, dalla preoccupazione di attribuire ad esso
documento quel peso d’inconfutabilità quando c’è da presumere che non
sussisteranno condizioni “obiettive” in dipendenza delle quali “altri” (o la
generalità) possa mettere, in linea di principio, in dubbio che quanto
quello storico ha affermato non corrisponde alla verità dei fatti.
Appunti incompleti
Se, così si è visto, il potere è anche oggigiorno appannaggio, negli
Stati democratici-borghesi, dei cosiddetti “gruppi di pressione “ delle
consorterie (come le chiamavano i nostri nonni), delle oligarchie (come
dall’antichità in poi s’è sempre detto), non c’è scienza politica né
Staatsrechtlehre da Gaetano Mosca ad Hans Kelsen, che possa realmente
indicare la via maestra che realizzi l’efficace inserimento nello Stato di
quelle classi che furono sempre (più e meno) considerate subalterne a meno
che, parte di esse e suoi rappresentanti, non si adeguino non senza qualche
concessione pur da esse “strappata, al condizionamento che le classi
superiori sono sempre in grado di imporre e che si risolve nell’ormai
abusata solfa del rispetto e dell’integrità delle “istituzioni” (di diritto
pubblico e privato). Tale via maestra non si trova in quella scienza anche
perché gli autori che l’hanno in vari modi trattata, non si proponevano, per
certo, di condurre l’analisi in modo che questa andasse a sfociare
implicitamente od esplicitamente nel sovvertimento (anche graduale) delle
cosiddette istituzioni. Ed anche per quel che concerne il diritto
internazionale (o l’ordine internazionale, oppure la comunità
internazionale) non si prescinde (il che sarebbe grave cosa) dal fondamento
delle istituzioni esistenti che è, quanto dire, la dimensione statuale
borghese una e trina che si articola nel potere legislativo, giudiziario ed
esecutivo come tutti sanno. E se, attualmente, c’è una tendenza a
riabilitare il giusnaturalismo anche da parte di un crociano come l’Antoni
(si sa che il Croce mosse “i suoi attacchi all’astratta e semplicistica
mentalità giusnaturalistica, nel contrasto tra storicismo tedesco e
giusnaturalismo”)……. |
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