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Testamento spirituale
(il testo originale è stato rielaborato e integrato da FVG più volte)

Dalla cella 28 del Campo di concentramento di Bolzano, il 13 gennaio 1945

Caro tesoro mio,
io non credo che la mia esistenza venga ad essere troncata per l’attività che ho svolta, dato che nulla di veramente grave è emerso a mio carico. Ma non è escluso che considerazioni d’ordine politico siano tali da determinare per il momento e il luogo in cui ci troviamo una soluzione sbrigativa nei miei confronti, cosa di cui (essendo ciò nel novero del possibile), è bene che mi premunisca anzitempo col fissare, in mancanza di meglio, quelli che sono i miei pensieri per il conforto tuo e perché tornino essi di qualche pratica utilità ai figlioli nel cammino che sta a loro dinanzi.
Come tu sai, nella mia vita non ho mai cercato il successo esteriore, quale che potrebbe essere offerto da prospere condizioni economiche. Le mie capacità personali, non sono state quindi prevalentemente indirizzate verso il conseguimento del lato utilitario della vita, sebbene anche questo aspetto di essa non sia stato da me trascurato e, nell’ambito delle mie pratiche condizioni, io abbia sempre desiderato, per me e la famiglia, di non essere ritenuto un incapace e uomo, quindi, di dubbio rendimento.
Ma quello a cui soprattutto ho mirato, è stato di costruirmi una vita, per quanto possibile, ricca di contenuto interiore in tal modo che potessi essere atto a superare gradatamente le incertezze, le pecche e le insufficienze che la natura e l’educazione hanno posto nel mio tessuto morale. Fondamentalmente un orientamento religioso-razionale m’ha guidato in ciò che dalla vita avrei dovuto accogliere e in ciò che avrei dovuto respingere. L’adesione cosciente, in età più matura, al filone aureo della tradizione cristiana, mi ha messo in grado di dare unità e concretezza agli intimi bisogni del cuore e della mente che fin dalla fanciullezza avvertivo in maniera ancora informe.
Debbo dire che tale adesione poté determinarsi mercé l’ausilio che mi venne offerto, nella prima fase della mia vita, dall’ambiente protestante in cui mi trovavo inserito. Successivamente, mi tornarono assai proficui i contatti che ebbi in Germania (negli anni 1923/24) con il movimento scientifico-spirituale che faceva capo al Dr Rudolf Steiner (il cui insegnamento, tuttavia, non esercitò alcun influsso sugli esponenti della cultura del primo dopoguerra a tutt’oggi, a motivo quasi certamente della componente “esoterica” in esso contenuta: non posso , comunque, dubitare che l’opera dello Steiner, nei decenni avvenire, non venga “scoperta” per poi entrare ‘in circolo’ con le correnti di pensiero di quando sarà), nonché con quelli che personalmente ebbi poi in Italia con il Dr Ugo Janni, Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Gangale e Piero Martinetti. E, per altro verso, discordante con tali indirizzi spiritualistico-religiosi, intrapresi lo studio della filosofia di Benedetto Croce, del pensiero di Antonio Labriola e, attraverso quest’ultimo, approdai a “Treviri” [Marx] che tanta influenza esercitò sul giovane Croce (a tacer del resto). Ancor prima, subito dopo il mio rientro dalla Germania, l’azione e l’opera di Piero Gobetti - mio quasi coetaneo - m’entusiasmò e di quella breve ed indomita vita mai dimenticai la pregnante forza.
Da tali vari ed eterogenei indirizzi, debbo dirti, non feci un’ibrida mistura e quel che avevo appreso mi si andava configurando in una struttura, per me, organica di pensiero. Dal momento che, professionalmente, non ero un “intellettuale” e, pertanto, di quel che potevano essere le mie “idee” e le fonti da cui erano sorte non ero tenuto a rendere conto alla generalità, ma soltanto a me stesso (o a una ristretta cerchia di persone le quali, peraltro, non potevano sempre cogliere le implicazioni né i nessi), tale fortunata circostanza mi ha consentito di coltivare indisturbato il mio orto, e di poter scegliere nei diversi aspetti della cultura quel che più mi potesse andare a genio e, ciò, non disordinatamente.
Quindi un acuito amore per il sapere mi spinse sempre a ricercare e ad accogliere ciò che di valido mi era dato scoprire e, senz’essere giunto – per i limiti delle mie forze e per le esigenze pratiche della mia esistenza – ad assimilare tutto il molteplice e vario contenuto di quello che la cultura offre a piene mani, credo d’essere pervenuto alla “sintesi” (non mai definitiva” di una conoscenza in sé non disprezzabile che, svolta nei suoi particolari aspetti con intuizione profonda e con sicuro metodo da un congeniale studioso, che più di me possedesse e capacità mentale e dottrina, potrebbe forse tornare di qualche beneficio all’avanzamento del sapere. In altre parole, voglio dire che – prescindendo dalla mia persona – l’arco degli interessi che obiettivamente venne a configurarsi nella “storia della mente”, ha di per sé un valore ed una portata ch’io ritengo di qualche stimolante efficacia.
Faccio qui, in conformità alle iniziali premesse, la mia professione di fede (ch’è quanto dire l’apertura ad una “Weltanschauung”):
Io credo in un ordinamento divino del mondo e del cosmo, e per ordinamento divino intendo che ogni cosa è retta secondo una sua particolare finalità che si rende palese per l’intelligibilità che tutte le cose contengono in sé. Nel mondo fenomenico è dato di riscontrare più stadi di differenziazione e svolgimento dell’intelligibile ed è ciò che comunemente si designa come regno minerale, vegetale e animale. Ai quali regni, però, va aggiunto il regno umano, che anche dal semplice punto di vista naturalistico, non può essere confuso con il regno animale o, meglio, non può identificarsi interamente con quest’ultimo.
Sono questi, tutt’insieme, i quattro aspetti della natura la cui finalità integralmente si rivela in quello che l’entità umana ha di più eccelso: lo spirito. Lo spirito è l’autocoscienza dell’essere nella sua compresenza totale: in ciò che è introflesso, in ciò che si estroflette ed in quello che è l’accoglimento unitario dei due momenti. Lo spirito è, quindi, il compimento della natura nel suo processo risolutivo che è l’uomo. E l’uomo, di conseguenza, rappresenta il passaggio necessario affinché tutta la natura ritorni allo spirito nella misura in cui l’uomo stesso gradatamente riesca a risolvere in sé, spiritualizzandoli, i dati naturali insiti nella propria complessione ed operanti tuttora laddove il proprio spirito non è giunto a dominarli se non parzialmente. Da questo punto di vista, possiamo apprendere l’importanza grande che ha l’ascesi orientale e che ha avuta la mistica occidentale pullulante, in varia forza e misura, nell’età di mezzo. Vediamo così che l’entità umana è di natura mista e simbolica: mista in quanto riscontriamo — come in stato di simbiosi — l’interdipendenza dei fattori naturali e spirituali per cui abbiamo, nell’uomo una contaminatio dello spirito se gli aspetti “naturali” tendono a prevalere e, viceversa, abbiamo un “affinamento” della natura (lo spogliarsi di essa da contenuti materialistici) se le forze, o le facoltà, dello spirito hanno su quelle naturali il sopravvento; simbolica nel senso di quanto sarà la destinazione futura dell’umanità: l’assunzione, cioè, di essa nel regno dello spirito. Il simbolo (come pure il mito), non è un’astrazione o una “proiezione” fantastica qual è, ad esempio, l’allegoria, ma è la parvenza rappresentativa di realtà spirituali in atto che profeti-poeti hanno intravisto e comunicato in linguaggio parabolico ed extrarazionale (non irrazionale). Come per intendere ogni più sublime manifestazione dell’arte, occorre un affinamento del senso a ciò preposto, così pure la trascrizione del simbolo in termini attuali di cultura, occorre essere sorretti da un’intuizione che si fa luce in noi da pari passo con l’adempimento di conquiste interiori, le quali ci rendono – in modo progrediente – atti all’auscultazione e alla visione delle verità nel simbolo contenute (non si tratta d’alcunché di “mistico”, ma per quanto possa valere un paragone, il processo è simile a quello che condusse il Goethe a “vedere” la Urpflanze, la quale è una realtà e non un’astrazione come, ad esempio, lo è l’”homo œconomicus”).
Quando diciamo “uomo”, implicitamente affermiamo la personalità umana. E nel concetto di personalità, abbiamo la nozione dell’individuazione dello spirito nel possesso di quelle facoltà che rappresentano la strumentalità dell’essere umano, quali sono il pensiero, il sentimento e la volontà. Ed il centro dell’individuazione dello spirito, è ciò che diciamo “Io”, condizione e risultato insieme della personalità.
Il complesso delle manifestazioni della personalità, riceve la sua impronta univoca da ciò che indichiamo come carattere , vale a dire che, in ultima analisi, è il carattere che dà conto di sé a mezzo dell’”insieme” delle manifestazioni di quella data persona. Il carattere è l’espressione concreta della personalità umana e quanto più questa trovasi ad un alto livello di differenziazione per una maggiore ricchezza di contenuti interiori, tanto più il carattere si rivela con una delineazione più netta e con una fisionomia tutta propria. Ma accanto alla psicologia come scienza, si farà strada una compiuta caratterologia la quale, a differenza della prima, non si volgerà allo studio delle facoltà e delle azioni-reazioni della psiche, considerate nella loro obiettiva tipizzazione fenomenica, ma avrà per oggetto lo studio dei dati caratteriologici della personalità umana equivalente all’indagine del comportamento dei rispettivi moventi che guidano l’uomo (inteso come personalità), all’affermazione di sé quale ente spirituale in discorde concordia con la propria specifica naturalità (nell’accezione più sopra considerata). Tale affermazione è, per l’appunto, ciò che rivela il carattere e, dall’esame dei vari comportamenti, possiamo determinare la natura dei diversi caratteri di cui l’umanità, nei suoi peculiari aspetti, è dotata. Utili a questo riguardo e di preannuncio ad una caratterologia, sono le fini osservazioni di Kant nella sua “Antologia prammatica”, l’originalissimo romanzo di Jean Paul Richter “Levana”, la sapiente raffigurazione di un conflitto d’anime nelle “Affinità elettive” di Goethe, le acute disanime di Otto Weininger nel suo “Sesso e Carattere” e, per ultimo, i saggi di Ludwig Klages; ma soprattutto vi è doviziosamente da meditare e da apprendere dal grande Dostojevskij, l’’insuperato “caratterologo” dei tempi moderni. Non comprendo in tale ambito Freud e la sua scuola in quanto la psicanalisi, sotto un certo aspetto e con riferimento a quel che ho designato come caratterologia, è un derivato delle psicologia sperimentale.
Io ritengo che oltre la personalità non si possa andare per quel che concerne la forma compiuta dello spirito, come oltre la sfera non esistono forme geometriche che la superino in compiutezza mentre tutte le forme essa stessa comprende.
Infine, che cosa è la coscienza? La coscienza è lo stato di consapevolezza che la personalità ha del proprio carattere ed è per essa che giungiamo alla valutazione dei moventi delle nostre azioni in rapporto alle premesse etiche che la coscienza ha fatto sua nella misura di ciò che la personalità ha in sé edificato della propria visione del mondo. La coscienza è quindi il ricettacolo dell’anima ove confluisce l’esperienza, la quale altro non è che la risultante della nostra azione sulla vita e dell’azione di questa su noi. E come l’esperienza con i suoi molteplici apporti, arricchisce la coscienza, così questa illumina quella secondo il grado di consapevolezza cui è giunta. La coscienza, secondo la delineazione qui fattane, è anche ciò che si designa come autocoscienza.

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Ciò detto, mi si offre ora di fare alcune considerazioni sull’analogia che intercorre fra la personalità umana e quella di Dio.
Noi non possiamo concepire Dio altro che come persona nella perfezione delle sue facoltà e nell’assolutezza dei suoi attributi, non già a motivo di quanto fu detto dagli antichi che un bue non potrebbe far altro che rappresentarsi Giove a sua immagine con tanto di corna, ma unicamente perché il concetto di personalità implica, come ho accennato, la determinazione della forma più completa delle spirito. La nozione di personalità non è di derivazione antropomorfica, ma di valore universale.
So che la concezione della personalità in Dio contrasta con tutto l’indirizzo della filosofia moderna: dal naturalismo del Telesio alla cosmogonia del Bruno fino al panteismo dello Spinoza, da Cartesio agli Illuministi inglesi fino a Kant e dalla filosofia tedesca dell’età romantica fino all’idealismo contemporaneo. Un tale indirizzo è un momento necessario nella storia del pensiero, il quale doveva dispogliarsi dal dogmatismo scolastico prima, e procedere poi, sicuro della riconquistata autonomia, ad ingaggiare la lotta contro il risorgente medioevalismo del periodo della Controriforma ed oltre. Assistiamo, quindi, ad un processo cosiddetto di laicizzazione del pensiero filosofico che gravita verso un immanentismo sempre più radicale quale si ravvisa, ad esempio, oggi nella concezione del Croce da lui chiamata storicismo assoluto. Questa sorta di immanentismo non è soltanto una negazione di Dio quale trascendenza, ma anche ovviamente, quale personalità.
Contrariamente all’accennato indirizzo che sfocia in un immanentismo senza residui, io dunque affermo l’assoluto valore della personalità di Dio. L’aspetto “verità” in Dio cui è dato dalla sua persona che è la plenitudine dell’essere. Ed è in questa plenitudine che viene a risolversi la contrapposizione trascendenza-immanenza in virtù del fatto che Dio è pensabile non unicamente come assoluta Trascendenza (il che è anche vero, come dirò poi), ma come la trascendenza dell’immanente e come l’immanenza del trascendente. Nell’assunzione dell’immanente nella trascendenza, abbiamo contenuta in Dio “tutta” l’essenzialità del Creato, e nell’effusione del trascendente nell’immanenza ritroviamo nel Creato la presenzialità di Lui.
Se Dio, nella sua trascendenza, accoglie in sé l’essenzialità del creato (la quale essenzialità non è altro che ciò che di Lui immane nel cosmo) e, nella sua immanenza, è presente e operante in esso cosmo (che è quanto dire ch’Egli lo rende partecipe della sua trascendenza), tuttavia tale inseparabilità di Dio dal creato, ci dice pure che Egli è distinto senza essere confuso con esso. È nel momento di questa distinzione che è legittimo l’accoglimento del concetto di Dio come Trascendenza assoluta, più sopra, di sfuggita, accennata. Dio nella sua distinzione, è il Totalmente-altro-dal-mondo, è l’”Io sono colui che sono”, l’Inaccessibile e l’Invisibile (beninteso, da tutti coloro, e sono la sterminata maggioranza, che ‘non possono’ accedere a Lui né vederlo faccia a faccia): è, quindi, l’assoluta Trascendenza (che vuol dire la non confusione, la non commistione con tutto ciò che nel cosmo non riguardi l’essenzialità che in Lui ha origine). Nella religiosità ebraica,ritroviamo l’affermazione solenne di tale carattere distintivo di Dio quale personificazione della giustizia, della legge: affermazione che si rivela angosciante per la tragica apprensione del male, del “peccato”. La nozione del male, come conseguenza di “ribellione”, come di ciò che ha prodotto una frattura nell’ordine cosmico, è inseparabile dall’idea di Dio distinto dalla creazione, come di Dio legislatore e giudice, poiché Dio, riguardato in questa dimensione, non può aver nulla in comune con la natura corrotta. L’”inesorabilità” che discende dal concetto di legge “divina”, dall’assoluta giustizia, non ha nulla di comune con l’idea della “vendetta” proveniente da un nume terribile e “ascoso”. E tale carattere di inconciliabilità tra Dio e il “mondo”, trasfusosi dall’ebraismo nel cristianesimo, ha trovato, in Paolo e Agostino (manicheismo) prima, nei Riformatori poi, specie in Calvino, ed, ancora, in Giansenio, in Kierkegaard e, fino ai giorni nostri, in Karl Barth, i più decisi assertori.
Se Dio, a causa del corrompimento, si mostra inconciliabile con la natura (irredenta) e, quindi, con l’uomo, d’altra parte la sua inseparabilità dal creato, per la sua immanenza nel processo creativo dello spirito, lo rende solidale con esso. L’inconciliabilità di Dio ci avverte della sua legge e la solidarietà di Lui ci avverte del suo amore.

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L’amore di Dio è la forza creatrice e redentrice che culmina nell’apparizione del Cristo sulla scena visibile di questo mondo.
Dobbiamo ora stabilire che senza l’avvento del Cristo sulla Terra, la forza creatrice e redentrice, che promana dall’amore di Dio, non avrebbe potuto avere il definitivo sopravvento sulla caducità della natura in se stessa e conseguentemente su quella dell’uomo. Ma siccome, d’altra parte, la plenitudine dell’essere nella persona di Dio non poteva non avere tale sopravvento, dobbiamo considerare la venuta e l’azione del Cristo come il compimento necessario dell’immanenza di Dio nel creato per mezzo dell’uomo che sta al “vertice” di tutto il processo naturale-creaturale.
Il Gesù storico non è un dio, ma un uomo nel senso più completo dell’integrità dello spirito, ma la cui personalità, per l’altissimo livello morale da lui raggiunto, era atta all'accoglimento di ciò che in Dio sussiste di “eterno” e di “vero” non senza aver dovuto Gesù, nella sua vita terrena (esistenziale”), passare prima attraverso tutte quelle prove che, vittoriosamente superate, rappresentano quello che l’umanità, nel suo solidale complesso, deve compiere per debellare in se stessa e nella natura, la corruzione e la morte.
Il confluire dell’”eternità” e della “verità” di Dio in Gesú uomo rappresenta l'atto (che non poteva non verificarsi in “quel” momento della storia dell'umanità) in cui la persona del Padre s'identifica nel Figlio, nella creatura in possesso della plenitudine del Padre che è il Cristo: l’Uomo-Dio. Gesù uomo e Cristo Dio, dunque.
Il carattere distintivo di Dio, pur indietro considerato (inconciliabilità con la natura corrotta), se si integra (senza confusione) nel Cristo per la compiutasi identità con il Padre, permane tuttavia verso tutto ciò che, pur dopo la venuta del Cristo, resta d’irredento nella vita del cosmo e dell'umanità. Ma il fatto grandioso e unico dell'avvento del Cristo, rappresenta la condizione, e la promessa insieme, che tutta la natura sarà riscattata dal dolore e dalla morte, conseguenze, queste, dell’alterazione originale le cui cause ci sono sconosciute,. ma nondimeno stanno a noi dinanzi gli effetti.
La redenzione di tutto il creato dalla caducità, è condizionata dal fatto che l'umanità in Cristo venne conquistata interamente dalla personalità di Dio ed è, per mezzo dell’umanità, per l'azione vivificatrice del Cristo, che il graduale riscatto sarà possibile fino all'assunzione totale della natura dello spirito.
Cristo, da questo punto di vista. è il Dio‑Umanità (Soloviòv), ed è per noi il simbolo vivente dell'uomo e dell’umanità futuri: “Ecce homo!”. Tale divenire ascensionale di ciò che è vivente, costituito dall’immanenza dell'essere in ogni cosa, si svolge e si svolgerà sempre evolutivamente (il che non esclude affatto il "salto qualitativo” intravisto, credo, dal De Vries, il botanico olandese, nella sua teoria delle mutazioni), per cui, nella metamorfosi delle strutture e delle forme dal piú semplice al piú complesso, il trapasso ad uno stato superiore, porterà alla sintesi di più stati immediatamente inferiori. Avremo così una liberazione graduale degli esseri dalla loro soggezione particolaristica i quali, senza perder nulla di ciò che è essenziale alla funzionalità della nuova forma che verranno ad assumere (la quale forma è pur dotata di nuovi contenuti), si spoglieranno di tutto quello che risulterà una scoria incompatibile alla più perfetta articolazione della struttura superiore (in effetti, è in dipendenza di tale incompatibilità che ciò che non è ancora “scoria”, diventa scoria). Ma pur si può accertare quest’altro fenomeno: l’incompatibilità a che un dato organo, attualmente nello stadio inferiore e quindi ancora idoneo alla presente funzione, possa poi, senza scompensi o insufficienze, funzionare nella strutturazione superiore; tale incompatibilità viene quasi ad anticiparsi e porsi come un “avvertimento” che, come tale, è già una forza preformante. Essa forza plasmatrice, nella fase di transizione, di passaggio, cioè da una forma all’altra, trasforma dall’interno l’organo medesimo e lo rende perfettamente atto a collocarsi, in senso funzionale, nella nuova struttura che sta per nascere. In questo caso, ciò che diverrebbe incompatibile (inidoneo), non richiede il formarsi e l’abbandono di scorie, bensì implica la trasmissione morfologica dell’organo o di dati elementi organici e inorganici che, per l’avvenuto “mutamento”, risponderanno ‘ad hoc’ ai bisogni dell’organismo (o strutturazione) nella nuova (e superiore) dimensione vitale (il cosiddetto “vitalismo” del Rignano, ad esempio, non vede il processo in questo modo, ma in senso meccanicistico quale eredità positivistica di pensiero). Questo processo evolutivo di liberazione dai limiti imposti dalla materializzazione, non deve dunque essere considerato meccanicisticamente, ma va riguardato come la risultante di un impulso creativo cosciente, sempre in atto, che proviene dal mondo spirituale la cui finalità è che ogni essenzialità, temporaneamente inserita (ma non, necessariamente, prigioniera) nella naturalità, ritorni costitutivamente nello spirito.
Non entrerò in ulteriori particolari su questo punto per non dare l’abbrivo a considerazioni che potrebbero apparire fantastiche. Basterà, per concludere, il solo accenno che dalla Divinità all’uomo e da questi alla natura non v’è soluzione di continuità (non sussiste, in realtà, alcuno iato), e che dall’avvento del Cristo in poi, e questo è molto importante!, la storia dell’umanità (che è, in altri termini, la storia della libertà intesa precipuamente come liberalizzazione e, quindi, quale progressivo dispiegamento di libertà) e l’evoluzione della natura (che è il processo di affinamento, di più varia e complessa articolazione, di riscatto dal peso della materialità), assumono, dal punto di vista conoscitivo, un valore cristocentrico.

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La concezione fin qui svolta, può urtare in più di un punto la sensibilità di noi razionalisti moderni ed io, quindi, mi provo, a mo’ di commento, di fornire qualche opportuna delucidazione.
Se guardiamo la volta stellata e pensiamo all’incommensurabilità dello spazio ove sono disseminati molteplici sistemi planetari e miriadi di stelle e riflettiamo altresì sulle nozioni dello spazio, del tempo e del moto, apprese dalla filosofia, dalle matematiche, dall’astrofisica e dalle scienze naturali in genere, ci sembrerà quanto mai primitiva e frutto d’ignoranza, nonché di un certo “provincialismo” umano-terrestre, l’affermazione che la nostra Terra possa rivestire un’importanza cosmica qual è quella che le è stata più sopra attribuita; un’importanza tale, per di più, che farebbe nientemeno “discendere” Iddio, l’Ente Supremo, l’Artefice dell’Universo infinito, sul nostro insignificante (rispetto a quell’incommensurabilità) globo terracqueo. Il nostro pianeta non è altro che un “pulviscolo” confrontato con le altre unità stellari, ed assurda, quindi, è la pretesa di farlo centro del cosmo, pretesa che ci porterebbe indietro al più vieto scolasticismo telemaico che il grande Keplero ben seppe cosa significasse quando volle affrontare la cosmogonia (in verità, imponente) dell’astronomo Tycho Brahe. E, anche, qualcuno potrebbe maliziosamente far osservare che, senza troppo scomodare e filosofia e scienza, il semplice buon senso dovrebbe avvertire a tenersi distanti dalle suesposte considerazioni, che oltre ad essere “temerarie”, hanno il sapore di apparire, più che altro, delle elucubrazioni o, peggio ancora, delle farneticazioni. Meglio sarebbe, quindi, rifugiarsi negli ignorabimus, nei sette enigmi dell’universo che il fisiologo tedesco Emilio Du Rois-Reymond enunciò nel secolo scorso, o nel “mistero” che la Chiesa ammonisce di tener sempre presente affinché la fede non venga insidiata dai molteplici dubbi che il Maligno, sotto sotto, sussurra alle coscienze intemerate: Vade retro Satana!, dunque. Infine, la cautela dovrebbe essere d’obbligo per chi volesse, come qui sembra, dar la scalata all’universo in quanto la storia della filosofia insegna che esistono le aporie della ragione (che conducono all’incertezza quando di un dato problema esistono due tesi contrarie ugualmente ragionevoli), oppure che ci sono le antinomie di kantiana memoria (secondo cui la ragione, necessariamente, s’imbatte in due opposizioni contraddittorie, le quali, sebbene contraddittorie, possono essere giustificate da argomentazioni di uguale validità ed efficacia): cose, queste di cui il predetto “scalatore”, pare, non abbia tenuto conto.
Risponderò, anzitutto, col notare che le accennate obiezioni, d’impronta intellettualistica, da una parte, e fideistica, dall’altra, prescindono da ogni considerazione di natura spirituale e non sono fondate sulla ragione nel senso di una sua più estesa applicazione. Nel dire spirituale, io mi discosto da una concezione cosiddetta “spiritualistica” in quanto questa è una posizione ideologica contrapposta a quella “materialistica” (in senso metafisico), ambedue unilaterali e insufficienti. Tuttavia, tali obiezioni (anche quelle che s’appellano al buon senso) sono informate da presupposti scientifici, generalmente accettati, che partendo dal metodo sperimentale in cui il dato sensibile viene “obiettivamente” studiato nella sua accezione quantitativa, non possono conseguentemente entrare nel merito di quant’altro sfugga alla percezione sensoriale (le nuove teorie atomiche con riferimento alla “costituzione della materia”, ancorché non abbiano come finalità di farti percepire gli atomi e le molecole, pur tuttavia non prescindono, né potrebbero prescindere, dai fatti sensoriali). Tali obiezioni, inoltre (anche quelle d’intonazione fideistica) a tutto ciò che le sottende, sono vincolate al clima storico-culturale dell’epoca presente; ma da ciò come poter escludere che con il progresso delle scienze (sia pur proseguendo esse, senza mai dipartirsene, sul terreo sensibile-fisico), le quali sono sempre “in cammino” non si potrà sostanzialmente mutare, nel prossimo avvenire, la visione prospettica dei rapporti che intercedono tra noi e il cosmo?
In secondo luogo, dirò che nulla sappiamo dell’abitabilità dei mondi (anche se vogliamo restringerci al nostro sistema planetario), e del possibile stato di differenziazione degli esseri; ma anche nell’ammissione ipotetica, per quello che analogamente osserviamo sulla terra, che il cosmo, o zone di esso, sia abitato da esseri dotati d’intelligenza, sensibilità e coscienza, ciò nulla toglie al valore della destinazione che l’umanità verrà in futuro ad assumere e dell’influsso che quest’ultima potrà esercitare, nell’ambito dello spirito, sui supposti abitatori, poniamo di Sirio o Cassiopea, siano essi superiori o inferiori all’uomo nel grado evolutivo da esso raggiunto. Sarebbe, dunque, arbitrario voler inferire negativamente nei riguardi dell’uomo e dell’accennata sua missione spirituale dell’implicita supposizione che, essendoci possibilmente esseri a livello umano o super-umano, questi, dopotutto, niente avrebbero da attendersi dall’evoluzione progressiva dell’umanità in quanto, tra l’altro, gli sviluppi nell’economia terrestre, essendo eterogenei rispetto a quelli delle altre sfere, non potrebbero ripercuotersi né positivamente né negativamente al di là dell’ambito in cui tali sviluppi si condizionano. In definitiva, un compartimento stagno, sia pure di non disprezzabili proporzioni, ma sempre un compartimento, una dimensione, chiusi senza, quindi, aperture. È sostenibile filosoficamente una simile ammissione, una tesi siffatta?
Ogni conquista d’ordine spirituale, intercedente in qualsiasi spazio, diventa un patrimonio inalienabile nel mondo dello spirito per l’unità che questo ha con le proprie manifestazioni le quali, in esso generatesi, ad esso ritornano, direi circolarmente, arricchendolo di contenuti sempre nuovi e vitali.

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Se noi riflettiamo sull’apparizione dell’uomo di genio e del genio universale quali sono, ad esempio, Socrate, Dante, Goethe, apprendiamo che l’opera sua, compiutamente originale e irripetibile, ha fecondato lo spirito umano di nuovi veri che appartengono definitivamente al patrimonio comune dell’umanità. Del pari, noi osserviamo che la “civiltà” di un popolo (ad esempio del greco, del romano), oppure di un’epoca (il Medioevo, il Rinascimento), ha dato al mondo concezioni, espressioni d’arte, istituzioni giuridiche e forme di religiosità particolari e universali insieme che, conclusosi con il processo storico che le ha generate, sopravvivono tuttavia perenni (con la perdita di ciò che poteva esserci, d’accidentale e di contingente), nel deposito spirituale della vita associata.
Queste rapide esemplificazioni (sia per quanto riguarda gli uomini di eccezione, e sia per quel che riflette la civiltà di un popolo e di date epoche storiche) ci orienteranno verso la comprensione della missione spirituale che può rivestire l’umanità intera insediata sul nostro pur piccolo pianeta nei riguardi del cosmo. Dal punto di vista della prospettiva dello spirito, l’umanità è un solo organismo vivente all’apice del progrediente divenire della Terra il cui genio è Cristo. Se, dunque, a noi è dato costatare, nel quadro della “Weltgeschichte”, la feconda influenza che l’opera del genio esercita sulla comunità degli uomini che innumerevoli si succedono nelle generazioni; del genio, cioè, che nella sua apparizione individuale è il solo esponente del verbo, del “linguaggio”, da lui rivelato, ma pur come uomo, nella sua naturalità e sul piano esistenziale, è simile a tutti gli altri uomini che vivono sulla faccia del globo; se costatiamo questo, ci troviamo che tutto ciò è conforme a ragione, non deve ripugnare ad essa l’accettazione di una concezione che, implicando la interdipendenza di natura e spirito e la finale risoluzione della prima nel secondo, per l’effettiva preminenza di questa su quella, affermi, nella visione unitaria della vita spirituale, che il compito dell’umanità sulla terra, in seguito alla redenzione operata dal Cristo, rivesta un’importanza cosmica decisiva.
Un altro interrogativo che l’uomo di oggi può porsi, e si pone, è quello relativo alla divinità di Cristo. Soprattutto perché l’accettazione razionale di questo postulato della fede può riuscirgli ostica e sembrargli limitativa, quindi, dei poteri universali di Dio che egli ben ritiene al di sopra di ciò che i ristretti concetti umani possano in proposito addurre. Ed io qui prescindo dalla teologia, non perché non ne consideri la validità o ne sottovaluti il valore, ma semplicemente perché essendo essa una disciplina di quasi esclusiva pertinenza degli ecclesiastici e non avendo potuto, quindi, entrare con pieno diritto di cittadinanza, nei vitali canali della cultura, non ha potuto fornire a questa nessun reale contributo, né ricevere dalla stessa il bagno rigeneratore cui ogni corrente di pensiero o disciplina si sottopone, per evidenti ragioni. La teologia, quindi, risentendo di un che di chiuso, di arcaico e di “corporativo” a differenza dell’esegesi biblica, coltivata dai circoli accademici protestanti sia in Germania e sia in Inghilterra, non viene da me citata a conferma di quanto ho sin qui esposto e di quanto andrò ulteriormente ad esporre.
Per l’uomo colto di oggi, dicevo, ammettere l’incarnazione del Verbo, cioè la presenzialità personale di Dio in sembianze d’uomo, gli parrà quanto meno una sopravvivenza di credenze mitologiche contrastanti con i concetti che della Divinità (anche a motivo della rivoluzione nelle idee operatasi in virtù del cristianesimo), l’uomo moderno deve possedere, il quale, per istinto, rifugge da ogni forma di mitologismo, senza peraltro dover escludere, riguardo a questo specifico problema, quel ch’è già stato detto dianzi a proposito delle obiezioni che si possono fare contro dati presupposti di una visione cosmologica.
Dirò, su quest’altro punto di contrasto con le mie affermazioni, che ammettendo tanto la personalità di Dio, quanto quella dell’uomo, si deve poter razionalmente convenire che tra l’una e l’altra sussista un rapporto che è la conseguenza della derivazione e della connaturazione (nel senso del concetto di personalità, esplicato all’inizio), dell’uomo da Dio. In tale rapporto si compendia tanto l’azione “provvidente” di Dio nei riguardi della conservazione e dello sviluppo della specie umana, quanto la sua azione “ispiratrice” per la graduale apprensione, da parte dell’uomo, della sua verità (che è la Verità tout-court).
Nella rivelazione mosaica che Iddio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza e nell’intuizione greca che l’uomo è la misura di tutte le cose, è fissata completamente ed integralmente l’idea della natura della personalità umana la quale, essendo di filiazione divina, contiene in sé virtualmente tutti gli attributi per l’apprendimento e ed il dispiegamento della verità nelle cose stesse che Dio ha posto a fondamento della sua opera creatrice.
Orbene, da quello che apprendiamo comparativamente dai testi sacri di quasi tutte le grandi religioni storiche, il primitivo stato d’innocenza e purezza dell’uomo è stato compromesso in seguito ad un disordine cosmico originato da entità spirituali (Arimane, Lucifero) che si ribellarono (“titanismo”) ai voleri di Dio, disordine da cui sorge il principio (sia nel senso di origine e sia in quello di idea, di norma) del male che operò e opera nel creato e che l’uomo accettò e accetta (tentazione, peccato).
L’aspetto sensibile del male nel creato, riposa nella materialità delle cose, e nell’uomo sussiste nella sua “carnalità” che, come peccato, non è già l’eros, vale a dire l’amore tra due persone di differente sesso (in quanto il vero amore non sorge dalla carnalità, ma ha una estrinsecazione e una finalità extrasessuali), bensì è consistente in tutto quello che si riduce all’“appetizione” e la “consumazione” di atti sensuali fini a se stessi (soddisfacimento della gola, della libidine, brama ed esercizio dispotico del potere, e consimili estrinsecazioni, anche nel pensiero, che non tendono a porsi in relazione alle esigenze delle cose per quel che chiedono o per quel che valgono, ma che vengono dislocate, dirottate, verso il soddisfacimento che arrecano al soggetto).
Il carattere fisico della materialità (che si polarizza verso la solidificazione), e quello psichico della carnalità, sono complementari e interdipendenti; ed ambedue, nell’uomo, sono quello che inizialmente venne indicato come la sua naturalità, la quale, se non illuminata e guidata dallo spirito, si rivela impotente, da sé sola, a far fronte al male per antonomasia: al male morale (egoismo, menzogna, malvagità, crudeltà, contravvenzione deliberata e cosciente di quanto è d’uopo sia compiuto) che prende dimora nella naturalità dell’uomo ottundendone i connotati spirituali (e fisionomici).
Tale triplice carattere del male (fisico, psichico e morale) è avvertito come dolore, come “morte” ed il gemito della creazione in travaglio, trova una risposta nell’amore di Dio che vuole l’adempimento del totale riscatto.
Il dolore del mondo postula il richiamo dell’essere umano alla religiosità, la quale intimamente non sorge dalla “paura” come qualche etnologo o antropologo, in senso naturalistico, ha posto; ma è originata dall’angoscia dell’uomo nei confronti della propria impotenza costituzionale a liberarsi dal male che avverte nella propria naturalità. E l’amore di Dio risponde secondo il grado d’accoglimento da parte dell’uomo di esso amore, sia se tale accoglimento lo si riguardi come un fatto “provvidenziale”, ovvero sia come un’”ispirazione” dal profondo (che prescinda, anche, dalla nozione e dalla fede in Dio). Sia detto di passata, Bismarck, il “cancelliere di ferro”, ebbe al termine dei suoi anni, momenti d’angoscioso rimpianto per la carneficina che le guerre da lui volute avevano provocata.
In cotale stabilito rapporto fra la personalità di Dio e quella umana, è implicito il carattere della domanda, dell’invocazione che affiora dalla coscienza dell’uomo nelle diverse epoche della storia le quali, religiosamente, rappresentano quel grado di accoglimento più sopra accennato. Nel mutuo rapporto fra la domanda (invocazione) dell’uomo e la risposta di Dio, sta il fondamento di ogni religione storica che è, a sua volta, il principio informatore di ogni civiltà.
Da questo punto di vista, ritengo ogni religione fondamentalmente vera, come quella che da Dio ha ricevuto la luce di un particolare aspetto della sua verità, e non già nel senso che tutte quante siano di pari eccellenza, essendo che ognuna ha accolto e dispiegato quell’aspetto che ad essa sola era accessibile, ma pur era limitata alla conformità del proprio genio, della propria sensibilità morale (che è certamente qualcosa di ben diverso di quanto intendiamo oggi, noi occidentali, con tali termini) che, come tali, nell’ambito soggettivo, non sono di pari valore di un altro “genio o di un’altra moralità.
Se l’esigenza di verità, contenuta in ogni grande religione storica (Brahmanesimo, Buddhismo, la religione egizia, caldaico-assiro-babilonese, greco-romana), ha dato o dà ad ognuna di esse diritto di cittadinanza per quanto attiene alla “conoscenza” che le medesime hanno della Divinità, non per questo nella storia religiosa dell’umanità, possa sorgere, o sia già sorta quella religione che tutte le sublimi, che tutte le inveri in una sintesi superiore per l’integralità del possesso di verità che tale religione abbia accolto in sé. Sia detto, tra parentesi, questa concezione non è riferibile al “sincretismo” religioso propugnato dal Max Müller.
Ora, se questa religione dichiarerà d’essere quella dell’umanità e non di questo o quel popolo, e conterrà tutti quegli elementi per siffattamente autoproclamarsi, noi potremo ragionevolmente ammettere che essa sia arrivata al più alto grado d’eccellenza e alla stessa potremo accostarci affinché, nella sua luce, ci sia meglio dato di conoscere le altre religioni ed accogliere da queste, certi imperituri valori dello spirito che esplicitamente svolti, nella loro peculiarità, da que11e singole religioni storiche, siano implicitamente contenuti nella rivelazione sintetica della religione dell’Umanità.
E quale sarà, dunque, la religione dell’umanità intera se non quella da cui l’uomo riceve la promessa (che diventa certezza ad un superiore grado di coscienza per l’esperienza interiore che fa), che tutto ciò che impedisce il libero volo del proprio spirito verso la partecipazione all’opera di Dio nel mondo, verrà debellato e l’uomo stesso assorgerà alla dignità di un Dio fra gli Dei? Questa visione escatologica è la ragion d’essere del Cristianesimo, che proclamando la divinità del Cristo suggella pure la divinità dell’uomo non nel solo senso creaturale di derivazione da Dio ma, nel1’ambito della sua destinazione futura, di collaboratore cosciente dei piani stessi del Padre nel mondo dello Spirito.
Se noi consideriamo che i fondatori delle grandi religioni storiche, come geni religiosi, si trovano ad un più alto livello spirituale che non il genio universale del pensiero, della poesia e dell'arte, da me ricordato più addietro, e per la vita e l'opera loro ci é d’uopo ravvisarli come uomini che hanno accolto, con varia colorazione e intensità, la luce della verità di Dio, non disdegneremo di ammettere, anche per un'esigenza che rientra nell’acquisizione 1ogica, che sia pur sorto dal seno stesso dell'umanità un genio religioso che per l'eccelsa purezza della sua personalità, abbia ricevuto integralmente la luce del Padre per la quale tutto il suo essere, come uomo, si è trasfigurato in Dio. In Gesù Cristo questo processo d'endosmosi spirituale ha ricevuto il suo compimento summo modo, e a lui possiamo guardare come alla perfetta immanenza del trascendente; perfetta perché in Cristo sono apparse, per la prima volta nella storia, la compiuta umanità di Dio e la completa divinità dell'uomo.
L'avvento del Cristo, inoltre, non ha nulla d'antistorico poiché rappresenta il punto di sutura di un doppio processo (metatastorico e storico insieme) in cui, da una parte, assistiamo alla graduale e progrediente soggettivizzazione dell’indidualità umana e alla nascita del pensiero razionale evolventesi da quello meramente immaginativo e, dall'altra, scorgiamo come il risalire della soggettività dell'io, alla conquista di una progressiva obiettività in virtù del fermento cristiano che valorizza la personalità umana nell’unitarietà degli intenti che spingono innanzi il divenire del cosmo. Da una parte, quindi, abbiamo come una discesa dell'io nelle singole monadi le quali, a mano a mano, vanno cosi differenziandosi dall'io collettivo di gruppo o di tribù e, dall’altra, assistiamo come al risalimento del tragitto in cui 1’io, già differenziato soggettivamente, tende all'ampliamento dei propri confini individuali per possedersi come personalità cosciente dei valori imperituri dello spirito. L'uomo nel suo percorso risalente potrà quindi, a ragione, definirsi un microcosmo il cui respiro diventerà sempre più sincrono con il ritmo spirituale del macrocosmo.

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Questa abbozzata visione che culmina nella “palingenesi” dell’umanità, va tuttavia considerata sinteticamente, poiché se ci soffermassimo separatamente all’analisi, cioè al periodizzamento storico delle varie epoche e civiltà, potremmo trovare non tutto conforme a quanto in quest’ultima parte è stato esposto tanto per il periodo precristiano, quanto per l’era volgare. E se ci limitassimo, per esempio, di questo secondo periodo, a considerare la lunga parentesi medioevale che, dopo il dissolversi dell’unità del mondo romano, non appare affatto un’epoca in cui la società feudale, sia negli istituti pubblici e sia per quanto riguarda il quasi inesistente diritto privato, possa dirsi variamente articolata e differenziata ed in cui gli individui si sentissero persone con la conseguita capacità che il mondo, in essi, si rispecchiasse con contorni netti e precisi. Ma ci par quasi d’assistere al ritorno di una primitività uniforme nella quale la conoscenza immaginativa ha il sopravvento su quella razionale. L’aspettazione del Millennio (e di tutto ciò che esso potesse significare), il diffuso simbolismo, lo slancio mistico e l’attivismo degli ordini mendicanti, S.Francesco e la leggenda francescana, Gioacchino da Fiore e la sua visione di un rinnovamento della Chiesa, l’idea imperiale germanica, la teocrazia e la libertà della Chiesa: tutto questo affiorare e intrecciarsi di intuizioni, ispirazioni e motivi religiosi e politici (in notevole misura anticipati dalla “teologia della storia” della Chiesa paleocristiana e da Agostino, e, successivamente, sistematizzati nel grandioso edificio della filosofia di Tommaso d’Aquino), tutto ciò ci conferma che il climax spirituale (entro il quale il razionalismo scolastico, imbevuto d’aristotelismo, nasce concludendo il Medioevo) della lunga parentesi, è prevalentemente caratterizzato da un afflato simbolico-immaginativo-profetico che dà forma e contenuto a tutta quest’epoca.
Ebbene, se tutto questo può essere assunto per caratterizzare il periodo medioevale (e, quindi, per quanto prima si diceva, ciò possa apparire contrastante con l’accennata intuizione secondo cui, con l’avvento del Cristo, si assisterebbe, monadisticamente, alla metamorfosi dell’Io di gruppo in quello dei singoli soggetti i quali accedono, gradualmente, alla dignità di persone e, pertanto, al possesso della strumentalità razionale per mezzo della quale il mondo appare come “oggetto”), ci soccorra, per dirimere l’apparente contrasto, la concezione del Vico che la storia ha i suoi corsi e ricorsi insieme con l’altra che ci dice che il progresso dello spirito si muove in forma di spirale, come genialmente osservò il Goethe, per cui abbiamo quasi un ritorno, in senso longitudinale, di atteggiamenti storici apparsi in precedenza, ma un ritorno, però sempre in un punto più alto (il che significa un ritorno dell’antico in presenza di nuovi contenuti che si sono poi andati affermando). Per cui, se riflettiamo su quanto Vico e Goethe hanno affermato al riguardo di un siffatto moto pendolare della storia, per attenersi ad un’altra immagine, non discordante dalle precedenti), ravviseremo, nella parentesi di cui si discute, non già un’epoca di stasi o d’involuzione dello spirito (come un superstite razionalismo illuministico dei nostri giorni ancora afferma), ma una fase di raccoglimento e di preparazione insieme, preludio, anche per effetto dell’apporto del pensiero, geometricamente rarefatto, dell’Aquinate, di un’esplosione di nuove forze vitali; fase in cui un’intensa vita sotterranea plasmerà l’unità europea erede, questa, di un patrimonio storico ineguagliabile in ricchezza e varietà, quale quello accumulatosi nel capace alveo mediterraneo in cui dalle matrici di fondo delle civiltà dell’antico oriente (indiana, egiziana, assiro-caldaico-babilonese) sono sorte, non per incanto, dicevo, e la severa religiosità dell’ebraismo, e l’incantevole fioritura ellenica, e l’insigne maestà del romanesimo: le quali correnti di vita vanno a confluire nel Cristianesimo che configura di sé quell’occidente europeo (non senza il grosso pungolo dell’Islam), la cui formazione prende inizio, come abbiamo visto, dall’età di mezzo.
Con l’imponente forza della concezione mosaica del Dio unico e del radicalismo ebraico da una parte, con l’influsso del pensiero greco (da Talete a Plotino) dall’altra, e qui non si trascuri Filone Ebreo (d’Alessandria) e gli Esseni (di cui diffusamente nel secolo scorso s’è occupato il valoroso rabbino Elia Benamozegh) che rappresentano il “momento” di confluenza dell’ebraismo e dell’ellenismo, i tempi erano maturi affinché nel vasto quadro dell’organizzazione politica romana, sorgesse e si propagasse il nuovo Verbo di redenzione e di riscatto dell’umanità.

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La venuta del Cristo, dunque, si attua nel punto d’intersecazione del doppio processo storico da noi considerato: quello compiutosi fino al suo avvento, e quello iniziatosi un breve tratto d’allora (duemila anni sono, in verità, un breve cammino dall’avvento di Palestina rispetto alla storia che lo precedette e ralativamente al tempo che ne seguirà), e che va, via via, svolgendosi fino al termine dell’economia presente che, per quanto è stato fin qui detto, segnerà l’inizio del regno dello Spirito.
Ed è in questa visione d’insieme che ho affermato che l’evoluzione della natura (che, per quanto riguarda le forme organiche, come giustamente ha intravisto il darwinista Ernesto Haeckel, nello sviluppo ontogenetico “ripetono”, in modo abbreviato, la filogenesi), non separabile dall’uomo, in quanto questi è la più alta espressione della natura perché sintetizza e comprende in sé il regno minerale, quello vegetale e quello animale) e la storia dell’umanità, per l’ulteriore conoscenza che di esse, evoluzione e storia, dovrà farsi, vanno considerate da un punto di vista cristocentrico.
Né Krishna, né Buddha, né Zoroastro, né Mosé, né alcun altro mai, ha potuto di sé affermare come il Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita”. La via della salvezza, lo spirito della verità e l’impulso creativo della vita provenienti dalla personalità di Dio, si sono immedesimati nel prototipo dell’umanità. La personalità del Cristo diventa per l’uomo sinonimo di verità. A lui dobbiamo riguardare, affinché la luce di essa, alimentata dall’amore, orienti il nostro spirito nel retto pensiero, nel retto sentimento, nella retta volontà. In codesta rettitudine delle facoltà dell’anima, la personalità umana, possedendo una strumentalità volta verso il polo positivo della vita, diventa creatrice di valori e, pertanto, si pone nell’ambito dello stesso processo creativo assecondandone, più o meno coscientemente, i fini.
L’affermazione di Anassagora che l’uomo è la misura di tutte le cose prende, dal Cristo in poi, un nuovo rilievo nel senso che la misura stessa non è più un valore mediato dell’uomo a Dio, ma sussiste immediatamente nel riferimento che di essa misura facciamo a Cristo: la pietra angolare della verità e del processo creativo della vita.
A questo punto può sorgere legittima l’obiezione che ci sono pure individui che informano il proprio orientamento di vita secondo verità, e quindi con rettitudine, senz’essere, per questo dei cristiani. Ed io risponderò dicendo che non si è nella verità in quanto si sia “cristiani” (e ciò è di per sé lampante: non è una scoperta), ma si è cristiani se si ama la verità e si opera conformemente ai suoi dettami, prescindendo dell’appartenenza e meno alla denominazione di “cristiano”. Se si è cristiani anche senza essere iscritti all’albo presso l’anagrafe dell’appartenenza.

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Vent’anni dopo (questa parte è in corso di rifacimento)

Rileggendo queste pagine non ulteriormente allora proseguite, alla distanza di quasi un ventennio, l’estensore delle medesime vede oggi come potrebbe modificarle per quanto riguarda la visione d’insieme.
Esse furono scritte, nelle condizioni di tempo e di luogo indicate dalla lettera, che funge quasi da introduzione, utilizzando residui di carta a disposizione e non sempre a portata di mano, durante un periodo di tre mesi circa. Periodo alquanto lungo se si pensi che in condizioni normali e potendo disporre di libri per le necessarie consultazioni, tale compimento si sarebbe potuto stendere nel giro di pochi giorni.
Si tratta, come si vede, di un piccolo “quaderno del carcere” sui generis che affronta un dato ordine di problemi, per lo più inconsueti, ad usum delphini, cioè, avendo l’estensore il pensiero rivolto ai figli che sarebbero potuti restare orfani del padre.
Nella lettera dedicatoria, si accenna a “Treviri” che, come ognuno oggi può intendere, voleva significare Carlo Marx e il marxismo, ma è pur certo che una concezione qual è quella sviluppata negli sparsi foglietti raccolti, apparirà, da chi si pone nella visuale del marxismo-leninismo, come un fatto imprevedibile e assurdo. Ma se poi viene a sapere che colui che l’ha delineata, si professi marxista, la circostanza assumerebbe ancor più l’aspetto di un che d’imprevedibilmente assurdo. Il che non è.
Se l’internato per motivi “politici”, riteneva allora, e ritiene oggi, valido il marxismo per la sua carica rivoluzionaria intesa al sovvertimento (graduale o violento: di ciò hanno deciso e decideranno le condizioni “obiettive”), della società borghese come tale, e alla edificazione di una società nuova in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione venga abolita e cessi, di conseguenza, lo sfruttamento dell’uomo per mezzo dell’uomo; ebbene, tutto ciò si configura, senza possibilità di contraddizione, nella sua visione, ancorché il marxismo abbia dovuto necessariamente prescindere da ogni considerazione di natura religiosa non solo, ma abbia considerata la religione come ideologia intravedendo in quest’ultima il “supporto” mistificatorio di cui i detentori del potere, in ogni tempo e in ogni luogo, si sono serviti per impedire che si pervenisse, una volta che si fosse imboccata la strada giusta, all’instaurazione di quella “società degli uguali” (qui è detto emblematicamente senza un diretto riferimento a Babeuf, ed è inteso “uguali” come punto di partenza e non coercitivamente come punto di arrivo).
Non sfuggiva, pertanto, all’intendimento del recluso la ragione per la quale il diritto di proprietà dovesse considerarsi “sacro”, come pure i motivi per cui la detenzione e l’esercizio del potere fossero un tempo (e ancora oggi) intesi come voluti da Dio (in persona!), con il conseguente fraintendimento di ciò che doveva essere il “momento” necessario del potere in sé, con quello che, invece, era la persona o la classe politica alle quali il potere era stato conferito, oppure venne da esse strappato (ogni potere è più o meno “strappato” e ancora attualmente, nell’ambito degli Stati moderni retti a “democrazia”). E veniva pure, all’internato politico, a maggiormente chiarirsi come il vero intendimento della personalità di Dio poteva interamente informare quella stessa razionalità che si poneva come distruttrice di “Dio”, inteso quale entificazione umana a supporto e a suggello di ogni infamia e di ogni aberrazione. “Gott mit uns”, si leggeva sulla placca della cinghia dei pantaloni indossati dalla soldataglia hitleriana e “Francisco Franco Caudillo per la gracia de Dios”, si legge tuttora sulle monete spagnole. “Porco dio”, era l’incontenibile grido che venne fatto d’udire nelle trincee quando il combattente, maledicendo con i pugni serrati protesi verso il cielo, s’abbatteva fulminato dalla mitraglia o dalla scheggia di grata; ed il cappellano militare, che gli fosse stato accanto, se era un vero credente pregava in silenzio affinché l’anima del morente non si dannasse e se, invece, il cappellano fosse stato acceso del cosiddetto “amor di patria” e fosse del pari tutto votato a santi, madonne, miracoli e chiesa, non era guari che in cuor suo gli augurasse di andare all’inferno (come a noi, in tempo posteriore, venne gridato in faccia dalle SS d’andare “zum Teufel”, cioè al diavolo).
Ma molti non s’avvedono che la bestemmia diventa infrenabile e agisce come terapia “d’urto”, come un’accusa terribile contro coloro che, scandalizzandosene o facendo le viste d’indignarsi (come potrebbe accadere, adesso ad un tipo quale l’on. Oscar Luigi Scalfaro), sono i diretti responsabili dei quel che, secondo loro, offenderebbe la Divinità provocandone l’ira ed il castigo.
E non è a caso che le leghe degli zelanti “contro la bestemmia” (ai quali non vogliamo negare che facciano opera di bene), diventino attive specie nei periodi e nei luoghi in cui all’oppressione clericale s’aggiunga pur quella di tutte le varianti di fascismo.
I cartelli invitanti a non bestemmiare si trovano per lo più affissi negli spacci di bevande alcoliche e in qualche negozio di periferia, dove si ritiene che il turpiloquio sia più “facile” a un dato pubblico composto d’operai, da gente di fatica, dal “popolo minuto” in genere.
Ed è significativo che nell’opinione dei benpensanti, che tende a imporsi come opinione corrente, si associ la bestemmia al turpiloquio i quali possono sì coesistere, ma , a ben vedere, non sono motivati o condizionati da identiche cause. La bestemmia non scurrile, spoglia d’oscenità e d’intrusioni falliche o erotiche, è qualcosa che sorge dal profondo; è un’invettiva, una sfida contro l‘ipocrita concezione di Dio che le classi dominanti vogliono coonestare e imporre. E siccome tali classi sociali e le loro frange clientelistiche sono pur quelle che, in parecchie occasioni e nei più vari modi, compiono atti che sono vere bestemmie al cospetto di Dio e degli uomini, non accadrà mai di notare cartelli affissi contro la bestemmia nelle hall dei grandi alberghi né nelle boutiques né nei night né al Savini di Milano (in quanto in tali ritrovi non si fa turpiloquio come , del resto, non è difficile immaginare).
La ragione, che può varcare i limiti della mera sensorialità, era in grado di distruggere quel “Dio” considerato e imposto come il Supremo-reggitore-dell’universo che null’altro è quel “Dio” che un’”immagine” caricaturale dell’Iddio vivente, un’immagine untuosa, “castigatrice” e blasfema che l’ignoranza, l’infingardaggine e la viltà degli uomini s’erano foggiata e della quale le classi egemoni (non esclusi i reggitori ecclesiastici), si sono servite e si servono per soggiogare le moltitudini. Le cerniere che tengono ideologicamente e materialmente avvinte le masse ad un sistema truffaldino e iniquo (nel mentre le stesse reclamano, con forza ormai dirompente, la propria libertà di essere uomini in tutta l’estensione del termine), non potranno che ineluttabilmente saltare! (E qui non si riecheggia lo sdegno carducciano).
C’è ora da aggiungere che nella stessa misura in cui l’uomo ami Iddio, od in eguale intensità tutto quel di menzognero si appelli al Suo nome. Ma v’è di più: colui che è nemico della menzogna in tutte le sue manifestazioni e spende, a volte, tutta la sua vita per smascherarla ove essa si annida, e così operando riesce a trasformare (per usare termini assai familiari) il male in bene, questi sarà l’uomo che veramente ama Dio (ed è da Dio amato), sebbene possa accadere che un uomo siffatto non “creda”, nel senso come generalmente s’intende, in Dio. Abbiamo qui una radicale “trasmutazione dei valori”, non alla maniera nietzscheana (ché tale trasmutazione significava gettar via, insieme con l’acqua sporca, anche il bambino accovacciato nella tinozza), ma nel vero senso del termine, cioè di una radicale inversione di tutto quello che si ritiene siano i valori e in realtà non lo sono affatto: sono tutte bottiglie etichettate con contenuto adulterato.
Gli atei, che sono per lo più persone rispettabili, comunque, assai meglio rispettabili degli atei “cristiani” (se non altro perché qui c’è patente contraddizione tra la denominazione e la sostanza umana, e là contraddizione non c’è), scrivono, non a torto, dio con la “d” minuscola e ne hanno ben donde, in quanto quello che viene propinato ufficialmente e comunemente con tale termine (ma con la “D” maiuscola), non è un dio fantoccio (con o senza barba e triangolo). Soltanto i negatori di dio, nel senso indicato, erano atti, in talune precise circostanze storiche, ad essere realmente degli “apoti”, cioè di quelli che “non la bevevano” e sputavano anche in faccia a coloro che volevano “darla a bere”.
Un altro tipo (e giova rammentarlo), tra quelli che credevano di darla a bere, ma di diverso contrassegno politico del sopraricordato Scalfaro, è l’on. Gaetano Martino, il quale da buon liberale, scienziato e volterriano, non disdegnò a genuflettersi con compunzione al cospetto dell’allora regnante Pio XII. Ed un altro nostro parlamentare ed ex ministro (che, tuttavia, non crediamo s’inginocchierebbe poiché, fintanto che il suo partito non getterà alle ortiche il marxismo come hanno pur fatto i socialdemocratici tedeschi, egli si considera “marxista” ed in tale veste, com’è evidente, sarebbe assai disdicevole inginocchiarsi al Papa), il quale fa parte della medesima schiera di propinatori d’acqua non sempre potabile, è l’anticlericale Paolo Rossi che, in merito alla questione della sovvenzione alle scuole private da parte dello Stato, non pare si sia comportato all’altezza del sottinteso suo laicismo. Ed anche per questa figura d’uomo, ci siamo lasciati andare ad un divertissement, a conforto e ammaestramento di tutti quelli che, divertendosi pure un po’, sappiano trarre le dovute conseguenze e non vengano distratti dalle apparenze, vale a dire dalle varie etichette invalse sul mercato. E qui torna opportuno ricordare, a suo merito e lode, però un altro Paolo, vale a dire, Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano, il quale in un pubblico dibattito, tenutosi or non molto alla Casa della Cultura, affermò, tra le proteste di qualcuno presente in sala, quanto ardentemente egli, durante l’ultima guerra, e in servizio militare per giunta, desiderasse la sconfitta della diletta Italia: unico mezzo, questo, che ci avrebbe liberati dall’odiato fascismo. Tale affermazione non era soltanto scandalosa per molte orecchie, ma rappresentava una inaudita bestemmia, che noi mettiamo sullo stesso piano di protesta di quella sfuggita al labbro del “milite ignoto” della prima guerra mondiale e a cui abbiamo, implicitamente, reso un doveroso omaggio. Che tuttora tali bestemmie contro la maestà di “Dio” e della “patria” suscitino l’ira delle più svariate canaglie del nostro Paese ove “il sì suona”, ciò è la comprova, a luce meridiana, di quanto quelle “bestemmie” non siano affatto tali, e a proposito della trasmutazione dei valori accennata sopra, abbiamo in questo caso la “reciproca”, cioè la dimostrazione inversa che quanto viene considerato un accadimento negativo, quindi da condannare, è invece qualcosa di molto positivo, pienamente valido.
Per cui non possiamo esimerci dal dare il nostro plauso al direttore del “Piccolo” e a quanti che, al pari di lui, non si arrestano né si arrendono di fronte ai vari tabù in circolazione che, come moneta cattiva, scacciano quella buona. E la moneta buona è, a nostro avviso, la facoltà di saper vedere in ogni circostanza di luogo e di tempo, come effettivamente siano le cose in se stesse e nelle loro reciproche e mutevoli relazioni. Ci piace ancora accomunare il nome testé fatto, quello di Lelio Basso, di Ernesto Rossi e di Mario Melloni, i quali quattro, pur nelle diverse sfere in cui agiscono, sono spinti da una congeniale attitudine, in quanto “apoti”, ad ammonire gli ignari a tenere bene aperti gli occhi quando dovessero, al caso, transitare nei pressi di via Montenapoleone o di via Veneto (a tacer del resto!). Torna utile fare anche notare che tali uomini, oltre a “non volerla bere”, non sono per nulla disposti a “darla a bere” e da qui ci sorge il dubbio (non è una malignità), che quei quattro, ciascuno nell’ambito della propria competenza ed esperienza (che non è trascurabile), saranno difficilmente invitati a tenere conferenze all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e al “Centro” (d’alta cultura) Pirelli situato nell’omonimo svettante grattacielo.
È necessario poi chiarire, in merito al termine apoti, che noi lo abbiamo usato con un significato assai diverso da quello impressogli dal conio prezzoliniano e da cui detta locuzione ebbe origine. Per Prezzolini e per quant’altri della sua mentalità, il non volerla bere era un atteggiamento tra lo scettico e l’infastidito, per cui non valeva proprio la pena di mettersi in mezzo ai disputanti di cui ognuno volesse dir la sua; si stimavano, i prezzoliniani, di non essere così “grulli” da prestare attenzione alle varie accese e inconcludenti dispute del momento (non volevano, in sostanza passare per “fessi”). Da parte, invece, di quelli che ho nominato, non si tratta affatto di “non berla” e…. lasciar correre, cioè “lasciar pur che il mondo dica”, ma si tratta di un atteggiamento né spassionato né “distaccato”, di un reale impegno, politico e morale, tendente soprattutto a far sì che gli altri non bevano! Il che, ognuno lo vede, “è un’altra cosa”, come da tempo lo slogan di una nota aranciata ci aveva insegnato (la quale peraltro, malgrado il prezzo un tantino sostenuto, vien “bevuta” in quantità).
La scomparsa della dimensione statuale e di quanto essa implichi come “dittatura”, rappresenta il punto più avanzato dell’intuizione avveniristica del marxismo nella quale, peraltro, alcuni marxisti hanno creduto di scorgere qualche venatura di “utopia”. Ora, dal nostro punto di vista, non solo la scomparsa dello Stato sarà un fatto certo in una società comunista perfettamente articolato, ma quando ciò sarà pienamente attuato, si dischiuderanno, com’è intuitivo, ben altre possibilità di libero sviluppo dell’uomo per quel che riguarda il potenziamento della sua complessione “caratteriologica” nel senso di quanto venne avvertito discutendo del “carattere” nella riportata notazione del carcere. Non vogliamo apparire immodesti, ma non ci sembra immotivata la persuasione che, qualora Antonio Gramsci si fosse “incontrato” con una siffatta previsione (che non ha nulla di “profetico”, di vaticinio), egli, da par suo, non l’avrebbe respinta, o quanto meno, non avrebbe disdegnato di considerarla valida come “ipotesi di lavoro”.
Un magnifico esempio di carattere, è rilevato dalla lettera che un operaio, il conciapelli Joseph Dietzgen, indirizzò al “signor dott. Karl Marx a Londra”, il 7 novembre 1867 da Pietroburgo (esattamente 50 anni prima dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre), nella quale si può leggere quanto segue:

«(…) Lei esprime per la prima volta in forma scientifica, chiara e irresistibile, ciò che d’ora innanzi sarà la tendenza cosciente dello sviluppo storico, quella cioè di subordinare alla coscienza umana la forza naturale, finora cieca, del processo sociale di produzione. Aver dato ragione a questa tendenza, averla aiutata a comprendere che la nostra produzione è avventata, questo è il suo atto immortale, stimatissimo Signore! Il tempo gliene recherà riconoscimento generale, glielo dovrà recare. Leggo tra le righe della sua opera che il presupposto della sua profonda economia è una filosofia profonda.
Siccome quest’ultima mi ha dato molto da fare, non posso reprimere il desiderio di metterla a conoscenza delle mie aspirazioni scientifiche, confessandole nello stesso tempo che sono un conciatore con istruzione soltanto elementare.
Il mio obiettivo è stato fin dall’inizio, una sistematica concezione del mondo; Ludwig Feuerbach me ne indicò la via. Molte cose però le devo al mio proprio lavoro, cosicché posso ben dire di me: le cose universali, la natura dell’universale, oppure “l’essenza delle cose” mi è scientificamente chiara. Ciò che mi rimane da sapere sono le cose particolari. (…) La base di ogni scienza sta nella conoscenza del modo in cui si svolge il pensare. (…) Ogni essere è un apparire più o meno costante, ogni apparire è un essere più o meno costante.
Tutte le cause sono effetti e viceversa. Entro una serie di fenomeni susseguentesi, ciò che precede, in generale si chiama causa. Di 5 uccelli, per esempio, a causa dello sparo, 4 si alzano in volo. Dunque lo sparo si chiama causa del volo dei 4 e l’impavidità causa del fermarsi dell’uno. Se, invece, 1 vola e 4 rimangono fermi, allora non è più lo sparo, ma la paurosità che si chiama causa del volo. (…) Pesando una balla di merci si maneggia a libbra la gravitazione, senza riguardo alla materialità del peso. Quell’insipido di Büchner disse: “Ora, ciò che mi occorre sono i fatti”, ma egli non sa quello che gli occorre; alla scienza non importano tanto i fatti quanto la spiegazione dei fatti, non tanto le materie quanto le forze. (…) “La forma non è visibile”. Eh, via, il vedere stesso e ciò che vediamo è pura forza. (…) La differenza tra apparire ed essere non è quantitativa. La facoltà del pensare, dal molteplice compone l’uno, dalle parti il tutto, dal perituro l’imperituro, dagli accidenti la sostanza. (…)
Voglia perdonarmi, stimato Signore, se mi sono permesso di approfittare in tal modo del suo tempo e della sua attenzione. Ho creduto di farle piacere dimostrando che la filosofia di un operaio è più chiara che non la media dei nostri professori. Un plauso sarebbe da me apprezzato assai di più di quanto lo potrebbe essere la nomina di qualche accademia che mi volesse accogliere tra i suoi membri. Termino con la rinnovata assicurazione della mia fervida partecipazione ai suoi sforzi che oltrepassano di gran lunga la nostra epoca. (…)»
Qui è dato scorgere quanto la forma di un carattere che s’avviava coscientemente alla comprensione del mondo, avesse sicuri presentimenti avveniristici in virtù di una capacità di pensiero che sapeva bruciare, all’istante, le erbe, per esso già disseccate, di un positivismo scientifico, culturale e ideologico che ancor tanta influenza doveva esercitare sulle menti nello scorcio del secolo. Questo era sorprendentemente in atto quasi cent’anni fa, quando, da noi, uomini (per indicare alcune personalità dell’Italia risorgimentale e post-risorgimentale), disparatissimi tra loro sia per le diverse matrici culturali da cui provenivano, sia per età e sia come individui quali, ad esempio, Terenzio Mamiani Della Rovere, Cesare Cantù, Augusto Vera, Ruggero Bonghi, Enrico Nencioni, Gaetano Negri, Isidoro Del Lungo, Ferdinando Martini; uomini, peraltro, “probi e preclari”, come allora si sarebbe potuto dire di loro, erano ben lontani dal concepire qualcosa ch’equivalesse, in forza ed in “modernità”, al pensiero dell’operaio tedesco-russo.
Come pure oggi, dal dopoguerra in poi, se analogamente scegliamo alcuni nomi di uomini pur preclari sebbene, forse, non tutti probi (in parte, nel frattempo, defunti e in parte viventi, e dai più anziani ai più giovani), come Ettore Janni, Giulio Caprin, Alberto Bergamini, Giovanni Conti, Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Bernardo Berenson, Pantaleo Carabellese, Tommaso Gallarati Scotti, Mario Missiroli, Emilio Cecchi, Fausto Nicolini, Epicarmo Corbino, Luigi Salvatorelli, Panfilo Gentile, Novello Papafava de’ Carraresi, Vincenzo Arangio Ruiz, Mario Vinciguerra, Giovanni Ansaldo, Giuseppe Maranini, Nicolò Carandini, Vittorio de Caprariis, Francesco Compagna, Giovanni Spadolini e altri ancora; potremmo constatare che, non avendo noi operato accostamenti “ibridi”, sebbene non perfettamente omogenei (Compagna non andrebbe certamente a braccetto con Spadolini, ancorché ciò non possa escludersi, in assoluto, in seguito ad un eventuale futuro “voltafaccia” dell’uno o dell’altro, né, tanto meno, si può ragionevolmente ritenersi che Carandini proponga a Mario Pannunzio la collaborazione di Ansaldo per il settimanale “Il Mondo”, pur nella considerazione che, dopotutto, costui collaborasse illo tempore a “La rivoluzione liberale” di Piero Gobetti), il quadro culturale che detti nomi complessivamente rivelano, è alquanto impermeabile all’accoglimento di tutto ciò che possa sopravanzare le promesse ideologiche proprie all’assetto capitalistico-borghese.
E per tornare a Joseph Dietzgen, non possiamo esimerci dal riflettere che un tale esempio di vita, una simile esistenza, facesse parte dell’immenso anonimato di una società: per cui ne consegue che uomini di siffatta tempra vivono e si avvicendano nel tempo sconosciuti (e non “emergono” sia per ragioni obiettive e sia per ragioni soggettive senza potersi escludere che intervenga in alcuni di essi il deliberato proposito di non “farsi avanti”, di non “farsi strada”, di non “essere qualcuno”). Sia detto incidentalmente, gli apostoli, per quanto possiamo arguire, erano degli sconosciuti nella società palestinese di quel tempo ed anche noi, ad eccezione di Pietro, Giacomo di Zebedeo, Giovanni, Matteo, Tomaso e Giuda, ben poco conosciamo della loro personalità all’infuori di ciò che è leggendario. Ma non per questo, tuttavia, detti uomini sono meno “produttivi” delle personalità di “chiara fama” le quali, peraltro, nella quasi generalità dei casi, sono impediti da ciò che dipende dalla “risonanza” del proprio nome (dal fatto di essere “personaggi” e interpreti) per non esporsi a compiere quanto essi potrebbero effettivamente fare, a profitto della generalità, e non fanno. Gli uomini conosciuti, molto spesso, hanno più che altro (specie quando sono arrivati in vista del “traguardo”), un patrimonio cosiddetto “morale” da difendere, acquisito per doti naturali, in virtù pure di perseveranza e tenacia e conquistato anche con abilità e accorgimenti vari; per cui, non raramente, sono mal disposti a “compromettersi” per il reale avanzamento dei propri simili sebbene non sempre entrino in gioco, grettamente, considerazioni che riguardino il periodo “particulare”. E tra costoro intravediamo molte facce di uomini del nostro tempo che in privato ti parlano in un modo, mentre quando scrivono o s’indirizzano agli astanti in un pubblico dibattito (anche ora che l’Ovra non funziona più da un pezzo!), parecchie argomentazioni dette a tu per tu, non vengono accennate e svolte perché: “che cosa ne penserà il tale che è qui presente in sala?”. E noi, altresì, sappiamo quanta gente produca intellettualmente rivolta con pensiero o con l’immaginazione a questo o a quelli pubblici e non tanto perché, nel migliore dei casi, ciò corrisponde ad una esigenza quale è quella di dover, nelle proprie considerazioni, tenere presente un dato pubblico che abbia raggiunto quel sottinteso livello di comprensione di modo che quell’adeguazione diventi proficua, stabilendo essa un intellegibile rapporto tra “l’intellettuale” ed il suo universo (adoperiamo qui una locuzione invalsa nelle “ricerche di mercato”); quanto perché l’adeguazione stessa vuol diventare, comunque, motivo di approvazione stessa per trarre quei vantaggi d’ordine pratico che l’approvazione stessa può offrire. Abbiamo, dunque, in questo secondo caso, più la preoccupazione del successo esteriore che non il bisogno di affermare qualcosa di valido in sé.
Da qui mette conto aggiungere che la teoria del successo considerata come strenua affermazione dell’individuo sia negli affari e sia in qualsiasi altro campo della vita sociale, non è congruente ai fini della reale affermazione della personalità, poiché il miraggio ed il conseguimento del successo si svolgono sempre in una dimensione “esterna” senza che possa sussistere, in dipendenza della prevalente e permanente estroflessione che ne deriva, alcuna relazione (o intermediarietà) con ciò che di razionale l’uomo avverte per il suo benessere.
Il benessere dell’uomo riposa essenzialmente nella sua capacità di compiere atti che non ledano i diritti della sua “interiorità” e quella degli altri. Il successo non tiene in nessun conto tali diritti; esso li sacrifica (e li richiede in contropartita a colui che al successo mira e del quale, sostanzialmente, è schiavo), e “succhia” dal soggetto che è l’uomo (come se si trattasse di una specie di vampirismo), quell’energia di “equilibrio” delle facoltà e tra le facoltà, senza la quale il soggetto non può che “alienarsi” nel senso marxiano e come vedremo in seguito da alcune considerazioni kafkiane.
Non è un mistero che l’uso dei tranquillanti, specie negli Stati Uniti, che serve pur anche alla logica irrazionale (non è una contraddizione in termini) di avere sempre a disposizione l’ennesimo prodotto da vendere, è la conseguenza di quello squilibrio, determinato dalla spinta al successo ad ogni costo. Il successo per antonomasia, nelle presenti condizioni della società, è l’accaparramento del danaro, della ricchezza, come fine a se stesso. Ricchezza che diventa strumento di potere nell’illusione che il comandare alla gente, sottoposta a un dato condizionamento, equivalga all’effettivo esercizio del potere, il quale non può realmente esplicarsi in mancanza di consenso (espresso o tacito), di coloro che dovrebbero ubbidire. Non ci sono human relations che tengano finché la “proiezione” del successo e dell’acquisizione ad ogni costo del danaro (o di beni economici), solleciti irrazionalmente l’uomo a far rigetto dei propri diritti di personalità cosciente. Tale suggestione non può, alla fine, che portare all’inaridimento dell’uomo per l’imposta sua “integrazione” (senz’alcun altro scampo se non l’evasione) nella sola sfera esterna. La sfera esterna, da sé sola, è illusione. Non è, quindi, affatto il successo quello che veramente conti, ma quello che è soprattutto importante, essenziale, per l’uomo moderno (come ognuno se ne può avvalere), sta nell’essere compos sui, cioè essere in possesso dell’equilibrio di tutte le sue facoltà. La differenza tra l’uomo libero (cioè colui che non tende mai al successo come scopo essenziale ) e l’uomo integrato (cioè colui che non vive che in funzione del successo) sta nel fatto che il primo, di fronte ad un insuccesso o, anche, di una serie d’insuccessi, trae occasione per correggere se stesso e, quindi, influire diversamente e meglio sulle cose (possiede l’”energia” sufficiente); mentre il secondo, pur possedendo doti da lottatore, può essere indotto a considerare un insuccesso (di una certa portata) come un “fallimento e, quando un uomo si ritiene fallito, bisognerà tutt’al più ricorrere allo psicanalista.
La filosofia moderna che s’instaura con la dissoluzione della Scolastica e, attraverso la cultura rinascimentale, la riforma religiosa, il misticismo tedesco, la rivoluzione copernicana, l’epoca delle grandi scoperte geografiche, l’empirismo inglese, il razionalismo franco-olandese, l’età dell’Illuminismo, la rivoluzione francese, si “sistemizza” con Kant, e poi riprende rigogliosamente procedendo fino a Hegel, e qui si assiste ad una seconda dissoluzione che sarà altrettanto benefica; attraverso tale processo storico, la filosofia moderna non poteva che giungere all’”uomo copernicano” (Banfi) di oggigiorno, al marxismo che realmente sta trasformando il mondo. Il marxismo, “punto d’approdo della filosofia classica tedesca”, per il clima storico-culturale in cui è sorto ed in vista dell’immane compito che gli stava innanzi, doveva far tabula rasa di ogni idealismo, di ogni trascendentalismo (nei quali acutamente vedeva, e vede, annidato, al caldo, le forze della conservazione e della reazione a tutto disposte purché nessuna cosa cambi che attenti alla fruizione del loro potere. Vorremmo qui aggiungere, sempre tra parentesi e in forma di domanda: e chi non ricorda il “costi quel che costi” di degasperiana memoria, se tale pervicacia, seminatrice di zizzania e conducente alla “legge truffa”, non impallidisse di fronte alla pubblica dichiarazione, fatta in America dall’on. Pella, che per la propria figlia sarebbe stata desiderabile la morte atomica piuttosto che vivere sotto un regime comunista?), e attestarsi nella dimensione “materiale”, concreta, della vita del mondo.
Ed è pur qui, se vogliamo, che s’attua il processo risolvente dello Spirito che butta a mare lo “spiritualismo” (che, tra l’altro, il fatuo Mussolini si dilettava considerare caposaldo della “dottrina” gentiliniano-fascista dello “Stato etico”). Ed è altresì qui che i genuini “uomini di Dio” (quelli senza frode, che vennero nel “quaderno” sopra riportato, considerati quali “collaboratori”), si associano contro tutto ciò che vi è di mistificatorio nella ”religione”, i quali uomini non vogliono affatto impegnare i “figli del secolo” a “credere” in Dio, dato che tale “credenza” (che non significa fede), li distoglierebbe infruttuosamente dal compito di far “massa”, affinché l’assetto capitalistico-borghese vada in frantumi.
Nell’ora presente e in siffatte condizioni, a che serve, per il progresso dello Spirito e dell’umanità, trovare, sul piano delle idee, una composizione “dottrinale” che voglia conciliare il marxismo con il pensiero “cristiano” (quale?).
Cui prodest? Non è ciò che risponde al “porro unum necessarium” dell’ora che volge. Ciò che occorre, ciò che è “indilazionabile” e “fatale”, è uscire dall’attuale condizionamento dei “alienazione” in tutti i campi della vita associata. Riportiamo qualche riflessione di colui che ha colto alcuni aspetti di alienazione (non clinica), senza forse aver saputo che tali aspetti si sarebbero potuti ricondurre a quel che Marx disse in proposito e a quel che oggi generalmente s’intende con detto termine:
“come quando uno deve salire solo cinque gradini bassi, e un altro uno scalino soltanto, ma per lui così alto come quei cinque messi insieme: il primo farà senza fatica non solo quei cinque, ma cento e mille altri, avrà condotto una vita grande e faticosa, ma nessuno dei gradini superati avrà per lui l’importanza che per il secondo ha quell’unico gradino, troppo alto per le forze, che non riesce a salire e tanto meno a mettersi dietro le spalle (…) e un po’ quando uno aspetta di essere impiccato. Una volta impiccato, muore e tutto è finito. Ma chi deve vivere tutti i preparativi per l’impiccagione e solo quando il capestro gli pende davanti il viso, viene a sapere di essere stato graziato, quello può continuare a soffrire tutta quanta la vita. (…) È come se uno fosse prigioniero e volesse non soltanto fuggire, il che forse sarebbe possibile, ma anche trasformare la sua prigione in un meraviglioso castello. Se fugge, non può costruire, e se costruisce non può fuggire. (…) Sposarsi, mettere su famiglia, accettare tutti i figli che vengono, provvedere a loro in questo mondo insicuro, guidarli anche un po’ è, secondo la mia convinzione, la meta più alta che un uomo possa proporsi. Che in apparenza tanti vi riescano facilmente non dimostra il contrario: anzitutto non sono proprio molti quelli che realmente vi riescono, e poi questi non-molti non scelgono, ma accettano”. (…) /[Il padrone definiva]/“i dipendenti nemici pagati; forse lo erano, ma prima che lo diventassero, /[il padrone]/mi sembrava il loro nemico pagante. (…) /[se si potesse]/”essere liberi da angustie, comprensivi, contenti, non despoti (…) bisognerebbe che quanto è accaduto non fosse accaduto, noi stessi dovremmo essere cancellati” (da Franz Kafka: “Lettere al padre”).
Da un simile trambusto angoscioso, sterile e vano; dagli stretti margini consentiti per operare, in realtà, non liberamente e che tendono vieppiù a restringersi; dalla conseguente dispersione di vitali e produttive energie, occorre hic et nunc uscire. Dopo di che ci sarà tempo e modo per “comporre”, sul terreno delle idee, le contrapposizioni esistenti le quali, dopo che avremo raggiunta l’altra sponda, verranno ad assumere tutt’altra configurazione e potranno anche risultare non più “contrapposizioni”.
A questo proposito, ci sia consentito di citare quanto l’estensore della presente nota, ebbe a scrivere nel 1946 in polemica con un responsabile dc di Bolzano a proposito della sciocca alternativa “o Roma, o Mosca”.
“S.Agostino concepiva per lui “due città”, la civitas Dei (Gerusalemme) e la civitas terrena (Babilonia). Tale concezione è a fondamento della sua filosofia della storia e rappresenta la doppia natura dell’umanità e l’antinomia della vita del mondo. Egli, fra l’altro, ci dice testualmente: “Le due città sono frattanto mescolate insieme. Il grano e la paglia stanno mischiati sull’aia. Le due città lottano a gara, l’una a favore dell’iniquità, l’altra a favore della giustizia. E la mescolanza nel tempo è così sostanziale e profonda che può capitare, a volte, che i cittadini di Babilonia amministrino le cose (sante) che appartengono a Gerusalemme e gli ‘apparenti’ cittadini di Gerusalemme amministrino effettivamente le cose (inique) appartenenti a Babilonia”.
Che significa ciò? Ciò significa che nessun organismo (sia pure quello eletto per l’amministrazione delle cose di Dio), è esente dalla corruttibilità e, quindi, ‘può capitare, a volte’, che tra i custodi del tempio, tra gli appartenenti al gregge del Signore, si trovino coloro che si adoperano ‘a favore dell’iniquità’, mentre al di fuori del sacro recinto possono annoverarsi i proclamatori della verità, gli apostoli della giustizia, gli eroi dello spirito. E ai primi sarà negata la facoltà di erigersi a giudici poiché si sono resi indegni dei compiti loro affidati. Essi saranno invece chiamati a giudizio dagli oltraggiati figli della ‘città terrena’. (…)/[E dunque]/, non potrà succedere che gli iscritti all’anagrafe della ‘materialistica Mosca’ siano in grado, a tempo e a luogo, di insegnare agli ‘apparenti’ cittadini di Roma, come si amministrano le cose dello spirito dopo che ben ebbero provveduto a sfamare gli affamati, a dissetar gli assetati, a vestire gli ignudi, che è quanto dire aver provveduto per tutti ai loro bisogni materiali?”
Oportet ut scandala eveniant e non dubitiamo che il presente documento e la chiosa aggiuntiva non siano uno scandalo per molte orecchie, timorate e non timorate.
Quanti degli epigoni “volterriani”, cioè i laicisti borghesi, non si troverebbero oggi, in realtà a mal partito se volessero esprimere qualcosa di valido tendente a distruggere la legittimità di una visione qual è quella abbozzata nelle notazioni riportate? E quali mai sarebbero gli anatemi che dalla parte più retriva degli esponenti ecclesiastici e del laicato confessionale, verrebbero scagliati contro coloro che si dicessero non in disaccordo con le idee qui espresse?
Un fatto, però non risulta dubitativo ed è questo: prescindendo dalla persona che in un momento della sua vita ed in particolari circostanze è stato indotto a fissare il suo pensiero, nel modo in cui l’ha fissato, la semplice constatazione che nel quadro di una “Weltanschauung” siffatta (il cui arco spazia oltre i consueti limiti entro i quali oggi i problemi generalmente si pongono), il marxismo trovi il riconoscimento che gli è dovuto per il valore universale che in sé contiene al di là delle premesse filosofiche che possono condizionarlo e lo condizionano; la constatazione, dicevamo, di una simile circostanza non può che rimettere in discussione ab imis tutta quanta la tematica di coloro che tuttora si dichiarano fieri avversari del marxismo e del movimento comunista mondiale. Dal nostro punto di vista la “rottura” cinese, tendenzialmente si pone come una frattura “ideologica”, ma non sarà mai tale da ostacolare (forse, a momentaneamente rallentare) l’avanzata in atto del socialismo, senza che si debba escludere che, alla fine, tale rottura (considerata rispetto ai problemi di fondo), possa risultare un accadimento positivo per il movimento proletario nel suo complesso. Diremo più innanzi quanto il caso possa, a volte, rappresentare nel gioco politico una circostanza favorevole o sfavorevole con riferimento a dati rapporti di forza.
Inoltre, pur ammettendo la possibilità, del resto intuibile, che pensatori marxisti e militanti socialisti e comunisti non siano disposti ad accettare una concezione qual è stata delineata in queste pagine, nulla può essere tolto, in dipendenza di tale rifiuto, né alla visione prospettata né al marxismo in quanto tale (che è tuttora un sistema aperto volto alla comprensione della realtà effettuale per poterne, con cognizione di causa, operare la trasformazione). E il fatto che, comunque, ai fini del progressivo sviluppo dell’uomo integrale, ci siano uomini che, partendo da premesse d’ordine spirituale (e non spiritualistico, come abbiamo già detto), si dichiarino alleati del movimento comunista, non v’è alcun dubbio che — malgrado una diversa (e legittima) prospettiva della visuale marxista — tale alleanza (senza che necessariamente intervengano da una parte e l’altra negoziati o intese), non potrà mai ragionevolmente essere respinta dai responsabili del movimento stesso. Mentre, se un’apertura di ostilità potrà verificarsi contro un modo di concepire la realtà dello spirito di cui qui s’è data notizia, essa non potrà che provenire dall’altra parte dello schieramento e ciò vorrà significare che non tanto importi a codesta schiera l’accettazione o non, in sede teorica, dei pensieri qui espressi quanto, invece, ci si preoccuperà – senza qualche fondato motivo – degli effetti pratici che una posizione, per molti versi impreveduta e imprevedibile come la nostra, può condurre.
Tale schiera ben s’avvale di ogni caso fortuito che non infrequentemente s’affaccia e incidentalmente si produce nella successione dei fatti, per dirottare in senso ad essa favorevole il corso degli eventi, in nulla preoccupata delle palesi contraddizioni che emergono dall’abbandono di una linea per un’altra; abbandono dovuto, per l’appunto, alla disposizione di rincorrere la casualità e utilizzarla a proprio vantaggio.
Lo sfruttamento del caso in modo conseguente ai fini della conservazione e della reazione, riesce a protrarre per decenni situazioni irrisolte in quanto esso, dopo esser stato utilizzato, consente, per altro verso, soluzioni di recupero alla classe dirigente e tutto ciò si verifica a danno della maggioranza della collettività, sol perché è proprio l’esercizio del potere che più efficacemente (e con effetti più duraturi), consente ai detentori del potere stesso di operare in settori in cui lo sfruttamento del caso fortuito – ad essi favorevole – non può essere reso inoperante se non dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Ed il caso fortuito, che diventa favorevole per coloro che se ne possono avvantaggiare, si presenta, in misura uguale e contraria, come un ostacolo pure fortuito e decisamente sfavorevole per tutti quelli che non sono nelle condizioni – per i rapporti di forza esistenti – di neutralizzare, quanto meno, gli effetti della casualità che interviene nella lotta politica.
Del ruolo che giocava il caso negli accadimenti storici, si fa menzione nella lettere del 17 aprile 1871 che Carlo Marx indirizzava al Kugelmann, quando gli insorti di Parigi stavano per essere schiacciati dalla solidarietà franco-prussiana in senso antiproletario (solidarietà che ancor oggi si ripropone con l’asse Parigi-Bonn). Diamo qui di seguito il contenuto essenziale della lettera allo scopo di meglio precisare quanto sopra detto e per offrire una dimostrazione sul “vivo” di ciò che debba intendersi per caso nel senso contemplato:
(…) “Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di natura assai mistica se le ‘casualità’ non vi avessero nessuna parte. Queste casualità rientrano naturalmente esse stesse nel corso generale della evoluzione e vengono a loro volta compensate da altre. Ma l’accelerazione e il rallentamento dipendono molto da queste ‘casualità’ tra cui figura anche il ‘caso’ del carattere delle persone che si trovano da principio alla testa del movimento.
Il ‘caso’ decisamente sfavorevole non è da cercare affatto questa volta nelle condizioni generali della società francese, bensì nella presenza dei prussiani in Francia e nella loro posizione alle porte di Parigi. I parigini lo sapevano bene. Ma lo sapevano bene anche le canaglie di Versailles. Perciò esse posero ai parigini l’alternativa di accettare la battaglia o soccombere senza battaglia. La demoralizzazione della classe operaia in quest’ultimo caso sarebbe stata una sciagura molto più grave della perdita di un qualsiasi numero di ‘capi’. La lotta della classe operaia contro la classe capitalistica o il suo Stato è entrata, grazie alla lotta di Parigi, in una nuova fase. Qualunque sia il risultato immediato, un nuovo punto di partenza di importanza storica universale è conquistato”.

A questo punto siamo portati ad un diverso ordine di considerazioni tendente, tra l’altro, a stabilire come una classe egemone, in fase regressiva, non sarà giammai in grado di creare quelle condizioni che favoriscano l’accoglimento di date “verità” che potrebbero, non diciamo risultare ad esse “pericolose”, ma che la non “maturità” dei tempi non sarebbe in condizione di ricevere. Mentre, per converso, l’egemonia di una società su se stessa (vale a dire di una società senza classi), attua condizioni tali per cui l’inserimento del nuovo nella circolazione delle idee, non sarà mai condizionato, e quindi impedito, da una possibile o pretesa immaturità dell’epoca in cui il nuovo stesse per sorgere.
Com’è risaputo, nel 1794 Kant venne colpito da un’ordinanza del seguente tenore: “La nostra sovrana Persona ha rilevato con disgusto che voi abusate della vostra filosofia per menomare e disprezzare alcune dottrine capitali e fondamentali della Sacra Scrittura e del Cristianesimo. (…) Noi esigiamo, quindi, sotto la nostra stretta responsabilità, e ci aspettiamo che d’ora in poi non commetterete più simili colpe; ma che piuttosto impiegherete, conforme al vostro dovere, la vostra autorità ed i vostri talenti a secondare per il bene del paese le nostre paterne intenzioni; nel caso poi di resistenza ulteriore potete aspettarvi immancabilmente dei provvedimenti spiacevoli”. In un foglietto lasciato da Kant si afferma poi quanto segue: “La ritrattazione o smentita del proprio intimo convincimento è spregevole cosa; ma tacere in certi casi come il mio, è dovere di suddito; e se ancor tutto ciò che si dice può essere vero, non è sempre dovere dire pubblicamente la verità” (Paulsen: Kant).
Sia detto en passant, qualcosa di analogo, nel senso di quanto possa il potere costituito e l’invalsa ideologia che lo sottende e pur tende a importi e s’impone, è accaduto a Benedetto Croce, ad Alessandro Casati e a qualche altro del sodalizio crociano (tra cui, credo, il sen. Abbiate, colui che, all’indomani della Liberazione, fu commissario della Montecatini) quando si trattò di “donare l’oro alla Patria” in occasione del conflitto etiopico; i quali aderirono alla richiesta di offrire “liberamente” la medaglietta di appartenenza al “Senato del Regno”. Dopo essersi consultati tra loro, ritennero che un gesto di rifiuto si sarebbe dimostrato non esente da faziosità e “antipatico” per tutti quelli che, dopotutto, non potevano prescindere dal “bene della patria”, ancorché questa fosse retta da tiranno di allora.
L’accadimento occorso al grande filosofo di Königsberg, ci interessa qui non per entrare nel merito sia del modo in cui le autorità del potere costituito sempre si comportano nei confronti delle idee che hanno una “carica” progressista, e sia dell’atteggiamento (non certo lusinghiero né edificante) di Kant in tale occasione, ma per sottolineare quanto in quell’avvenimento possa sussistere d’implicito e di non dichiarato.
Avviene, infatti, che molte verità, sebbene pensate, non vengono in date circostanze dichiarate (e non già per tema di possibili sanzioni d’ordine pratico che minaccino il quieto vivere di alcune persone), perché coloro che potrebbero esprimerle, s’avvedono che dette verità o, quanto meno, si ritengono tali – per le condizioni di luogo e di tempo in cui essi si trovano e agiscono – sarebbero irricevibili (com’è il caso di una nota diplomatica che non può essere presa in considerazione e della quale non si accusa nemmeno ricevuta). L’ambiente, o il condizionamento storico determinato, opporrebbe il suo “fin de non recevoir” a qualsiasi affermazione – validissima in sé e per sé – che si discosti da una tematica, da premesse culturali che implicitamente ne possano legittimare la validità.
E qui – e si badi bene -, non si tratta fatta affatto di conformismo o non conformismo, poiché anche le tesi più rivoluzionarie e, quindi, le meno conformistiche che si possono immaginare, s’inseriscono, alle volte con non scarse possibilità di accoglimento nell’ambito di una data dimensione culturale, ancorché posizioni ufficiali consolidate e rispecchianti una ideologia o diverse ideologie che hanno libero corso, si dichiarino decisamente ostili e muovano all’attacco di quelle nuove tesi o adottino, nei loro confronti, la vecchia tattica della “conspiration du silence”.
Ne sappiamo qualcosa – a conferma di quanto possa l’ambiente o un dato momento influire sulla fortuna di un’opera – dell’azione che avrebbe potuto esercitare la filosofia di Giambattista Vico, ad esempio, e non esercitò nel suo tempo come avrebbe meritato. Le storie della filosofia che vanno per la maggiore (con esclusione di quella del De Ruggiero), o tacciono del Vico oppure dedicano ad esso brevi ragguagli. Ciò non toglie che, per iniziativa di valorosi studiosi che succedano a quel tempo, non venga poi in luce la validità di un pensiero che nell’epoca in cui sorse fu negletto; per cui, perduta che fu l’”occasione storica” affinché esso si inserisse nelle più vive correnti della cultura, quel pensiero poteva correre l’àlea di non essere, nemmeno successivamente, conosciuto nella sua reale portata. Per la precisione, dovremmo però avvertire che – nel caso considerato – non fu l’occasione storica che andò perduta, bensì fu la particolare contingenza storica quella che rischiò di perdere, anche per l’avvenire, un dato messaggio rivolto ai contemporanei. Ogni scoperta fatta in ritardo, di un fecondo filone di pensiero, sebbene sia doverosa ed encomiabile, non può sfuggire dalla colorazione che essa poi riceve di una “rivendicazione”, di una giustizia da riparare, di una “ingratitudine” commessa o dai contemporanei, ignari di quel filone, o dalla storia tout-court; ed il compianto che, di solito, accompagna ogni vittima, mal s’addice al più favorevole accoglimento di una filosofia sfortunata.
Tuttavia, la questione dell’irricevibilità da noi considerata, riposa su un’altra circostanza del tutto “obiettiva”: finché in un ambiente culturale, o in una contingenza storica, non sussistano addentellati o agganci (anche sotterranei), che garantiscano e sollecitano le pretese o la fiducia dell’isolato pensatore che quel che di vero egli ritiene di poter esprimere, sia suscettibile d’essere preso in considerazione. Finché tutto questo non è sussistente, il suo discorso non troverebbe alcuna effettiva eco e, quindi, di fronte a tale eventualità può accadere che il pensatore, o lo scrittore, taccia. Ma si dà anche il caso che un pensatore, per nulla “isolato”, e che già occupi il posto che gli compete nella vita culturale del suo tempo, non si arrischi, a volte, di render noto quant’altro avrebbe da dire (questo lo riserbo per me), sia per le ragioni anzi dette al riguardo dell’irricevibilità e sia anche — in dipendenza di ciò — per il timore (a volte, non ingiustificato), che se aggiungesse quel “nuovo” che potrebbe esternare, tale aggiunta rischierebbe d’infirmare la validità, l’efficacia e l’universale consentimento di ciò che ha prodotto in precedenza. Per cui le cose non dette e, quindi, non fatte non sono purtroppo, in sede storica, in nessun modo verificabili. Però non è detto che la storia non si muova anche nel senso di ciò che è stato taciuto.
E quel che è stato taciuto (insieme con quello che non lo è stato), potrebbe essere la componente della cosiddetta “antistoria” (Cousin) cioè di quella storia che non si è fatta e che si sarebbe potuta attuare o, meglio, di quella che avrebbe dovuto essere “se” … (il naso di Cleopatra qui non c’entra). Qui ci sarebbe da raccomandare agli storici (e da noi qualcuno c’è arrivato, sorretto da un impegno morale e politico insieme) di saper vedere nella contrapposizione di storia e antistoria quanto giochi la dialettica conservazione-reazione e progresso (progresso non nel solo senso dell’idea liberale dello scientismo: tra i due non c’è identità, storicistica e di derivazione romantica l’una, “classificatorio” e di derivazione illuministica l’altro), ma nel più vero senso di espansione-liberazione umana nell’ambito della dinamica sociale).
In riferimento con ciò che abbiamo detto sopra, è senz’altro legittimo ritenere che quanto più e quanto meglio il momento “”progresso” tenda a prevalere sul suo contrario, tanto minori saranno le possibilità che la “voce” che discopra il nuovo si taccia. Con più favorevoli condizioni di ricevibilità di atti creativi, anche ciò che viene considerato antistoria, verrà a perdere il carattere di un’occasione mancata o perduta per concretizzarsi in storia vera e propria.
Oggi, e da sempre, non si può scrivere storia senza “documento” e laddove questo manchi, la congettura, l’ipotesi, l’interpretazione analogica, tendono a colmare la lacuna. Ma non crediamo d’azzardar troppo se diciamo che in futuro (non ha importanza quando sarà), l’eventuale difetto di documentazione (quanto più si progredirà nel senso di una più libera esplicazione dell’uomo), non comporterà motivi di perplessità per ricostruire e interpretare un accadimento, o un insieme di accadimenti, sulla base di citazioni (che difetterebbero), che suffraghino quelle ricostruzioni o interpretazioni. La storiografia, sempre intesa come espressione di scrupolosa esattezza e di verità, potrà – in più casi – dare la documentazione come cosa scontata in quanto l’evidenza dell’accertamento che risulterà dalla narrazione, dipenderà dal diverso modo in cui i problemi saranno allora posti, come ci industrieremo, più avanti, di dimostrare.
In linea teorica, conservazione e processo verso ciò che dev’essere ulteriormente acquisito o attuato, sono i due momenti necessari allo sviluppo e al divenire dell’umanità. Si tende, infatti, a conservare quel che rappresenta un “valore” sempre in atto o tuttora in atto. Nessun rivoluzionario mai, ha inteso di non conservare (di “rivoluzionario”) le conquiste di una rivoluzione: tali conquiste sono valori da non disperdere, ovviamente. In questo senso, la conservazione diventa pur essa la condizione necessaria dello sviluppo e del progresso. Ma se nel corso progrediente della storia, vien fatto sì che il momento della conservazione si ponga come volontà, come forza ostacolatrice per conservare un disvalore che è quanto dire un volersi pervicamente attaccare, ormai, a un “fossile” (rappresentato da una ideologia, da abitudini e costumi, da mentalità, da istituzioni: da tutto quanto non è potenzialmente di vita), allora la conservazione non è più tale, ma si converte in reazione. La quale non sarà più un momento necessario allo sviluppo dianzi accennato, ma si convertirà in una non-necessità e, quindi, si porrà come ostacolo, come reale impedimento al processo, sempre in atto, di ciò che invece è necessario si attui per il benessere della vita associata.
Orbene, se la conservazione è necessaria al progresso (e tacciamo della spinta all’avanzamento in quanto questa è, per antonomasia, progresso), e la reazione non necessaria, è lecito ritenere che nell’ulteriore cammino della storia, tale non-necessità tenderà a scomparire poiché ciò che è necessario (e quindi libero), avrà la prevalenza su quel che necessario non è. Allora – si dirà – questo è un modo di concepire la storia senza conflitti, senza lotta: tutto ciò significherebbe approdare alla quiete assoluta ed essa non è concepibile (né, tanto meno, desiderabile) nelle vicende umane.
Tale modo di ragionare è comune a molti i quali ritengono che ciò che è un disvalore, un non-bene e, quindi, un male, sia necessario affinché l’uomo assurga alle più alte vette (della conoscenza, dell’arte, dell’affidamento delle sue facoltà). Ma qui sta proprio l’errore in cui lo stesso Croce è caduto nella sua concezione della storia e nella sua visione del divenire.
Per raggiungere una meta più avanzata, per conquistare un più alta cima, non è affatto detto che occorra ci sia qualcuno, di dietro, a trattenerti per la giacca. L’impegno virile, l’energia che occorre spendere, i sacrifici che si dovranno affrontare per arrivare a un dato traguardo che, in un dato momento, una persona o più persone ritendono necessario “tagliare”, tutto ciò è lotta bell’e buona. Gli impedimenti a che si pervenga ad una precisa conquista sempre ci saranno (e stanno nella natura delle cose e dell’uomo). E tali impedimenti sussisteranno anche se, in diverse condizioni sociali, l’uomo non impedisca al suo simile di operare come meglio intende operare. Se dopo il lancio del primo sputnik si è poi pervenuti a metterne in orbita parecchi altri, con uomini a bordo per giunta, e si spera d’arrivare in avvenire sulla luna, il semplice senso comune ti dice che tutto ciò è avvenuto ed avverrà, non certo, come si berrebbe un bicchiere d’acqua. Tutto questo ha comportato lotte e sacrifici ben intuibili e immaginabili, ma non ha significato una lotta contro qualcuno (o molti) che si sia adoperato – in quanto avesse interesse – a che le cose andassero alla rovescia. C’è quindi da ritenere che l’impedimento al progresso, determinato dalla volontà degli uomini contro altri uomini (impedimento in sé e per sé non necessario, sia per l’avanzamento dell’uomo e sia in quanto pretesa condizione indispensabile per “lottare”), non possa affatto costituire una componente irrinunciabile per il progresso del genere umano.
C’è anzi d’affermare esattamente il contrario (com’è, del resto, nella stessa logica comune che ogni impedimento rappresenti un che di negativo). Quanto più verranno neutralizzate le forze (rappresentate da interessi umani), tendenti a impedire le conquiste in ogni campo, tanto più gli uomini saranno liberi di lottare come si conviene contro la natura delle cose (la quale come “dato di fatto” è impedimento).
Altro che assenza di lotta, di competizione, di emulazione! Nel quadro di una condizione di vita che tenda all’eliminazione di una causa che induce gli uomini a combatterne altri, affinché questi ultimi siano impediti, o non riescano, nel loro intento di progresso, non è affatto pensabile che con ciò si raggiunga la dolce quiete del “paradiso terrestre” o si debba morire di noia per mancanza del “male”, pungolo e stimolo agli uomini per non impigrire. C’è qualche filosofo che, ritenendo il “male” condizione indispensabile per l’avanzamento dell’uomo, doveva poi concludere che il cosiddetto “male” non era male. Nossignori! Le carte non possono, così, voltarsi in tavola. Il male è una realtà come tale e non lo si elimina affatto mettendogli il belletto. Il belletto è una mascheratura e, quindi, un inganno. Dobbiamo chiamare ogni cosa con il proprio nome e se accade che l’uomo è in grado di trionfare dei lacci che la nequizia [?] dell’altro uomo gli tende (ed in ciò riuscendo, naturalmente, gli si aguzza l’ingegno e la sua tempra morale si rafforza), tutto questo non è niente affatto necessario per il “miglioramento” degli uomini e per il progresso della vita collettiva. L’uomo si irrobustisce e si migliora senza che ci sia il bisogno che l’altro gli faccia lo sgambetto per buttarlo a terra. Un malinteso darwiniano, portato in campo sociale, ha voluto, senz’avvedersene forse, giustificare la canaglieria con la teoria selettiva che elimina il più debole a vantaggio del più forte.
E da noi un filosofo, a cui non possono negarsi meriti insigni, nel mentre ironizzava su consimili teorie battezzandole per “pseudo concetti”, pur tuttavia, nella sia visione storica, la canaglieria poteva non più essere considerata tale e si trasformava ai suoi occhi come una delle componenti necessarie affinché l’uomo, insorgendo contro di essa, si ritemprasse e, quindi, avanzasse. La legge della giungla avrebbe per coloro che siffattamente opinano, il grande merito di giovare al progresso! Ben s’avvede chiunque abbia del buonsenso (che qui non di filosofia teoretica si tratta), che tutto ciò ha dell’assurdo. C’è invece da dire, contro tal modo di ragionare, che in una condizione di benessere (bene-essere) per tutti, si sprigionano forze creative impensabili. Non si rende, dunque, indispensabile procedere dal male al bene (o dal male al meno-male), ma si procederà (sempre più avvertitamente a mano a mano che gli attuali ceppi e catene che condizionano i movimenti – ed i moventi – degli uomini si allenteranno) “di bene in meglio” e questo tragitto non avrà mai fine!
Detto tutto questo, volgiamo riprendere il filo del discorso a proposito dell’irrilevanza che, in futuro, la non reperibilità del documento, in alcuni casi, assumerebbe pur dovendosi, tuttavia, considerare non priva di validità la narrazione storica di un avvenimento senza citazione delle fonti.
In un mutato clima storico nel quale non esisterà più (o quasi) la contrapposizione reazione-avanzamento, in cui non s’avvertirà più il bisogno di evocare l’antistoria per giudicare complementarmente la storia, in cui le forze umane in gioco non rappresenteranno (per evidenti ragioni) opposti schieramenti in lotta per la supremazia del potere, nel quale clima non potrebbero né influire interessi contrastanti tendenti a falsificare i dati oppure a fornire interpretazioni distorte dei fatti; giunti che si sia a codesto punto d’approdo, la questione del “documento” perderà (rispetto ad oggi) parte del suo valore. Lo perderà in quanto la caratteristica probatoria del documento, si trasferirà più che altro nel modo in cui sarà condotta l’indagine. Oggi permane (e non ingiustificatamente), l’esigenza giuridica della “prova”, della pezza d’appoggio, del corpo del reato, del documento, delle testimonianze giurate, in quanto è sottinteso che la prova – tanto più se è “inoppugnabile – è decisiva. Per che cosa? Evidentemente contro la “controparte” che tende ad affermare, per la difesa dei propri interessi (prestigio, tutela della reputazione, difesa patrimoniale, risarcimento di danni materiali e morali, ecc.), esattamente il contrario la quale a sua volta, produce documenti e controprove. Interviene, quindi, il giudice che “vaglia” l’una e l’altra circostanza, s’avvale dell’opera periziale di esperti e tecnici, fa appello al proprio discernimento guardando in faccia le parti, i testimoni a carico e a discarico, interrogando or gli uni ora gli altri ed, infine, emette il proprio giudizio che si ritiene “spassionato” e obiettivo.
Non esattamente, ma analogamente si comporta lo storico, per chiarire a se stesso e agli altri quanto fino allora non era noto o, anche, scarsamente noto oppure perché, approfondendo meglio alcuni particolari da altri trascurati, la visione d’insieme che ne deriva di un dato avvenimento assume tutt’altra prospettiva. E dicevamo non esattamente, perché il compito dello storico — come già fu detto ripetute volte — non è quello di condannare o assolvere, ma è quello di capire ed intendere come si sono verificati alcuni fatti in dipendenza di un “problema” che lo storico si è posto: in conformità alla domanda che si pone, l’accertamento dei fatti e la “verifica” dei documenti che li comprovano sono operazioni, fino a prova contraria, indispensabili. Per incidenza, vorremmo tuttavia avanzare una piccola riserva relativamente al fatto che lo storico non ha il compito della condanna e dell’assoluzione; tutto questo è vero se egli si pone dall’esterno come di colui che giudica e manda, ma dato che egli deve – una volto postosi il problema storico – indagare e accertare come effettivamente i fatti si sono svolti e come vengono insieme a configurarsi, detta ricerca tende ovviamente ad una conclusione (che è poi l’oggetto del problema, della domanda). Detta soluzione si trova – in un certo senso – già nel modo in cui il problema è stato formulato. Lo storico pre-vede (e, quindi, anticipa) quale potrà essere la conclusione senza che in tale atto egli intenda “forzare” i documenti per amore della tesi oppure lasciarsi conquistare dalla previsione a tal segno che questa si converta in un che di precostituito, in un preconcetto, che attenterebbe – se così fosse – alla serenità del vagliare e del giudicare. Il problema, inoltre, sorge in base a dati precedenti, d’ordine obiettivo e soggettivo, che si sono andati via via maturando fino al momento in cui lo storico veda “già chiaro” e passi, quindi, alla formulazione del quesito, il quale segna le dimensioni ed i limiti dell’indagine.
Ora che cosa vuole l’indagatore? Vuole fornire la dimostrazione che quanto egli ha intuito e previsto (in seguito ai precedenti maturatisi in lui in base a fatti ancora prima accertati e che gli davano contezza di altri fatti, da ricercare), corrisponde al vero. E che cosa è questo vero che, “come volevasi dimostrare”, si dimostra alla fine evidente? Non è esso un implicito giudizio? In altri termini, non è esso un’assoluzione o una condanna di qualcosa, vista ciascuna dall’interno e senza che sussista il bisogno (il che guasterebbe) che lo storico stesso intervenga, dall’esterno, in veste di giudice? È quella verità, precedentemente intravista che, come un lume, guida i passi del ricercatore nella sua indagine e gli dà modo di verificare (e fa verificare ad altri), che le cose stanno così e così, e non altrimenti con riferimento alle iniziali premesse. Cosicché ogni giudizio storico è un giudizio di valore e ogni giudizio di valore sottende che cosa (ed in qual misura)) si debba approvare e qual sia un’altra cosa (o fatto) con la quale non si può consentire.
Analogamente, dunque, al giudice, lo storico è sollecitato alla ricerca della “prova” ugualmente inoppugnabile. Qui non entrano in gioco (o, meglio, vogliamo trascurarle), le considerazioni di tutelare il proprio buon nome di studioso serio che tale non sarebbe se basasse le proprie interpretazioni su congetture, fantasie e documenti di seconda mano (come faceva a suo tempo il Ludwig con le sue storie “romanzate”, allora assai lette e oggi del tutto dimenticate), bensì entrano in gioco altre considerazioni che si basano principalmente sul fatto che qualsiasi lavoro storiografico, tanto più se perviene a risultati positivi per quanto riguardi la scoperta di una o più “verità”, è sottoposto al vaglio “critico”, in qualsiasi campo; non può sfuggire (come, del resto, è bene che ciò sia) al giudizio, che può essere “severo”, di coloro che “se ne intendono”.
Però la sottesa o implicita (e, fors’anche, inconsapevole) esigenza giuridica di portare le prove di quanto si afferma, non è sempre determinata da una necessità intrinseca al dettato storiografico, ma tale esigenza si pone per il semplice fatto che, prescindendo dalle premesse d’ordine critico, nella generalità del pubblico ci sono sempre quelli (che siano studiosi o non, che siano “specialisti” o non specialisti), il cui interesse (anche personale) dà a costoro la figura di una “controparte” effettivamente, o potenzialmente, avversa a quello storico e alle sue tesi. Costui si deve, quindi, giustamente cautelare e non deve mai, potendo, prescindere dalla prova la quale, sotto tale profilo, dovrà risultare incontrovertibile per sconfiggere, in partenza, gli avversari.
Il documento, pertanto, assume quella rilevanza “in tutto tondo”, da potersi toccare con mano, per l’esigenza, proveniente dall’esterno e, quindi, estrinseca al compito storiografico propriamente detto, di non dire cose che non si possono provare. E tale esigenza diventa come un “imperativo categorico” per lo storico il quale, quasi sempre, si trova in posizione polemica con altri storici o con altre scuole. L’”acribia” per uno storico che si rispetti, diventa quasi una seconda natura dello stesso e tal senso di esattezza e di precisione, è pure in funzione di quella necessità che lo studioso avverte di bene documentarsi soprattutto per o contro “gli altri”. Infatti, le esercitazioni di storia e le tesi di laurea d’indirizzo storico, sono prevalentemente orientate alla ricerca della documentazione “originale” sulla quale lo studente potrà poi discettare finché ne ha voglia. E se documenti nuovi, per ulteriori indagini, non sono più reperibili, allora vien fatto (non senza profitto) di ricorrere al miglior approfondimento filologico dei testi per cui, alquanto spesso, ci si accorge che, quando essi vennero precedentemente utilizzati, contenevano trascrizioni errate, omissioni, interpolazioni o altro ancora che ne alteravano la genuina lezione.
Crediamo, dunque, sia lecito e consentito avanzare l’ipotesi - come noi abbiamo fatto in base alle argomentazioni portate in campo - che nel momento in cui si pervenga a un tipo di società non più condizionata dalla lotta degli uomini tra di loro tendenti, ciascuno, ad affermare se stesso a detrimento dei suoi simili, il carattere di prova giuridica che ha oggi il documento, avrà perduto ogni giustificazione relativamente al suo sottinteso valore in tal senso, e, pertanto, la storia potrà essere scritta non già sottovalutando la portata del documento in sé (sempre illuminante ai fini dell’accertamento dei fatti che anche allora non sarà lecito solo supporre), ma prescindendo, per l’appunto, dalla preoccupazione di attribuire ad esso documento quel peso d’inconfutabilità quando c’è da presumere che non sussisteranno condizioni “obiettive” in dipendenza delle quali “altri” (o la generalità) possa mettere, in linea di principio, in dubbio che quanto quello storico ha affermato non corrisponde alla verità dei fatti.

Appunti incompleti
Se, così si è visto, il potere è anche oggigiorno appannaggio, negli Stati democratici-borghesi, dei cosiddetti “gruppi di pressione “ delle consorterie (come le chiamavano i nostri nonni), delle oligarchie (come dall’antichità in poi s’è sempre detto), non c’è scienza politica né Staatsrechtlehre da Gaetano Mosca ad Hans Kelsen, che possa realmente indicare la via maestra che realizzi l’efficace inserimento nello Stato di quelle classi che furono sempre (più e meno) considerate subalterne a meno che, parte di esse e suoi rappresentanti, non si adeguino non senza qualche concessione pur da esse “strappata, al condizionamento che le classi superiori sono sempre in grado di imporre e che si risolve nell’ormai abusata solfa del rispetto e dell’integrità delle “istituzioni” (di diritto pubblico e privato). Tale via maestra non si trova in quella scienza anche perché gli autori che l’hanno in vari modi trattata, non si proponevano, per certo, di condurre l’analisi in modo che questa andasse a sfociare implicitamente od esplicitamente nel sovvertimento (anche graduale) delle cosiddette istituzioni. Ed anche per quel che concerne il diritto internazionale (o l’ordine internazionale, oppure la comunità internazionale) non si prescinde (il che sarebbe grave cosa) dal fondamento delle istituzioni esistenti che è, quanto dire, la dimensione statuale borghese una e trina che si articola nel potere legislativo, giudiziario ed esecutivo come tutti sanno. E se, attualmente, c’è una tendenza a riabilitare il giusnaturalismo anche da parte di un crociano come l’Antoni (si sa che il Croce mosse “i suoi attacchi all’astratta e semplicistica mentalità giusnaturalistica, nel contrasto tra storicismo tedesco e giusnaturalismo”)…….