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UNA ‘ANTOLOGIA’ DI TESTI RACCOLTI DA
FERDINANDO VISCO GILARDI


Autunno 1969

“Molto belle e dotte pagine sparse,
dovute a diversi eccellentissimi autori,
in cui si ragiona di cose riguardanti la vita degli uomini,
la natura e l'arte,
trascelte da un amante dei retti pensieri e dei sentimenti gentili
in codesto incipiente autunno,
per il diletto e l'ammaestramento dei diletti Amici.”
f.v.g.

INDICE

1 - Della superstizione (Francesco Bacone) 4
2 - Dei giardini (Francesco Bacone) 4
3 – Offerta (F.D.E. Schleiermacher) 5
4 – Sondaggio (F.D.E. Schleiermacher) 5
5 - Filosofia della natura (J. W. von Goethe) 6
6 - Frammento sulla natura (J. W. von Goethe) 6
7 - Canto degli spiriti sopra l'acqua (J. W. von Goethe) 8
8 - Canzone di maggio (J. W. von Goethe) 8
9 - Dal contrasto fra emozione e passione (Immanuel Kant) 8
10 – Frammento (Novalis) 9
11 - Dignità dell'uomo (G. Pico della Mirandola) 11
12 - Alcune parole sulla universalità e l'amore nell'arte (W. H. Wickenroder) 11
13 - Della vera libertà del Sapiente (C. Bovillus) 12
14 - Mischie di pioggia e di venti (Leonardo da Vinci) 13
15 – Facezia (Leonardo da Vinci) 14
16 - Il negromante (Benvenuto Cellini) 14
17 - Della virtù nell'arte medica (Paracelso) 15
18 - Della differenza esistente fra gli uomini (M. G. de Montaigne) 18
19 - Dell’incostanza e delle nostre azioni (M. G. de Montaigne) 18
20 - Quanto sia ingiusto il risentimento verso quelli che mancano di riconoscenza (P. Nicole) 19
21 - Osservazioni su parecchi difetti delle giovinette (F. Fenelon) 19
22 - Uomo di fondo, uomo assennato (Baltasar Gracian) 20
23 - Sui cenni con l'occhio (Ibn Hazm) 21
24 - Sulla corrispondenza epistolare (Ibn Hazm) 22
25 - Ascesi ed erotismo (Rosa Mayreder) 23
26 - Un diario (Enrico Federico Amiel) 28
27 - Cultura estetica e ascetismo (Edoardo Tagliatatela) 34
28 - Erotica ed estetica (Otto Weininger) 35
29 - Una lettera e alcune altre (M. von Kleist) 37
30 - Lettere d’amore di una monaca portoghese (1665-1667 - ?) (Mariana Alcoforado) 42
31 - Una lettera di Kant (1792) (Immanuel Kant) 45
32 - Qualche lettera di Flaubert a Louise Colet (Gustave Flaubert) 46
33 - Beethoven, Bettina Arnim-Brentano e Goethe. 51
34 - Ancora dal “giornale intimo” di Amiel (a proposito di Goethe) (Enrico Federico Amiel) 60
35 – Mignon (J. W. von Goethe) 60
36 - I sacrifici che valgono (Giovanni Ferreri (l884- ?) 87
37 – L’Evangelo della ragione (Gotthold Ephraim Lessing) 88
38 - La vittoria sulla caducità (V. Solovev) 89
39 – Pestalozzi (Giovanni Niederer) 90
40 – Fondamenti per prolungare la vita (Giovanni Amos Comenius) 92
41 - Il fenomeno puro (J. W. von Goethe) 95
42 - Materia ed etere (Günther Wachsmuth) 96
43 - Il pensiero al servizio della comprensione del Mondo (Rudolf Steiner) 100
44 - L'idea della libertà (Rudolf Steiner) 102
45 - Goethe e Hegel (Rudolf Steiner) 105
46 - Friedrich Nietzsche e la psicopatologia (Rudolf Steiner) 107
47 – Le concezioni radicali del mondo (Rudolf Steiner) 112
48 - Scienze naturali e vita dello spirito (Rudolf Steiner) 123
49 - Premesse ad una “Conoscenza soprasensibile del mondo e dell’uomo” (Rudolf Steiner) 124
50 – Introduzione al tema: “Pensiero umano e pensiero cosmico” (Rudolf Steiner) 129
51 - Della questione sociale (1919) (Rudolf Steiner) 136
52 - Brano de “La mia vita” di Rudolf Steiner (Rudolf Steiner) 139
53 - Altro stralcio da un’”Autobiografia” (Collingwood) 143
54 – Del “Manifesto” (Antonio Labriola) 153
55 - Del materialismo storico (Antonio Labriola) 157
56 - Dai “Principi del comunismo” (1847 ?) (Friedrich Engels) 161
57 - Per la storia della “Lega dei Comunisti” (Friedrich Engels) 162
58 - Una lettera di Antonio Labriola a Friedrich Engels (Antonio Labriola) 172
59 - Una seconda lettera di Labriola a Engels (Antonio Labriola) 175
60 - Sull’alienazione: 1. Sulla produzione della coscienza (Karl Marx, Friedrich Engels) 176
61 – Sull’alienazione: 2. Il lavoro estraniato (Karl Marx, Friedrich Engels) 179
62 - Della guerra di indipendenza in Italia (Karl Marx) 187
63 - Da “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania” (Karl Marx) 188
64 - Una lettera della moglie di Carlo Marx (Jenny Marx) 189
65 - Sulla tomba di Marx (Friedrich Engels) 192
66 – I destini storici della dottrina di Carlo Marx (Nicolaj Lenin) 193
67 - Rappresentazione borghese volgare della dittatura e come Marx concepiva quest’ultima (Nicolaj Lenin) 194
68 - Il crollo della seconda Internazionale (Zinoviev e Lenin) 197
69 - L'epoca rivoluzionaria (Lev Trotzky) 199
70 – L’Esercito rosso (Lev Trotzky) 201
71 – Come organizzare l’emulazione? (Nicolaj Lenin) 209
72 - La IIIª Internazionale e il suo posto nella storia (Nicolaj Lenin) 212
73 - Lenin è morto (Iosif Stalin) 216
74 - Da “I principi del leninismo” (Iosif Stalin) 218
75 - Deviazioni nel campo della questione nazionale (Iosif Stalin) 222
76 – L’ideologia dell'imperialismo (1910) (Rudolf Hilferding) 226
77 – La funzione principale dello Stato (Paul M. Sweezy) 228
78 - L’imperialismo (Maurice Dobb) 229
79 - Violenza e legalità (1902) (Rosa Luxemburg) 236
80 - Formazione dell’”armata di riserva” (1909) (Rosa Luxemburg) 240
81 - Le tendenze dell’economia capitalistica (1909) (Rosa Luxemburg) 243
82 - Il partito socialista italiano (1911) (Rosa Luxemburg) 248
83 - Alla redazione del “Labour Leader” di Londra (Rosa Luxemburg) 249
84 - Ai proletari di tutti i Paesi (1918) (Rosa Luxemburg) 249
85 - La controrivoluzione (Antonio Gramsci) 251
86 - L’Internazionale comunista (Antonio Gramsci) 252
87 - Primo: rinnovare il partito (Antonio Gramsci) 253
88 - Lo Stato italiano (Antonio Gramsci) 255
89 - Partito e frazione (Palmiro Togliatti) 258
90 - Contro il pessimismo (Antonio Gramsci) 260
91 - Sulla contraddizione (Mao Tse Dun) 262
92 - Il movimento (cinese) del 4 Maggio 1919 (Mao Tse Dun) 266
93 - Contro il “liberalismo (Mao Tse Dun) 267
94 - Il volto del nazifascismo (1941) (Palmiro Togliatti) 269
95 - La classe operaia e la partecipazione al governo (giugno 1944) (Palmiro Togliatti) 270

 1 - Della superstizione (Francesco Bacone)

Meglio sarebbe non avere affatto alcuna opinione di Dio che averne una indegna di lui; ché l'una cosa è la miscredenza, l'altra è la contumelia: e certo la superstizione è un vilipendere la Divinità. Ben dice Plutarco a questo riguardo: "Sicuramente avrei più caro che molti uomini dicessero che non ci fu mai un uomo chiamato Plutarco, anzi che dicessero che ci fu un tale Plutarco che soleva mangiare i suoi figli appena nati; come i poeti narrano di Saturno. E, come la contumelia è maggiore verso Iddio, così maggiore è il pericolo per gli uomini. L'ateismo non preclude l'uomo dal buon senso, dalla filosofia, dalla pietà naturale, dalle leggi, dalla reputazione: tutte cose che posson guidare a una virtù morale esterna, anche senz’esserci religione; ma la superstizione le abbatte tutte, ed instaura una monarchia assoluta nella mente degli uomini. Per cui l'ateismo mai non produsse perturbazione negli Stati; perché esso rende gli uomini attenti a se stessi, dato che non guardan più in là; e noi vediamo che i tempi proclivi all'ateismo (come l'epoca di Augusto) furon tempi civili; laddove la superstizione è stata la confusione di molti Stati, e introduce un nuovo “primum mobile” che priva tutte le sfere di governo. Maestro della superstizione è il popolo; e in ogni superstizione i saggi seguon gli stolti; e gli argomenti sono adattati alla pratica in ordine inverso. A ragione fu detto da uno dei prelati del Concilio di Trento, in cui predominava la dottrina degli scolastici, "che gli scolastici erano come astronomi che fingono eccentriche ed epicicli, e congegni di orbi per preservare i fenomeni, pur sapendo che tali cose non esistono affatto”; e, del pari, gli scolastici avevano creato un certo numero d'assiomi e di teoremi sottili e intricati, per preservare il culto della Chiesa. Son cause di superstizione riti e cerimonie gradevoli e sensuali; eccesso di santità esterna e farisea; eccessiva reverenza per tradizioni che non possono che gravare sulla Chiesa; gli stratagemmi dei prelati per la loro ambizione e il loro guadagno; il favorir troppo le buone intenzioni, il che apre la via a disegni e novità; l’alludere a cose divine per interessi terreni, che non può che produrre contaminazione d'immagini; e infine barbarie di tempi, specialmente se s'accompagna con calamità e disastri. La superstizione senza velo è cosa deforme; poiché come aggiunge deformità alla scimmia l'esser tanto simile a un uomo, così la somiglianza della superstizione alla religione non fa che renderla più deforme; e a quel modo che la carne sana, si corrompe in piccoli vermi così buone forme e ordinamenti si corrompono in una quantità di pratiche meschine. V'è una superstizione che consiste nello schivare la superstizione, quando gli uomini pensano che il miglior modo d'agire sia d'allontanarsi il più possibile dalla superstizione che prima avevano accolta; sicché si dovrebbe porre ogni cura acciocché (come avviene con tutte le purghe) il buono non venga tolto via col marcio, il che comunemente capita.
Francesco Bacone (da Verulamio, e Visconte di Sant'Albano - 1561-1626)

2 - Dei giardini (Francesco Bacone)

E poiché l'effluvio dei fiori è assai più soave nell'aria (dove va e viene come il gorgheggio della musica) che nella mano, perciò nulla più si conviene a tale diletto che sapere quali sono i fiori e le piante che meglio profumano l'aria. Le rose, damaschine e rosse, trattengono tenacemente il loro profumo, sicché potreste camminare lungo tutta una siepe di esse, senza sentirne la soavità, neanche quando v'è la rugiada mattutina. Parimenti, gli allori non lasciano trapelare profumo alcuno ove crescono. Poco il rosmarino e la maggiorana; il fiore che sopra tutti gli altri effonde il più dolce profumo nell'aria è la viola, specialmente la viola bianca doppia, che vien due volte l'anno, verso la metà d’aprile e circa il giorno di San Bartolomeo (24 agosto). Poi la rosa muscosa; poi le foglie di fragola morenti, con un eccellentissimo odore cordiale; poi il fiore della vite, un pulviscolo come quel dell'agrostide, che cresce sul grappolo in sul primo spuntare; poi la rosa canina, poi le violacciocche, che son deliziose se le collochi sotto la finestra d'un salotto o camera a, pianterreno; poi garofani e garofanini, specie il garofano a mazzetti, e il garofano da chiodo; poi i fiori del tiglio; poi il caprifoglio, purché siano a qualche distanza. Non parlo dei fiori di pisello poiché son fiori da campo; ma quelli che più dolcemente profuman l'aria, non al passare, come gli altri, ma calpestandoli e schiacciandoli, sono la pimpinella, il timo selvatico, il mentastro, sicché dovete piantare d'essi interi viali, per gustarne il piacere mentre passeggiate.
Francesco Bacone (da Verulamio, e Visconte di Sant'Albano - 1561-1626)

3 – Offerta (F.D.E. Schleiermacher)

Nessun regalo più prezioso può offrire un uomo ad un altro uomo se non l’intima conversazione del suo spirito con sé stesso: perché esso gli apporta il dono maggiore che esista, una visione chiara e diretta dell'intimo di un libero essere. Nessun dono è più duraturo: perché nulla può distruggere il godimento che una volta tale visione ti ha concesso; e la sua intrinseca verità le assicura il tuo amore in modo che tu volentieri ritorni a contemplarla. Nessun altro dono tu preservi con maggior sicurezza dalla voglia e dalla malizia altrui: perché esso non è avvolto in alcun ornamento accessorio che, per caso possa guidare ad altro uso o abuso, o possa allettare i desideri sensibili. Se qualcuno sta in disparte e guarda di sbieco questo gioiello, attribuendogli falsamente forme ridicole che il tuo sguardo diretto non vi scopre, fa che questo vano motteggio non ti privi della tua gioia, così come esso non mi farà pentire di aver condiviso con te ciò che avevo.
Vieni, prendi il dono, tu che puoi comprendere il pensiero del mio spirito! Possa la chiara musica dei miei sentimenti essere un accompagnamento al canto che tu intoni dentro di te, e la scossa che penetra in te al contatto della mia anima possa diventare anche per la tua vita un impulso vivificatore.
Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher(1768‑1834)

4 – Sondaggio (F.D.E. Schleiermacher)

Gli uomini rifuggono dal guardare in se stessi e molti tremano servilmente quando alla fine non possono più a lungo evitare la questione: che cosa ho fatto che cosa son diventato? chi sono realmente? Questa ricerca li spaventa; essi non sanno cosa ne verrà fuori. Credono che un uomo possa più facilmente giudicare gli altri che se stesso, e sono convinti di agire con lodevole modestia se, dopo l'esame, più rigoroso di se stessi, si riservano ancora il diritto di avere sbagliato nel calcolo. E tuttavia è la sua caparbietà che nasconde un uomo a se stesso; il suo giudizio non può errare, purché egli volga realmente il suo sguardo su se stesso. Ma questo appunto i più né possono né vogliono fare. Il fascino della vita e del mondo li tiene interamente legati a sé, e, decisi a non distrarre lo sguardo da tale spettacolo per non percepire null'altro, tutto quello che essi vi scoprono di sé non è se non un vago e ingannevole riflesso. Senza dubbio io posso giudicare un altro uomo soltanto dai suoi atti, perché non vedo mai la sua intima disposizione. Io non posso mai conoscere immediatamente qual era precisamente la sua intenzione; io confronto semplicemente i suoi atti gli uni con gli altri e ne deduco, non senza incertezza, lo scopo della sua azione e lo spirito che lo animava. Ma quale vergogna che uno guardi se stesso come un estraneo guarda un altro estraneo! che uno rimanga ignaro della sua vita interiore, e perfino si pavoneggi della sua supposta acutezza se riesce a cogliere solo l'ultima di una serie di decisioni che misero capo ad un atto esterno, insieme col sentimento che la accompagnava e con l'idea che la precedette immediatamente! Come mai costui potrà conoscere se stesso e gli altri? Che cosa lo può guidare nelle sue incerte congetture dell'interno dall'esterno, se non fonda il suo giudizio su un'esperienza decisiva di qualcosa d'immediatamente certo? L'inevitabile presentimento dell'errore lo rende pauroso, l'oscuro sospetto che egli stesso ne sia colpevole gli opprime il cuore, e i suoi pensieri vacillano incerti, per paura, dinanzi a quella piccola parte di autocoscienza che gli uomini portano ancora con sé, degradata all'ufficio di duro censore, e che spesso sono costretti ad ascoltare, pur contro voglia.
In verità gli uomini hanno ragione di preoccuparsi, quando hanno esaminato sinceramente gl’intimi motivi della loro vita, di non sapervi spesso riconoscere ciò che è veramente umano (la ragione) e di vedervi gravemente offesa la conoscenza morale che è la consapevolezza della vera umanità. Chiunque, infatti, non ha esaminato la sua condotta precedente, non può neanche dar la garanzia che nel futuro si ricorderà di far parte dell’umanità e che si dimostrerà degno di appartenervi. Se egli ha spezzato una volta il filo dell'autocoscienza, se anche una sola volta, si è abbandonato alle impressioni e ai sentimenti che ha in comune con gli animali, come mai può sapere se non è precisamente nella più grossolana animalità? Contemplare dentro di noi l'umanità e non distoglierne mai lo sguardo, una volta che l'abbiamo trovata, è l'unico mezzo sicuro per non allontanarci dal suo sacro recinto. Questa visione è l'intimo e necessario legame tra l'azione e la contemplazione, legame che solo a uomini stolti o di ottusa sensibilità appare inintelligibile e misterioso. Una maniera veramente umana d'agire produce la chiara consapevolezza di ciò che c'è di veramente umano in me, e questa consapevolezza, alla sua volta, non permette alcun'altra condotta se non quella che è degna dell'umanità. Chi non si sa elevare a questa chiara visione é sempre spinto qua e là vanamente da oscuri e istintivi presentimenti; invano si tenta di educarlo e di abituarlo; invano egli inventa mille espedienti e prende mille audaci risoluzioni per rientrare a viva forza nella cerchia dell'umanità: le sacre porte non si aprono, ed egli rimane fuori, su un terreno non consacrato, e non può sfuggire alle persecuzioni dell’offesa divinità, né al vergognoso sentimento di essere esiliato dalla sua vera patria. È sempre pura follia è vana impresa dare regole e fare esperimenti nel regno della libertà. Per essere uomo, si richiede un'unica libera decisione: chi una volta l'ha presa, rimarrà sempre un uomo; chi cessa di esserlo non lo è mai stato.
Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher(1768‑1834)

5 - Filosofia della natura (J. W. von Goethe)

Un passo della introduzione di d'Alembert alla grande enciclopedia francese, che non è il luogo qui di riprodurre, è stato per noi di grande importanza; comincia alla pagina X dell’edizione in quarto con le parole: “A l’égard des sciences mathématiques” e termina alla pagina XI: “étendu son domaine". La fine, che si ricollega con l'inizio, contiene questa grande verità: Che nelle scienze tutto si basa sul contenuto, sulla validità di un principio stabilito all'inizio e sulla purezza delle intenzioni. Anche noi siamo convinti che questa grande esigenza deve farsi valere non soltanto nel caso della matematica ma in tutte le scienze, le arti, come anche nella vita.
Non si ripeterà mai abbastanza: il poeta, come l'artista figurativo, deve innanzi tutto preoccuparsi se l'argomento che prende a trattare è tale che da esso si possa sviluppare un'opera multiforme, completa, sufficiente. Se si trascura questo, ogni altro sforzo è completamente inutile: il piede e la rima, la pennellata e il colpo di scalpello sono sprecati inutilmente; e anche se una esecuzione magistrale può affascinare il pubblico intelligente per qualche momento, tuttavia esso sentirà immediatamente la mancanza di spirito che inficia tutto ciò che è falso.
Così nel campo artistico, così in quello scientifico, e anche in quello matematico, tutto dipende dalla verità fondamentale, il cui sviluppo si mostra nella speculazione non così facilmente come nella pratica; giacché questa è la pietra di paragone di ciò che lo spirito ha concepito, di ciò che è stato ritenuto vero dal senso interno. Quando l'uomo, convinto del contenuto dei suoi propositi, si rivolge all'esterno e pretende dal mondo non soltanto che esso sia d'accordo con le sue idee ma che si adatti a lui, obbedisca a quelle idee e le realizzi, allora soltanto si ha per lui l'importante esperienza che gli permetterà di stabilire se si è sbagliato nella sua impresa, o se la sua epoca non è in grado di capire la verità.
Tuttavia vi è un segno distintivo fondamentale per cui la verità si può distinguere pel modo più sicuro dall'illusione: la verità agisce sempre in modo fecondo e favorisce chi la possiede e la alimenta: l'errore invece rimane lì, morto e sterile, anzi è da considerare come una necrosi nella quale la parte che perisce impedisce a quella viva di risanarsi.
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

 

6 - Frammento sulla natura (J. W. von Goethe)

Natura! Ne siamo circondati e avvolti - incapaci di uscirne, incapaci di penetrare più addentro in lei. Non richiesta, e senza preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina seco, finché, stanchi, non ci sciogliamo dalle sue braccia.
Crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna - tutto è nuovo, eppur sempre antico. Viviamo in mezzo a lei, e le siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi, e non ci tradisce il suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun potere. Sembra aver puntato tutto sull'individualità, ma non sa che farsene degli individui. Costruisce sempre e sempre distrugge: la sua fucina è inaccessibile.
Vive tutta nei suoi figli; ma la madre dov'è? Unica vera artista, essa va dalla più semplice materia ai contrasti più grandi e, apparentemente senza sforzo, alla perfezione assoluta - alla determinatezza più precisa, eppure delicata. Ognuna delle sue opere ha la sua propria essenza, ognuna delle sue manifestazioni il concetto più isolato; eppure formano un Tutto unico.
Recita uno spettacolo; se lei stessa lo vede, non sappiamo; eppure lo recita per noi, spettatori seduti in un angolo. C'è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un moto perenne; eppure non fa un passo avanti. Si trasforma di continuo, non conosce un attimo di quiete, ignora l'immobilità; colpisce di maledizione l'indugiare. È salda. Il suo passo è misurato, rare le sue eccezioni, invariabili le sue leggi.
Ha pensato e non cessa mai di pensare; non come l’uomo, tuttavia, ma come natura. Si è riservata un'intelligenza propria, che abbraccia ogni cosa e di cui nessuno può carpirle il segreto.
Gli uomini sono tutti in lei, e lei in tutti. Gioca d’amica, con ciascuno di noi, tanto più soddisfatta quanto più la vinciamo. Con molti il suo giuoco è tanto segreto, che finisce prima ch’essi se ne accorgano.
Anche la cosa più innaturale è natura. Chi non la vede dappertutto, non la riconosce in nessun luogo.
Ama sé stessa e tiene fissi su di sé innumerevoli occhi e innumerevoli cuori. Si è moltiplicata per godere di sé. Crea sempre nuovi goditori, mai sazia di offrirsi. Si compiace d'illudere. Punisce come la più severa tiranna chi distrugge l'illusione in sé o negli altri; stringe al cuore come un figlio chi le si abbandona con fiducia.
Innumerevoli sono i suoi figli. Avara, propriamente, non è con nessuno, ma ha i suoi beniamini, cui prodiga molto e molto sacrifica. Ha preso sotto la sua protezione ciò che è grande.
Suscita dal nulla le sue creature, e non dice loro né da dove vengono né dove vanno. Devono soltanto correre. La strada la conosce lei.
Ha pochi congegni, ma sempre operanti, mai inerti, sempre multiformi. Il dramma ch’essa recita é sempre nuovo, perché crea spettatori sempre nuovi. La vita è la sua più bella scoperta; la morte il suo stratagemma per ottenere molta vita.
Avvolge l'uomo nella tenebra e lo sprona continuamente alla luce. Lo inchioda, torpido e greve, alla terra; ma lo scrolla sempre a nuove imprese. Suscita bisogni perché ama il moto; il miracolo è che ne ottenga tanto con mezzi così limitati.
Ogni bisogno è un beneficio; presto appagato, presto risorgente. Se ne elargisce uno di più, è una nuova fonte di piacere; ma, ben presto, ristabilisce l'equilibrio. Ad ogni momento spicca il balzo verso la meta più lontana; ad ogni momento è alla meta.
 la vanità in persona; ma non per noi, agli occhi dei quali si è fatta la cosa più importante. Permette ad ogni bambino di baloccarsi con lei, ad ogni pazzo di giudicarla, a migliaia e migliaia d’inciampare in essa e non vedere nulla; ma trae piacere da tutti, trova il suo tornaconto in ciascuno.
Alle sue leggi si ubbidisce anche quando ci si oppone; si collabora con lei anche quando si pretende di lavorarle contro. Trasforma in beneficio tutto ciò che dà, perché lo rende a priori indispensabile. Indugia per farsi desiderare; fugge via perché non se ne diventi mai sazi.
Non ha linguaggio né discorso, ma crea lingue e cuori attraverso i quali parla e sente.
La sua corona è l'amore. Solo per mezzo suo ci avviciniamo a lei. Essa scava abissi fra le sue creature; ma tutte aspirano a riunirsi. Ha isolato ogni cosa, per ricongiungerle tutte. Con pochi sorsi alla coppa dell'amore, rende lieve il tormento di tutta una vita.
È tutto. Si premia e si punisce, si diletta e si tormenta. È rude e dolce, piacevole e terribile, debole e onnipotente. In essa, tutto è sempre lì. Non conosce passato né avvenire; la sua eternità è presente. È benigna. La lodo con tutte le sue opere. È saggia e muta. Non le si strappa alcuna spiegazione, non le si carpisce alcun beneficio ch’essa non dia spontaneamente. È astuta ma a fin di bene; e il meglio è ignorarne le astuzie. È un tutto; ma, non è mai compiuta. Come fa oggi potrà fare sempre.
A ciascuno appare in una forma diversa. Si nasconde sotto mille nomi e termini, ma è sempre la stessa. Mi ha portato in scena: me ne butterà fuori. Mi affido a lei. Disponga di me a piacer suo. Non odierà l'opera delle proprie mani. Non sono stato io a parlare di lei. No, ciò che è vero e ciò che è falso, essa l’ha detto. Tutto è colpa sua, tutto merito suo.
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

7 - Canto degli spiriti sopra l'acqua (J. W. von Goethe)

L'anima dell'uomo somiglia all'acqua; essa, viene dal cielo, al cielo sale, e di nuovo ritorna sulla terra, perennemente cangiando.
Sgorga dall'alta scoscesa roccia il limpido raggio, poi ondeggia dolcemente sul sasso levigato in nube di pulviscolo e, morbidamente accolto, fluttua come in un velo, dolce – mormorando - giù nel profondo. Anche se le pietre s'oppongono alla sua caduta, furioso spumeggia di balza in balza verso l'abisso. Nel piano letto s'insinua a valle nella prateria, e nel placido lago si deliziano del loro viso tutti gli astri. Il vento è dell'onda leggiadro amante; il vento mescola fino in fondo l'onde spumeggianti.
Oh, come tu somigli all'acqua, anima dell’uomo! Oh, come tu somigli al vento, destino umano!
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

8 - Canzone di maggio (J. W. von Goethe)

Come splende magnifica a me la natura! Come brilla il sole! Come ride il prato!
Germogli erompono da ogni ramo e mille voci dai cespugli e gioia ed ebbrezza da ogni petto: o terra, o sole, o gaudio, o giubilo!
O amore, amore d'aurea bellezza come nuvole all'alba là su quei monti!
Sovrano fecondi la zolla giovine e nel gemmato nembo l’intero mondo.
O mia fanciulla come ti amo! Come rifulge il tuo occhio! Come tu m'ami!
Così l'allodola ama il canto e l'aria e i fiori del mattino il profumo celeste, come ti amo con fervido sangue, tu che mi doni la giovinezza e gioia e ardire e nuovi canti e danze. E così come m'ami sii in eterno felice!
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

9 - Dal contrasto fra emozione e passione (Immanuel Kant)

L’emozione è il predominio delle sensazioni tale che ne viene soppressa la padronanza dell'animo (animus sui compos). Essa è dunque precipitosa, cioè cresce rapidamente a tal grado di sentimento, che rende impossibile la riflessione. La mancanza di emozioni senza diminuzione della forza degli impulsi attivi è la flemma nel senso proprio della parola, cioè la proprietà dell'uomo forte (animi strenui) di non lasciarsi trasportare dalla forza emotiva al di fuori della calma riflessione. Ciò che l'emozione della collera non compie nell'impetuosità sua, essa non compie più, e facilmente dimentica. Invece la passione dell'odio prende tempo per metter radici profonde e pensare al nemico. Un padre, un maestro non possono punire quando essi hanno avuto soltanto la pazienza di udire la scusa (non dico la giustificazione). Se colui che entra adirato nella vostra stanza, per dirvi nel violento suo trasporto delle dure parole, fate invito cortese a sedersi, e se lo ottenete, allora le sue grida si faranno già minori, perché la comodità di star seduto è una espansione, che non bene si accorda con i gesti minacciosi e le grida di chi sta in piedi. La passione invece (come disposizione spirituale che appartiene al potere appetitivo) prende tempo ed è riflessiva, sebbene possa essere violenta, per raggiungere il suo scopo.
L'emozione agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L'emozione agisce sulla salute come un salasso, la passione come l'etisia o la consunzione. L'emozione è come l'ebbrezza, che si smaltisce sebbene ne segua il mal di capo; la passione invece è come una malattia per intossicazione o per deformazione, che ha bisogno di un medico interno o esterno dell'anima, il quale tuttavia per lo più non sa prescrivere una cura radicale, ma quasi sempre solo un palliativo.
Dove c'è molta emozione, c'è comunemente poca passione; come, presso i Francesi, che per la loro vivacità sono mutevoli in paragone degli Italiani e degli Spagnoli (anche degli Indiani e dei Cinesi), che nell'ira arrivano alla vendetta o nell'amore sono tenaci fino alla pazzia. Le emozioni sono leali e aperte, le passioni invece subdole e nascoste. I Cinesi rimproverano agli Inglesi di essere impetuosi e violenti come i Tartari, ma gli Inglesi ai Cinesi di essere ingannatori esperti (ma calmi), che non si lasciano affatto deviare da questo rimprovero alla loro passione.
L'emozione è come una ubriacatura che si smaltisce; la passione come una follia, che aderisce a un'idea, la quale si insinua sempre più a fondo. Chi ama può tuttavia ancora vederci; ma chi è innamorato rimane cieco sui difetti dell’oggetto amato, sebbene questi, otto giorni dopo le nozze, soglia riprendere il suo aspetto. Colui che suole esser preso dall'emozione come un “raptus”, per quanto possa essere anche ben educato, è tuttavia simile a un pazzo; ma siccome egli rapidamente se ne pente, si ha soltanto un parossismo, che si chiama stordimento. Taluni desiderano bene di potersi adirare e Socrate dubitava se non fosse bene talvolta adirarsi; ma avere in proprio dominio l'emozione cosicché si possa riflettere a sangue freddo, se ci si deve incollerire o no, sembra essere qualcosa di contraddittorio. Invece nessun uomo può desiderare per sé la passione. Perché, chi vuol lasciarsi mettere in catene quand’egli può esser libero?
Il principio secondo cui il saggio non deve mai subire l'emozione, neppure quella della compassione per i mali del suo miglior amico, è un principio morale giusto e nobile della scuola stoica, perché l'emozione rende (più o meno) ciechi. Ma fu saggezza della natura averci data la disposizione alla simpatia per guidarci provvisoriamente prima che la ragione sia giunta alla propria forza, l’aver cioè aggiunto all'impulso morale verso il bene anche lo stimolo sensibile, come surrogato temporaneo della ragione. Perché del resto l'emozione considerata per sé sola, è sempre imprudente; essa si rende incapace di conseguire il proprio scopo, e non quindi saggio il lasciarla di proposito sorgere in sé. Tuttavia la ragione può nella rappresentazione del bene morale ravvivare il volere per mezzo della connessione delle sue leggi con le intuizioni che ad esse si conformano, e quindi essere, non come effetto, ma come causa della emozione eccitatrice dell'anima verso il bene. In questo caso la ragione tiene sempre in mano la briglia, e si produce un entusiasmo della buona decisione, il quale però deve essere attribuito alla ragione, e non alla emozione come sentimento sensoriale più forte.
In genere non è la forza di un certo sentimento quella che costituisce lo stato d'emozione bensì la mancanza di riflessione sul rapporto fra questo sentimento e la somma di tutti i sentimenti (di piacere o di dolore).
Il ricco signore, a cui il servitore in un convito abbia spezzato, per incompostezza di movimento, un vaso di cristallo bello e raro, non farebbe nessun caso della cosa, se egli nel medesimo momento paragonasse questa perdita di un piacere con la quantità di tutti i piaceri, che a lui offre la sua felice condizione di ricco. Se egli invece si abbandona interamente a quest'unico sentimento di dolore (senza far prontamente quel computo nel suo pensiero) nessuna meraviglia, che l'animo gli si commuova così come se tutta la sua fortuna fosse andata perduta.
Immanuel Kant (1724-1804)

10 – Frammento (Novalis)

Ogni grado della cultura incomincia con la fanciullezza. Quindi l'uomo terreno che più è colto è così simile al fanciullo.
L'uomo è un sole, i suoi sensi sono i suoi pianeti.
L'uomo vero deve, per così dire, vivere contemporaneamente in più luoghi e in più uomini: gli devono essere costantemente presenti un largo campo e molteplici avvenimenti. Qui si forma poi la vera grandiosa presenza dello spirito che fa dell'uomo un vero cittadino del mondo, che in ogni istante della sua vita, con le più benefiche associazioni, lo attrae, lo fortifica, e lo trasporta nella chiara disposizione di una meditata attività.
L'uomo appare più degno quando la prima impressione di lui è l'impressione di un'idea assolutamente spiritosa; cioè di essere contemporaneamente spirito e individuo determinato. In ciascun uomo eccellente deve, per così dire, sembrare che aleggi uno spirito che fa la parodia ideale della sua apparenza visibile. In alcuni uomini è come se questo spirito facesse le smorfie all'apparenza visibile.
Un uomo siffatto dovrebbe essere una bella satira, capace di dare a ciascuna cosa una forma a piacere, di riempire e muovere ogni forma con la vita più varia. L'uomo che si educa deve gradatamente provare le sue forze in tutto ciò che gli appare ancora grave, per sollevarlo, e per poterlo sollevare e spostare con sempre maggiore facilità e disinvoltura. Così se lo fa caro. Si ha caro ciò che costa fatica.
L'uomo consiste nella verità. Se rinunzia alla verità, rinunzia a se stesso. Chi tradisce la verità tradisce se stesso. Non si fa qui discorso della menzogna, ma dell'agire contro il proprio convincimento.
Se un uomo d'un tratto credesse veramente di essere morale, egli lo sarebbe.
Avere delle inclinazioni e dominarle è più glorioso che evitare le inclinazioni.
La morale è così difficile nella prassi proprio a causa della semplicità, delle sue leggi fondamentali. Il popolo è un'idea. Noi dobbiamo diventare un popolo. L'uomo perfetto é un piccolo popolo. Un uomo può nobilitare (far degna di sé ogni cosa per il fatto che egli lo vuole.
L'uomo deve dominare la propria natura e creare diritti e poteri all'individuo in sé; a lui spetta il dominio della volontà e la sommissione della sensibilità. L'uomo può desiderare ciò che è sensibile in forma razionale, la donna ciò che è razionale in forma sensibile.
La donna è il simbolo della bontà e della bellezza; l'uomo è il simbolo della verità e della giustizia. Ciò che dà il tono nell'uomo è la ragione, nella donna è il sentimento. La superiorità della donna nel sentimento è pari a quella dell'uomo nella ragione.
Tutti gli uomini sono variazioni di un unico individuo completo cioè di un unico matrimonio. Il matrimonio è il mistero supremo. Il matrimonio segna una nuova e più alta epoca dell'amore; l'amore socievole, l'amore-obbligo, l'amore vivente. La filosofia sorge con il matrimonio. È male che da noi ci sia soltanto la scelta tra il matrimonio e la solitudine. Questi sono gli estremi. Ma quanto son pochi gli uomini capaci di un vero e proprio matrimonio; quanto sono pochi anche quelli che possono sopportare la solitudine.
Ci sono legami di ogni genere. Il matrimonio è un legame senza fine. Un matrimonio dovrebbe essere propriamente un lento continuato amplesso, generazione, vera nutrizione, educazione di un armonico essere comune? Educazione di sé, osservazione di sé e nutrizione di sé, generazione di sé.
C'è un solo tempio nel mondo, e questo è il corpo umano. Nulla è più sacro di questa sublime figura, l'inchinarsi davanti all'uomo è un omaggio a questa rivelazione della carne. Si tocca il cielo quando si tocca il corpo umano.
Tutti i casi della nostra vita sono materiali di cui noi possiamo fare ciò che vogliamo. Chi ha molto spirito, fa molto della sua vita. Ogni conoscenza, ogni avvenimento sarebbe, per chi ha veramente dello spirito, il primo anello di una serie infinita, il principio di un romanzo senza fine.
Si può compiere la propria missione anche senza filosofia, se si vive in conformità con quanto hanno fatto e insegnato i più saggi e i migliori, e se prende per propria guida l'esperienza e il sano buon senso. Con queste due doti e con la diligenza ci si può trovare a proprio agio in tutte le contingenze della vita, e non restare senza risorse. Se rendersi chiaro conto della natura di una cosa si chiama sano buon senso, ed é indispensabile anche ai dotti, agli architetti scientifici. La pratica può facilitarne l'uso, e la pura forza vitale, non impedita dalle opinioni lo mantiene puro.
Non si sbaglierà mai strada, se si bada all'universale, in noi e intorno a noi. Qui intendiamo per universale, l'universale della ragione.
I "filistei" vivono solo la vita di tutti i giorni. Di domenica il lavoro ha posa, i "filistei" vivono un po' meglio del solito, e quest’ebbrezza domenicale termina con un sonno un po' più profondo del consueto; quindi incominciando dal lunedì tutto s'avvia con un’andatura più svelta. I “filistei” sono abituati a interrompere periodicamente (è di tanto in tanto) le loro comuni occupazioni quotidiane. Stando alla regola questa interruzione ha luogo ogni sette giorni, e si potrebbe chiamare una febbre settana "poetica". Le loro “parties de plaisir”, devono essere convenzionali, abituali, secondo la moda: ma essi elaborano anche i loro piaceri, come ogni cosa, con fatica e formalismo. Il “filisteo” raggiunge il grado più alto della sua esistenza "poetica" in un viaggio, in una cerimonia nuziale, a un battesimo e in chiesa. Qui i suoi più audaci desideri vengono appagati e spesso superati. La cosiddetta religione di codesti "filistei" opera semplicemente come una bevanda oppiata: seduce, stordisce, acquieta nella debolezza i dolori. Le preghiere del mattino e della sera sono loro necessarie come la colazione e il pranzo. Non ne possono più fare a meno. Il "filisteo" grossolano si immagina il paradiso sotto specie di una sagra, di una festa di nozze, di un viaggio o di un ballo; il raffinato fa delle gioie del paradiso una chiesa sontuosa con bella musica, molto fasto, con sedie per il popolino nella navata, e cappelle e gallerie per i nobili.
Novalis (pseudonimo di Friedrich L. von Hardenberg – 1772-1801)

11 - Dignità dell'uomo (G. Pico della Mirandola)

Statui quindi alla fine l'ottimo supremo Autore che a quello a cui non poteva esser dato nulla di proprio, fosse comune tutto ciò che alle singole creature era stato dato in particolare. Prese dunque l'uomo, quest'opera di tipo indefinito, e postolo nel mezzo dell'Universo, così gli parlò: “Né determinata sede, né proprio aspetto, né dono veruno speciale ti abbiamo dato, o Adamo, affinché quella sede, quell'aspetto, quei doni che coscientemente, tu abbia bramato, quelli, di tua volontà, per tuo sentimento, tu abbia e possegga. L'altrui già definita natura è costretta entro leggi da noi prescritte. Tu, non costretto entro chiusa veruna, di tuo arbitrio, nel cui potere t'ho posto, la tua natura ti determinerai. T'ho collocato nel mezzo del mondo, perché d'intorno più comodamente tu vegga quel ch’esiste nel mondo. Non ti facemmo né celeste né terreno, né mortale né immortale affinché tu, di te stesso quasi arbitrario e, per così dire, onorario plasmatore ed effigiatore, ti componga in quella forma che avrai preferita. Potrai degenerare in quelle inferiori che sono brute; potrai, per decisione dell'animo tuo, rigenerarti nelle superiori che sono divine”.
O somma liberalità di Dio Padre, somma e meravigliosa felicità dell'uomo! A cui è dato di aver ciò ch’ei brami, d'esser ciò che voglia. I bruti, appena nascono, traggono seco, dalla vagina materna quello che possederanno. I sommi spiriti fin dal principio o subito dopo furono quello che in eterno saranno. All'uomo, nel nascere, il padre diè ogni vario seme e i germi di ogni specie di vita. Quali ciascuno avrà coltivato, codesti alligneranno e in lui produrranno i lor frutti.
Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)

12 - Alcune parole sulla universalità e l'amore nell'arte (W. H. Wickenroder)

Il Creatore che ha fatto il nostro pianeta e tutto ciò che su esso si trova, abbracciò col suo sguardo la terra e sparse ovunque la piena della sua benedizione. Ma dalla sua misteriosa officina Egli ha disseminato sul nostro globo infinti e svariati germi, i quali recano frutti alla loro volta infinitamente diversi e che in suo onore crescono nel più grande e nel più variopinto dei giardini. Meravigliosamente Egli guida il sole intorno al globo terrestre in giri regolati in maniera tale che i raggi arrivano sul nostro pianeta in mille direzioni, ma sotto ogni cielo riscaldano il midollo della terra e ne fanno venir fuori esseri di forme diversissime.
Con occhio uguale Egli riposa, in un grande attimo, guardando l'opera delle sue mani e riceve con soddisfazione, l'offerta di tutta la natura animata e di quella inanimata. Il ruggito del leone gli è caro come il grido delle renne, l'aloe ha per lui il profumo ugualmente gradito come quello della rosa e del giacinto.
Anche l'uomo è uscito in mille forme diverse dalla sua mano creatrice: i fratelli di una stessa casa non si conoscono e non si comprendono: essi parlano lingue diverse e si meravigliano l'un dell'altro: ma Egli le conosce tutte e di tutte si compiace; con occhio uguale guarda tranquillamente all'opera delle sue mani ed accoglie l'offerta di tutta la natura.
Ode le voci degli uomini parlare in maniera molteplice delle cose divine e sa che tutti ‑ anche se contro la loro conoscenza e volontà, tutti intendono parlare di Lui, l'Ineffabile.
Così Iddio ascolta anche come l'intimo sentimento degli uomini parli linguaggi diversi in diverse zone della terra e in diverse epoche, e ode come essi tra di loro combattano e non si capiscano; ma per lo spirito eterno tutto si risolve in armonia; sa che ognuno parla la lingua che Egli ha creato per lui, che ciascuno esprime la sua anima come può e deve esprimerla. E se gli uomini nella loro cecità combattono fra di loro, Egli sa e riconosce che ognuno ha ragione per sé; guarda con benevolenza a ogni uomo e a tutti, e si compiace della variopinta mescolanza delle creature.
Si può dire che l'arte è il fiore del sentimento umano. In forme eternamente mutevoli questo fiore si eleva al cielo da punti diversi della terra, e al padre comune, che tiene nella sua mano il globo terrestre con tutto ciò che vi è dentro, arriva anche da questa fioritura un profumo unico e concorde.
Egli scorge in ogni opera d’arte, da qualunque punto della terra provenga, la traccia di quella scintilla divina che, partita da lui, attraverso il petto dell’uomo passò alle piccole creazioni di questi, dalle quali la scintilla ritorna di nuovo fiammeggiando al grande creatore. A lui il tempio gotico è caro come il tempio dei Greci.
Per gli stolti non è concepibile che sul nostro globo terrestre vi sia gente agli antipodi e che essi stessi siano antipodi agli altri. Pensano che il luogo dove tengono i piedi sia sempre il centro di gravità del mondo, e al loro spirito mancano le ali per volare intorno a tutta la circonferenza terrestre e per abbracciare con uno sguardo l'universo, il quale non ha altro fondamento che se stesso.
Oh, cercate d’indovinare le anime lontane da voi e ricordate come voi, al pari dei vostri misconosciuti fratelli, avete ricevuto i doni dello spirito da una stessa mano! E vogliate comprendere che ogni essere, soltanto dalle forze che ha ricevuto dal cielo, può trar fuori le sue fantasie, e che le creazioni non possono non esser rispondenti alla natura di ogni artista. E se non potete penetrare nella natura a voi lontana e non potete sentire attraverso la loro anima l'opera loro, cercate almeno attraverso i sillogismi dell'intelletto di arrivare a questa convinzione.
L'abbici della ragione segue presso tutti i popoli della terra le stesse leggi, soltanto che qui viene impiegato un vastissimo campo di argomenti, là per uno assai ristretto. Nello stesso modo, il senso dell'arte è un unico raggio di luce celeste, il quale però, attraverso il vetro variamente sfaccettato dei sensi e sotto diversi climi, si frange in mille diversi colori.
Bellezza: che strana meravigliosa parola! E provatevi a trovare nuove parole per ogni singolo sentimento d'arte, per ogni singola opera d'arte! In ognuna di queste scintille un colore diverso e per ognuno, sono state create, nella struttura del corpo umano, diverse sensibilità nervose.
Ma da questa parola: “bellezza”, voi tirate fuori i fili attraverso gli artifici dell'intelletto, di un sistema severo d'idee e volete costringere tutti gli uomini a "sentire" secondo le vostre prescrizioni e regole ... e voi stessi non sentite nulla!
A noi, figli di questo secolo, é stato concesso il privilegio di stare sulla cima di un alto monte, dal quale vediamo distendersi chiari, intorno ai nostri occhi e ai nostri piedi, molti paesi e molte epoche. Lasciateci dunque, godere di questa fortuna e vagare con occhi sereni su tutti i tempi e tutti i popoli e tentare di tirar fuori dalle loro sensibilità, e dalle opere di questa sensibilità, sempre ciò che è umano.
Come in ogni occhio mortale arriva un'immagine diversa dell'arcobaleno, così a ognuno dal mondo circostante si riflette un’immagine diversa della bellezza.
Ma la bellezza universale e originaria che soltanto in momenti di trasfigurata visione noi possiamo nominare ma non spiegar con le parole, si rivela a Colui che, e l'arcobaleno e l'occhio stesso che lo vede, ha creato.
Io ho cominciato il mio discorso da Lui e torno di nuovo a Lui poiché lo spirito dell'arte come ogni spirito che da Lui procede, attraverso l'atmosfera della terra a Lui ritorna in offerta.
Tilhelm H. Wackenroder (1773-1798)

13 - Della vera libertà del Sapiente (C. Bovillus)

La mente del Sapiente è ricchissima e sempre colma. Se un desiderio insorge essa procede avanti come non avesse il minimo bisogno; non è angustiata da nessuna privazione, non si amareggia per niente, ma qualunque privazione equivale per lei all'abbondanza. Non è vinta da appetiti smodati, reprimendo la sete dei piaceri tiene a freno gli impulsi inconsulti ed improvvidi.
Questo specialmente è proprio del Sapiente: il muoversi e l'operare liberamente, spontaneamente, con la massima facilità. Liberamente, rispetto alla volontà con cui volentieri intraprende tutto ciò che è ragionevole, bello, buono, degno d'essere ricercato; facilmente rispetto alla potenza, poiché può sempre moltissimo, con chi con la mente abbraccia tutte le cose, è, in atto tutte le cose. Come un artista, il Sapiente scolpisce in sé tutte le immagini, egli imita tutti ed ha presenti, senza veli, tutte le cose. Di qui risulta chiaro che il Sapiente può e opera sempre moltissimo. Poiché tre sono le cause delle nostre azioni, e tre i principi dell'agire: intelligenza, potenza, volontà; assistono il Sapiente una limpida intelligenza e una lucida cognizione a ciò che si deve fare. La sua mente, sotto il nobile influsso della ragione, ha scosso ogni nebbia d'ignoranza e l'ha abbandonata tra i rifiuti mondani; egli è aiutato, come si è detto, dalla potenza d'agire, poiché egli è tutto e in qualche modo può tutto; lo assiste infine l'ultimo dei tre principi, la volontà, che intende ciò che si deve fare, che ha capacità di agire.
Quando dunque queste tre funzioni: intendere, potere, volere, si collegano in una sola armonia, l'azione del Sapiente è libera, facile, senza ostacoli. L’intelligenza gli rivela in primo luogo ciò che deve fare; la potenza valuta quindi e misura le forze del soggetto; la volontà infine muove, asseconda, segue il soggetto. Ché se mancasse qualcuna di queste cause, l'azione sarebbe ostacolata o nulla, infatti se alcuno intende e può ciò che non vuole, o intende e vuole ciò che non può, o può e vuole ciò che non conosce per nulla; o non conosce, non può e non vuole: in ogni caso costui si muove invano.
Ne segue che lo stolto è inadatto, lento, incapace in qualunque azione, come chi ha cieca e improvvida l'intelligenza, e manca di forza, di capacità. Infatti vi sono forze dell'anima, facoltà e cause delle nostre operazioni, ornamento della mente, abiti di buone azioni. Ma esse sono molto lungi dallo stolto pigro e marcente la cui volontà, unita alla micropsicosi, cioè alla piccineria d'animo, non osa proporsi niente che non abbia facoltà di eseguire e trarre a compimento.
Carolus Bovillus (Charles de Bouelles – 1481-1553)

14 - Mischie di pioggia e di venti (Leonardo da Vinci)

Vedesi l'aria tinta d’oscura nuvolosità negli apparecchi delle procelle del mare (le quali sono mischie di pioggia e di venti), con serpeggiamenti delli tortuosi corsi delle minaccianti folgori celesti, e le piante piegate a terra con le arovesciate foglie sopra li declinanti rami, le quali pare voler fuggire dalli loro siti, come spaventate dalle percussioni delli orribili e spaventosi voli dei venti, fra li quali s'infonde li revertiginosi corsi della turbolenta polvere e arena dei lidi marini; l'oscuro orizonte del cielo si fa campo di fumolenti nuvoli, li quali percossi dalli solari raggi, penetrati per le opposite rotture de’ nuvoli, percotano la terra, quella alluminando sotto le loro percussioni; li venti persecutori della polvere, quella con grupolenti globosità, levano a balzo infra l'aria, con colore cineruleo, mista con li rosseggianti raggi solari ai quella penetratori. Li animali, senza guida, spaventati discorrano a rote per diversi siti. Li tuoni, creati nelle l’ombrose nuvole, scacciano da sé le infuriate saette, la luce delle quali allumina l'ombrose campagne in diversi luoghi.
Se vuoi figurare bene una procella, considera e poni bene i sua effetti, quando il vento, soffiando sopra la superfizie del mare e della terra, rimove e porta con seco quelle cose che non sono ferme co’ la universal massa.
E per ben figurare questa fortuna, farai in prima li nuvoli spezzati e rotti dirizzarsi per lo corso del vento, accompagniati da l'arenosa polvere levata da’ lidi marini, e rami e foglie levati per la potenzia del furore del vento, isparsi per l’aria, e in compagnia di quelle molte altre leggere cose. Li arbori e l'erbe piegate a terra quasi mostrarsi voler seguire il corso de’ venti co’ rami storti fori del naturale corso e con scompigliate e rovesciate foglie. E li omini che li si trovano, parte caduti e rovesciati, per li panni e per la polvere quasi sieno irriconoscibili; e quelli che restano ritti sieno dopo qualche albero abbracciati ad essi, perché il vento non li strascini; altri con le mani a li occhi per la polvere, chinati a terra, e i panni e capegli diritti al corso del vento. Il mare turbato e tempestoso sia pieno di retrosi e schiuma infra le elevate onde, e il vento levare, infra la combattuta aria, della schiuma più sottile a uso di spessa e avviluppata nebbia. I navili che dentro vi sono, alcuni se ne facci col la vela rotta e i brani d'essa ventilando infra l'aria in compagnia d'alcuna corda rotta, alcuni alberi rotti, caduti, col navilio intraversato e rotto infra le tempestose onde; certi omini gridanti abbracciare il rimanente del navilio. Farai li nuvoli cacciati dagl’impetuosi venti, battuti nell'alte cime delle montagnie, fare contro a quelle avviluppati retrosi a similitudine de l'onde percosse nelli scogli. L'aria spaventosa per le iscure tenebre fatte in nell’aria dalla polvere, nebbia e nuvoli folti.
Leonardo da Vinci (1452-1519)

15 – Facezia (Leonardo da Vinci)

Una lavava i panni e pel freddo aveva i piedi molto rossi, e, passandole appresso, uno prete domandò con ammirazione donde tale rossezza dirivassi; al quale la femmina subito rispuose che tale effetto accadeva, perché ella aveva sotto il foco. Allora il prete mise mano a quello membro, che lo fece essere più prete che monaca, e, a quella accostatosi, con dolce e sommessiva voce pregò quella che ‘n cortesia li dovessi un poco accendere quella candela.
Leonardo da Vinci (1452-1519)

16 - Il negromante (Benvenuto Cellini)

Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno ed aveva assai buone lettere latine e grecie. Venuto una volta in un proposito d'un ragionamento, in nel quale s’intervenne a parlare d'arte della negromanzia, alla qualcosa io dissi: grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest'arte. Alle qual parole il prete aggiunse: forte animo e sicuro bisogna che sia di quell'uomo che si mette a tale impresa. Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell'animo me ne avanzerebbe, purché i’ trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò. Così fummo d'accordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera infra l'altre si mise in ordine, e mi disse che io travassi un compagno, insino a due. Io chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un pistoiese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Colosseo, quivi paratosi il prete a mo’ di negromante, si mise a disegnare i circuli in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi.
Come e' fu in ordine, fece la porta al circolo, e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi compartì gli ufizi; dette il pintaculo in mano a quell'altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e' profumi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa più d'una ora e mezzo; comparvero parecchie legioni (di diavoli), di modo che il Culiseo (Colosseo) era tutto pieno. Io che attendevo ai profumi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità si volse a me e disse: Benvenuto, dimanda lor qualcosa. Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte, noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante, che bisognava che noi andassimo un'altra volta e che io sarei satisfatto ai tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli, e per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda.
Arrivati di nuovo al luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora meraviglioso ordine, ci misse in nel circolo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte, e più mirabil cerimonie; di poi quel mio Vincenzio diede la cura dei profumi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi: dipoi a me pose in mano il pintaculo qual mi disse che io lo voltassi secondo i luoghi dove lui m'accennava, e sotto il pintaculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voci ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empiè tutto il Culiseo l'un cento più di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agnolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante, di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: senti che gli hanno detto? che in ispazio di un mese tu sarai dove è lei; e di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo (cioè stessi saldo), perché le legioni eran l'un mille più di quel che lui aveva domandato, e che l'erano, le più pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Dall'altra banda il fanciullo, che era sotto il pintaculo, ispaventatissimo diceva, che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e’ quali tutti ci minacciavano: di più disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrare da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quanto loro, m'ingegnavo di dimostrarla manco, e a tutti davo meravigliosissimo animo; ma certo io m'ero fatto morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s'era fitto il capo infra le ginocchia, dicendo: io voglio morire a questo modo, perché, morti siamo. Di nuovo io dissi al fanciullo: queste creature son tutte sotto di noi, e ciò che tu vedi si è fumo e ombra; sí che alza gli occhi. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse che era morto, e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profumi di zaffetica (quelli puzzolenti); così voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presso profumassi di zaffetica. In mentre ch’io così diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale era tanto ispaventato che la luce degli occhi aveva fuor del punto, ed era più che mezzo morto, al quale dissi: Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare ed aiutarsi; sicché mettete su presto di quella zaffetica. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una istrombazzata di coregge con tanta abundanzia di merda, la quale potette molto più che la zaffetica. Il fanciullo a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano andare a gran furia. Così soprastemmo in fino a tanto che e' cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo, che ve n'era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri che già gli aveva portati, tutti d'accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l'un sotto l'altro; massimo il fanciullo, che s'era messo in mezzo, ed aveva preso il negromante per la vesta e me per la cappa; e continuamente in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi lui ci diceva che dua di quelli, gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltibeccando innanzi, or correndo su pei tetti e or per terra. Il negromante diceva che di tante volte quante lui era entrato nelli circuli, non mai gli era intervenuto una così gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di voler esser seco a consacrare un libro, dal quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché dimanderemmo li demonii, che ci insegnassino delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel modo noi diventeremo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quali non rilevano nulla. Io gli dissi, che se io avessi lettere latine, che molto volentieri farei tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avesse voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d'un saldo animo come era io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascuno di noi tutta quella notte sognammo diavoli.
Benvenuto Cellini (1500-1571)

17 - Della virtù nell'arte medica (Paracelso)

Conchiusa (che ho) la trattazione riguardante la scienza e le arti della medicina sul cui fondamento ogni medico deve basarsi e su cui deve impiantare la propria professione, è necessario ora che il medico possegga in sé un altro fondamento, il quale stia al servizio di questi tre (filosofia, astronomia, alchimia).
Tale fondamento è quello che contiene questi ultimi e li sostiene secondo la volontà d'Iddio, che ha dato e creato la medicina. Il medico, infatti, non è costituito in modo da curare se stesso, bensì soltanto gli altri. Come una pecora non porta con sé la lana, sibbene per il tessitore e il pellicciaio, così anche il medico deve essere simile alla pecora e non essere utile a sé, bensì agli altri, e non deve distaccarsi da questo esempio. Anche Giovanni Battista ha infatti scorto nell'agnello un'immagine di Cristo. È ora quanto mai necessario che un medico sia anche un agnello, giacché nell'arte sua stanno celate molte e grandi cose, cioè, assassinii, strangolamenti, storpiamenti, provocazioni di paralisi, devastazioni, scorticamenti, furti e rapine. Tutte queste cose esistono in un medico lupo. Giacché, come il medico che deriva da Dio deve essere un agnello e una pecora, così colui che opponendosi a Dio esercita la sua medicina, è pari a un lupo. Come Dio paragona il lupo alle creature più spregevoli e maledette, così è giusto che questo nome sia attribuito anche al medico rapace. Quali sono i medici di tal fatta? Coloro che esercitano la medicina essendo pienamente coscienti di non avere nessun potere e nessun sapere, ciononostante l'esercitano soltanto per motivi venali: tra loro e i lupi non v'ha differenza. Un medico di questo genere è un assassino. Infatti il suo è un azzardo diretto al solo scopo di accrescere il proprio utile, indipendentemente dalla guarigione o dalla morte dei malati. Questi medici derubano l'infermo dei suoi averi, gli portano via la casa e la fattoria e gli divorano le sostanze, spogliano lui e i suoi familiari di tutto. Tutto ciò è rubato e depredato. Tali medici assassinano e strangolano, storpiano; riducono in paralisi. Il medico non deve comportarsi in questo modo, non deve mirare al proprio tornaconto, Quand'anche abbia potere e sapere, il suo potere e sapere non sono già per gloriarsene, pavoneggiarsi e menarne vanto e perché si copra di collane d'oro la sua donna, che era una contadina, una cuciniera, una serva, una sguattera e forse una puttana, perché essa si metta a pari di una contessa uguagliandola nell'abito e nel guardaroba. Costoro sono tutti lupi rapaci.
La medicina deve essere riposta in una pecorella e in un agnello, affinché una tale disposizione d'animo e con un tal cuore leale, venga offerta e somministrata e possa contare, dal canto suo, sulla lealtà del malato. Alla lealtà infatti si deve lealtà, alla verità verità, alla giustizia giustizia.
Non è giusto dunque che io metta a fondamento e colonna della medicina anche l'onestà del medico? Sì sí, no no. Questa è la sua onestà, su questa egli deve fondarsi. Se dunque il sì deve essere sì, dovrà conoscere la medicina nel suo retto fondamento, affinché il sì sia e diventi un sì. Quindi anche il no dovrà essere un no. Perciò convien che egli sappia che cosa è il no nella medicina. Dal che consegue che l'onestà del medico trova nella conoscenza dell'arte sua la propria base, e questa conoscenza procede e discende dal fondamento noto e specificato, e al di fuori di essa nessuno può darsi il nome o il titolo di onesto rappresentante della medicina. Notate ora che a Dio è particolarmente caro il medico, tra tutte le arti e facoltà degli uomini, e predilige in maniera speciale impartire precetti ed ordini a lui. Poiché dunque al medico è riservato da Dio un tale favore e una tale posizione, egli non potrà essere, in definitiva, un simulatore, una vecchia comare, un boia, un bugiardo, uno sconsiderato; dovrà essere invece un uomo verace. Poiché come Dio non lascia allievi e discepoli ai falsi profeti, così non lascia a questi medici l'arte della medicina. Voi vedete infatti che i falsi profeti, apostoli, martiri e confessori non prosperano né hanno successo, bensì, quando più in alto si stimano e migliori, allora cadono e tutti i loro discepoli si levano contro di essi. Sono quelli della loro parte ad avere il sopravvento su di loro. Dio, infatti, non lascia che la sua parola e il suo ministero siano rivelati da un mentitore. Se egli agisse tanto attraverso il mentitore quanto attraverso l'uomo giusto e verace - che è senza perfidia - non avrebbe mai avuto bisogno di scegliere i suoi apostoli, bensì a Satana avrebbe impartito i suoi ordini. Così deve la medicina essere basata soltanto sulla verità sicura, non su un'arte piena di dubbi, sibbene su un'arte sicura. Infatti Dio vuole che l'uomo sia verace e non un dubbioso o un bugiardo. Egli ha creato la verità e non la menzogna. Or bene la verità è l'onestà dell'uomo, adunque l'onestà del medico sta nell'essere tanto costante e verace come gli apostoli eletti da Cristo, giacché presso Dio egli non è da meno di loro. Quando invece qualcosa non riposa sulla verità, immobile come Dio stesso, bensì ha nell'aria il suo punto d'appoggio, vuol dire allora che è costruita su Satana. Similmente ai falsi profeti, che fanno spalancare la bocca alla gente, similmente ai falsi apostoli, che danno anche dei segni al cospetto degli uomini e ai falsi martiri, che si fanno uccidere al pari dei giusti, similmente ai falsi confessori, che pregano e fanno penitenze al pari dei veri fedeli.
Il falso medico non può essere nemmeno in buona fede. Perché chi è in buona fede non mente e porta a compimento le opere di Dio. Giacché di quel che lui è, egli stesso é la propria testimonianza, vale a dire: devi riporre in Dio una fede onesta, integra, robusta, verace, con tutto l'animo tuo, il tuo cuore, la tua mente e i tuoi pensieri, con tutto l'amore e tutta la fiducia. Poiché con una tale fede ed un tale amore Dio non ti farà mancare la sua verità e ti renderà manifesta le sue opere veridiche, certe e consolatrici. Ma se tu non hai una tale fede in Dio, l'aiuto d'Iddio ti verrà meno nelle opere tue e ne sentirai la mancanza.
È lo Spirito Santo, infatti, ad accendere la luce della natura. E perché? Che cosa inventa l'uomo estraendolo da sé stesso o per mezzo di sé stesso? Non tanto da lasciare una macchiolina su un paio di calzoni. Che cosa inventa il diavolo? Sulla terra niente, un bel niente. Ma quando, mercé l'accesa luce della natura, troviamo qualcosa in noi. il diavolo è la guida che prende l'ardire di falsificare tutte le cose che Dio ci dà, trasformandole in menzogne e inganni. Questo diventa allora l'ostacolo di ogni arte.
Da Dio tutti gli esseri umani vengono nutriti e guidati, e Dio deve nutrirci, altrimenti nessuno ci può nutrire. Se uno vuole nutrirsi con l'aiuto della verità, Dio ci dà il suo nutrimento. Poiché ha il debito verso di noi di darci il nostro nutrimento. Egli ce lo dà nel modo in cui noi lo vogliamo. Se vogliamo averlo con la menzogna, la verità presso di noi diventerà menzogna e vivremo come mentitori. Adunque Iddio dà ai mendaci il suo nutrimento come lo dà agli uomini veritieri giacché deve nutrirci tutti, buoni e cattivi, come mostra di fare col sole e la terra e tutte le creature. Cosicché il medico deve essere puro e casto, affinché il suo bene non venga malamente usato per nessuna lascivia o vanagloria o malizia.
Affinché dunque il medico raggiunga la completezza e poggi su un perfetto fondamento, sappiate che egli deve agire in tutte le cose secondo l'ordine della opportunità. Dobbiamo ora dire, intorno all'opportunità, che essa è la “congrui tas”, cioè l'agire secondo l'ordine imposto dalla natura e non dagli uomini. Infatti il medico non è sottoposto all’uomo, ma solo a Dio attraverso la natura. Dal che consegue che questa opportunità e questa disposizione dell'ordine hanno nella specie del corpo e in quella della luce della natura il loro punto di partenza. Giacché la luce che ha il corpo è di specie diversa da quella della natura. Orbene queste specie devono connettersi insieme. Se dunque simile deve venire a simile e questo è la “congruitas”, sì che prenda l'altro per il suo verso e l’una cosa si armonizzi con l'altra, il sapere intorno alla specie del corpo deve essere al primo posto. Se il corpo è cresciuto e si è sviluppato, non lo deve a nessun medico, il corpo già compiuto è quello che si è fatto in cose estranee. In questo suo farsi adulto avverte il suo intimo sé. Così la qualità specifica della luce della natura sta nel fatto che essa penetra nella culla e s'insinua in modo tale che è più esigua del granello di senape ed è dalla senape che allora comincia a crescere. Poiché dunque un albero di senape ha uccelli sopra di sé e il suo seme è il più piccolo di tutti, che cos'altro vuol significare tutto questo, salvo il fatto che quanto noi riceviamo nella giovinezza, diventa grande nella vecchiaia e così grande che l'uomo non esisterebbe soltanto per sé, bensì anche per tutti gli altri? Perciò l'uomo deve diventare albero e adempiere la dottrina di Cristo e l'esempio dell'albero di senape. Perciò se l’arte del medico deve consistere su un fondamento, il seme dei medici deve esser gettato nella culla come un granello di senape e quivi crescere, come cresce il seme dei grandi e dei santi presso Dio. E devono i medici crescere in modo da svilupparsi nelle cose della medicina similmente agli alberi di senape che grandeggiano su tutti gli altri. Tutto ciò deve aver inizio e il suo primo germoglio con la, giovinezza. Sappiate perciò che deve esistere una ”congruitas”, cioè che la qualità specifica del corpo concresca con quella della luce naturale, e che s'accordino insieme. Giacché l'uomo non può comporle né coordinarle, non essendo ciò affar suo. Dunque il fondamento deve starsene piantato ed essere consolidato fin dalla giovinezza. E quel che viene seminato a tempo giusto, farà sbocciare un buon germoglio. Lealtà e amore sono una cosa sola. Orbene, in che consiste la lealtà di un medico? Non tanto nel visitare accuratamente il malato, quanto nell'imparare a conoscerlo, a vederlo e ascoltarlo; e se la lealtà è entrata nel suo cuore, questo significa che egli deve aver appreso con diligenza e lealtà ciò di cui il malato ha bisogno. Giacché massimamente la lealtà viene trascurata quando uno vuole imparare soltanto per farne sfoggio, per le apparenze, per le chiacchiere, per il nome, e di tali cose vuole esser saziato. Tutti costoro sono sleali e privi di ogni amore.
Inoltre il medico deve essere ingegnoso. Colui che appunto vuole essere ingegnoso, deve avere pratica d'ogni cosa. Come puoi infatti esprimere un giudizio su qualche cosa, se non puoi giudicare sulla base di cose diverse? In che consiste dunque la ingegnosità di un medico? Nel sapere che cos'è utile e contrario alle cose insensibili, che cosa è gradevole e sgradevole ai mostri marini, che cosa è salutare per loro o dannoso allo loro salute. È questa un'ingegnosità che concerne le cose naturali. E che cos'altro ancora? Le incantagioni vulnerarie e le loro forze, ciò da cui e per cui giungono al loro effetto, e come dovrebbero perfettamente essere intese e comprese. Che cosa è oltre la natura, che cosa oltre la specie, che cosa il visibile e l'invisibile, che cosa dà il dolce e l'amaro che cos'è la morte, che cosa serve al pescatore, che cosa dovrebbero sapere il cuoiaio, il conciatore, il tintore, il forgiatore di metalli, il carpentiere, che cosa va messo nella cucina, nella cantina, nel giardino, che cos'è dovuto al tempo, che cosa sa un cacciatore, un minatore, che cosa tocca a un vagabondo, che cosa a un sedentario, che cos'è uso di guerra, che cosa crea la pace, che cosa determina uno stato ecclesiastico, uno stato secolare, che cosa costituisce ogni stato, che cosa veleno, che cosa contravveleno, che cosa c'è nelle donne e negli uomini, qual è la differenza tra donne e vergini, tra i gialli e i pallidi, tra i bianchi e i neri, tra i rossi e i lionati, in tutte le cose, perché qui ci sia questo colore, là un altro, perché una cosa sia lunga, un'altra corta, una riuscita, un'altra malriuscita. E come tutte queste cognizioni debbano essere conseguite. Non è che questa sia già la medicina, bensì la qualità connessa alla medicina.
Sappiate allora quel che deve esserci nel malato: una naturale infermità, una naturale volontà, una naturale forza. Da queste tre cose dipende il compimento dell'opera del medico. Se c'è nel malato qualcosa di diverso gli quel che si è indicato, egli non può aspettarsi dal medico nessuna guarigione. Quelli infatti che Cristo ha risanato, dovevano essere idonei a ricevere in sé tale guarigione. Nessuno mai fu risanato di coloro che non avevano tale disposizione.
Esiste in Dio una distribuzione dei destini assegnati all'uomo e alla natura, che nessuno può valutare o intendere alle sua radici, e nessuno può rendersi conto quale destino sia riservato a ognuno. È un grande mistero divino celato all'uomo. Il medico deve essere consolidato nella conoscenza del cielo, dell'acqua, della terra e dell'aria e su questa base deve conoscere il microcosmo e, confidando in questa conoscenza, salvaguardare la sua coscienza, né deve sottrarre o aggiungere qualche cosa a Dio, bensì stare costantemente in attesa di grazia e di misericordia.
Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, detto Philippus Aureolus Theophrastus Paracelsus, 1493-1541)

18 - Della differenza esistente fra gli uomini (M. G. de Montaigne)

In qualche luogo Plutarco scrive che non esiste tanta differenza tra bestia e bestia, quanta fra uomo e uomo. Egli si riferisce al valore dello spirito e alle qualità dell'animo. Ma in verità, fra il tale che conosco ed Epaminonda (quale l'imagino), corre tanta distanza che son portato volentieri a rincarare la dose di Plutarco e affermare che c'è tanta differenza tra quello di mia conoscenza ed il grande capitano quanta ce ne sia tra l'uomo e la bestia e che vi sono tante e innumerevoli sfumature, tra uomo e uomo, quante braccia corrono fra cielo e terra.
Ma a proposito della stima degli uomini, è singolare come - noi eccettuati - ogni cosa venga apprezzata per le qualità che le sono proprie. Lodiamo un cavallo perché è vigoroso e veloce, non per i suoi finimenti; un levriere per la sua rapidità, non per il suo collare; un uccello per l’ampiezza dell'ala non per le correggie o i campanelli (correggie di lancio e campanelli che venivano usati con gli uccelli da preda nell'esercizio della caccia).
L'uomo invece, perché non lo apprezziamo per ciò che è? “Conduce vita fastosa, possiede un magnifico palazzo - si dice -, tanto di rendita, tanto di conto in banca". Ma, tutto ciò è intorno a lui, non è lui.
Michel E. de Montaigne (1533-1592)

19 - Dell’incostanza e delle nostre azioni (M. G. de Montaigne)

Chi si diletta nel vagliare le azioni umane, incontra il maggior imbarazzo nel porle tra loro in relazione e presentarle sotto una medesima luce; si profilano infatti, il piú delle volte, così straordinariamente contradditorie, che non sembrano nemmeno uscite dalla medesima bottega: Mario pare ora figlio di Marte ora di Venere; papa Bonifacio VIII, si dice, assunse la tiara col fare della volpe, la tenne come un leone, morì come un cane; e chi crederebbe che proprio Nerone - questo prototipo della crudeltà - dinanzi a una sentenza di morte portatagli per la firma, abbia esclamato: "Piacesse a Dio che non avessi mai imparato a scrivere”, tanto lo tormentava l'idea di condannare a morte un uomo ?
La storia è così ricca di simili esempi, e ciascuno, d'altra parte, può fornirne per proprio conto, che mi par strano che i dotti si siano talvolta ingegnati di conciliare tante contraddizioni, quando la contraddizione è il segno più vistoso e caratteristico della natura umana.
Seguiamo, di solito, gl’impulsi del nostro desiderio - a destra, a manca, in alto, in basso, secondo il vento dell'opportunità. Non pensiamo ciò che vogliamo, se non nell'istante in cui lo vogliamo, e cangiamo di colore come gli animali che si mimetizzano secondo l'ambiente in cui vivono. Mutiamo un istante dopo ciò che abbiamo deciso in questo istante, per tornare immediatamente sui nostri passi; oscillazione ed incostanza ci sono proprie.
‘Ducimur ut nervis alienis mobile lignum’ (Orazio)
(siamo mossi come marionette di legno da braccia estranee).
Non procediamo per conto nostro; ci lasciamo trasportare, come cose che scivolano, ora più, ora meno dolcemente, a seconda che le acque sono in tempesta o in bonaccia. Ogni nuovo giorno reca una nuova fantasia, e i nostri umori si agitano secondo il ritmo del tempo.
Oscilliamo fra pareri discordi; non vogliamo niente liberamente, niente assolutamente, niente con costanza.
Michel E. de Montaigne (1533-1592)

20 - Quanto sia ingiusto il risentimento verso quelli che mancano di riconoscenza (P. Nicole)

Nulla indica maggiormente quanto la fede sia spenta e poco attiva nei cristiani, come il loro rispetto quando non si ha per essi tutta la gratitudine che ritengono di meritare. Tale pretesa è la più opposta alla luce della fede.
Se i cristiani riguardassero come si deve, i servigi resi agli altri, li considererebbero come grazie ricevute da Dio e che essi devono alla sua bontà, e come opere che avrebbero dovuto offrirgli e consacrargli senza alcun riguardo alle creature. Come unire allora questi sentimenti di riconoscenza a Dio - (a cui deve condurre la fede), al dispetto e al dispiacere che si prova quando gli uomini mancano a ciò che immaginiamo essi ci debbano?
Tuttavia la mente della maggior parte degli uomini è continuamente occupata a esaminare se vien loro reso ciò che è loro dovuto, se quelli ch’essi hanno servito sentono i propri obblighi, e se compiono puntualmente i doveri che le consuetudini hanno stabilito per esprimere la gratitudine. Se si avessero i veri sentimenti che la fede deve ispirare, si sarebbe persuasi che, come Dio ci fa una grande grazia dandoci il mezzo di servire gli altri, cosí ce ne fa un'altra non minore permettendo che gli uomini non ci dimostrino la riconoscenza che ci debbono, Poiché è giusto che, dandoci un tesoro inestimabile, esso ci resti e nessuno ce lo tolga. Ma la nostra gioia dev'essere piena e completa quando possiamo credere che le persone che parrebbero mancar di riconoscenza verso di noi, ne sono invece molto capaci in se stesse, ma non possono esprimerla perché ignorano di esserci obbligati. E quantunque sia realmente vantaggioso per noi che gli altri ci manchino di gratitudine, non dobbiamo però desiderarlo, perché sarebbe un male per loro.
Dobbiamo inoltre persuaderci che non solo c'è molta ingiustizia in quest'attesa della gratitudine degli altri, ma anche molta bassezza, questi doveri di riconoscenza che esigiamo, si riducono sovente a un semplice complimento o a qualche gentilezza inutile, e queste son le cose che preferiamo a Dio e ai beni ch’egli ci promette. Sovente siamo anche noi la causa del difetto che imputiamo agli altri. Noi spegniamo la gratitudine nel loro cuore per il modo con cui li serviamo, ed abbiamo sempre quasi l'aria di credere, quando li vediamo essere verso di noi meno riconoscenti di quanto lo siamo verso altri, che v'è qualcosa che non attira la riconoscenza. Ma sia che ciò accada per nostra colpa, sia per colpa altrui, è sempre una debolezza l'offendersi quando non ci vengon resi dei ringraziamenti che noi vediamo chiaramente non poter essere che pericolosi.
Pierre Nicole (1625-1695)

21 - Osservazioni su parecchi difetti delle giovinette (F. Fenelon)

Abbiamo a parlare della cura che bisogna prendere per preservare le fanciulle da parecchi difetti che di solito si riscontrano nel loro sesso. Si fanno crescere in una mollezza ed in una timidità che le rendono incapaci di una condotta ferma e regolata. Da principio vi è molta affettazione, e in seguito molto di abitudine nei timori senza fondamento e nelle lacrime che versano a buon mercato; il disprezzo verso queste affettazioni può giovare molto a correggerle, poiché la vanità ne è in gran parte la cagione.
Bisogna pure reprimere in esse le amicizie troppo tenere, le piccole gelosie, l'eccesso dei complimenti, le moine, le sollecitudini; tutto ciò le guasta e le abitua a considerare come troppo dura e troppo austera ogni cosa grave e seria. Occorre anche mirare a far sì che si studino di parlare con brevità e precisione. Il buon spirito consiste nel sopprimere tutti i discorsi inutili e nel dir molto con poche parole, mentre la maggior parte delle donne dicono poco con molte parole. Esse fanno consistere lo spirito nella facilità di parola e nella vivacità dell'immaginazione; non fanno scelta alcuna tra i loro pensieri; non mettono alcun ordine nelle cose che hanno da esporre; esse si appassionano in quasi tutto ciò che dicono e la passione fa molto parlare; perciò non si può sperare niente di buono da una donna, se non la si riduce a riflettere con ordine, ad esaminare i propri pensieri, ad esporli con brevità, ed a saper anche tacere.
Le donne hanno una naturale disposizione a ogni sorta di commedie; le lacrime non costano niente, le loro passioni sono vive e le loro conoscenze assai spesso limitate: ne viene che non trascurano nulla per raggiungere il loro scopo e che i mezzi i quali non converrebbero a dei caratteri più assestati ad esse paiono buoni; non fanno alcun ragionamento per esaminare se una cosa bisogna desiderarla; ma sono industriosissime per conseguirla.
La bellezza inganna ancor più la persona che la possiede che non quelli che ne sono abbagliati; essa turba inebria l'anima. Si è più scioccamente idolatri di se stessi che non gli amanti più appassionati lo siano per la persona di cui sono innamorati. Non v’è che un piccolissimo numero di anni di differenza fra una bella donna ed una che non è più tale. Le persone che traggono tutta la loro gloria dalla loro bellezza, diventano spesso ridicole.
Dalla bellezza passiamo all'abbigliamento: le vere grazie non dipendono punto da un ornamento vano ed artificioso. Io vorrei far vedere alle giovani fanciulle la nobile semplicità che appare nelle statue, e nelle altre figure che ci restano delle donne greche e romane; esse vedrebbero come capelli annodati negligentemente all'indietro, e frappi pieni e fluttuanti a lunghe pieghe sono gradevoli e maestosi.
Per poco che il loro spirito si elevi sopra la preoccupazione delle mode, esse avrebbero presto un gran disprezzo per i loro riccioli così lontani dal naturale e per gli abiti di disegno troppo studiato. C'è da far notare per tempo alle fanciulle la vanità e la leggerezza di spirito che produce l'incostanza delle mode. È una cosa molto male intesa, per esempio, l'ingrossarsi la testa con non so quali tuppi e reticelle; le vere grazie seguono la natura e non l'impacciano giammai.
Ma la moda si distrugge da sé; essa mira sempre al perfetto, e non lo trova mai, almeno non vuol mai arrestarvisi; sarebbe ragionevole se non cangiasse che per non cangiare più, dopo raggiunta la perfezione della comodità e della buona grazia; ma cangiare per cangiare senza posa, non è forse voler piuttosto l'incostanza e la sregolatezza che non la vera convenienza e il buon gusto? Così d'ordinario nelle mode non vi è altro che capriccio. Le donne sono arbitre nella scelta. Le più leggere e senza un proprio personale gusto, trascinano le altre; esse non scelgono e non rifiutano nulla secondo una regola; è sufficiente che una cosa ben inventata sia stata lungo tempo di moda, perché essa non lo debba piú essere, e che un’altra, ancorché ridicola, a titolo di novità, ne prenda il posto e sia ammirata.
Ma quando si cerca di piacere, che cosa si pretende? Non è forse per eccitare le passioni degli uomini? Quel che rimane a fare sì è di distogliere le fanciulle dal far le spiritose. Se non ci si guarda, quando esse sono un po' vivaci, cacciano il naso dappertutto, di tutto voglion parlare, sentenziano sulle cose più lontane dalla loro capacità, affettano d'annoiarsi per delicatezza. Una fanciulla non deve parlare se non per veri bisogni ed avere un contegno di deferenza.
Niente è più stimabile come il buon senso e la virtù; l'uno e l'altra inducono a riguardare il disgusto e la noia non come una delicatezza lodevole, ma come una debolezza da spirito ammalato.
François Fénelon (1651-1715)

22 - Uomo di fondo, uomo assennato (Baltasar Gracian)

Più c'è di fondo, e più si è uomo. L'interno deve valere altrettanto di più di quanto è l'esterno. Vi sono persone che hanno una sola facciata, come casa non ancora finita di costruire perché è venuto meno il capitale: hanno l'entrata di un palazzo e l'abitazione di una capanna. Con simili persone, non sai mai su che intrattenerti, su che indugiarti perché, dopo lo scambio dei saluti, è finita la conversazione. Entrarono a farti le prime cortesie col buio dei cavalli siciliani e poi, subito diventarono taciturni, giacché le parole subito si esauriscono dove non c'è continuità di concetti. Costoro ingannano facilmente quelli che, anch’essi, hanno la vista corta, ma non già la perspicacia, la quale, poiché mira al di dentro, li giudica vuoti, fatti per essere oggetto di favola degli uomini saggi.
Uomo assennato e penetrativo - Egli signoreggia gli oggetti, non gli oggetti lui. Scandaglia subito il fondo della maggior profondità; sa far la perfetta anatomia della capacità di un altro. Nel vedere un uomo, lo comprende e lo esamina nella sua essenza. Di rare osservazioni, gran decifratore della più riposta segretezza d'un cuore. Severo nell'osservare, fine nel concepire, assennato nel trarre le conseguenze: tutto scopre, osserva, intende e comprende.
Non venir mai meno al rispetto verso se stesso - Nemmeno quando è solo, l'uomo savio sia triviale. La medesima sua integrità sia norma della sua rettitudine, e sia più debitore alla severità dei suoi principi che a tutti i precetti estrinseci. Si astenga dal far ciò ch'è sconveniente, più per tema di offendere la sua saggezza che per il rigore dell'altrui autorità. Arrivi a temere se stesso, e non avrà bisogno del pedagogo immaginario di Seneca.
Non iscomporsi mai ‑ Gran compito della prudenza è quello di non iscomporsi mai. Prova che si è in tutto un uomo, di possedere il cuore di un re, perché tutti i grandi animi difficilmente si turbano. Le passioni sono gli umori dell'animo, e qualunque eccesso di esse cagiona infermità alla saggezza; e se il male va sino alla bocca, correrà pericolo la reputazione. Bisogna dunque che il savio sia così signore di sé, e così gran signore che, sia nella maggiore prosperità che nella maggiore avversità, non possa alcuno censurarlo di essere perturbato, ma ammirarlo, invece, sereno.
Baltasar Gracian (1601-1658)

23 - Sui cenni con l'occhio (Ibn Hazm)

Alle allusioni in parole seguono, una volta gradito l'amore e stabilitasi un'armonia fra i due, i cenni con l'occhio. Questi sono assai apprezzati in tale situazione, e raggiungono effetti meravigliosi; coi cenni dell'occhio si troncano e si allacciano legami, si fanno promesse e minacce, si sgrida e si rincuora, si fanno comandi e divieti, si colpiscono gli sciocchi, si ride e ci si rattrista, si domanda e si risponde, si nega e si dona. Ognuno di questi sensi ha un suo genere di occhiata che solo la diretta visione può definire, e di cui solo una piccola parte può raffigurarsi e descriversi. Dirò di quelli fra questi significati che si possono più facilmente spiegare: un cenno con la coda d'un occhio solo equivale a un divieto; un'occhiata languida è segno di consenso, uno sguardo fisso indica un dolersi e rammaricarsi, un batter l'occhio è segno di gioia; un serrar l'occhio indica minaccia, un volger la pupilla da una parte e poi subito ritrarla è un metter in guardia contro una persona indicata, un occulto cenno con ambedue gli occhi è una domanda, un rapido spostare la pupilla dal centro all'angolo interno dell'occhio attesta il diniego, un far rotare ambedue le pupille dal centro degli occhi equivale a un assoluto divieto; il resto non può intendersi che con la visione diretta.
Gli occhi tengon le veci dei messaggeri, e per mezzo loro si viene a capire ciò che si desidera. I quattro sensi sono delle porte pel cuore, e degli spiragli per l'anima, e l'occhio è il più efficace e valido dei sensi nell'indicare e il più comprensivo nell'agire. Esso è il verace esploratore dell'anima, la sua retta guida, il suo lucido specchio con cui essa contempla il vero, afferra le qualità, percepisce le sensazioni. Si è ben detto: "Chi sa per relazione avuta non è pari a chi vede coi propri occhi". E di ciò parla Filemone, l'autore della “Fisiognomica”, e sull'occhio appunto ha fondato i suoi giudizi. Ti basti pensare, circa la facoltà di percezione dell'occhio, che quando il raggio che da esso si diparte incontra un raggio lucido e limpido, o d'una lama forbita o di un vetro o d'acqua o di una pietra polita, o di altra cosa levigata e lucente che brilli e scintilli o lampeggi, le cui estremità siano in contatto con un corpo opaco, non trasparente, ed oscuro, allora il raggio dell'occhio si rifrange indietro, e il riguardante vede se stesso e coglie coi suoi occhi la sua propria immagine: è appunto ciò che vedi nello specchio, là dove è come se tu guardassi a te con l'occhio di un altro. Una prova oculare di questo è che se prendi due grandi specchi e ne tieni uno con la destra dietro il tuo capo, e l'altro con la sinistra di fronte al viso, e poi lo sposti leggermente ad angolo in modo che i due specchi si incontrino affrontati, riesci a vedere la tua nuca e tutto ciò che sta dietro di te, per il riflettersi della luce dell'occhio verso quella dello specchio che ha dietro, non trovando essa modo di penetrare in quello che hai davanti: non trovando del pari passaggio di là dal secondo specchio, essa si dirige verso il corpo che le sta di fronte.
Basterebbe notare, circa la virtù dell'occhio, che la sua sostanza è la più elevata, perché fatta di luce: solo con esso si percepiscono i colori, né esiste cosa che più di esso abbia lontana mira e remoto obbiettivo, giacché grazie ad esso si scorgono i corpi stellari nelle remote sfere celesti, e il cielo con tutta la sua altezza e lontananza; il che accade solo per il fatto dell'occhio è congiunto nella sua propria natura con quello specchio del cielo, e quindi lo percepisce e giunge ad esso d'un balzo, non già percorrendo un luogo dopo l'altro, fermandosi a tappe, e con momenti successivi di marcia. Ciò non avviene a nessun altro dei sensi, come il gusto e il tatto, che percepiscono solo per l'immediata contiguità dell'oggetto, e l'udito e l'odorato che percepiscono solo da vicino. Prova del balzo di cui abbiam parlato è il fatto che tu vedi la fonte del suono prima di udire il suono stesso, anche se cerchi di cogliere le due percezioni insieme; se le due percezioni ne facessero una sola, l'occhio non precederebbe l'udito.
Ibn Hazm (994 - 1064)

24 - Sulla corrispondenza epistolare (Ibn Hazm)

A questo segue, quando i due amanti hanno allacciata la relazione, la corrispondenza epistolare. Gli scritti sono dei segni denunziatori: e ho visto chi si trovava in tali condizioni affrettarsi a farli in pezzi e a farne sparire le tracce.
Quanto spesso uno scandalo è scoppiato per causa di uno scritto! A tal proposito ho scritto questi versi:

Ben mi rincresce oggi il dover
la vostra lettera lacerare, ma l'amore
non si è trovato ancor chi lo laceri.
Ho quindi preferito che rimanesse l'affetto
e l'inchiostro si distruggesse,
ché il ramo vien dietro alla radice.
Quanti scritti han contenuto in sé
la morte del loro autore, né egli lo sapeva
quando le dita li vergavano!

Bisogna che la forma dello scritto sia quanto mai fine, e il suo genere quanto mai leggiadro, giacché davvero lo scritto è talvolta come una parola, sia per un impedimento in cui l'uomo si trovi a usarla direttamente, sia per pudore o per soggezione. Tanto che l'arrivo stesso dello scritto all'amato, e la conoscenza dell'amante che quello è pervenuto in mano al destinatario e che quegli l'ha visto, hanno in sé per l'amante un mirabile piacere che tien luogo della diretta visione; così come la risposta e il poterla leggere contengono una gioia pari a quella che dà l'incontro. Perciò vedi l'amante mettersi la lettera sugli occhi e sul cuore, e abbracciarla; e io ho conosciuto un innamorato che sapeva bene come esprimersi, parlava ottimamente, e diceva oralmente benissimo quanto aveva nell'animo, che era un buon osservatore e preciso e sottile, e con tutto ciò non tralasciava punto la corrispondenza epistolare, pur avendo la possibilità di trovarsi assieme all'amor suo, con la casa vicina, e facile opportunità di visita. Si dice che vi siano qui vari generi di piacere: mi è stato persino raccontato di un volgare mascalzone che si metteva la lettera della persona amata sul membro: genere ignobile, questo, di piacere venereo, e abbietta sorta di libidine. Ma conosco chi soleva stemperare le lacrime nell'inchiostro, a cui l'amato rendeva la pariglia stemperando nell'inchiostro la saliva; sul che io ho fatto questi versi:

Mi è giunta una risposta a una lettera
da me inviata, e ha calmato un'eccitazione,
ed eccitato una calma.
Irrorai lo scritto delle lacrime dell'occhio
quando lo scrissi,
come fa un amante dal sincero amore.
E le lacrime dell'occhio ne andaron
via via cancellando le righe;
o lacrime mie, avete cancellato delle bellezze!
Il principio dello scritto fu reso chiaro
dalle mie lacrime, e la sua fine scomparve
per effetto delle mie lacrime stesse.

Vidi una volta una lettera d’un amante al suo amato: l'autore si era incisa la mano con un coltello e aveva usato come inchiostro il sangue sgorgato, scrivendo con esso l'intera lettera. Vidi la lettera dopo che s'era asciugata, e non avrei dubitato che fosse scritta con tinta lacca.
Ibn Hazm (994 - 1064)

25 - Ascesi ed erotismo (Rosa Mayreder)

Nelle condizioni sociali come nell'anima nostra il passato permane più di quel che non si creda. Tale permanere di un passato del quale non acquistiamo conoscenza in maniera diretta rende confuso e contraddittorio il presente ove non si comprendano i nessi storici. Ciò è vero soprattutto nel campo sessuale. Lo stato di cose che in esso si è venuto formando durante il corso della storia presenta una tale confusione, sia degli istinti che delle valutazioni, da far pensare ad una vera e propria degenerazione.
Il paragone fra il nostro modo di procedere nelle cose sessuali e quello dei popoli primitivi non ridonda a favore dell'umanità civile; né si può negare che la vita sociale di quei popoli, come pure le loro idee intorno alla sessualità, rispondano molto meglio delle nostre all'importanza che spetta all'istinto sessuale come mezzo di conservazione della specie. In se stesso, quale sorgente di un eterno rinnovamento della vita, l'istinto sessuale va considerato con rispetto; è quindi logicamente comprensibilissimo il fatto che nelle primitive concezioni religiose l'atto sessuale fosse inteso come alcunché di sacro agli dei, come sacrificio da offrirsi.
Fanno testimonianza di ciò molti usi in vigore presso diversi popoli dell'antichità; così il costume babilonese che obbligava ogni donna a sacrificare la propri verginità nel tempio di Astarte, così l'istituzione greca dei “servitori del tempio” nei luoghi destinati al culto d'Afrodite. La concezione dell'atto sessuale quale atto sacrifico appare con la massima evidenza in quegli antichi culti dei boschi e dei campi che mettevano in relazione la fertilità del suolo con la prolificazione umana. La caratteristica per cui questi costumi contrastano essenzialmente con le idee appartenenti a stadi posteriori di civiltà è il loro legame con il campo religioso della vita psichica.
Questo atteggiamento reverente nei riguardi delle cose sessuali scompare interamente nelle epoche successive. Allora non solo la dissolutezza e la lascivia trasformano nella vita tutto ciò che è inerente al sesso in qualche cosa di osceno, di volgare, di ridicolo, ma persino gli uomini più seri, quelli che sentono più elevatamente la vita, rinnegano la sessualità, la fanno oggetto di vergogna, di rimorso di rivolta morale.
Donde proviene - considerata come sintomo di uno stato d'animo generale - l'ac canita ostilità che la sessualità scatena nei moralisti d'ogni tempo? Donde l'importanza metafisica che l'ascesi assume in ogni concezione della vita intesa ad elevare l'uomo? Perché in tutte le civiltà coloro che sono considerati modelli, maestri, conduttori siano essi profeti ebraici, filosofi greci o romani, santi buddisti o cristiani sogliono prendere di fronte allo sfrenato esplicarsi dell'istinto naturale un atteggiamento di opposizione? Questi uomini superiori non hanno forse causato un fatale traviamento nella vita sentimentale dell'uomo mettendola irreparabilmente in contrasto con le insopprimibili esigenze della natura?
Le cause della opposizione ascetica alla sessualità si sogliono far risalire alle idee cristiane che per tanti secoli dominarono il mondo occidentale. Ma quella opposizione non è originale del Cristianesimo. Essa ha ben più lontane radici nella storia dello spirito umano. Effettivamente la tendenza ascetica della rinunzia è di molto anteriore al Cristianesimo. Già nella libertà sessuale dei popoli meno evoluti esiste una incoerenza; si ritrova infatti presso di essi l'idea di “impurità” connessa con gli atti sessuali, idea che particolarmente informa le prescrizioni riguardanti le funzioni religiose. “È regola ampiamente diffusa - dice il Westermark parlando dei popoli primitivi - che chiunque compia un atto sacro o entri in un luogo consacrato debba essere assolutamente puro; e non v'è impurità più temuta di quella sessuale". L’imposizione della continenza in determinate epoche e a determinati scopi si ritrova anche presso popoli altrimenti liberi da idee ascetiche, ad esempio presso i Maomettani ai quali durante i pellegrinaggi alla Mecca è prescritto di mantenersi casti.
Anche là dove non appare ancora traccia di ascetismo nel senso di opposizione alla sessualità, viene attribuita alla castità una grande importanza. Infatti i popoli selvaggi che si impongono la castità in tempo di guerra sanno per esperienza che la soddisfazione del desiderio sessuale non è compatibile con uno speciale impiego di forze in altro campo. E poiché un tale impiego di forze è richiesto in particolar modo dalle opere spirituali, il clero, quale intermediario col divino, manifesta sin dagli inizi la tendenza ad eliminare mediante l'austerità della vita la propria disposizione alla sessualità. I popoli più diversi sviluppano indipendentemente l'uno dall'altro questa idea dell'importanza della castità. Così, i Neoplatonici insegnavano che l'uomo non arriva alla sfera del divino, che le sue preghiere non vengono esaudite, se egli non è diventato “puro” mediante la castità. In tutt'altra cerchia di civiltà i Mori professavano la credenza che i passi del Corano avessero efficacia contro gli spiriti maligni soltanto se pronunciati da un uomo casto. L'osservazione che il resistere alla violenza dell'istinto naturale cresce la forza dell'uomo in altre direzioni sembra risalire a tempi molto remoti. Questo fatto vien definito dalla psicologia moderna come sublimazione. Sublimazione degli impulsi sessuali, cioè trasformazione di un atto fisico in un atto spirituale. Ciò presuppone che l'energia destinata all'atto fisico venga invece impiegata in un'attività spirituale. Se una tale trasposizione di valori fosse realmente possibile, essa giustificherebbe l'idea primitiva che la castità produca una elevata potenza spirituale, o, per esprimerci col linguaggio degli antichi, che essa conferisca un potere “magico”.
Di qui sorge nell'uomo il primo dissidio fra la vita spirituale e la sessualità. Non appena l'attività spirituale è subordinata ad una limitazione dell'elemento sessuale, le pretese della sessualità non possono più essere illimitate. E quanto più crescono le esigenze spirituali, tanto maggiore importanza acquistano anche il superamento e la repressione degli impulsi sessuali.
A questo riguardo due mondi si distinguono nella natura umana. Da essere sensuale sottoposto alle potenze elementari della natura l'uomo incomincia a trasformarsi in essere spirituale ed a contrastare tali potenze in virtù di una facoltà che fra tutte le creature egli solo possiede. Corpo e anima appaiono allora alla coscienza umana come campi separati, anzi come principi opposti. Da questa separazione scaturisce una mirabile idea che per millenni dominò l'umanità con religiosa potenza: l'idea che un demone di natura superiore, l'anima, abiti nel corpo umano, che il corpo altro non sia che una prigione dell'anima, e che questa abbia la sua vera patria nell'aldilà, nel mondo divino.
L'origine di tale idea si perde nelle tenebre della storia. Dapprima essa è tenuta celata quale dottrina segreta, ed è comunicata soltanto a pochi iniziati. Nel mondo greco, tutto proteso, verso la gioia terrena, essa appare con gli Orfici ed i Pitagorici, per assumere più tardi con Platone una forma filosofica accessibile a tutti ed estendersi poi sempre più nel pensiero dell'umanità civile. Quale dottrina, infatti, potrebbe avere sull'uomo maggior presa di questa che afferma l'immortalità dell'anima? L'uomo non più essere effimero abbandonato ai demoni delle potenze naturali, ma creatura unita al divino, viene a trovarsi in una nuova relazione col mondo. Ma la condizione per giungere a questo è appunto l'ascesi. L'ascesi, cioè il freno creato dalla volontà, o più ancora la completa mortificazione dei desideri corporei e delle passioni a pro di una idea superiore. Infatti tutto ciò che lega l'anima al corpo ne ostacola o ne impedisce l'elevazione nel mondo tutto spirituale e divino.
Soltanto da ultimo questa concezione ha raggiunto nell'ascesi cristiana le sue estreme conseguenze quale idea fondamentale della coscienza religiosa. Perciò l'asceta cristiano diventa sempre più recisamente avverso alla sessualità. Le lotte e i turbamenti che questa gli procura rafforzano in lui la credenza che essa sia campo di potenze nemiche contrarie al divino. L’interpretazione fantastico-metafisica degli stati intimi dell'individuo, alimentata dagli effetti fisici della castità i quali nei temperamenti violenti, passionali, esuberanti assumono le forme più strane, dà luogo ad un sistema di idee in cui persino la più importante funzione della vita sessuale, la riproduzione, viene deprezzata in confronto ai vantaggi della castità. All'obiezione che la specie umana si estinguerebbe se tutti gli uomini rimanessero incondizionatamente casti, Sant'Agostino risponde: “Così fosse! Il regno di Dio si sostituirebbe allora all'esistenza terrena".
Se è vero che il Cristianesimo è una sintesi di elementi spirituali ellenici e giudaici, la sua tendenza ascetica deriva presumibilmente da influssi orfico-platonici. Nell'etica sessuale giudaica quale ce la tramanda l'Antico Testamento, non riscontriamo alcuna traccia di opposizione ascetica alla sessualità. L’istinto sessuale L’istinto sessuale è giustificato allo scopo della riproduzione, e la caduta della prima coppia umana, che ebbe per conseguenza la cacciata dal paradiso, non viene attribuita ad un atto sessuale. Geova che impone al suo popolo di moltiplicarsi illimitatamente, punisce soltanto gli atti sessuali che contrastano con tale scopo. C'é tuttavia nella dottrina segreta giudaica, la Cabala, un'idea non conciliabile con l'incondizionata adesione alla sessualità. La Cabala insegna che esiste una maniera di procreazione superiore a quella sessuale, cioè la procreazione per mezzo di “immaginazione magica”. Il primo Adamo, l'Adamo Cadmone, essere androgino, avrebbe posseduto la facoltà di riprodursi per mezzo della immaginazione magica. Solo con la caduta, che rappresenta la discesa dal mondo spirituale al mondo dei sensi, Adamo perdette questa facoltà e con essa il paradiso, per condurre da allora in poi, come creatura distinta in due sessi, una esistenza terrena infelice e soggetta alla morte. Osserviamo che alla possibilità della generazione per mezzo dell'immaginazione magica credeva ancora il grande naturalista Paracelso. Egli chiamò "salnitrica" la riproduzione per via sessuale e la considerò riprovevole in quanto impedimento alla procreazione magica alla quale diede il nome di "iliastrica".
Questi strani concetti hanno per noi unicamente valore di sintomo, poiché ci rivelano l'atteggiamento, assunto dallo spirito umano, durante la sua evoluzione, rispetto alla sessualità. Il fatto che questo atteggiamento sia identico nelle epoche e presso i popoli più diversi ci induce a ricercarne la prima ragione nella natura umana. Per quanto errata ed assurda appaia la negazione ascetica della vita sessuale considerata soltanto in rapporto con le leggi naturali della riproduzione, accade tuttavia che il controsenso si trasformi in una conseguenza logica non appena si ammetta che un'esistenza puramente spirituale, un'attuazione del regno di Dio, si possa realizzare mediante il superamento di tutti i così detti desideri carnali. La forza eroica con la quale lo spirito lotta per predominare nella natura umana si manifesta con la massima evidenza nelle idee che lo spirito crea attorno all'importanza metafisica della condotta sessuale dell'uomo e nelle valutazioni ad esse inerenti.
Quanto più forti sono le esigenze dello spirito, tanto maggior danno questo risente dalle esigenze della sessualità. Il primo tra i cristiani a farne testimonianza fu S. Paolo. Infatti i Vangeli, espressione di anime semplici, non contengono alcuna tendenza ascetica, a meno che a causa della parentela con la generazione per via di immaginazione magica non si voglia far derivare l'idea, della immacolata concezione di Gesù da una negazione ascetica della pirocreazione naturale. È bensì vero che l'origine di certi eroi fu anticamente ricondotta a fatti meravigliosi esulanti dalla sfera sessuale, senza che ciò implicasse una svalutazione della generazione naturale.
In San Paolo la tendenza ascetica si rivela evidente; egli è il primo della lunga serie di santi cristiani che cercarono nella mortificazione della carne la via per giungere a Dio. Egli esprime con accenti commoventi il dissidio della natura umana divisa fra le esigenze del corpo e quelle dello spirito: "Io veggo una legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente (...) Poiché il bene che voglio non lo fo, ma il male che non voglio quello fo (…) Io stesso adunque con la mente servo alla legge di Dio, ma con la carne quella del peccato".
In questo dissidio si rivela anche in parte il motivo 'psicologico' dell'ideale di vita ascetico. Il motivo obiettivo - spirituale ebbe origine dalla persuasione che il senso della vita sia soltanto una preparazione, una prova in vista del destino ultraterreno dell'uomo. Con ciò si veniva ad ammettere che l'anima è immortale e di appartenenza divina, mentre il corpo coi suoi istinti è soggetto alla morte ed escluso dal regno di Dio.
Il motivo soggettivo - psicologico dell'ascesi non è invece altrettanto evidente. Qui sorge la domanda: Quale fu il fatto spirituale che determinò l'opposizione alla sessualità? Quale processo psichico indusse gli asceti del passato a vedere proprio nella sessualità qualche cosa di peccaminoso, un impedimento alla redenzione, un allontanamento da Dio?
Oltre alla limitazione delle esigenze spirituali prodotta dagli impulsi sessuali, limitazione che pone il cervello ed il sesso quali termini antitetici, la vita dell'anima subisce anche un'altra menomazione da parte della sessualità. È la legge fisiologica che ad ogni eccitazione segua un rilassamento, il grado del quale è determinato dal grado di tensione. Nella sfera sessuale, in cui l’organismo compie il suo massimo sforzo fidiologico, anche la reazione è massima. “Omne animal post coitum triste". Nell'uomo la reazione somatica dà luogo ad una reazione psichica il cui effetto può essere funesto. Il ritorno allo stato normale, creando una specie di ripugnanza fisica e persino di schifo per ciò che poco prima era oggetto del più violento desiderio, analogamente a quanto avviene nella nutrizione dopo il soddisfacimento della fame, assume facilmente nella coscienza il carattere di sazietà o di pentimento. Le sensazioni spiacevoli della reazione fanno sì che se ne condanni la causa come qualche cosa di ingiusto, di peccaminoso, di ostile alla natura superiore dell'uomo. L’aspirazione all'equilibrio psichico, che in così larga misura determina i valori della vita, viene turbata dall'atto sessuale, e quanto più l'individuo è sensibile tanto più penoso gli riesce questo turbamento del suo equilibrio interno, specie se egli è dominato dall'ambizione spirituale. Questa ambizione non tollera che alcun'altra potenza venga a menomarla per far luogo ad impulsi elementari. A ciò si aggiunge che i mali e le sofferenze di cui è afflitta l'esistenza terrena diventano sempre meno sopportabili con l'approfondirsi della vita spirituale. Il miglior modo per sfuggir loro è rifugiarsi in uno stato d'animo contemplativo il cui equilibrio non venga compromesso dalle passioni.
Questo è il motivo dominante dell'ascesi buddistica. Poiché non solo il piacere, ma anche il dolore porta con sé un perturbamento dell'equilibrio psichico, la vita dello ”yogi” tende ad uno stato di isolamento immobile che per lui significa preparazione al “nirvana”. Tuttavia non gli è lecito concepire nemmeno il nirvana come uno stato di beatitudine; non l'amor di Dio lo induce a superare il mondo, bensì unicamente l'aspirazione ad annientare in lui una forma d'esistenza che in nessun altro modo può essere liberata dal dolore.
Interamente diverso è l'atteggiamento dell'ascesi cristiana di fronte al dolore. Per essa il dolore rappresenta la via per giungere a Dio. Essa distingue tra affetti inferiori e affetti superiori; quelli che appartengono al dominio transitorio e spregiato della corporeità, questi al divino ed eterno regno dello spirito di cui l'estasi con le sue rivelazioni celesti è la forma più sublime. Gli stati di estasi a quanto sembra, si possono ottenere soltanto a prezzo di assidue macerazioni, e specialmente mediante il digiuno. Infatti molte persone sottopostesi per motivi di salute alla cura del digiuno attestano di aver avvertito negli stadi avanzati di questa una particolare chiarezza e levità spirituale.
All'asceta cristiano del primo millennio erano negati i piaceri puramente sessuali, né la sua costituzione gli concedeva le estasi derivanti dalla fusione dell'anima coi sensi. Egli, concependo l'amore unicamente come uno stato d'animo privo di qualsiasi carattere sessuale, si adoperava con ardore a svilupparlo in sé sottoforma di amor del prossimo e di amor di Dio, allo scopo di impedire con ogni sforzo che moti sessuali venissero a turbarlo.
Per una siffatta costituzione psichica la mortificazione della carne è l'unica via di liberazione dalle strettoie di un dilemma insolubile. Nelle persone spiritualmente orientate il dissidio fra spirito e corpo, il fatto che la capacità d'amore non eserciti la sua azione mediatrice fra l'istinto sessuale e personalità, genera una ripugnanza alla sessualità congiunta a valutazioni negative ed accompagnata tra l'altro da giudizi sfavorevoli sulla donna. Basti ricordare San Gerolamo che chiamò la donna “porta dell’inferno” mentre l'inferno era probabilmente nel dissidio esistente in lui. Gli è che l'uomo cerca di giustificare con la propria concezione della vita le sue disposizioni individuali; il modo con cui ciascuno spiega la vita è il commento intellettuale del suo io. Ma il rapporto fra il processo intellettuale da cui sorge la concezione di vita e la costituzione psichica dello individuo pensante si rivela raramente con segni visibili. Si è cercato di determinare il suddetto rapporto in taluni pensatori moderni, in Schopenhauer ad esempio, ed in Weininger, entrambi degni seguaci di San Gerolamo nella loro estimazione della donna, quanto ai pensatori antichi le cui vicende noi conosciamo, nella migliore delle ipotesi, sotto l'aspetto esteriore, ci mancano quasi interamente i punti di riferimento. Risulta tuttavia dalle succitate parole di S. Paolo che alla base delle loro concezioni stava il dissidio fra le esigenze della vita spirituale e quelle della vita sensuale. A questo dissidio allude anche Sant'Agostino nelle Confessioni: “È la medesima anima che vuole con volontà non integra e piena questo o quello, e prova uno strazio dolorosissimo”. San Paolo e Sant'Agostino sono i primi testimoni di uno stato d'animo che molti secoli più tardi il vate di una nuova umanità (Goethe) esprimeva con le famose parole: “Misero, due anime albergano nel mio petto, e vi si guerreggiano continuamente, e l'una vorrebbe pur svilupparsi dall'altra. L'una con intenso indomabile amore si tiene alla terra, e vi si aggrappa duramente con gli organi del corpo; l'altra si leva impetuosa su questo oscuro soggiorno verso le sedi dove abitano gli alti nostri progenitori”.
Per trovare nella storia una valutazione dell'ascesi indipendente dalle illusioni religiose a questa congiunte, dobbiamo fermarci al tempo in cui, dopo gli sconvolgimenti prodotti in Germania dalla guerra dei Trent'anni, sorgono nuovi ideali di vita spirituale.
Intendiamo parlare dell'epoca che va dalla metà del diciottesimo secolo alla prima metà del diciannovesimo. Sorvoliamo sul fenomeno della galanteria prodottosi in Francia sotto Luigi XIV, essendo esso più affine all’”Ars amansi” ovidiana che all'erotismo interiorizzato che forma l'oggetto della presente trattazione. Un secolo più tardi si inizia in Germania una notevole trasformazione dei costumi e delle idee, avente di mira l'ideale del matrimonio d'amore. Fino allora si era generalmente riconosciuta come motivo fondamentale del matrimonio la convenienza sociale ed economica.
Da quel momento l'amore reciproco si afferma sempre più quale movente primo dell'unione matrimoniale. La concezione del matrimonio come vincolo d'amore significa il trionfo dell'erotismo su tutte le barriere separatrici esterne e interne. Contemporaneamente però emerge nell'ideale di vita proprio dell'epoca classica l'elemento ascetico, il quale solo può garantire la durata del matrimonio d'amore.
Il suddetto ideale si serve dell'ascesi a vantaggio di un ordine di vita estetico; esso oltrepassa tanto la concezione della pietà cristiana ostile ai sensi quanto la superficiale arte di vivere del libertinismo galante.
Mentre nella sua forma assoluta l'ascesi rappresentò una tirannia dello spirito intollerante di qualsiasi altra elementare potenza di vita, l'ideale della civiltà classica fu un regime di maggiore libertà sia nelle relazioni sociali che nella costituzione della personalità. Esso, valse dell'ascesi non come mezzo per superare il mondo, ma come strumento di conciliazione interiore, come via per raggiungere l'armonia della vita psichica. La sensualità, se frenata, può sussistere onoratamente in quel regime oligarchico nel quale la personalità umana governa in accordo con le potenze della vita elementare. Anche qui l'ascesi corrisponde al significato originario del termine. Essa è un esercitarsi a dominare la vita istintiva mediante le superiori forze dell'anima; a dominare, non a reprimere o a distruggere. L'istinto non dominabile sarà nemico della personalità, l'istinto come forza frenata sarà il suo più valido appoggio. È quindi necessaria una differenziazione di grado degli impulsi inferiori, una valutazione della vita conforme alle necessità superiori di cui le principali sono l'accordo con se stessi e la difesa della personalità contro le irruzioni delle forze elementari. Se la libertà esteriore consiste nell'essere sciolti dalle obbligazioni e dalle convenzioni esterne, la libertà intima consiste invece nell'indipendenza degli incalcolabili impulsi della natura fisica. Solo chi abbia costituito la propria persona in modo che essa, superando gli impulsi inferiori, si attenga a quelli superiori, non per capriccio ma per inclinazione, può dirsi intimamente libero.
La più bella definizione di questa forma di esistenza, documento imperituro di un alto sviluppo della personalità, è stata data dallo Schiller nel trattato sulla "leggiadria e la dignità". Ciò che Schiller chiama "leggiadria" è l'espressione della sensualità bella. Come la libertà sociale sta tra la pressione legale e l'anarchia, così per lui la bellezza sta nel punto intermedio fra la dignità quale espressione dello spirito dominante e il piacere quale espressione dell’istinto dominante. La condizione a che l'elemento estetico insito nell'uomo si realizzi è uno stato d'animo nel quale si accordano ragione e sensualità, dovere e inclinazione. Gli amanti esigono dall'oggetto del loro amore la dignità, sola garanzia che il loro legame sia stato stretto non dal bisogno ma dalla libera scelta. L'amante non vuol essere desiderato come una cosa, ma stimato come una persona.
Noi vediamo che il concetto schilleriano della dignità come parte costitutiva dell'erotismo psichico contiene un elemento dell'ascesi, quando per ascesi si intenda non l'arbitraria repressione della natura sensuale ma il dominio di essa per opera dello spirito, il che per l'appunto noi abbiamo definito come “ascesi affermatrice della vita” e come “condizione per la sublimazione della sessualità nell'amore sessuale”.
La concezione dell'ascesi come valore della personalità fu propria di quasi tutti i grandi di quell'epoca. Dice Fichte: “Ogni forza umana si conquista nella lotta con se stessi”. Goethe altresì celebra uno stato ascetico quale ultimo segreto dell'intima superiorità personale: “L'uomo che domina se stesso si libera dalla forza che incatena tutte le altre creature”.
Con questo non si propugna il rinnegamento del mondo terreno nel senso dell'ascesi assoluta, e ancor meno la negazione paolina della autocoscienza umana di fronte a Dio, l’onnipotente vasaio che dispone a suo talento dell'uomo come un mero oggetto, bensì, in evidente accordo e nello stesso tempo in contrasto con ciò, la massima esaltazione della personalità umana il cui valore si manifesta appunto nel superamento.
Ne abbiamo una testimonianza nelle parole che precedono il passo citato: “Non è meraviglia che l'uomo posto in alto da natura compia opere egregie; di ciò sia lode al Creatore che tanto eleva la fragile argilla; ma lietamente si additi l’uomo che dominando se stesso ha superato la più ardua prova della vita, giacché si può dire che quella è veramente opera sua".
Queste parole aprono infinite prospettive. Tutto ciò che di più profondo è stato detto intorno alla grazia, alla predestinazione, al libero arbitrio e al determinismo si concentra qui come un fuoco ottico per il trionfo della personalità umana. La coscienza della personalità, al grado di sviluppo a cui è giunta dopo diciotto secoli, rende il problema logicamente insolubile e lo trasferisce nell'atto del dominio di sé. La catena della necessità è spezzata, la volontà sta libera di fronte al destino incapace di infrangerla.
Rosa Mayreder

26 - Un diario (Enrico Federico Amiel)

Berlino, 16 dicembre 1847. - Povero giornale intimo! tu aspetti da sette mesi, ed è in dicembre che ricevi la prima prova della risoluzione presa in maggio. O meglio, povero me! Non sono libero, perché non ho la forza di eseguire la mia volontà. Ho riletto le mie note di quest'anno. Ho previsto tutto, mi son dette le cose più belle, ho intravisto le più seducenti prospettive, e sono ricaduto, ed ho, oggi, dimenticato tutto.
Non mi manca l'intelligenza, ma il carattere; quando mi rivolgo al mio giudice interiore, ne ricevo parole assai chiare e giuste. Mi riconosco, ma non so farmi obbedire; di più, in questo momento godo nello scoprire i miei difetti e le loro cause, senza che la scoperta mi renda più forte contro di loro. Io non sono libero: chi lo dovrebbe essere più di me? Non ho legami esteriori, sono padrone di tutto il mio tempo e di scegliermi un fine qualsiasi; tuttavia lascio fuggire le settimane, i mesi intieri; cedo ai capricci del giorno, sono lo sguardo dei miei occhi ciechi. Pensiero terribile: ciascuno si foggia il proprio destino. Gli Indiani dicevano: “Il destino non è una parola, ma è la successione delle azioni svolte in un'altra vita”. Non è necessario salire così in alto: ogni vita si crea il proprio destino.
- Perché sei debole? -.Perché hai ceduto diecimila volte; così sei divenuto il giochetto delle circostanze; sei stato tu a creare la loro forza, non esse a fare la tua debolezza. Ho fatto scorrere davanti agli occhi della mia coscienza tutta la mia vita anteriore: infanzia, collegio, famiglia, adolescenza, viaggi, giochi, tendenze, pene, piaceri: tutto il buono e tutto il cattivo. Ho cercato di sceverare la parte della natura da quella della libertà; di ritrovare nel fanciullo e nel giovane le linee dell'essere attuale; mi sono visto in relazione con le cose, con i libri, con i parenti, le sorelle, i compagni, gli amici. Io lotto contro mali di vecchia data: è una storia lunga che un giorno dovrò scrivere. Se l'antagonismo è la condizione del progresso, ero nato per fare dei progressi.
- Tu non sei libero, perché? -. Perché non sei d'accordo con te stesso ed arrossisci davanti a te stesso; perché cedi alle tue curiosità, ai tuoi desideri. Ciò che più ti costa è la rinuncia alla tua curiosità.
Sei nato per essere libero, per realizzare coraggiosamente e pienamente la tua idea: tu sai che la pace consiste in questo: equilibrio, armonia; sapere, amare, volere; idea, bellezza, amore; vivere della volontà di Dio, della vita eterna; essere in pace con te stesso, con il tuo destino; lo sai perfettamente, hai riconosciuto e sentito sovente che quello era il tuo dovere, la tua natura, la tua vocazione, la tua felicità. Ma ad eccezione del tuo dovere in generale, non ha sufficientemente determinato la tua speciale vocazione, o meglio, non hai seriamente creduto al risultato a cui sei giunto; ti sei distratto. Dovresti rinunciare alla distrazione, concentrarti nella volontà, sopra un pensiero: ed è ciò che ti costa tanto.
Esprimere, realizzare, finire, produrre; preoccuparti di questo pensiero: esso è la sintesi dell'arte. Trova la forma in ogni cosa; il tuo pensiero vada alla conclusione, la tua parola esprima il tuo pensiero; finisci le tue frasi, i tuoi gesti, le tue letture. Semi-pensiero, semi-parola, semi-conoscenza: triste cosa. Bisogna o rinunciare alla curiosità o precisare, circoscrivere, esaurire; altrove io chiedevo ordine, energia, perseveranza.
Per la tua vita interiore, la dissipazione è lo scoglio che ti fa perdere di vista il tuo Io ed i tuoi progetti; nulla è per te più interessante di ciò che non dovrebbe interessarti; pertanto cedere a questa pigrizia, equivale ad aggiungere forza al tentatore, peccare contro la tua libertà, incatenarti per il domani. La forza fisica non si acquista che con esercizi graduati, costanti ed energici; graduazione, energia, continuità sono pure le condizioni della vita intellettuale e morale.
Donde mi viene il singolare difetto di prendere sempre la strada più lunga, di preferire il meno importante al più importante, di dirigermi verso il meno urgente; questo zelo per l'accessorio, quest'orrore per la linea diritta? Donde mi viene il piacere che mi fa preferire fra molte lettere da leggere, la meno interessante; fra molte visite, la meno necessaria; fra molti studi precisamente quello che più si al lontana dal cammino naturale; fra mille commissioni, la meno urgente? Trattasi soltanto della tendenza di mangiare per prima cosa il proprio pane nero? di una raffinatezza di gusto? del desiderio del completo? della fretta di approfittare dell'occasione che può fuggire, poiché il tempo - per il necessario - si trova sempre? Zelo, o mezzo di eludere il dovere, ingegnosa furberia per rinviare ciò che più importa e ciò che ordinariamente è più penoso? inganno dell'io indocile e pigro? O irresolutezza, mancanza di coraggio, rinvio dello sforzo ad altra occasione?
Le due ultime spiegazioni, che assommano in una sola, mi sembrano le vere.
"Tempo guadagnato, tutto guadagnato" dicono i diplomatici. Il cuore, fine diplomatico, fa la stessa cosa: non rifiuta, rinvia soltanto. Il rinvio, se non è effetto di risoluzione, è disfatta della volontà. Non rimandare a domani che ciò che è possibile fare oggi ...
Considerato tutto questo, il cuore prende nota della seguente decisione: 1. Come garanzia, scrivere tutte le sere qualche parola di giornale; la domenica, revisione della settimana; la prima domenica del mese, revisione del mese; e alla fine dell'anno, revisione dell'anno. 2. Conclusione positiva: decidere ciò che devo fare, in relazione al tempo e ai mezzi concessimi. Ritornerò su questo punto.

Berlino, 20 luglio 1848. - Giudicare la nostra epoca dal punto di vista universale, la storia dal punto di vista dei periodi geologici, la geologia dal punto di vista dell'astronomia, è dare al pensiero libertà di volo.
Quando la durata d'una vita umana o di un popolo ci appare microscopica quanto quella di un moscerino; e, inversamente, la vita d'un effimero infinita quanto quella di un corpo celeste con tutta la sua polvere di nazioni, noi ci sentiamo ben piccoli e ben grandi, e possiamo dominare dall'altezza delle sfere la nostra esistenza e i piccoli turbini che agitano la nostra piccola Europa.

Ginevra, 3 giugno 1849. - Tempo delizioso, fresco e puro. Lunga passeggiata mattutina. Sorpreso in fiore il biancospino e la rosa di macchia. Tenui e salubri profumi campestri. I Voirons orlati da un lembo di nebbia abbagliante, il Salève rivestito da belle sfumature vellutate. Lavori nei campi. Due asini graziosi, l'uno dei quali bruca con avidità una siepe di crespino. Tre fanciulletti; ho avuto un desiderio smisurato di abbracciarli. Godere l'ozio, la pace dei campi, il tempo bello, gli agi; avere con me le mie due sorelle; riposare gli occhi sui prati profumati e sui verzieri schiusi; udir cantare la vita sulle erbe e sugli alberi; essere sí dolcemente felice, non è troppo? è meritato? Oh! godiamo senza rimproverare al cielo la sua benevolenza; godiamo con gratitudine. I giorni cattivi vengono presto e numerosi. Non ho il presentimento della felicità. Approfittiamo maggiormente del presente. Vieni, buona Natura, sorridi e affascinami. Vela per qualche tempo le mie tristezze e quelle degli altri; non lasciarmi vedere che i drappi del tuo mantello da regina; nascondi le miserie sotto gli splendori.

Ginevra, 30 dicembre 1850. – Stamane, appena desto, ho molto pensato al rapporto fra pensiero e azione; una formula bizzarra, semi-notturna, mi sorrideva; l'azione non è che il pensiero inspessito, divenuto concreto, oscuro, incosciente. Mi pareva che le nostre più piccole azioni: mangiare, camminare, dormire, fossero la condensazione di una molteplicità, di verità e di pensieri, e che la ricchezza delle idee disperse fosse in ragione diretta della volgarità dell'azione come nel sogno, che tanto più è attivo quanto più noi dormiamo profondamente), il mistero ci assilla; la più gran somma di misteri è celata in ciò che si vede e che si fa ogni giorno. Per mezzo della spontaneità, noi riproduciamo analogicamente l'opera della creazione: incosciente, è l'azione semplice; cosciente, è l'azione intelligente e morale. In realtà, questa è la sentenza di Hegel: “Alles Wirkliche ist vernünftig und alles Vernünftige wirklich”. (Tutto ciò che è reale è razionale e tutto quello che è razionale è reale); ma non m'era mai parsa così evidente e palpabile. Pensiero, è tutto ciò che è ma non pensiero cosciente e individuale. L'intelligenza umana è la coscienza dell'essere, ciò che altra volta ho formulato così: "Tutto è simbolo del simbolo, e simbolo di che? Dello spirito.”

Ginevra, 15 agosto 1851. - Grande cosa è saper essere pronto! Facoltà preziosa che implica calcolo, penetrazione e decisione. Occorre saper tagliare netto, poiché non tutto si può sciogliere; districare l'essenziale, l'importante dalle minuzie che non hanno mai fine: in una parola, semplificare la propria vita, i propri doveri, i propri affari, il proprio bagaglio, ecc, È strano come di solito siamo incapestrati, impigliati in ostacoli e doveri innumerevoli che non esistono e che, tuttavia, impacciano i nostri movimenti. Saper finire è, in ultima analisi, saper morire, è saper sceverare le cose veramente necessarie e rimettere le altre al loro posto. Per essere liberi quanto più è possibile in ogni momento, occorre avere molto ordine. Il disordine ci rende schiavi: il disordine di oggi sconta la libertà di domani.
Le cose che lasciamo indietro si drizzeranno più tardi al nostro cospetto e ingombreranno il nostro cammino. Ogni nostro giorno regoli ciò che lo concerne, liquidi i suoi affari, rispetti il giorno che segue, ed allora saremo sempre pronti. L’ingombro nuoce al benessere, alla libertà, alla chiarezza, e l'ingombro nasce dall'abitudine a differire.
Non rinviare dunque al domani ciò che puoi fare oggi. Nulla è fatto, finché qualche cosa rimane da fare: il valore del maestro si misura dalla sua capacità a finire.

Ginevra, 2 dicembre 1851 - La legge del segreto. Fa come la pianta; proteggi con l'oscurità tutto ciò che germina in te, pensiero o sentimento e non rivelarlo che già formato. Ogni concepimento deve essere avviluppato dal triplice velo del pudore del silenzio e dell'ombra. Rispetta il mistero, poiché la profanazione di esso è cagione di morte; non mettere a nudo le tue radici, se vuoi crescere e vivere. E se ti è possibile, anche nel giorno della nascita, non convitare testimoni come fanno le regine, ma schiuditi come la genziana delle Alpi sotto il solo sguardo di Dio.

Lancy, 12 agosto 1852. - Ogni sfera dell'essere tende ad una sfera più elevata e ne ha delle rivelazioni e dei presentimenti. L'ideale, sotto tutte queste forme, è l’anticipazione simbolica di un'esistenza superiore, a cui aspiriamo. Così i vulcani portano i segreti dell'interno del globo, l'ispirazione, l'entusiasmo, l'estasi sono espressioni passeggere del mondo interiore dell'anima, e la vita umana non è che graduale assunzione alla vita spirituale. Vi sono gradi innumerevoli tanto nell'una quanto nell'altra; perciò prepara la tua futura rinascita, poiché l'ascensione divina non è che una serie di metamorfosi sempre più eteree, in cui ogni forma - risultato delle precedenti - è la condizione di quelle che seguono. La vita divina consiste in una serie di morti successive, in cui lo spirito si libera dalle sue imperfezioni e dai suoi simboli e cede all'attrazione crescente del centro di gravitazione ineffabile, del sole dell' intelligenza e dell'amore. Gli spiriti creati, che riconoscono la loro missione, aspirano a forma e costellazioni e vie lattee nell'empirico della divinità; divenendo dei, circondano il trono del sovrano di una corte abbagliante ed incommensurabile. La loro grandezza è il loro omaggio; la loro investitura divina è la più clamorosa corona di Dio. Dio è il padre degli spiriti, e il vassallaggio dell'amore costituisce il regno eterno.

Ginevra, 17 dicembre 1856 - Questa sera, seconda sessione di quartetti. Essa mi ha esteticamente assai più commosso della prima: le opere scelte erano più alte e più forti e penetravano nelle più intime regioni dell'anima. Trattavasi del quartetto in “re minore” di Mozart ed il quartetto in “do maggiore” di Beethoven, alternati da un concerto di Spohr, intitolato quartetto in “Mi”. Quest'ultimo brillante e vivo nel suo insieme, ha foga nell'allegro, sensibilità nell'adagio ed eleganza nel finale, ma non rivela che un bell'ingegno in un'anima mediocre.
Gli altri due ci mettono in contatto con il genio e rivelano due grandi anime. Mozart esprime la libertà interiore. Beethoven l'entusiasmo potente; l'uno ci affranca, l'altro ci rapisce a noi stessi.
Non credo d'aver mai sentito così distintamente e con maggiore intensità la differenza fra questi due maestri: le loro esistenze morali s'aprivano trasparenti avanti al mio sguardo, e mi sembrava di leggere in loro fino in fondo, come nel giudizio finale.
L'opera di Mozart, penetrata di spirito e di pensiero, esprime un problema risolto, l'equilibrio fra l'aspirazione e la forza, fra il potere, il dovere e il volere, la sovranità della grazia dominatrice di se stessa in cui il reale forma un tutto con l'ideale, l'armonia meravigliosa e la perfetta unità.
Il quartetto racconta una giornata di un'anima attica, che anticipa la serenità dell'Eliseo. La prima scena è un'amabile conversazione, come quella di Socrate in riva all'Ilisso: il suo carattere è la squisita urbanità dal fine sorriso e dalla parola leggiadra. La seconda scena è profondamente patetica. Una nuvola è scivolata nell'azzurro del cielo greco: un uragano, di quelli che la vita suscita inevitabilmente anche fra i grandi cuori che si stimano e che si amano, è venuto a turbare questa armonia. Quale la causa? un malinteso, una mancanza di riguardo, una negligenza? Non si sa, ma l'uragano scoppia. L'andante è una scena di rimprovero e di lagno, ma quale non può avvenire che fra immortali. Che elevatezza nel lamento, quale contenuta emozione e quale dolce nobiltà nel rimprovero! La voce trema e diventa più grave, ma rimane dignitosamente affettuosa. - La nuvola si è dileguata, il sole è ricomparso, la spiegazione ha avuto luogo, la concordia è ristabilita. La terza scena dipinge l'allegrezza della riconciliazione che, sicura ormai di se stessa, e come per mettersi malignamente alla prova, si permette un po' di leggero motteggio e di amichevole scherzo. Il finale riconduce la gaiezza temperata, la serenità felice, la libertà suprema, fiore della vita interiore, tema fondamentale dell'opera.
L'opera di Beethoven esprime la tragica ironia che fa danzare il turbine della vita sull'abisso sempre minaccioso dell'infinito. Qui non c’è più traccia d'unità, di soddisfazione, di serenità. Noi assistiamo al duello eterno fra due grandi forze, quella dell'abisso che assorbe ogni cosa finita e quella della vita che si difende, s'afferma, si dilata, s'inebria. Le prime battute rompono i sigilli ed aprono gli antri del grande abisso: la lotta comincia e continua a lungo. La vita nasce, si sollazza e scherza, spensierata come la farfalla che volteggia al disopra d'un precipizio, aumenta le sue conquiste e canta i suoi successi; fonda un regno, costruisce una natura. Ma dall'abisso spalancato s'alza il suono della tromba; i titani scuotono le porte del nuovo regno. S'impegna una battaglia formidabile; si odono gli sforzi tumultuosi della potenza caotica, simili alle contorsioni d'un mostro tenebroso. Vince finalmente la vita, ma la vittoria non è definitiva, e nella sua ebbrezza v’è un fondo di terrore e di stordimento. L'anima di Beethoven era tormentata: la passione e il desiderio dell'infinito sembrano sballottarla dal cielo all'inferno: da questo deriva la sua immensità.
Chi è più grande: Mozart o Beethoven? Vana domanda ! L'uno è più compiuto, l'altro più colossale. Il primo è la pace dell'arte perfetta, il bello immediato; il secondo è il sublime, il terrore e la pietà, e infine la bellezza. L'uno dona ciò che l'altro fa desiderare: Mozart ha la classica purezza della luce e dell'oceano azzurro, Beethoven la grandezza romantica degli uragani dell'aria e dei mari; mentre l'anima di Mozart sembra abitare le cime eteree di un Olimpo, quella di Beethoven s'arrampica rabbrividendo lungo i fianchi dirupati d'un Sinai. Benediciamo l'uno e l'altro. Ciascuno d'essi rappresenta un momento della vita ideale; ciascuno di essi ci fa del bene: amiamoli tutti e due.

Heidelberg, 11 ottobre 1861 - … Ancor più in alto si staccano nell'oriente magico le forme vaporose delle due torri-belvedere del Kaiserstuhl e del Trutz-Heinrich, separate da un vallone sinuoso.
Ma lasciamo il paesaggio. Come si svolge la vita in questa casa? Il professore W… mi dice che il suo “Handbuch” è già stato tradotto in polacco, olandese, spagnuolo, italiano e francese, che ne son già state tirate per nove volte tremila copie. La sua grande "Storia universale" ha già tre volumi pubblicati. E per fare tutto questo, non ha che quattro ore al giorno, più i giorni di festa e le vacanze. Questa capacità di lavoro è stupefacente e questa tenacità prodigiosa, “O deutscher Fleiss!…”
Questa vita di sapiente lavoratore, di compilatore erudito mi turba un po'. Mi sento così distratto, così dissipato, così sognatore, che provo un sentimento di ignoranza e di incompetenza quando mi paragono ai favolosi lavoratori che leggono, estraggono, combinano tutto, e non si arrestano mai. Perché tanto lavoro? mi domando. Per rendere popolari le conoscenze. Il mio ospite trova tempo per pensare e per sentire? Non mi pare. Il suo spirito è un specie di meccanismo adatto a macinar libri e ad eseguire altri lavori, sempre in seguito a macinatura. La sua opera principale è, a parer mio, quella di avere, per mezzo del suo lavoro, allevato una bella famiglia e reso servizio all'insegnamento generale della storia. Il suo merito è la “Gründlichkeit”; le sue doti principali sono l'ordine pratico e la chiarezza; la sua attrattiva personale la cordiale onestà. Ma non si può raccogliere presso di lui l'ombra di un'idea originale: ecco il rovescio della medaglia.

Ginevra, 8 marzo 1868 - … Quando penso alle intuizioni di ogni specie che ho avute dopo la mia adolescenza, mi pare di aver vissuto dozzine, o quasi centinaia di vite. Ogni individualità caratterizzata si modella idealmente in me o piuttosto mi forma momentaneamente a sua immagine; in quel momento non devo far altro che guardarmi vivere per comprendere questa nuova maniera di essere della natura umana. È così che sono stato madre, fanciullo, giovinetta, matematico, musico, erudito, monaco, ecc.; in quegli stati di simpatia universale, sono anche stato animale e pianta, l'animale di cui mi occupavo, la pianta presente in quel momento. Questa facoltà di metamorfosi ascendente e discendente, di déplication e di réimplication, ha qualche volta meravigliato i miei amici, anche quelli dallo spirito più sottile (Edmond Scherer). Essa deriva senza dubbio dalla mia estrema facilità di obiettivazione impersonale che, a sua volta, produce la difficoltà che provo ad individualizzarmi per conto mio, a non essere che un uomo particolare, avente il proprio numero e la propria etichetta. Rientrare nella mia pelle m'è sempre parso curioso, cosa arbitraria e convenzionale: io mi sono sempre apparso come scatola di fenomeni come luogo di visione e di percezione, come persona impersonale, come soggetto senza determinata individualità, come "determinabilità" e "formalità pura", e per conseguenza non mi sono rassegnato che forzatamente a spiegare la mia parte arbitraria di particolare iscritto nello stato civile d'una città qualsiasi, d'un qualsiasi paese. Nell'azione mi sento spostato; il mio vero stato è quello della contemplazione.
Ogni ambizione, ricerca, inseguimento è per me lavoro ingrato, diminuzione, concessione fatta all'uso per bonarietà. Non respiro a mio agio che deponendo questo mio ufficio d'imprestito e rientrando nell'attitudine alle metamorfosi.
La virtualità pura, l'equilibrio perfetto è il mio rifugio prediletto: in esso io mi sento libero, disinteressato, sovrano. È questo un invito o una tentazione?
È l’oscillazione fra i due genii greco e romano, orientale e occidentale, antico e cristiano; è la lotta fra i due ideali: quello della libertà e quello della santità. La libertà ci divinizza, la santità ci prosterna; l'azione ci limita, la contemplazione ci dilata; la volontà ci localizza, il pensiero ci universalizza. La mia anima ondeggia fra due, quattro, sei concezioni generali e antinomiche, poiché obbedisce a tutti i grandi istinti della natura umana e aspira all'assoluto, non realizzabile che nella successione dei contrari. M'è occorso molto tempo per comprendermi e talvolta mi sorprendo intento a ricominciare lo studio di questo problema risolto tanto è difficile mantenere in noi un punto immobile. Amo tutto e non detesto che una cosa: l'imprigionamento irrimediabile del mio essere in una forma arbitraria anche scelta da me. La libertà interiore sarebbe dunque la mia passione più tenace forse, la mia sola passione. Questa passione è permessa? L'ho creduto, ma con intermittenza, e non ne sono perfettamente sicuro.

Ginevra, 19 gennaio 1871 -. … .I dolori profondi e personali devono essere silenziosi, poiché - divenendo oggetto d'arte - guariscono. L'esercizio dell'arte consola. Quando un padre (poeta) che ha perduto la figlia dice: “Come ho espresso bene il dolore paterno, come ho pianto pateticamente!”, manca di rispetto a colei che rimpiange, introduce l'amor proprio nel dolore, lusinga se stesso con il pretesto del culto dei morti. La poesia del dolore soggettivo non è pura e commovente che quando si traduce in monologo interiore o tutt'al più in dialogo fra l’anima e Dio. Dal momento che invita ed ammette il pubblico, diventa vanitosa e, per conseguenza, profana. Avviso a chi tocca. Pensa a te stesso.
La sfumatura è delicata, ed è facile superare il confine. Anche nel lirismo più individuale, il poeta deve avere un valore generale; egli esprime uno stato d'anima che può essere il suo, ma che deve essere anche quello di molti altri. Tutta la poesia intima deve essere rappresentativa, cioè tradurre e manifestare l'anima umana e non l'io del poeta. Il poeta, dev'essere l'organo dei lettori, e non di colui che fa gli onori della sua persona. In termini scolastici, deve obiettivare la sua soggettività, o generalizzare i suoi casi. La poesia è dunque antiegoististica, ed il padre che piange in poesia deve piangere come tutti i padri incapaci di cantare come lui, ma capaci di sentire quanto lui; occorre ch’egli si dimentichi e che ogni lettore non pensi che a se stesso.
Il lirico dev'essere impersonale per essere psicologicamente vero e dev'essere capace di rinchiudere il lettore nella stretta cerchia del sentimento che canta nei suoi versi. Il poeta è dunque l'uomo per eccellenza, colui che soffre, piange e canta con altrui e per altrui. Sarebbe poeta perfetto, se fosse possibile supporre che in lui potesse essere ridotto a zero l'amor proprio di artista, se egli non fosse più un uomo, ma l'uomo.
L'obiettività poetica è la guarigione; nello stesso modo abbiamo coscienza dei nostri visceri che quando son malati, il vero poeta dev'essere impersonale e le sue sofferenze devono essere puramente affettive, altrimenti la sua poesia diventa meschina e malaticcia. Egli assiste alla sofferenza che lo attraversa, ma l'avviluppa come il cielo tranquillo circonda un temporale. La poesia è liberazione, perché è essa stessa libertà; lungi di essere un'emozione è lo specchio di un'emozione; è al di fuori e al disopra, tranquilla e serena. Per cantare una pena occorre essere, se non guarito, almeno convalescente. Il canto è sintomo di equilibrio, ritorno della forza. Il poeta è, in piccolo, per la sua vita, ciò che Dio è per il mondo: vi entra per mezzo della sensibilità, ma la domina come essenza; la sua natura è contemplativa, e l'attività non è che la sua espressione inferiore.
Il canto è un intermediario fra il pensiero e l'azione. L'arte è un simbolo indebolito dell'opera del grande poeta, la Creazione.

Ginevra, 16 febbraio 1871 (mezzanotte). - Le donne si comprendono come il linguaggio degli uccelli; per intuizione o null'affatto. Lo studio, lo sforzo, la pena non servono a nulla: è un dono e una grazia. Occorre aver avuto la buona fata alla propria culla. Due gocce di poesia nella nostra prima bevanda e uno stelo di maggiorana sul nostro primo capezzale ci dotano di questa chiaroveggenza magica. Coloro che la posseggono esercitano una indefinibile attrattiva sulle donne, che indovinano questa potenza e ne risentono il fascino, come la linfa sente il richiamo della primavera. L'individuo dotato di lucidità affettiva appare un mago, ma è invece un liberatore; e le donne lo sanno. A lui le confidenze, poiché egli sa comprendere e consolare; a lui la gratitudine appassionata, perché possiede la chiave dei cuori e serba fedelmente i segreti, fortunati i figliocci della fata, poiché sono donatori di felicità! Chi conosce la lingua degli uccelli è iniziato a ben altri misteri; egli è Rosacroce e gran maestro della massoneria dell'amore.

Ginevra, 21 gennaio 1872. - …Vi sono anime che non vivono che di amore e di religione, che non cercano che il bene ed il bello e si espandono nel sacrificio. Esse son più che disinteressate, sono devote. Costituiscono la piccola chiesa, il fior fiore delle anime nobili. Ecco il buon esempio, il punto d'appoggio.
Enrico Federico Amiel (1821-1881)

27 - Cultura estetica e ascetismo (Edoardo Tagliatatela)

… Quando San Luigi Gonzaga non ardiva guardare in faccia alla propria madre, per tema di cadere in colpa di concupiscenza, il male covava in lui, non nella madre. La falsa diagnosi vizia il metodo della cura. Quando l'asceta confonde il peccato con il senso, non riesce a sradicarlo perché non va alla sorgente vera che convien purificare: cioè la coscienza. In fine il buon metodo correttivo non consiste tanto nella repressione quanto nello sviluppo: anche la strategia suggerisce di prendere il nemico di fianco. È inutile cercar di uccidere i cattivi pensieri col fare il vuoto nel cervello: bisogna invece arricchir la mente di nuovi pensieri più puri e più gentili e più nobili. Date all'uomo un più alto motivo di vivere; infondete in lui una più generosa passione che gli conquida il cuore e lo avrete redento dalla servitù della colpa.
La conclusione alla quale si giunge, è che l’ideale estetico è superiore all'ascetico, nonostante certi elementi di nobiltà che si contengono in questo ultimo; perché la cultura ha, per lo meno, un fine positivo e può anche, anzi dovrebbe, includere nel proprio schema le forme utili e buone dell'ascesi.
Ma è proprio difficile conciliare i due termini che sembrano così irriducibilmente antitetici? Non ci sembra.
L'estetismo e l'ascetismo ignorano entrambi uno degli apetti della vita, una delle esigenze dell'uomo. L'uno, fondandosi sull'idea ottimistica che non occorra altro se non di svolgere tutte le forze latenti nella natura umana, disconosce la necessità della disciplina. L'altro, fondandosi sul concetto pessimistico che il mondo è tutto perverso, l'uomo è tutto maligno, i sensi sono i tramiti della corruzione, non trova altra salvezza che nel sacrificio.
Noi possiamo accogliere ciò che i due sistemi o metodi contengono di positivo e di fecondo per il perfezionamento dell'uomo: riconoscere che la natura umana è ricca di magnifiche energie che vanno svolte sino al più alto grado di rigoglio; e riconoscere in pari tempo che la disciplina è inevitabile mezzo d'incremento, proprio come nell'ubbidienza alla legge morale si realizza la vera libertà dello spirito.
Respingeremo soltanto le esagerazioni e le aberrazioni dell'uno e dell'altro metodo. Riconosceremo in ogni uomo un «deus contractus», il dio che diventa. In ogni uomo vogliamo, che si coltivino tutte le varie energie dello spirito, simultaneamente, armonicamente. Non disprezzeremo il corpo, che dev'essere tempio dell'anima; ma l'anima fatta bella e vigorosa, si trasformerà a propria immagine il suo corpo, perché tutta la vita va dall'interno all'esterno. Noi vogliam credere che il dolore valga come mezzo di purificazione e disciplina e come stimolo ai sentimenti di simpatia, ove però sia accolto e sopportato con animo virile; ma celebriamo altresì missione vivificatrice che la gioia adempie nel cuore dell'uomo. Il riso, infatti, è esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria.
Non bisogna maledire il mondo come una valle di lagrime. Il mondo lo facciamo noi, coi pensieri, coi sentimenti, con le azioni di cui siamo capaci; e la felicità più che augurarcela, dobbiamo crearcela noi stessi con le nostre proprie energie; allora solo ne saremo degni. E la natura che ci circonda con le sue meraviglie di splendori ci parrà degna della nostra contemplazione, perché “a thing of beauty is a joy for ever” (una cosa bella è una gioia per sempre). L'esistenza presente non sarà per noi una “meditatio mortis”, ma preambolo e tirocinio ad una vita più perfetta.
Necessaria è l'abnegazione, necessaria la disciplina; ma non occorre, anzi nuoce il sequestrarsi dalla società che soffre e spera, che lavora e avanza con fiducia verso giorni più lieti. L'intiera famiglia umana deve vivere immersa nell'elemento dell'amore vicendevole come in una divina atmosfera. La conversazione degli uomini implica tentazioni e pericoli, ma solo a questo patto è possibile educarsi a vivere bene: a vivere non da soli e per noi stessi, che sarebbe stolto e assurdo ma per l'immensa famiglia della quale siam parte.
Il pittore Romney se ne venne a Londra, lasciando a Kendal la moglie e i due figlioli, un ragazzetto e una bimba: egli si proponeva di richiamarseli vicino quando un giorno si fosse procacciato gloria e fortuna. Si diè tutto all'arte, nella quale divenne celebre: e con la gloria gli giunse la fortuna. Ma per trentacinque anni visse a Londra senza mai riveder la consorte e i figli. Gli avevano detto che la vita di famiglia dissipa i talenti dell'artista; e d'altra parte, ormai, egli si sarebbe vergognato di presentare l'umile moglie a Lady Hamilton e ad altre cospicue dame che soleva ritrattare. Solo nella tarda vecchiaia, desolato e senza aiuti, egli se ne tornò a Kendal: la moglie gli perdonò, lo accolse, ed ebbe cura di lui sino alla morte. La dolce pazienza e la generosa assistenza di quell'umile donna valevano più che tutti i quadri famosi del pittore Romney. Questa, infine, è la più solenne e grande lezione per tutti coloro che si travagliano nella propria cultura: nessun ornamento estetico val quanto la virtù che si tempra nella lotta e nel sacrificio.
Eduardo Taglialatela

28 - Erotica ed estetica (Otto Weininger)

L'amore e il desiderio sessuale sono due opposti tanto diversi, tanto escludentisi, che nei momenti in cui un uomo ama veramente il pensiero d'un congiungimento corporale coll'essere amato gli è completamente impossibile. Il fatto che non esiste speranza senza timore non cambia d'aspetto all'altro fatto che speranza e timore siano degli opposti. Non avviene altrimenti dell'istinto sessuale e dell'amore. Quanto più erotici si è, tanto meno si è molestati dalla propria sessualità e viceversa. Se non esiste ammirazione priva di desiderio, non si possono perciò identificare le due cose, che al medesimo saranno delle fasi opposte, in cui un uomo più ricco di esse può successivamente entrare. Mente, o non ha mai saputo che sia l'amore, chi asserisce di amare ancora una donna ch’egli desidera: tanto diversi sono l'amore e l’istinto sessuale. Perciò si deve considerare anche quasi sempre come una finzione quando si parla dell'amore nel matrimonio.
L'attrazione sessuale aumenta con la vicinanza corporale, l'amore è più forte che mai quando la persona amata è assente: esso ha bisogno della divisione, d'una certa distanza per continuare a sussistere. Per l'uomo maggiormente differenziato, per lo spirito superiore, la ragazza che egli desidera e quella ch’egli ama ma non potrebbe mai desiderare, hanno tra loro figura diversa, andatura differente, caratteri dissimili: sono due esseri diversi.
L'amore "platonico" esiste dunque a onta del parere contrario dei professori di psichiatria. Vorrei anzi dire: non vi è che amore platonico. Non c'è che un amore: è quello per Beatrice, la venerazione della Madonna.
L'enumerazione delle idee trascendentali fatta da Kant, dovrebbe subire un'estenisone quando fosse riconosciuto vero quanto fu detto sopra. Anche l'alto amore privo di desideri, l'amore di Platone e di Giordano Bruno sarebbe un'idea "trascendentale", il cui significato come I’ideale non vien toccato dal fatto che non la si è mai vista realizzata completamente.
È il problema del Tannhäuser. Dall’una parte Tannhäuser, dall'altra Wolframo; dall'una Venere, dall'altra Maria. Il fatto che una coppia d'amanti, che s'erano veramente trovati per sempre - Tristano e Isotta - vanno a morire invece che arrivare al letto coniugale è pure una prova assoluta dell'esistenza di un che di superiore, sia pure di metafisico, nell'uomo, di qualche cosa di somigliante al martirio di Giordano Bruno:

Dir, hohe Liebe, töne
begeistert mein Gesang,
die mir in Engelschöne
tief in die Seele drang!
Du nahst als Gottgesandte;
ich folg’ aus holder Fern,
so ührst du in die Lande,
wo ewig strahlt dein Stern.

Chi è l'oggetto di tale amore? È la donna supremamente bella, angelicamente pura che viene amata di tale amore. Si tratta ora di vedere come una donna arrivi a questa bellezza e purità.
Si è discusso molte volte se sia vero che il sesso femminile è il più bello e ancor più s'impugnò la sua designazione come il "bel sesso'' senz'altro. Sarà bene vedere da chi la donna sia stata trovata bella e in quanto.
Ogni vero amore è pudico, come ogni vera compassione. La misura del bello e del brutto nella donna sta nell'Amore (non nel desiderio) dell'uomo che è sempre pudico. La bellezza è una proiezione, una emanazione del bisogno di amare; e così anche la bellezza della donna non è qualche cosa di diverso dall'amore, ma la bellezza della donna è l'amore dell'uomo, e ambedue non sono che lo stesso identico fatto. La bellezza è intangibile, inviolabile, immescolabile; soltanto osservandola da lontano la si ha vicina, essa si scosta a ogni avvicinamento.
Come già accennammo, la nettezza del corpo è in generale un segno di moralità e sincerità; persone sozze non hanno, almeno di solito, sentimenti troppo nobili. Si può ora osservare che la gente, la quale di consuetudine non tiene molto alla pulizia del proprio corpo, si lava anche più spesso e più abbondantemente quando si sforzi di assumere un carattere più decoroso. Altrettanto chi non seppe mai che voglia dir pulizia comincia d'un tratto a desiderarla da sé per tutto il tempo che dura un amore e questo tratto di tempo è spesso forse l'unico in sua vita in cui non sia sporco sotto la camicia.
Che se ci rivolgiamo al campo spirituale, vediamo come per molti l'amore cominci col rivolgere delle accuse contro se stessi, con tentativi di mortificarsi e far penitenza. Comincia un rivolgimento morale, sembra che dalla donna amata emani una purificazione interiore, anche se non si è mai parlato con lei, se la si è veduta poche volte in distanza. È impossibile che questo processo abbia fondamento nella stessa persona amata: essa è spesso una ragazza giovanissima, e in genere nessun'altro, tranne colui che l'ama, trova che essa possegga qualità superiori. Dobbiamo dunque credere che questa persona concreta venga amata nell'amore, o non serva piuttosto come punto di partenza per un movimento più imponente?
In ogni amore l'uomo non ama che se stesso: non la propria soggettività (così com'essa è), ma ciò che egli vuole essere o dovrebbe essere in tutto e per tutto, il suo essere intelligibile più intimo, più profondo, libero da ogni necessità terrena. Egli proietta il suo essere ideale dotato al valore assoluto e completo – ch’egli non riesce a isolare entro se stesso - su un'altra creatura umana. Ciò significa null'altro che il suo amore per tale creatura. L'uomo è sotto ogni aspetto pari a se stesso soltanto quando ama. Così si spiega che molti cominciano a credere nel proprio Io e al Tu soltanto dopo aver incominciato ad amare: io e tu non sono nozioni equivalenti soltanto grammaticalmente, ma, anche eticamente. Si comprenderà così anche la parte importante che in ogni amore hanno i nomi degli innamorati. Si spiega anche come solo nell'amore molti acquistino la conoscenza della propria esistenza e non sappiano già anteriormente di possedere un'anima.
L'amore si mostra così essere un fenomeno di proiezione, non un fenomeno di equazione come l'amicizia. La premessa per questa è un valore eguale, di ambo gli individui; l'amore presuppone l'ineguaglianza, la differenza di valore. Amare vuol dire accumulare su una persona tutto ciò che si vorrebbe essere e che non può ancora essere, rappresentare in essa tutti i valori. La bellezza è il simbolo di tale perfezione. La bellezza della donna non è che moralità divenuta visibile; ma tale moralità è quella dell'uomo che egli ha traslato sulla donna innalzandola a massima intensità e completezza. Tutte le forme trovate belle dall'uomo sono altrettanti tentativi di realizzare visibilmente il sommo valore in forza della di lui funzione estetica, che tramuta in forma sensibile la morale e il pensiero. La bellezza è il simbolo rivelato della perfezione. Perciò essa è intangibile, statica e non dinamica. È l’amore per il proprio valore, il desiderio di perfezione che nella materia crea la bellezza. Così nasce la bellezza della natura (che non viene mai percepita dal malfattore), perché è solo l'etica che crea la natura. In tal modo si spiega che la natura ci dà sempre in ogni momento e in ogni oggetto, nelle sue formazioni maggiori e nelle più piccole, l'impressione della perfezione. Così anche la legge naturale non è che il simbolo di quella morale, come la bellezza naturale è la nobiltà dell'anima sensibilizzata. Come l'amore crea una nuova donna per l'uomo in luogo di quella reale, altrettanto l'arte - l'eros dell'universo - trae dal caos la molteplicità delle forme; e come non v'ha bellezza naturale senza forma e senza legge naturale, non esiste nemmeno arte senza forma né bellezza artistica senza che obbedisca a una legge. La natura, che l'artista chiama eternamente sua maestra, non è che la forma del suo agire datasi da lui stesso non in concentrazione concettuale, ma in perspicua infinità.
Otto Weininger

29 - Una lettera e alcune altre (M. von Kleist)

Würzburg, 10 (e 11).10.1811
Cara Guglielmina!
Oggi pensi certamente a me, come io ho pensato a te durante tutto il 18 agosto, non è vero? - Con quanto fervore penso anche adesso a te! E quale indescrivibile godimento è per me la convinzione che ora in questo momento i nostri pensieri certamente s'incontrano! Sì oggi è il mio compleanno, e mi sembra ai udire gli auguri che il tuo cuore formula tacitamente per me, di sentire la stretta della tua mano che mi comunica tutti insieme questi auguri. Sì, si avvereranno tutti questi auguri, siine convinta, io lo sono. Se un re ci augura un'onorificenza, non vuol dire che ce lo promette? Egli stesso ha in mano l'attuazione del suo augurio - così anche tu, cara fanciulla. Tutto quello che chiamo felicità, non mi può venire che dalla tua mano; e se questa felicità me l'auguri tu, posso guardare tranquillamente all'avvenire, mi toccherà certamente. Amore e cultura, ecco tutto ciò che desidero, e come sono lieto che l’adempimento di questi due indispensabili bisogni, senza i quali ora non potrei più essere felice, non appena dal cielo che, com'è noto, lascia così spesso inappagati i desideri dei poveri uomini, ma unicamente da te.
La mia ultima lettera, che scrissi al principio di questo mese e che vorrei definire una lettera capitale, se non dovesse apparirne presto una seconda che sarà ancora più importante - l'hai ricevuta, vero? Forse l'hai ricevuta in questi giorni, forse la ricevi in questo istante. – Oh, potessi essere ora accanto a te, potessi commentarti questa lettera incomprensibile, potessi preservarti dai malintesi, soffocare ogni moto irritato del tuo sentimento, subito, al primo istante in cui sorgesse…Non essere in collera, cara fanciulla, prima che tu mi corprenda interamente! Se ho peccato contro di te, ho anche riparato coi più sacrifici. Lasciami la speranza che mi perdonerai, e io troverò il coraggio di confessarti ogni cosa. Ascolta prima la mia confessione, e sono sicuro che dopo non sarai più in collera con me.
In quella lettera ti promettevo che o sarei partito da qui entro otto giorni o ti avrei scritto. Il termine è passato e la prima cosa non è stata ancora possibile Non inquietarti: la partenza può avvenire domani o posdomani e ogni giorno che mi porti qualche cosa che aspetto ancora. In seguito mi spiegherò più chiaramente; per ora lascia stare. Adesso voglio mantenere la mia promessa e mandarti, invece di me, almeno una lettera. Accontentati per ora di questa sostituzione; presto la posta porterà me stesso da te.
Ma del nostro principale argomento non ti posso scrivere di più per ora. perché prima devo sapere come hai accolto quella mia ultima lettera. Dunque parliamo d'altro.
La mia anima assomiglia alla scrivania d'un filosofo che ha escogitato un nuovo sistema e ha scritto alcuni pensieri fondamentali su fogli sparsi. Una grande idea per te Guglielmina, mi si libra incessantemente davanti all'anima! Te ne ho comunicato il pensiero principale già alla fine della mia ultima lettera, anche prima su un foglio a parte. Non l'avrai mica dimenticato?...
Ti pregai un giorno di scrivere per me che cosa veramente ti riprometti dalla felicità d'un futuro matrimonio - Non indovini perché? Ma come lo puoi indovinare? Aspetto con grande desiderio questo saggio, che ancora non ho ricevuto da Vienna. Il primo foglio che mi hai comunicato e che mi procurò una gioia ineffabile, ma agrodolce, mi fece fuggire dalle tue braccia e affrettare la partenza. Ricordi ancora con quanta commozione lo lessi il giorno prima della nostra separazione e con quanta inquietudine me lo portai a casa - e sai forse anche quali fossero i miei sentimenti quando mi trovai solo con quel foglio? Esso attirò tutto il mio cuore verso di te, ma nello stesso tempo mi respinse irrevocabilmente dalle tue braccia. – Ora, quando lo rileggerò, mi ci riporterà. Allora non ero degno di te, oggi lo sono. Allora piansi, perché eri così buona, così nobile, così degna di stima, così degna alla massima felicità: ora tutto ciò sarà il mio orgoglio e la mia delizia. Allora ero tormentato dalla coscienza di non essere in grado di appagare le tue più sacre pretese, e ora, ora …. Ma silenzio!
Ora, Guglielmina, ti dirò anch'io che cosa mi riprometto dalla felicità d’un futuro matrimonio. A suo tempo non dovevo farlo, ma adesso - Oh Dio, come ne sono contento! - Ti descriverò la moglie che può rendermi felice adesso - e questa è la grande idea che ho in mente per te. L'impresa è grande, ma lo è anche il fine. A questa cosa dedicherò ogni ora che le mie future condizioni mi lasceranno libera. Ciò conferirà alla mia vita un fascino nuovo, e ci farà superare, entrambi, più rapidamente il periodo di prova che ci aspetta. Fra cinque anni spero che l'opera sarà compiuta.
Non temere che la moglie da me descritta non sia di questa terra e che io debba trovare soltanto in paradiso. Fra cinque anni la troverò su questa terra e la stringerò fra le mie braccia mortali - Non chiederò al giglio di salire in altezza quanto il cedro, né fisserò alla colomba la meta dell'aquila. Non scolpirò una statua di tela né dipingerò sul marmo. Conosco la materia che ho davanti a me e so che cosa se ne possa fare. È un minerale che contiene oro puro e a me non rimane altro che sceverare il metallo dalla pietra. Il suono, il peso e la resistenza alla prova del fuoco li ha avuti dalla natura, il sole dell'amore gli conferirà lustro e splendore, e dopo la separazione del metallo non avrò altro da fare che scaldarmi e illuminarmi ai raggi che il suo lucido specchio ci rimanda.
Io stesso sento quanto sia scialbo questo linguaggio metaforico in confronto al l'idea che mi anima – Oh, potessi comunicarti almeno un raggio di quel fuoco che fiammeggia dentro di me! Potessi tu intuire come il pensiero di far di te un giorno un essere perfetto riscalda in me ogni forza vitale, muove in me ogni facoltà, rende viva e attiva ogni mia energia! - Tu forse non me lo crederai, ma spesso sto per ore e ore a guardare dalla finestra, ed entro in dieci chiese e visito questa città in tutte le sue parti, eppure non vedo nulla se non un'unica immagine - te, Guglielmina, e ai tuoi piedi due creaturine e sulle ginocchia una terza, e ti ascolto mentre insegni al più piccolo a parlare, al secondo a sentire, al maggiore a pensare, e vedo come sai trasformare la caparbietà dell'uno in tenacia, l'arroganza dell'altro in franchezza, la timidezza del terzo in modestia e la curiosità di tutti in avidità di sapere: vedo come, senza molte parole, insegni con l'esempio a fare il bene come nella tua stessa immagine mostri loro che cosa sia la virtù e quanto essa sia amabile. - C'è da stupirsi, Guglielmina, se per questi sentimenti non riesco a trovare le parole?
Oh, posa intorno al tuo seno come uno scudo adamantino questo pensiero: io sono nata per essere madre! Ogni altro pensiero, ogni altro desiderio sia respinto da questa corazza impenetrabile. Quale altro fine potrebbe offrirti la terra che non sia disprezzabile? Essa non ha nulla, che conferirti un valore quando non sia la formazione di uomini nobili. A questa meta rivolgi le tue più sante aspirazioni! È l’unica cosa per cui la terra possa un giorno esserti debitrice. Non andartene da essa in condizioni che debba vergognarsi di averti portata inutilmente durante una generazione. Disprezza tutti i bassi scopi della vita. Quest'unico ti solleverà al di sopra di tutti. In esso troverai la tua vera felicità , tutti gli altri non possono che soddisfarti per qualche istante. Esso ti ispirerà rispetto per te stessa; tutto il resto non può che solleticare la tua vanità; e quando un giorno sarai alla mèta, riguarderai, contenta di te stessa alla tua giovinezza e non rimpiangerai in ore amare di solitudine come mille altre creature infelici del tuo sesso, il fine perduto e la perduta felicità.
Cara Guglielmina, non voglio che tu smetta di agghindarti o di frequentare compagnie allegre o di ballare; ma vorrei soltanto istillare nella tua anima il pensiero che esistono gioie più elevate di quelle che ci sorridono dallo specchio o dalla sala da ballo. Il sentimento di essere belli interiormente e l'immagine che lo specchio della coscienza ci rimanda nelle ore della solitudine sono godimenti che soli possono appagare il nostro ardente desiderio di felicità.
Possa questo pensiero accompagnarti a ogni tuo passo: davanti allo specchio, in società, nella sala da ballo. Offri pure alla moda o, diciamo meglio, al gusto, i piccoli sacrifici che esso richiede, non proprio a torto, da giovani fanciulle, bada a farti bella, chiedi allo specchio se la tua fatica è riuscita - ma fallo in fretta e torna il più presto possibile al tuo fine supremo. Frequenta pure la sala da ballo, ma sii lieta quando ritorni da un divertimento nel quale soltanto i piedi hanno avuto il loro tornaconto, mentre il cuore e la mente hanno cessato del tutto il palpito della loro vita e la coscienza era, per così dire, spenta. Frequenta le gaie compagnie, ma scegli sempre la parola migliore e più nobile, dalla quale puoi imparare qualche cosa - poiché questo non devi trascurare in alcun momento della vita. Ogni minuto, ogni persona, ogni oggetto può darti un utile insegnamento, purché tu lo sappia sviluppare. - Ma di questo argomento ti dirò di più un'altra volta.
Andiamo dunque insieme, tenendoci per mano, incontro alla nostra meta, ciascuno incontro alla sua, alla più vicina, e entrambi incontro all'ultima, alla quale tutti e due aspiriamo. La tua meta prossima sia quella di prepararti ad esser madre, la mia quella di diventare un cittadino dello stato, e la meta più lontana, alla quale tendiamo entrambi, e che possiamo reciprocamente assicurarci, sia la felicità dell'amore.
Buona notte, Guglielmina, mia sposa e un giorno mia moglie e un giorno madre dei miei figlioli!

11 ottobre

Non voglio che questa lettera diventi un libro come la precedente e perciò ti comunicherò brevemente ancora qualche cosa prima che parta la posta.
Adesso la regione intorno a questa città mi sembra molto più piacevole di quando la vidi al mio ingresso; anzi direi quasi che adesso mi sembra bella, e non so se sia mutato il paesaggio o il cuore che ne ricevette l'impressione. Adesso, quando me ne sto sul ponte di pietra che attraversa il Meno e divide il castello dalla città, e osservo il fiume che mi scorre incontro tra monti e prati in mille curve, e fluttua via sotto i miei piedi, ho l'impressione d'essere al di sopra di una vita. Perciò me ne sto spesso la sera sopra questi archi e lascio che le correnti d’aria e dell'acqua mi sussurrino incontro. Oppure mi volgo indietro e seguo il corso del fiume fin dove si perde fra i monti, e io stesso mi perdo in tacite considerazioni. Specie uno spettacolo attira la mia attenzione. Dal ponte del Meno scorre in linea diritta e rapido come una freccia, quasi avesse già sotto gli occhi la meta, come se nulla dovesse trattenerlo dal raggiungerla, come se, impaziente, volesse toccarla per la via più breve - sennonché un colle coperto di vigneti flette il suo corso impetuoso, dolcemente ma con ferma intenzione, come una moglie una volontà impetuosa del marito, e con nobile fermezza gli addita la via che lo condurrà al mare ed esso accetta il discreto monito e obbedisce all'amichevole ingiunzione e abbandona la meta precipitata e non perfora il colle coperto ai vigne, ma lo aggira baciandogli nel corso più calmo i piedi fioriti -
Persino dal monte dal quale vidi Würzburg per la prima volta la città mi piace adesso e direi quasi che questa parte è più che mai bella. La vidi ultimamente da questa cima nelle prime ombre della sera, non senza intima letizia. L'altura scende con dolce declivio e la città si stende nel fondo. Catene di monti le sorgono dietro da ambo i lati a semicerchio e si avvicinano amichevolmente quasi volessero stringersi le mani come due vecchi amici dopo un'offesa d'altri tempi – sennonché il Meno s'interpone fra loro come un amaro ricordo, ed essi tentennano, e nessuno osa passare di là per primo, e tutti e due seguono lentamente il fiume che si allontana, scambiandosi sguardi malinconici oltre l'ostacolo.
Nel fondo, ho detto, giace la città come al centro d'un anfiteatro. Le terrazze dei monti circostanti le facevano da palchetti, esseri d'ogni specie la guardavano con gioia come spettatori e cantavano e applaudivano, mentre in alto, nel palco del cielo, stava Iddio. Dalla volta del grande teatro scendeva il lampadario del sole e si nascondeva dietro la terra - poiché si trattava di rappresentare un dramma notturno. Un velo azzurro avvolgeva tutta la regione; pareva che la volta del cielo fosse scesa sulla terra. Le case nel fondo sorgevano come masse oscure, quasi gusci di chiocciole; ma alte nell'aria notturna si elevavano le cime dei campanili come antenne d'un insetto, e il suono delle campane squillava come il richiamo rauco del grillo - e nello sfondo il sole moriva, ma ardendo incandescente dalla gioia come un eroe, e la pallida luce zodiacale gli vibrava intorno come un'aureola intorno alla testa di un santo...
Ieri l'altro sono uscito per dare la scalata a un altro monte del versante settentrionale. Era un monte coperto di vigne e uno stretto sentiero conduceva alla vetta, attraverso viti benedette. Non avevo immaginato che il monte fosse così alto, e forse non lo era nemmeno, ma dai vigneti avevano buttato tutte le pietre a destra e a sinistra su quel sentiero per rendere più difficile la salita - esattamente come la sorte o gli uomini mi resero difficile la via verso la meta che pure ho raggiunto. A questa palese somiglianza mi misi a ridere. Cara fanciulla, tu non sai ancora tutto quanto mi è capitato a Berlino, a Dresda, a Bayreuth e persino qui a Würzburg; tutto ciò richiederà ancora una lunga lettera. Allora però m’indispettivo assai per le pietre che mi erano state gettate sul cammino, senza però lasciarmene turbare; versai bensì gocce di sudore cocente, ma - come ieri l'altro - raggiunsi tuttavia la meta. La salita sui monti, come la via della virtù, è faticosa, particolarmente per la prospettiva che si ha davanti a sé. Si vede a tre passi di distanza, ma non più in là; non si vedono che i gradini da superare e appena si è scavalcata una pietra, se ne trova subito un'altra, e ogni passo falso fa doppiamente male e tutta la fatica è, per così dire, ruminata ma bisogna pensare alla vista che si godrà dalla cima. Com'era stupendo il panorama dalla valle del Meno da quell'altezza! Colline e valli e acque, e città e villaggi vi si mescolavano come un tappeto ricamato! Il Meno si volgeva ora a destra ora a sinistra, lambiva ora questo ora quel vigneto ed era incerto fra le due sponde, che gli parevano ugualmente care, come un bimbo tra babbo e mamma. La rocca sorvegliava la città e la custodiva, come un gigante il suo gioiello, e lungo le fortificazioni esterne serpeggiava una stradicciuola come una spia, e si insinuava in ogni bastione quasi volesse esplorarlo, ma non osava entrare in città, preferendo perdersi fra i monti...
Ma nessun fenomeno della natura mi procura una gioia malinconica come la bufera mattutina, specialmente quando i tuoni sono cessati. Qui abbiamo avuto questo spettacolo alcuni giorni fa. Oh, è stata una scena stupenda! A occidente si era addensato il temporale notturno e infuriava come un tiranno e da oriente il sole sorgeva placido e silenzioso come un eroe. Il temporale gettava i lampi sibilanti contro di lui e lo rimproverava con la voce del tuono, ma l'astro divino taceva e saliva a guardare maestoso la nebbia irrequieta sotto i suoi piedi e cercava benevolo gli altri soli che lo circondavano, quasi volesse tranquillare gli amici. Poi il maltempo gli lanciò un ultimo tuono tremendo, come volesse vomitare in una scintilla tutta la sua provvista di fiele e bava velenosa - ma il sole non vacillò nella sua orbita e si avvicinò impavido e salì sul trono del cielo - e, pallida come di spavento, la notte della nuvolaglia si stinse e si squagliò come fumo sottile e sprofondò sotto l'orizzonte mormorando qualche debole imprecazione...
Ma, quale giornata seguì quella mattina! Correnti d'aria tiepida mi alitavano incontro, le fronde sussurravano lievemente, grosse gocciole cadevano a lunghi intervalli dagli alberi, una luce scialba si era riversata sulla regione, e tutta la natura pareva spossata da quel grande sforzo, come un eroe dopo la fatica del combattimento. - Ma ho detto che non volevo fare un libro, e perciò chiudo brevemente. Scrivimi se puoi perdonarmi e manda la lettera a Carlo, affinché io la riceva subito al mio arrivo a Berlino. Poi ti scriverò più a lungo.
H.
Heinrich von Kleist (1777 - 1811)

(Kleist amò sempre Guglielmina, ma il matrimonio fu impossibile: la morte a 34 anni, da lui decisa, fu la sola liberazione. La vita "la più travagliata che uomo abbia mai vissuta" si concludeva senza che Kl. vedesse mai rappresentato uno dei suoi drammi. Guglielmina andò sposa (quando Kl. era tuttora in vita) con il professore di filosofia Krug, il successore di Kant all'Università di Königsberg, e scrisse quanto segue: "Quando mi maritai, mi proposi di non rileggere quelle lettere, perché scrite tutte nella più accesa passione, e poiché non confidavo di possedere la forza sufficiente per restare fedele al mio proponimento, le bruciai; per fortuna sopraggiunse mia sorella Luisa e salvò quel tanto che possiedo ancora". Kl., nel 1811, si convinse che non gli restava altra via che quella del suicidio: così si confidava con sua cugina Maria, alla quale - come ad altri - aveva fatto la proposta di morire insieme. Si era imbattuto però in un'altra donna disposta a farlo, Henriette Vogel, una donna maritata, sofferente di un male inguaribile, la quale anzi lo pregò di ucciderla. Egli accettò con gioia. E il 21 novembre di quell'anno - dopo aver scritto quelle lettere che non si possono leggere senza commozione - quest'uomo che, come dice Thomas Mann, "sa metterci alla tortura... e far sì che gliene siamo grati”, uccideva a colpi di pistola, sulle rive del Wannsee presso Potsdam, prima Henriette e poi se stesso. Si riproducono qui sotto alcune delle ultime lettere compresa quella dell'infelice Henriette Vogel).

Alla cugina Marie von Kleist
Berlino, 12 novembre 1811
Mia carissima Maria, se tu sapessi come la morte e l'amore si alternano per in coronare di fiori - terreni e celesti - questi ultimi istanti della mia vita, certamente mi lanceresti morire volentieri. Oh, ti assicuro, sono perfettamente beato. La mattina e la sera m'inginocchio, come non ho mai saputo fare, e prego Iddio; adesso lo posso ringraziare della mia vita, la più tormentata che un uomo abbia mai condotto, perché me la compensa con la più splendida e più voluttuosa di tutte le morti. Oh, potessi fare qualcosa per te, che valesse a lenire l'acerbo dolore che ti procurerò! Può consolarti se ti dico che non avrei mai scambiato te con questa amica (la Henriette Vogel), qualora non avesse voluto altro che vivere con me? Sì è così, mia carissima Maria; ci sono stati momenti in cui ho detto francamente queste parole alla mia cara amica. Oh, ti assicuro, ti voglio tanto bene, mi sei così estremamente diletta e preziosa che oso appena dire di amare più di te questa mia cara e adorata amica. La risoluzione, sbocciata nella sua anima, di morire con me, mi attirò al suo seno, non ti so dire con quale indicibile e irresistibile potenza; ricordi che più volte ti ho domandato se volevi morire con me? Ma tu dicesti sempre di no - Un vortice di mai provata beatitudine mi ha travolto, e non ti posso negare che la sua tomba mi è più cara del letto di tutte le imperatrici del mondo. - Ah mia diletta amica, voglia Dio chiamarti presto in quel mondo migliore dove noi tutti, con l'amore degli angeli, potremo stringerci al cuore l'un l'altro… Addio.
H.

(A Ernst Friedrich Peguilhen, un amico della famiglia Vogel)
da parte di Enrichetta Vogel:

Da Stimming presso Potsdam, 21 novembre 1811
Mio carissimo amico! All'amicizia che Lei finora mi ha sempre dimostrata così fedelmente è riservato di sostenere una strana prova, poiché noi due, cioè il noto Kleist e io, ci troviamo qui, da Stimming (J.F. Stimming, proprietario della locanda), sulla strada di Potsdam, in uno stato molto imbarazzante, in quanto giaciamo "uccisi con arma da fuoco" e ora facciamo assegnamento sulla bontà di un benevolo amico per affidare le nostre fragili spoglie alla sicura tutela della terra. Cerchi, carissimo Peguilhen, di arrivare qua questa sera e di fare in modo che il mio buon Vogel ne rimanga atterrito il meno possibile; questa sera o questa notte Luigi voleva mandare la carrozza a prendermi a Potsdam, dove gli ho detto che mi sarei recata; glielo comunico, affinché Lei possa regolarsi nel modo migliore. Mi saluti cordialmente Sua moglie e la figlia, da me tanto cordialmente amate, e stia sicuro, diletto amico, che l'amore e l'amicizia di Lei e dei Suoi mi danno la massima gioia fino all'ultimo istante della mia vita. La Sua
H. Vogel

Presso Stimming Lei troverà una valigetta di cuoio, nera, suggellata e una cassettina suggellata contenente notizie per Vogel, lettere, denaro, capi di vestiario e anche libri. Per i 10 talleri in contanti che vi si trovano desidero una bellissima tazza grigio-pallido, internamente dorata, con un arabesco dorato su fondo bianco fino all'orlo, e col mio nome di battesimo all'esterno in campo bianco, di quel tipo che ora è il più moderno. Se per questa commissione volesse rivolgersi al contabile Meves della fabbrica di porcellane, pregandolo di inviare la sera di Natale questa tazza a Luigi, ma Lei, mio caro amico, dovrebbe affrettare l'ordinazione perché la tazza potrebbe non esser pronta. Stia bene e sia felice . -
Nella cassetta troverà anche una piccola chiave suggellata: è la chiave del lucchetto d'un baule in casa Vogel, nel quale ci sono parecchie lettere e altre cose da recapitare.

Aggiunta di Kleist:
Forse posso ricorrere anch'io, mio carissimo Peguilhen, alla Sua amicizia per chiederLe qualche piccolo favore. Ho dimenticato di pagare il barbiere per il corrente mese e La prego di dargli 1 tallero che troverà in un involto nella cassetta di madame Vogel. Questa mi dice in questo momento che Lei dovrebbe aprire la cassetta e provvedere a tutte le commissioni che vi sono contenute, affinché Vogel non abbia subito queste noie - Infine, La prego ancora di regalare al mio padrone di casa Miller, Mauerstrasse n. 53, in segno di modesto riconoscimento della sua buona accoglienza e ospitalità, la valigetta di cuoio nero, di mia proprietà, ad eccezione delle cose che potrebbero eventualmente essere utili per il mio funerale. Stia bene, mio carissimo Peguilhen; il mio saluto e i miei ossequi alla Sua ottima consorte e alla figlia.
H. von Kleist

(il 21 novembre, dicono qui; ma noi non sappiamo se sia vero)

P.S. - Nel baule di Mad. Vogel che si trova a Berlino, nella stanza della servitù, in casa sua, con un lucchetto d'ottone che si può aprire con la chiavetta suggellata, chiusa qui nella cassetta - in questo baule ci sono tre lettere mie che La prego vivamente di recapitare. Sono:
una lettera per la consorte del Consigliere aulico Müller, a Vienna;
una lettera per mio fratello Leopoldo a Stolp, entrambe da spedire per posta (la prima può essere forse affidata al buon Voss, l'occhialaio); e
una lettera per la signora von Kleist, nata von Gualtieri, che prego di consegnare al maggiore von Below, governatore del principe Federico d'Assia, al castello.
C'è infine,
4)   ancora una lettera per la signora von Kleist, qui nelle cassetta di Mad. Vogel, che prego di consegnare ugualmente e contemporaneamente al maggiore von Below. - Addio!
N.B. - Venga prestissimo da Stimming, mio carissimo Peguilhen, affinché possa seppellirci. Le spese, per quanto riguarda me, Le saranno rifuse da mia sorella Ulrica a Francoforte. - La Vogel fa notare ancora che qui nella cassetta di legno è suggellata la chiave che apre il lucchetto d'ottone del baule che si trova nella stanza della servitù a Berlino e che contiene molte commissioni. – Credo di averlo scritto già una volta, ma la Vogel insiste perché io lo scriva ancora.
 H. v. Kl.


(alla sorella Ulrike von Kleist)

Non posso morire senza essermi riconciliato, contento e sereno come sono, col mondo intero e quindi anche, prima di tutti, mia dilettissima Ulrica, con te. Lascia che la ritiri - la frase severa - contenuta nella lettera alla Kleist; in realtà, tu hai fatto per me non dico quanto stava nelle forze di una sorella, ma nelle forze di una creatura umana, al fine di salvarmi; la verità è che per me non c'era soccorso su questa terra. E ora addio; possa il Cielo donarti una morte soltanto a metà così gioiosa e indicibilmente serena come la mia: questo è l'augurio più cordiale e più profondo che io possa concepire per te.
Da Stimming, presso Potsdam il ... la mattina della mia morte.
Tuo Heinrich

30 - Lettere d’amore di una monaca portoghese (1665-1667 - ?) (Mariana Alcoforado)

Prima lettera:
Considera, amor mio, sino a qual estremo sei stato imprevidente: infelice, sei stato tradito e mi hai tradito con ingannevoli speranze!
Una passione, dalla quale ti ripromettevi tanto piacere, non mi cagiona, ora, che una disperazione mortale, solo comparabile, per me, alla crudeltà dell'assenza che la causa.
E quest'assenza - alla quale il mio dolore, per sagace che possa essere, non può dare un nome abbastanza funesto - mi priverà dunque, per sempre, di mirare quegli occhi nei quali vedevo tanto amore, e svelavano sensi che mi colmavano di gioia, ed erano tutto per me e bastavano alla mia vita?
Ahimè! che i miei occhi sono privi dell'unica luce che li animava: non restan loro che le lacrime, né mi servono ad altro che per pianger senza tregua, da quando ho appreso che voi siete ormai risoluto ad una lontananza, tanto insopportabile che mi farà morire in breve tempo!
E tuttavia mi sembra di avere dell'affetto per le sventure di cui siete la sola causa: vi ho destinato la vita appena vi ho visto, e mi dà diletto il sacrificarvele. Vi invio mille volte al giorno i miei sospiri; questi vi ricercano ovunque e, per tutta ricompensa a tante ingratitudini, mi riportano solo l'avvertimento troppo sincero che mi manda la mia sventura, la quale ha la crudeltà di non permettermi illusioni, e che mi dice in ogni istante: "Cessa, povera Marianna, di consumarti invano e di cercare un amante che più non rivedrai; che ha traversato i mari - per fuggirti; ch'è in Francia tra i piaceri, senza pensare un istante ai tuoi dolori, e ti fa grazia di tutti gli slanci, dei quali non ti è affatto grato"
Ma no, non posso risolvermi a giudicarvi così offensivamente, e ho troppo interesse a giustificarvi: non voglio neppur pensare che m'abbiate dimenticata. Non sono forse abbastanza infelice per tormentarmi con falsi sospetti? E perché dovrei sforzarmi a dimenticare le premure che avete avuto per testimoniarmi dell'amore? Di questo sono stata tanto felice, che sarei ben ingrata se non vi amassi con l'impeto che la passione mi dava quando godevo della testimonianza della vostra.
Come può essere che i ricordi di momenti così gradevoli siano divenuti tanto crudeli; ed occorre proprio che, contro la loro natura, non servano se non a torturarmi il cuore?
Ahimè, che la vostra ultima lettera me lo ridotto in un pietoso stato: i suoi palpiti furono così forti che mi sembrò separarsi da me per venirvi a trovare. Fui così oppressa da tutte queste violenti emozioni che rimasi più di tre ore fuor di me, proibendomi di ritornare a una vita che dovrò perdere per voi, poiché per voi non posso conservarla.
Tornai infine, mio malgrado, alla luce, lusingandomi nel sentirmi morir d'amore, e mi sentivo a mio agio nel non essere più esposta a vedermi lacerare il cuore dal dolore della vostra assenza.
Dopo queste traversie ho avuto molte e varie indisposizioni. Come potrò infatti essere senza mali sinchè non vi rivedrò? Ma li sopporto senza lamentarmi perché mi vengono da voi.
È questa la ricompensa che voi mi date per avervi così teneramente amato? Ma non importa: sono risoluta ad adorarvi tutta la vita e a non vedere nessuno, e vi assicuro che anche voi farete bene a non amar altri; come potreste essere soddisfatto d'una passione meno ardente della mia? Vi trovereste forse maggior bellezza (mi confidaste, tuttavia, un tempo, ch’ero abbastanza bella), ma non trovereste mai tanto amore; e tutto il resto è nulla.
Non riempite più le vostre lettere di cose inutili e non scrivetemi più che mi ricordi di voi. Io non posso dimenticarvi, e non dimentico neppure che mi avete fatto sperare che verrete a passare qualche tempo con me. Oh, perché mai non volete passarvi tutta la vita? Se mi fosse possibile uscire da questo infelice chiostro, non attenderei in Portogallo l'esito delle vostre promesse: senza ritegno verrei a cercarvi, vi seguirei e vi amerei ovunque.
Ma non oso lusingarmi che ciò possa essere: non voglio nutrire una speranza che mi darebbe certo qualche piacere e non voglio essere più sensibile che ai dolori.
Debbo confessarvi, ciononostante, che l'occasione di scrivervi, offertami da mio fratello, ha destato in me qualche moto di gioia ed ha sospeso qualche istante la disperazione in cui giaccio.
Vi supplico di dirmi perché vi siete dedicato tanto ad ammaliarmi, come avete fatto, dal momento che sapevate bene di dovermi abbandonare, e perché vi siete tanto impegnato a rendermi infelice e non mi avete lasciata tranquilla nel mio chiostro. Vi ho forse offeso? Ma vi chiedo perdono: non vi accuso di nulla, non posso pensare a vendicarmi; accuso solo l'asprezza del mio destino. Separandoci, ci ha fatto tutto il male che potevamo temere, ma non saprebbe separare i nostri cuori: l'amore, ch'è più potente di lui, li ha uniti per tutta la vita.
E se la mia vi interessa ancora, scrivetemi spesso; merito bene che voi vi diate cura di farmi conoscere lo stato del vostro cuore e della vostra sorte. Ma soprattutto tornate a vedermi.
Addio; amatemi sempre e fatemi soffrire più ancora.

Terza lettera:
Che sarà di me, e che vorrete ch'io faccia? Sono così lontana da quanto avevo previsto; credevo che mi avreste scritto dai luoghi ove sareste passato, che le vostre lettere sarebbero state lunghissime, che avreste sostenuto la mia passione con la speranza di rivedervi, che una fiducia totale nella vostra fedeltà mi sarebbe valso qualche sollievo, e che sarei rimasta tuttavia in uno stato sopportabile senza addolorarmi troppo. Avevo anche vagamente pensato di fare ogni sforzo per guarire, se fossi stata sicura che mi avreste dimenticata del tutto.
Il vostro allontanamento, qualche risveglio di devozione, il timore di rovinare completamente il resto della mia salute con tante veglie e tante inquietudini, le poche probabilità del vostro ritorno, la freddezza del vostro amore e dei i vostri ultimi addii, la partenza fondata su pretesti abbastanza futili e mille altre ragioni (che non sono né buone né giuste) sembravano promettermi un aiuto abbastanza sicuro, se fosse stato necessario.
Non avendo infine che da combattere contro me stessa, non potevo mai sospettare tutte le mie debolezze né sapere quanto soffro oggi. Ahimè, come sono da compiangere per non poter condividere i miei dolori con voi ed essere la sola infelice!
Questo pensiero mi uccide, e mi sgomenta l'ammettere che voi non siate estremamente sensibile a tutti i nostri piaceri. Conosco ora la falsità dei vostri entusiasmi; mi avete ingannata tutte le volte che mi dicevate di essere felice di rimanere solo con me; debbo esclusivamente alle mie insistenze le vostre premure e i vostri slanci. A sangue freddo avevate divisato di infiammarmi; non avete considerato la mia passione che come una vittoria e il vostro cuore non n'è mai stato profondamente turbato.
Siete ben infelice e d'animo ben poco delicato se non avete saputo approfittare che in questo modo dei miei sentimenti. E come è possibile che con tanto amore non abbia potuto rendervi completamente felice?
Rimpiango solo per amor vostro i piaceri infiniti che avete perduti; bisogna proprio che non abbiate voluto goderli. Ah, se li conosceste, trovereste certamente che sono più dolci dell'avermi sedotta, e provereste che non si è molto più felici e si sente qualcosa di ben più profondo quando si ama violentemente che quando si è amati.
Non so chi sono, né quel che faccio, né quel che desidero; mille sentimenti contrari mi lacerano. Può immaginarsi uno stato più penoso? Vi amo perdutamente ed ho per voi tanta delicatezza da non osare di augurarvi che siate agitato dagli stessi sentimenti. Mi ucciderei, o morirei di dolore senza uccidermi, se io fossi certa che non avete mai riposo, che la vostra vita non è che affanno e agitazione, che piangete senza tregua e che tutto vi è odioso: se non sopporto i miei mali, come potrei tollerare il dolore che mi darebbero i vostri, per me mille volte più sensibili?
Nondimeno non so decidermi a desiderare che non mi pensiate e, a parlarvi sinceramente, sono furiosamente gelosa di tutto quello che vi dà gioia e di quanto commuove il vostro cuore e di quanto vi piace in Francia.
Non so perché vi scrivo: vedo bene che avrete solo della pietà, e pietà non voglio.
M’indigno con me stessa quando penso a tutto quello che vi ho sacrificato; ho perduta la reputazione, mi sono esposta al furore dei miei e alla severità delle nostre leggi contro le religiose, e alla vostra ingratitudine, ciò che mi sembra la maggiore delle disgrazie.
Nondimeno sento bene che i miei rimorsi non sono veri e che, con tutto il cuore, avrei voluto correre, per amor vostro, pericoli maggiori.
Provo un forte piacere nell'aver arrischiato la mia vita e il mio onore. Quanto ho di più prezioso non doveva essere per voi? E non debbo essere lieta di averveli offerti, come ho fatto? Mi pare persino di non essere del tutto contenta né dei miei dolori né della forza del mio amore, ancorché non possa lusingarmi d'essere soddisfatta di voi. Con tutto ciò vivo, infedele che sono, e faccio tanto per conservarmi la vita quanto per perderla. Muoio di vergogna: la mia disperazione è dunque solo nelle lettere? Se vi amassi veramente come ho detto mille volte, non dovrei essere già morta da molto tempo? Vi ho ingannato e dovete voi lamentarvi di me; perché non lo fate? Vi ho visto partire e non spero di vedervi più ritornare, e con tutto ciò respiro…
Vi ho tradito e ve ne domando perdono, ma non accordatemelo; trattatemi duramente; trovate che i miei sentimenti non sono abbastanza ardenti, e siate più difficile da accontentare; esigete che io muoia d'amore per voi.
Vi scongiuro di aiutarmi affinché possa vincere la debolezza del mio sesso e finire le mie irresoluzioni in una vera disperazione: una fine tragica vi obbligherebbe certo a pensarmi spesso; la mia memoria vi sarebbe cara e sareste forse commosso di una morte insolita. E non è preferibile questa allo stato in cui mi avete ridotta?
Addio, vorrei proprio non avervi mai visto! No: sento che questo è falso, e nel momento in cui scrivo so che preferisco di molto essere disgraziata amandovi che non avervi mai visto. Mi rassegno dunque al mio cattivo destino, poiché non avete voluto renderlo migliore.
Addio: promettetemi di rimpiangermi teneramente se morrò di dolore, e che almeno la violenza del mio amore vi dia il disgusto e l'allontanamento da tutto. Questa consolazione mi basterà, se è necessario che io vi lasci per sempre, poiché non vorrei proprio lasciarvi ad un'altra.
Sareste abbastanza crudele di servirvi della mia disperazione per rendervi più interessante e dare a conoscere di aver suscitato il più grande amore del mondo?
Addio una volta ancora: vi scrivo lettere troppo lunghe e non ho abbastanza riguardo per voi; ve ne domando perdono ed oso sperare che avrete dell'indulgenza per una povera pazza, che non lo era affatto - come sapete - prima che vi amasse.
Addio: mi sembra di parlarvi troppo spesso dello stato insopportabile in cui mi trovo; nondimeno vi ringrazio dal profondo del mio cuore della disperazione che mi causate e detesto la tranquillità in cui ho vissuto prima che vi conoscessi.
Addio ... la mia passione aumenta ad ogni istante; quante cose avrei da dirvi ...
Mariana Alcoforado
 

31 - Una lettera di Kant (1792) (Immanuel Kant)

(con cui risponde alla signorina Maria von Herbert, la quale, abbandonata dall'amante per un'innocente bugia, aveva mandato a Kant una disperata lettera per chiedergli conforto. "Il mio cuore scoppia in mille pezzi (dice la povera innamorata); ho letto la “Metafisica dei costumi” con l'imperativo categorico, ma non mi serve... e quindi scongiura Kant che le mandi una lettera di consolazione. La signorina von Herbert scrisse ancora a Kant qualche lettera sconsolata, ma in tono più tranquillo; dopo una vita agitata, essa cercò la morte nelle acque della Drava il 23 maggio 1803.)
La Sua lettera appassionata, scaturita da un cuore fatto per la virtù e la rettitudine, perché così aperto ai loro ammaestramenti, pura e dignitosa, mi trae nel senso che Ella desidera, cioè a mettermi nella Sua posizione ed a riflettere sopra il modo di ricondurre con mezzi puramente morali - che sono i soli definitivamente efficaci - la pace nell'anima Sua. Io ignoro se il rapporto Suo con l'oggetto amato, la cui disposizione deve essere altrettanto pura e rispettosa della virtù e della rettitudine - che è l'anima della virtù - sia un vincolo legittimo o semplice amicizia. Ho creduto di capire dalla Sua lettera che si tratti di amicizia: ma questo non porta in riguardo a ciò che La addolora, nessuna differenza essenziale, perché l'amore, sia verso un marito o verso un amico, presuppone sempre una vicendevole stima per il carattere dell'altro, senza di che è soltanto una mobile illusione del senso.
Un tale amore, che solo è virtuoso (l'altro è inclinazione cieca), aspira a parteciparti nella sua totalità e attende da parte dell'altro una simile partecipazione d'affetto, non attenuata da alcun diffidente riserbo. Così dovrebbe essere, così vuole l'ideale dell'amicizia. Ma dal cuore dell'uomo è inseparabile una certa impurità la quale limita, dove più, dove meno, questa perfetta lealtà. Sopra questo ostacolo ad una reciproca effusione del cuore, sopra la segreta diffidenza e il riserbo, i quali fanno sì che anche nella più stretta intimità con l'amico rimanga sempre una parte dei pensieri in cui l'uomo rimane solo e chiuso in sé, hanno già gli antichi fatto sentire il lamento: “o amici, non vi sono amici?” E tuttavia l'amicizia, la cosa più dolce che abbia la vita umana, può solo vivere nella lealtà ed è l'aspirazione più viva delle anime ben fatte.
Da un tale riserbo, inteso come mancanza di abbandono, che non può, come sembra, essere attribuito in tutta la sua pienezza alla natura umana (poiché ciascuno teme con il disvelarsi completamente di rendersi spregevole agli occhi altrui), è tutta via ben diversa la mancanza di sincerità come menzogna positiva nella comunicazione del pensiero. La prima appartiene ai limiti della nostra natura e non corrompe propriamente il carattere, ma è soltanto un male che impedisce di trarne tutto il bene possibile. La seconda invece è una corruzione del carattere ed è un male positivo. Ciò che dice l'uomo schietto, ma riservato (non d'animo aperto) è tutto vero: solo egli non dice tutta la verità. Il non sincero invece dice qualche cosa della cui falsità egli è conscio. Questo è ciò che la morale chiama menzogna. Essa può anche essere senza cattive conseguenze, ma non è mai cosa innocente: che anzi essa è un peccato contro il dovere più sacro che abbiamo verso noi stessi, la cui trasgressione degrada la dignità umana nella nostra persona e attacca il carattere nella sua radice; perché l'inganno rende dubbio e sospetto e toglie anche di aver fiducia nella virtù, se si deve giudicarla dall'esterno.
Ella vede che, cercando per consiglio un medico, ne ha trovato uno che non è prodigo di lusinghe; e, mentre attendeva in me un intermediario fra Lei e il Suo amico del cuore, il mio modo di ristabilire l'accordo non è affatto schiavo dei privilegi del bel sesso, perché io do ragione al Suo amato e gli indico le ragioni che egli, come cultore della virtù, ha dalla sua parte e lo giustifico se, nel suo amore è diventato un po' incerto sotto l'aspetto della stima.
Quanto al primo punto debbo anzitutto consigliarla ad esaminarsi se gli amari rimproveri che Ella si fa per una menzogna, non inventata del resto per coprire alcun atto riprovevole, sono semplici rimpianti d'una commessa imprudenza o un'accusa interiore per l'immoralità contenuta nella menzogna. Nel primo caso Ella si rimprovera solo la lealtà della confessione, quindi si pente d'aver fatto il suo dovere (perché senza dubbio è dovere, quando alcuno ha tratto altri in un errore, il ritrarmelo anche se ciò sia accaduto senza danno): e perché Ella si pente di questa confessione? Perché essa Le è caramente costata e Le ha fatto perdere la fiducia del Suo amico, questo pentimento non è per nulla morale nel suo motivo, perché ne è causa non la coscienza dell'atto, ma quella delle sue conseguenze. Se invece il rimorso che La cruccia è fondato realmente sul puro giudizio morale della Sua condotta, sarebbe un cattivo medico morale quello che Le consigliasse, poiché ciò che è fatto non può disfarsi, di cancellare dal Suo spirito questo rimorso e solo attenersi d'ora innanzi con tutto l'animo ad una rigorosa sincerità; perché la coscienza deve tener atto di tutti i trascorsi, come un giudice che non annulla gli atti delle colpe giudicate, ma le conserva nell'archivio per aggravare, conforme a giustizia, il suo giudizio nel caso di nuova accusa per simili od altri misfatti. Ma covare nell'anima questo pentimento e, poiché già si è entrati in un'altra disposizione, rendersi impossibile la vita con continui rimorsi per una disposizione passata e ormai irrimediabile sarebbe un superstizioso concetto del merito del tormentarsi: che, come altri pretesi esercizi religiosi consistenti nell'assicurarsi il favore delle potenze superiori senza aver bisogno di diventare migliori, non ha nulla a vedere con la morale.
Se ora questo mutamento della disposizione interiore si riveli all'amico Suo (perché la sincerità ha i suoi accenti), basterà il tempo a cancellare a poco a poco le tracce di quel giusto corruccio fondato esso stesso sulle massime della virtù ed a mutare la freddezza in un affetto più saldo di prima. E se questo non riuscisse, ciò sarebbe segno che la sua inclinazione era più fisica che morale e sarebbe scomparsa da sé col tempo anche senza di questo: una disgrazia, che può capitare nella vita e di cui bisogna sapersi consolare: perché il valore della vita non sta tanto in quello che possiamo godere da parte degli uomini quanto nel bene che possiamo fare: solo sotto questo riguardo essa è degna di venir apprezzata altamente e conservata con cura e seriamente rivolta ai fini del bene. Così Ella ha, mia cara Signorina, come si usa nelle prediche, dottrina, castigo e consolazione ad ogni tempo: io La prego di fermarsi più sulla prima che sull'ultima, perché quando la dottrina abbia fatto il suo effetto, la consolazione e la perduta serenità della vita, si ritroveranno da sé.
Immanuel Kant

32 - Qualche lettera di Flaubert a Louise Colet (Gustave Flaubert)

(Louise Révoil - 1810/1876 -, moglie del musicista Hippolyte Colet, godette negli ultimi anni della monarchia di Luglio e nel primo decennio del Secondo Impero, di larga notorietà: scrisse poemi, romanzi, drammi, studi storici; ebbe a Parigi un salotto frequentato da V. Hugo, A. de Vigny, A. de Musset, E. de Girardin, F. David e altri; meritò più volte i lauri dell'Accademia Francese. Alta, formosa, con grandi occhi azzurri e splendidi capelli biondi ricadenti in lunghi riccioli, “non priva né di vistoso splendore né di carnosa opulenza, ma senza distinzione e senza castità…” come di lei diceva Barbey D'Aurevilly, era stata per molti anni l'amante di Victor Cousin e fu poi fatta segno alle premure galanti del de Musset. La sua relazione con il Flaubert durò - con varie alternative e non poche crisi – dalla metà del 1846 al principio del 1855.)

Croisset, sabato 8 agosto 1846
Da quando ci siam detti che ci amiamo, tu mi chiedi perché io esiti ad aggiunger "per sempre". Perché? perché prevedo l'avvenire, io; perché l'antitesi si leva di continuo davanti ai miei occhi. Non ho mai guardato un bambino senza mai pensare che sarebbe divenuto vecchio, né una culla senza pensare a una tomba. La contemplazione di una donna nuda mi fa pensare al suo scheletro. Per questo gli spettacoli allegri mi rendono triste, e quelli tristi mi commuovono poco. Piango troppo dentro di me per versare lagrime al di fuori; una lettura mi commuove più di una sventura reale. Quando avevo una famiglia spesso desideravo di non averne, per essere più libero, per andare a vivere in Cina o tra i selvaggi. Adesso che non l'ho più, la rimpiango e mi aggrappo ai muri dove rimane ancora la sua ombra. Altri sarebbero orgogliosi dell'amore che mi prodighi, la loro vanità vi si disseterebbe intera e il loro egoismo di maschi ne sarebbe lusingato sin nelle più intime fibre. Tutto ciò invece mi fa mancare il cuore di tristezza, quando i momenti di ardore son passati; perché mi dico: "Lei mi ama e anch'io l'amo, ma non abbastanza. Se non mi avesse conosciuto, le avrei risparmiato tutte le lagrime che ora versa"...
Ti debbo una franca spiegazione di me stesso per rispondere a una pagina della tua lettera che mi lascia scorgere le illusioni che hai sul mio conto. Sarebbe vile da parte mia (e la viltà è un vizio che mi disgusta, sotto qualunque aspetto si mostri) farle durare più a lungo.
Il fondo della mia natura è, checché si dica, il saltimbanco. Nella mia infanzia e nella mia giovinezza ho avuto un amore sfrenato per il palcoscenico. Se il cielo mi avesse fatto nascere povero, sarei stato forse un grande attore. Anche oggi, quel che amo più di ogni cosa al mondo è la forma, purché sia bella, e niente più. Le donne, che hanno il cuore troppo ardente e la mente troppo esclusiva, non capiscono questa religione della bellezza, astrazion fatta dal sentimento. Hanno sempre bisogno di una causa, di uno scopo. Io ammiro tanto l'orpello quanto loro. La poesia dell'orpello è, anzi, superiore, perché è triste. Per me, al mondo - non ci sono che i bei versi, le frasi ben tornite, armoniose, cantanti, i bei tramonti, i chiari di luna, i quadri pieni di colore, i marmi antichi e le teste dalle linee risentite. Null'altro. Avrei preferito essere Talma che Mirabeau, perché l'attore è vissuto in una sfera di bellezza più pura. Gli uccelli in gabbia mi fanno pena quanto i popoli in schiavitù. Di tutta la politica capisco una sola cosa: la sommossa. Fatalista come un Turco, credo che fare tutto il possibile per il progresso dell'umanità o non fare nulla, sia lo stesso. Quanto al progresso, ho la mente ottusa per le idee poco chiare. Tutto quello che appartiene a tale linguaggio, mi annoia smisuratamente. Detesto la tirannide moderna perché mi sembra stupida, debole e timorosa di sé: ma ho un culto profondo per la tirannide antica, che considero come la più bella manifestazione dell'uomo che sia mai stata. Sono, anzitutto, l'uomo della fantasia, del capriccio, del saltuario. Ho sognato a lungo e serissimamente (non ridere, è il ricordo delle mie più belle ore) di andar a farmi rinnegato a Smirne. Un bel giorno andrò a vivere lontano di qui, e non si sentirà più parlare di me. Quanto a ciò che di solito attrae maggiormente gli uomini, e che per me è secondario, in fatto di amore fisico, io l'ho sempre separato dall'altro. L'altro giorno, ho visto che, parlando di B., tu ridevi di questo. Era la mia storia. Tu sei davvero la sola donna ch'io abbia amata e che abbia avuta...
Ne ho amata una, dai quattordici anni ai venti, senza dirglielo, senza neppure toccarla; e poi sono rimasto quasi tre anni senza sentire il mio sesso. Per un momento ho creduto che sarei morto così, e ne ringraziavo il cielo. Vorrei non avesse né corpo né cuore, o, meglio, vorrei esser morto, perché la figura che faccio quaggiù è molto ridicola. È questo ciò che mi rende timido e diffidente di me stesso. Tu sei la sola donna alla quale io abbia osato di voler piacere, e forse la sola a cui sia piaciuto. Grazie, grazie, ma mi capirai sino in fondo; saprai sopportare il peso della mia noia, le mie manie, i miei capricci, le mie crisi di sconforto e i miei furiosi risvegli? Mi dice, ad esempio, di scriverti tutti i giorni, pronta a redarguirmi se non lo farò. Ebbene, il solo pensiero che vuoi una lettera ogni mattina m’impedirà di scriverla. Lascia che ti ami a mio modo, conforme al mio carattere, con quella che tu chiami la mia originalità. Non mi forzare a nulla e farò tutto. Cerca di capirmi, e non rimproverarmi. Se ti giudicassi leggera e sciocca come le altre donne, ti colmerei di parole, di promesse, di giuramenti. Che cosa mi costerebbero? Nulla. Ma preferisco restare al di sotto che al disopra della sincerità del mio cuore.
I Numidi - narra Erodoto - hanno una strana usanza. Bruciano ai loro piccoli la pelle del cranio con dei carboni, poiché poi siano meno sensibili all'azione del sole, che nel loro paese è divorante. Così, sono tra i popoli della terra quelli più robusti. Fa' conto ch'io sia stato allevato in Numidia. Bella fatica dir loro: "Voi non sentite nulla; neppure il sole vi brucia!" Oh, non temere: benché incallito il mio cuore è buono!
G.
Gustave Flaubert (1821‑1880)

Croisset, 9 agosto 1846
...La deplorevole mania dell'analisi mi esaurisce. Dubito di tutto, persino del mio dubbio. Mi hai creduto giovane e sono vecchio. Ho parlato sovente con i vecchi dei piaceri di quaggiù, e son sempre rimasto stupito dell'entusiasmo che rianimava allora i loro occhi spenti, mentre essi non riuscivano a capacitarsi della mia maniera d'essere e mi ripetevano: "Voi! alla vostra età! alla vostra età!" Se da me si togliessero l'esaltazione nervosa, la fantasia, l'emozione del momento, resterebbe ben poco. Eccoti l'uomo nel suo intimo. Non sono fatto per godere. Non devi prendere questa frase in un senso terra a terra, ma sentirne l'intensità metafisica. Mi continuo a dire che ti renderò felice, che senza di me la tua vita non sarebbe stata turbata, che verrà un giorno in cui ci separeremo (e me ne indigno fin d'ora). Allora mi sale alle labbra la nausea della vita, e sento un disgusto inaudito di me stesso e una tenerezza tutta cristiana per te.
Mi parli di lavoro. Sì, lavora: ama l'Arte. Tra tutte le menzogne è la meno fallace. Cerca di amarla di un amore ardente, esclusivo, devoto. Non ti deluderà.
Solo l’Idea è eterna e necessaria. Non ci sono più, come un tempo, di quegli artisti la cui vita e il cui spirito erano lo strumento cieco della bramosia del bello: organi di Dio, con i quali egli provava sé a se stesso. Per loro, il mondo non esisteva; nessuno ha saputo nulla dei loro dolori; ogni sera si coricavano tristi, e guardavano la vita con occhi colmi di stupore, come noi contempliamo dei formicai.

Croisset, mercoledì, le dieci di sera (26 agosto 1846)
Dolce attenzione la tua d'inviarmi ogni mattina il resoconto della giornata precedente. Per quanto uniforme sia la tua vita, tu almeno hai qualcosa da dirmi. Ma la mia è un lago, un mare stagnante, che nulla agita e dove non appare nulla. Ogni giorno somiglia al precedente; posso dire quel che farò tra un mese, tra un anno, e considero ciò come un segno non solo di saggezza, ma di fortuna. Così non ho quasi mai nulla da dirti. Non ricevo nessuna visita, non ho a Rouen nessun amico, nulla del mondo esterno penetra sino a me. Non c'è orso bianco sui suoi ghiacci polari che viva in un più profondo oblio della terra. Ci sono portato smisuratamente dalla mia natura e, in secondo luogo, per arrivarci ci ho messo dell'arte. Mi sono scavato il mio buco e ci resto, avendo cura che la temperatura vi rimanga sempre costante. Che cosa potrebbero insegnarmi quei benedetti giornali che tu desideri tanto di vedermi prendere al mattino, con una tartina imburrata e una tazza di caffelatte? Che cosa vuoi che m'importi di quel che dicono? Sono poco curioso di notizie; la politica m'annoia, l'articolo d'appendice mi nausea: tutto ciò mi abbruttisce e mi irrita. Mi parli di un terremoto a Livorno. Anche se aprissi la bocca per dire le frasi d'obbligo in tali casi: "Che disgrazia! che orribile disastro! com'è possibile? oh, Dio mio!", ridarebbe questo la vita ai morti, gli averi ai poveri? C'è in tutto ciò un senso riposto che ci sfugge, e che è certamente di una utilità superiore, come la pioggia e il vento: per il fatto che le nostre poponaie sono state distrutte dalla grandine, non dobbiamo voler sopprimere gli uragani. Chi sa se il vento che scoperchia la casa non dilati un'intera foresta? E perché mai il vulcano che sconvolge una città non potrebbe fecondare una provincia? Ecco ancora una volta il nostro orgoglio: facciamo di noi stessi il centro della natura, lo scopo della creazione, la sua suprema ragion d'essere. Tutto quello che non si conforma a quest'idea ci stupisce, tutto quello che la contrasta ci esaspera...
Sì, sento un profondo disgusto per i giornali, ossia per l'effimero, per il transitorio, per quanto oggi è importante ma domani non lo sarà più.
Non è insensibilità, la mia. Piuttosto, simpatizzo ugualmente, e forse ancor più, con le miserie scomparse dei popoli estinti a cui nessuno pensa più, con tutte le grida che hanno gettate, e che più non si sentono. Non m’impietosisco sulla sorte delle classi operaie odierne di più che su quella degli antichi schiavi, i quali giravano la mola; non di più o altrettanto. Non sono più moderno che antico, più francese che cinese, e l'idea di patria , cioè l'obbligo di vivere in un angolo di terra segnato sulla carta in color rosso o blu e di detestare quelli segnati in verde o in nero, m'è sempre parsa angusta, gretta e di una stupidità feroce. Sono fratello in Dio di ogni essere vivente, della giraffa e dei coccodrillo come dell'uomo, e concittadino di tutto ciò che abita nel grande albergo dell'Universo...
Ieri e oggi abbiamo fatto una bella passeggiata; ho visto delle rovine, delle rovine amate sin dalla giovinezza, che conoscevo già, che mi ero recato spesso a visitare con coloro che non sono più. Ho ripensato a loro, e agli altri morti che non ho mai conosciuti e di cui i miei piedi calpestavano le tombe vuote. Mi piace soprattutto la vegetazione che cresce tra le rovine; quell'invasione della natura, che si stende subito sull'opera dell’uomo, quand'esso non è più lì a difenderla, mi riempie di una gioia profonda e vasta. La vita torna a posarsi sulla morte, fa spuntare l'erba nei crani pietrificati; e sulla pietra dove uno di noi ha scolpito il suo sogno, in ogni fioritura di violacciocche gialle riappare l'Eternità del Principio. Mi è dolce pensare che un giorno servirò a far crescere dei tulipani. Chi sa! La pianta sotto cui mi metteranno darà forse frutti eccellenti: sarò forse un ottimo concime, un guano superiore.

Croisset, domenica, ore quattro (27 marzo 1853)
L'impressione suscitata in te dalle mie note di viaggio (prese durante il viaggio di Fl. in Oriente) mi ha ispirato, cara Musa, strane riflessioni sul cuore dell'uomo e su quello delle donne. Sia ha un bel dire; ma decisamente non è lo stesso.
Da parte nostra, c'è la franchezza, se non la delicatezza, e abbiamo torto, perché questa franchezza è una forma di durezza. Se io non avessi scritto le mie impressioni d’ordine femminino, nulla ti avrebbe ferito. Le donne, invece, tengon tutto dentro il loro sacco; non si riesce mai a cavarne fuori una confidenza completa. Tutt'al più lasciano indovinare e, quando raccontano le cose, la salsa è tanta che la carne scompare. Ma noi, per due o tre misere fedeltà, in cui il cuore non ha nessuna parte, il loro si mette a gemere. Strano, strano! mi rompo la testa a comprendere tutto questo, sebbene vi abbia riflettuto parecchio. Insomma (mi rivolgo al Tuo cervello, cara e buona donna), perché codesto piccolo monopolio del sentimento? Tu sei gelosa della sabbia su cui ho posato i piedi, senza che un granellino me ne sia penetrato nella pelle, mentre ho nel cuore la profonda intaccatura che tu ci hai fatto. Avresti voluto che il tuo nome ricorresse più spesso sotto la mia penna? Osserva però che non ho scritto una sola riflessione: formulavo, e con la massima concisione il puro indispensabile, cioè le impressioni, e non il sogno o il pensiero.
Quanto a Ruchouk-Hâanem, rassicurati e, insieme, correggi le tue idee sull'Oriente. Persuaditi che, riguardo il morale, essa non ha sentito proprio nulla, te lo garantisco io; e ho i miei dubbi anche riguardo al fisico. Essa ci ha giudicato eccellenti 'signori' perché non abbiamo lesinato le piastre; ecco tutto.
La donna orientale è soltanto una macchina; e non fa differenza tra un uomo e un altro. Fumare, prendere il bagno, dipingersi le palpebre e bere caffè, ecco le occupazioni tra cui si aggira la sua esistenza. Ho visto danzatrici il cui corpo ondeggiava con la regolarità o la furia insensibile di una palma. Quell'occhio così pieno di profondità, in cui ci sono densità di colori come nel mare, esprime soltanto la calma; la calma e il vuoto come il deserto. Gli uomini sono anch’essi così. Che teste stupende, sembra che in esse si agitino i più profondi pensieri del mondo. Ma battici sopra, e vedrai quel che può venir fuori da un boccale senza birra o da un sepolcro vuoto. Da che deriva, allora, la maestà dei loro lineamenti? Probabilmente dall'assenza di qualsiasi passione. Hanno la bellezza dei tori che ruminano, dei levrieri che corrono, delle aquile che spaziano nei cieli. Il senso della fatalità che li riempie di sé, la convinzione della nullità dell'uomo, dà alle loro azioni, ai loro atteggiamenti, ai loro sguardi un carattere grandioso e rassegnato. Le vesti molli e che si prestano docili a tutti i gesti, sono sempre in rapporto con le funzioni dell'individuo per la linea, con il cielo per il colore, ecc. E poi, c'è il sole, il sole! e un tedio immenso che divora tutto.
Quando farò della poesia orientale (anch'io ne farò, perché è di moda e tutti ne fanno), cercherò di metter in rilievo tutto questo. Sinora l'Oriente è apparso alcunché di scintillante, di urlante, di appassionato, di contrastato. Si son viste in esso soltanto baiadere e scimitarre, il fanatismo, la voluttà, ecc. In una parola, si è rimasti ancora a Byron. Io l'ho sentito in tutt'altro modo. Ciò che a me piace nell'Oriente è la grandezza che ignora se stessa, e l'armonia tra cose disparate. Mi ricordo un bagnante che portava al braccio sinistro un braccialetto d'argento e all'altro un vescicante. Ecco l'Oriente vero e, perciò, poetico; cialtroni con stracci gallonati e tutti coperti di pidocchi. Lasciateli stare i pidocchi! al sole diventano arabeschi d'oro. Tu mi dici che le cimici di Ruchouk-Hâanem te la degradano, esse invece m'incantavano. Il loro odore nauseante si mescolava al profumo della sua pelle mescolata di sandalo. Io voglio che per ogni cosa ci sia un'amarezza, che in mezzo ai nostri trionfi risuoni un eterno colpo di fischietto e che pur nell'entusiasmo ci sia la desolazione. Mi ricordo di Giaffa; entrandoci, respiravo insieme l'odore degli aranceti e quello dei cadaveri, il cimitero diroccato lasciava scorgere gli scheletri mezzo imputriditi, mentre gli arbusti verdeggianti cullavano sopra le nostre teste i loro frutti dorati. Non senti tu come que sta poesia è completa, e che costituisce la grande sintesi? Tutte le brame dell'immaginazione e del pensiero ci trovano insieme il loro appagamento; essa non lascia nulla dietro di sé. Ma gli uomini di buon gusto, le persone che adorano gli abbellimenti, le purificazioni, le illusioni, che scrivono manuali di anatomia per le dame che fanno della scienza alla portata di tutti, del sentimento amabile e dell'arte galante, modificano, tolgono via e pretendono d'esser classici, gli sciagurati! Ah, come vorrei essere dotto! Scriverei un bel libro, intitolato "Su l'interpretazione, dell'antichità". Perché sono sicuro di essere nella tradizione; ci aggiungo solo il sentimento moderno.
Ma, lo ripeto ancora una volta, gli antichi non conoscevano quel sedicente genere nobile! non c'era per loro nulla che non si potesse dire. In Aristofane, si caca sulla scena. Nell'Aiace di Sofocle, il sangue degli animali sgozzati scorre intorno all'eroe che piange.
Cerchiamo di vedere, dunque, le cose quali sono, senza pretendere di essere più intelligenti del buon Dio. Un tempo, si credeva che lo zucchero si potesse estrarre soltanto dalla canna da zucchero, oggi invece lo si estrae pressoché da tutto. Lo stesso avviene per la poesia. Ricaviamola non importa da dove, perché si trova in tutto e dappertutto. Non c'è atomo di materia che non contenga pensiero; e avvezziamoci a considerare il mondo come un'opera d'arte, di cui bisogna riprodurre i procedimenti nelle nostre opere.
Quanto a me, più provo difficoltà a scrivere e più aumenta la mia audacia (cosa che mi salva dalla pedanteria, in cui altrimenti cadrei di sicuro). Ho progetti di opere per tutta la vita; e, se talvolta passo momenti agri che mi fanno quasi urlare di rabbia, ce ne sono altri in cui stento a contenere la mia gioia. Qualcosa di profondo e di supervoluttuoso trabocca da me, a getti precipitosi. Mi sento rapito e inebriato dal mio pensiero come se attraverso uno spiraglio interiore mi giungesse una folata di caldi profumi. Non andrò mai molto lontano, so bene che cosa mi manca, ma il mio tentativo verrà portato a compimento da un altro; avrò messo sulla via qualcuno meglio dotato di me e più "nato". Voler dare alla prosa il ritmo del verso (lasciandola prosa, arciprosa) e scrivere la vita ordinaria come si scrive la storia o l'epopea (senza snaturare il soggetto) è, forse, un'assurdità (ed è quel che mi chiedo qualche volta), ma è fors’anche un grande tentativo profondamente originale. So bene qual'è il mio punto debole. (Ah, se avessi quindici anni!) - Non importa, varrà sempre qualche cosa per la mia cocciutaggine, e poi, chi sa? un giorno troverò forse un buon "motivo", un'aria pienamente adatta alla mia voce, né un tono sopra né un tono sotto, e in ogni caso avrò sempre passato la vita nobilmente e deliziosamente. C'è una sentenza di La Bruyère, alla quale mi attengo: "Uno spirito retto crede di scrivere ragionevolmente". Scrivere ragionevolmente; ecco la mia aspirazione, ed è già una grande ambizione. Pure, c'è una cosa che rattrista: veder come i grandi uomini conseguono facilmente l'effetto, senza tanta arte. Che cosa c'è di peggio costruito in tante cose di Rabelais, di Cervantes, di Molière, di Hugo? Ma che folgoranti colpi di pugno! che potenza in una sola parola! Noi dobbiamo ammonticchiare l'uno sull'altro piccoli ciottoli per innalzare le nostre piramidi, che non raggiungono la centesima parte delle loro, composte di un blocco solo. Ma voler imitare i loro procedimenti tecnici, sarebbe perdersi: sono grandi proprio perché non ne hanno. Victor Hugo ne ha molti, ed è questo che lo sminuisce: manca di varietà, è sviluppato più in altezza che in ampiezza.
Gustave Flaubert (1821-1880)

33 - Beethoven, Bettina Arnim-Brentano e Goethe

(Bettina Brentano (1785-1859) di padre italiano, oriundo di Tremezzo sul lago di Como e cattolico, e di madre tedesca e protestante: Massimiliana La Roche di Francoforte sul Meno. La madre di costei, Sofia La Roche, famosa scrittrice del Settecento sentimentale, fu una delle fiamme giovanili di Goethe, il che non impediva alla nipote Bettina di nutrire per il cinquantottenne patriarca di Weimar - nel 1807 quando con costui incominciò a scrivergli - e anche in seguito - appassionati sentimenti di 'amicizia amorosa'. Bettina andò sposa col giovane e bellissimo Achim von Arnim. Essa fu a Vienna nel 1810, accompagnata dalla sorella - andata sposa al celebre giurista Carlo Savigny, amico d'infanzia di Beethoven - e in tale occasione si strinse d'amicizia con il grande Maestro).

Lettera di Bettina a Goethe:

Vienna, 28 maggio 1810

È Beethoven di cui ti voglio parlare oggi. Quando sono in sua compagnia io dimentico il mondo e dimentico anche te. Sono in grado di non sbagliare se affermo ciò che oggi forse nessuno capirà o vorrà credere, che egli nella sua interiore evoluzione avanza di gran lunga tutta l'umanità, e chissà se mai lo raggiungeremo. Io almeno ne dubito. Purché gli sia concesso di vivere fino a che sarà pienamente maturato in lui il portentoso e sublime mistero che anima il suo genio. Sì, possa egli raggiungere la sua meta sublime, ché certo egli ci lascerà in retaggio la chiave di una conoscenza divina, che ci avvicinerà d'un gradino alla vera beatitudine.
A te posso ben confessarlo: io credo a un divino incanto come a un elemento della natura spirituale. Ora, quest'incanto Beethoven l'esercita con l'arte sua. Quando egli ne parla, ne parla come di un'arte magica. E invero in lui si va organizzando un'esistenza superiore egli sente di essere il creatore d'una nuova base sensibile della vita dello Spirito. Spero che tu comprenderai ciò che voglio dire. Chi potrebbe sostituirci il suo genio? O da chi potremmo noi aspettarci un'opera che eguagli la sua? - Tutta la vita umana si svolge in lui come nel meccanismo d'un orologio, lui solo produce da se stesso l'imprevedibile, l'increato. E che potrebbe dare a lui il mondo, a lui, che prima del sorger del sole dà principio al suo sacro travaglio e quando è tramontato, appena si guarda d'attorno, a lui, che dimentica il cibo, e rapito nell'empito dell'entusiasmo, sorvola leggero sulla volgarità quotidiana?...
Egli ha tre ambizioni e si nasconde ora nell'una, ora nell'altra: la prima in campagna, la seconda in città, la terza sulla Mölkerbastei. Qui lo trovai, al terzo piano. Entrai senza farmi annunciare. Sedeva al piano. Gli dissi il mio nome ed egli mi accolse gentilmente e mi chiese se volevo sentire una canzone che aveva appunto composto. - Cantò allora, con voce ferma e incisiva, in modo da comunicare a chi l'ascoltava la profonda mestizia del canto, la canzone di Mignon. “È bella, non è vero?", mi domandò con calore, “è tanto tanto bella! La voglio cantare ancora una volta”. Gli fece grande piacere il mio giocondo applauso. "La maggior parte della gente", osservò, "si commuove quando sente una bella canzone, ma son quelli che non hanno attitudini artistiche; gli artisti, s’entusiasmano, non piangono." Cantò un'altra tua canzone, che ha pure composto in questi giorni: "Non v’asciugate, non v'asciugate, soavi lagrime, da amor sgorgate."
M'accompagnò a casa, e strada facendo mi disse cose meravigliose sull'arte. A starlo ad ascoltare ci voleva del coraggio, perché parlava a voce alta e ogni tratto si fermava. Parlava con passione e diceva cose così sorprendenti che arrivai alla mia abitazione senz'accorgemene. C'era da noi a pranzo molta gente e fu grande la sorpresa quando ci videro entrare insieme. Dopo il pranzo, si sedette al piano e sonò a lungo, meravigliosamente... Ci vediamo ogni giorno: o viene lui da noi, o vado io in casa sua. Per goder la sua compagnia, trascuro ogni altra cosa; la società, le gallerie, il teatro, lo stesso campanile di S. Stefano non hanno più attrattive per me. "Che vuol mai vedere lassù?" m'ha detto Beethoven. “Verrò a prenderla verso sera e faremo piuttosto insieme una passeggiata nei viali di Schönbrunn”.
Ieri sono stata con lui in un magnifico giardino. Tutto era in fiore, le serre aperte, il profumo inebriante. Beethoven si fermò al sole, benché facesse un gran caldo, e mi disse: "Le poesie di Goethe esercitano un grande fascino su di me, non solo per il contenuto, ma anche per il ritmo. Quella sua lingua meravigliosa, che quasi scala di Giacobbe ci guida a un'esistenza superiore e racchiude già in se il segreto delle più sublimi armonie, mi rapisce in un'atmosfera musicale, per cui la composizione ne viene spontanea. Dal centro dell'ispirazione, l'onda melodica si diffonde libera in tutte le direzioni. Io la seguo, la rincorro con ardore. Essa mi fugge dinanzi e scompare nell'intreccio dei motivi più diversi. Ma ben presto la riafferro con rinnovato ardore per non staccarmene più e rapito nel giubilo della creazione, ne centuplico le modulazioni, finché da ultimo l'originario pensiero musicale trionfalmente si afferma in tutta la sua pienezza. È così che nasce la sinfonia. Sì; la musica è la mediatrice fra la vita dei sensi e quella dello spirito. Vorrei parlare di quest'argomento con Goethe; forse lui mi comprenderebbe. La melodia è la vita sensibile della poesia. Non è forse la melodia che attraverso alla percezione dei sensi comunica al nostro sentimento la sostanza spirituale d'una poesia? Così nella canzone di Mignon tu senti, espresso nella melodia, tutto l'abbandono di quell'anima all'onda delle sensazioni e dei ricordi. E da questo sentimento rampollano sempre nuove creazioni melodiche. Lo spirito tende ad allargarsi fino ad abbracciare l'infinito, l'universale, fino ad accogliere e ad esprimere in un organismo complesso la fiumana dei sentimenti che, nati da un semplice pensiero musicale, rimarrebbero altrimenti per sempre inespressi, ignorati. Quest'é l'armonia, questo il significato delle mie sinfonie. Un'onda di motivi, di forme ricche, lussureggianti liberamente si svolge fino a raggiungere la meta. Nulla meglio della musica ti dà la sensazione che ogni opera dello spirito contiene in sé alcunché d'eterno, d'infinito, d'inafferrabile, e benché il produrre sia sempre accompagnato in me dal sentimento della riuscita, pure mi struggo nell'insaziabile brama di ricominciare, come un bambino, daccapo, ciò che mi sembrava interamente compiuto con l’ultima battuta, con la quale avevo cercato d'imprimere indelebilmente nell'animo degli uditori la mia convinzione musicale, il mio gaudio supremo. Parli a Goethe di me e gli dica che ascolti le mie sinfonie; allora certamente converrà meco nell'affermare che la musica sola può schiuderci col suo linguaggio incorporeo le porte di un mondo superiore di conoscenza, di cui l'uomo è, sì, parte, ma che egli non riesce mai a esplorare interamente...”
Gli promisi di scriverti tutto quanto aveva detto così come l'avevo potuto capire. Mi condusse a una prova con piena orchestra ... Qui vidi come questo genio titanico domina da sovrano il suo mondo. Ti dico che nessun re e nessun imperatore è così compreso del suo potere, nessuno come lui ha la sicura coscienza che tutta l’energia parte da lui solo ...
Bettina

Risposta di Goethe:

In un'ora felice m'è giunta la tua lettera, mia cara bambina. Tu hai fatto del tuo meglio per rappresentarmi una grande e bella natura dell'uomo nelle sue opere e nelle sue aspirazioni, nei suoi bisogni e nell'esuberanza dei suoi talenti. M'ha fatto grande piacere accogliere nel mio spirito l'immagine d'un uomo veramente geniale.
Non è già ch'io lo voglia classificare; ma ci vuole a ogni modo una grande penetrazione psicologica per poter stabilire quali siano i punti di contatto tra me e lui. Non ho tuttavia nulla da opporre a quanto della tua entusiastica effusione ho potuto afferrare; posso anzi fin d'ora assicurarti che fra la mia natura e la sua, quale si esprime nelle sue molteplici considerazioni, v'è un'intima corrispondenza. Forse una mente volgare scoprirebbe delle contraddizioni; ma le parole di chi è posseduto, come lui, dal demone, debbon esser accolte con umiltà dai profani, e sia che in lui parli il sentimento, sia l'intelletto, esse rimangon vere, perché son dono degli Dei, che vi spargono il seme d'una futura conoscenza, e a noi altro non resta che desiderare che i germi giungano a piena e libera maturazione. Ma prima che questa conoscenza divenga il comune patrimonio di tutti, è necessario che si diradino le nebbie che ancora offuscano lo spirito umano.
Dì a Beethoven, ti prego, tutto il mio affetto e assicuralo che farei volentieri qualunque sacrificio per conoscerlo di persona, ché uno scambio d'idee e di sentimenti sarebbero certo ad ambedue di grandissimo giovamento. Forse a te riesce d'indurlo a venire a Karlsbad, dove vado quasi ogni anno e avrei tutto l'agio di ascoltarlo e d'imparare da lui. Volergli insegnare qualcosa sarebbe un delitto anche per chi dell'arte fosse più intendente di me, perché il suo genio gli è lume sufficiente e spesso con un lampo gli rischiara la via, mentre noi altri sediamo nelle tenebre e a malapena intravediamo da qual parte spunterà il nuovo giorno.
Sarebbe per me una grande gioia, se Beethoven volesse mandarmi le mie due canzoni con la sua musica, ma mi raccomando che sian scritte in modo leggibile. Ho un gran desiderio di sentirle. È questo uno dei miei più grandi godimenti, e sento per chi me li procura la più viva riconoscenza, quando la melodia ridà forma sensibile (come bene s'esprime Beethoven) a sentimenti cui altra volta diedi espressione in una poesia.
G. - 6 giugno 1810

Bettina a Goethe:
luglio ‘10
Della tua bella lettera ho comunicato a Beethoven la parte che lo riguardava.
Ne fu molto soddisfatto e disse: "Se vi è qualcuno che possa fargli capire la musica, quest'uno sono io". Accolse con entusiasmo l'idea di venirti a trovare a Karlsbad; disse anzo, battendosi la fronte: "Perché non l'ho fatto prima? No, ch'io già ci pensai altra volta, ma poi non ne feci nulla, per timidezza. Come se non fossi anch'io un uomo come tutti gli altri! Ma di Goethe almeno ora non avrò più soggezione". Puoi dunque contare d'incontrarlo l'anno venturo.
B.

Lettera di Bettina al Dr. Antonio Biehler di Landshut -Baviera

9 luglio 1810
Solo negli ultimi giorni della mia dimora a Vienna ho fatto la conoscenza di Beethoven. Quasi sarei partita senza vederlo, perché nessuno, neppure i suoi più intimi amici, voleva condurmi da lui, per paura della sua malinconia, la quale per tal modo lo domina; ch’egli si disinteressa di tutto e di tutti ed è sgarbato coi forestieri che lo vengono a visitare...Nessuno sapeva indicarmi la sua abitazione; egli ha l'abitudine di rendersi spesso irreperibile. La sua abitazione è strana davvero. Nella prima stanza ci sono due o tre pianoforti, tutti senza gambe, alcuni bauli con la sua roba e una sedia che malamente si regge su tre gambe. Nella seconda stanza c'è il letto, che consiste d'inverno e d'estate d'un saccone e d'una coperta leggerissima, e su d'un tavolino di legno d'abete una catinella; la veste e la camicia da notte giacciono a terra. In questa stanza aspettammo una buona mezz’ora, perché Beethoven stava facendosi la barba. Finalmente venne. È piccolo di statura e di carnagione bruna. Il viso è deformato dal vaiolo, tanto che può dirsi brutto, ma ha una fronte divina, che l'interiore armonia ha inarcato in una linea così nobile e pura, che non si può fare a meno d’ammirarla come un magnifico capolavoro. I capelli ha neri e lunghissimi, e usa gettarli, con un movimento istintivo all'indietro. All'aspetto, dimostra appena trent'anni.
M'era stato detto che bisognava usare tutti i riguardi per non urtarlo; ma io, nel mio interno, m'ero fatta tutt'altra idea della sua nobile natura, e non avevo errato... Lo chiamano superbo, perché si rifiuta di sonare per il divertimento dell'imperatore e degli arciduchi, i quali pur gli pagano un'annua pensione. Ed è per Vienna un avvenimento quando suona in pubblico. Alla mia preghiera di volermi suonare un pezzo, rispose bruscamente: "E perché mai dovrei suonare?".
"Perché voglio arricchire la mia vita", gli risposi "delle impressioni più grandi e più belle, perché questo giorno deve iniziare un nuovo periodo nella mia esistenza".
Mi assicurò che avrebbe cercato di meritare questa lode e si sedette sull'orlo d'una sedia accosto al piano. Preludiò dapprima con una sola mano, quasi a vincere la ripugnanza che ha a farsi sentire da altri. Ma ad un tratto parve aver dimenticato i presenti: la sua anima si espandeva libera nello sconfinato oceano dell'armonia, ... Quando viene dal travaglio della composizione, è affatto sordo e non distingue gli oggetti del mondo esterno; e ciò accade perché l'armonia tiene ancora occupato il suo cervello ed egli non può rivolgere ad altro la sua attenzione. Gli è tolto adunque del tutto il mezzo di comunicare col mondo - l'udito -, per cui vive nella più profonda solitudine. A volte, quando si è parlato a lungo con lui e s'attende una sua risposta, egli prorompe improvvisamente in suoni sconnessi, prende fuori la carta da musica e si mette a scrivere...
È largo d'aiuto e di consiglio a quanti, desiderosi di progredire nella musica, si rivolgono alui. Il più modesto principiante può abbandonarsi con piena fiducia alla sua guida. L'uomo che non vuole sacrificare un'ora sola della sua libertà, è sempre pronto a consigliare, ad aiutare chiunque.

Prima lettera di Beethoven a Bettina:

Vienna, 11 agosto 1810
Amica carissima,
non c'è stata per me una primavera più bella della primavera di quest'anno, poiché ho fatto la Sua conoscenza. Lei stessa avrà osservato che in società io sono un pesce fuor d'acqua, che per quanto si svoltoli e rivolti nella rena, resta sempre là finché una Galatea pietosa non lo prende e lo riporta nell'ampio seno del mare. Sì, davvero, cara Bettina, io ero proprio come il pesciolino sulla rena, e Lei mi sorprese in un momento ch’ero oppresso dalla più nera malinconia. Ma non appena La vidi, ecco che la malinconia, come per un incanto, svanì; compresi subito che Lei apparteneva a un altro mondo, diverso da questo nostro così assurdo al quale, anche con la più buona volontà, non si possono aprire le orecchie. Io, che sono così infelice, mi lagno degli altri! Ma Lei vorrà perdonarmi, Lei che ha un così ottimo cuore, che Le parla dagli occhi, e un così eccellente giudizio, che sta tutto nei Suoi orecchi. (Se non altro, i Suoi orecchi sanno l'arte d'adulare mentre stanno in ascolto). Per me gli orecchi non sono, ahimè, che un ostacolo, che si frappone fra me e gli altri uomini, e non mi permette di comunicare amichevolmente con nessuno. Se non fosse così Le avrei forse dimostrato maggior confidenza. Così non ho potuto capire che lo sguardo pieno d'intelligenza dei suoi grandi occhi profondi, ed esso m'ha così ammaliato, che non potrò giammai dimenticare.
Cara Bettina, cara bambina! L'arte, chi la capisce? Con chi mai si può parlare di questa grande dea? Come m'è caro il ricordo dei pochi giorni che abbiamo chiacchierato, o meglio, carteggiato insieme! Ho conservato tutti i biglietti che contengono le Sue care e geniali risposte. Così, grazie alla mia sordità, la parte migliore dei nostri colloqui non andrà perduta.
Da quando è partita, ho avuto molte ore brutte, ore nere, in cui non si può far nulla. Per ben tre ore ho girato per i viali di Schönbrunn, ma non ho incontrato nessun angelo che m'avesse affascinato come te, angelo mio. – Oh, perdoni, amica mia, se sono uscito di tono; ho bisogno di questi intervalli per dar sfogo al mio cuore. E a Goethe ha scritto, vero, di me? – Oh, potessi ficcar la testa in un sacco per non sentire, per non vedere niente di quanto succede al mondo, giacché non devo incontrarmi mai più con te, angelo mio caro. Ma una lettera l’avrò da Lei? Vivo di speranza come i più degli uomini, e guai se non l’avessi avuta compagna della mia vita! Che sarebbe stato di me?
Le mando, scritta di mio pugno, la canzone di Mignon come ricordo dell'ora in cui La vidi per la prima volta, e mando anche un'altra canzone, che ho musicato dopo che presi congedo da te, cuor mio.

'Cuore, cuore, che t'accade?
perché mai t'affanni tu?
qual nuov’impeto m'invade?
Ritrovarti non so più.’

Sì, amica mia, mi risponda, mi scriva: che sarà di me, dacché il mio cuore mi s'é fatto ribelle! Scriva al Suo affezionatissimo amico
Beethoven

Seconda lettera di Beethoven a Bettina:
Vienna, 10 febbraio 1811
Cara, cara Bettina,
ho ricevuto già due lettere Sue e dalla Sua lettera all'Antonietta vedo che si ricorda di me e mi giudica con troppa indulgenza. La Sua prima lettera l'ho portata con me tutta l'estate, e spesso rileggendola ho provato un'ineffabile gioia. Anche se non Le scrivo tanto spesso e Lei non riceve nulla da me, pure Le scrivo mentalmente migliaia e migliaia di lettere.
Come Lei si trovi a Berlino, in mezzo a quella canaglia, me lo potrei facilmente immaginare, anche se non me l'avesse scritto: ciarlare e ciarlare dell'arte senza produr nulla! La miglior descrizione di codesta genia la si trova nei “Doni votivi” dello Schiller, nella poesia "I fiumi", là dove fa parlare la Sprea.
Lei si sposa, cara Bettina, o forse s'è già sposata, senza ch'io l'abbia potuta rivedere ancora una volta. Oh, scendano sul Suo capo e su quello del Suo sposo tutte le benedizioni che rendon felice il matrimonio. E che dirò di me? "Compiangi il mio destino", dirò con la Vergine d'Orleans. Se riesco a conservarmi in vita ancora per alcuni anni, voglio ringraziarne, come di tutto il bene e di tutto il male, l'Altissimo, l’Onnipresente. Se scrive a Goethe, cerchi le parole più efficaci per dirgli tutta la mia ammirazione e la mia devozione più profonda. Fra giorni gli scriverò io stesso per l’Egmont, che ho musicato per il grande amore che porto alla sua poesia, che mi rende così felice! Ma chi saprebbe trovar parole per esprimere tutta la riconoscenza che sentiamo per il grande poeta, il gioiello della sua nazione?
Ora basta, mia cara, mia buona Bettina. Stamane sono ritornato alle quattro da un baccanale, dove non ho potuto fare a meno di ridere, per esser oggi costretto a piangere. Così è: dopo essermi abbandonato all'ebbrezza d'una gioia tumultuosa, devo rientrare in me stesso. E ora addio, amica mia cara. Io ti bacio con dolore infinito sulla fronte; t'imprima questo bacio, come un suggello, nell'anima tutti i pensieri che dal mio cuore volano a te.
Scriva presto, presto e spesso al Suo amico Beethoven

Beethoven a Goethe:
Vienna, 12 aprile 1811
Eccellenza,
non dispongo che di pochissimo tempo per scriverle, dovendo l'amico che Le recherà la presente, partire in gran fretta per un affare urgente. Egli è un grande ammiratore di V.E., come lo sono pur io, che desidererei d'avere il tempo e il modo d'esprimerle, come si conviene, tutta la gratitudine che fin da fanciullo ho sentito per Lei; ma sarebbe tuttavia ben piccola cosa al paragone del tanto bene che m'è venuto da Lei.
Bettina Brentano m'ha assicurato ch'Ella m'accoglierebbe come un amico. Ma come potrei io pensare a una tale accoglienza, quando non oserei avvicinarmi a Lei, che col più profondo rispetto, tutto compreso dell'ineffabile bellezza delle Sue creazioni? Fra giorni Ella riceverà dalla Casa editrice Breitkopf & Härtel di Lipsia la musica dell'Egmont. Esso mi ha così profondamente commosso che per virtù della Sua arte l'ho ripensato, rivissuto, e, appena finita la lettura, musicato - Ho un gran desiderio di sentire il Suo giudizio; anche il biasimo gioverà a me e alla mia arte e mi sarà gradito al pari della lode.
Il grande ammiratore dell'E.V.
Ludwig van Beethoven

Risposta di Goethe:

Karlsbad, 25 giugno 1811
La Sua gentile lettera, stimatissimo Signore, m'è stata recapitata dal Signor Oliva e m'ha recato grande piacere. Le serbo la più viva gratitudine per i sentimenti ch'Ella mostra di nutrire per me, e Le posso assicurare che li ricambio di tutto cuore. Ogni qualvolta dilettanti o artisti provetti m'hanno sonato una Sua opera, ho sentito il desiderio di sentirla sonare dal suo autore, per poterne ammirare il meraviglioso talento.
La buona Bettina Brentano merita bene il Suo interessamento. Essa parla di Lei col più grande entusiasmo e con la più viva simpatia, e stima le ore passate in Sua compagnia fra le più felici della sua vita.
La musica dell'Egmont ch'Ella mi ha voluto dedicare, la troverò, spero, al mio ritorno a Weimar, ma fin d'ora gliene sono grato. Ne ho sentito parlare già da molte persone con la più viva ammirazione e spero di poterla far eseguire questo inverno al nostro teatro, procurando così un grande godimento artistico tanto a me stesso quanto ai molti ammiratori ch'Ella ha nel nostro paese. Ma quel che più mi sta a cuore è di poterla vedere, come mi ha fatto sperare, se ben l'ho capito, il signor Oliva, nell'occasione d'un Suo prossimo viaggio a Weimar. Sarebbe bene che Ella ci venisse quando vi sono la Corte e tutti gl'intendenti di musica, ché allora certo non Le mancherebbe un'accoglienza degna dei Suoi meriti e del Suo carattere. Nessuno può averci più interesse di me, che mentre Le faccio i migliori auguri per il Suo benessere, mi raccomando alla Sua memoria e Le porgo i più sentiti ringraziamenti per tutto il bene che ho avuto da Lei.
Wolfgang von Goethe

(Beethoven era animato dal più ardente spirito di carità. L'inganno e l'ingratitudine potevano ben contristarlo, ma non per questo gl'impedivano di continuare imperterrito nella via del bene. Documenti della sua filantropia sono i documenti seguenti)

Al Procuratore camerale Dr. Ignazio De Varena di Graz, inviandogli le partiture di alcune sue opere per un concerto a favore degli istituti di carità delle Orsoline. Il concerto fruttò l'importo netto di 5.000 fiorini.

Dicembre 1811
Dopo la mia prima malattia non ho mai cercato al mio zelo, nel soccorrere con la mia arte l'umanità sofferente, altro compenso all'infuori dell'intima gioia che dà ogni opera buona....
B.

Allo stesso:
Vienna, 8 maggio 1812
... Mi ricordi alle reverende madri, le amorose educatrici dell'infanzia, e dica loro che ho pianto lacrime di gioia per il bel successo che ha arriso alle mie buone intenzioni. Le assicuri che per quanto potrò giovar loro con le mie deboli forze, troveranno sempre in me il più caloroso sostenitore ...
Si conservi sano e sappia che l'aver trovato in Lei un amico dei derelitti è stato per me una grande gioia. Il Suo dev.mo
B.

Allo stesso:
Teplitz, l9 luglio 1812
I miei ringraziamenti per lo leccornie speditemi dalle buone madri, Le giungono molto in ritardo perché, non migliorando a Vienna, il mio male, mi son dovuto rifugiare in questo luogo di cura.
Ad ogni modo, meglio tardi che mai. La prego dunque di dire alle reverende madri Orsoline tutta la mia riconoscenza. Per parte mia, non posso accettare i loro ringraziamenti; sono io piuttosto che devo ringraziare chi mi ha dato il modo di giovare con l'arte mia a chi soffre. Non appena Ella dovesse aver bisogno del mio povero contributo per beneficarne le madri, non ha che a scrivermi...
Che se le reverende madri vogliono tuttavia dimostrarmi in qualche modo la loro gratitudine, mi ricordino nelle loro devote preghiere e in quelle delle loro bambine.
B.

Incontro di Beethoven con Goethe a Teplitz (1812)
Dal Diario di Goethe:
19 luglio - Visita a Beethoven
20 luglio - La sera sono stato in carrozza con Beethoven a Bilin
21 luglio - La sera, da Beethoven. Ha sonato stupendamente.

Lettera di Goethe alla moglie:
…Non ho mai veduto un artista più raccolto, più energico, più profondo. Ora comprendo come si debba trovare in una strana posizione di fronte al mondo.

Teplitz, 19 luglio 1812
Lettera di Bettina al principe Pueckler‑Muskau:

…si conobbero a Teplitz. Goethe andò a trovarlo. Beethoven gli sonò un pezzo, e vedendo ch’era rimasto profondamente commosso, gli disse:
"Signor mio, da Lei non mi sarei mai aspettato questo! Anni fa diedi un concerto a Berlino. Avevo fatto del mio meglio e mi lusingavo di riscuotere un caloroso applauso, ma invece, quando ebbi dato espressione a tutto il mio entusiasmo sicché ero convinto d'averlo comunicato al pubblico, questo non diede il minimo segno d'approvazione. Era troppo per me: non potevo in alcun modo capacitarmene. Ma Presto l’enigma mi si chiarì, quando vidi tutto il teatro, in piedi, agitare, in segno di riconoscenza, i fazzoletti bagnati di lacrime. Già: era un pubblico colto e ben educato! Ma io, che sono stato sempre un rude entusiasta, della loro commozione non sapevo che farmene: avevo creduto d'aver da fare con gente che sentisse artisticamente, e mi trovavo invece davanti un pubblico romantico. Ma da voi, Goethe, questo non posso assolutamente tollerare, quando mi ronzavano nel capo le vostre poesie, ne usciva della buona musica e io avevo l'ardire di sollevarmi alla vostra altezza; benché lo facessi inconsapevolmente, e alla vostra presenza non l'avrei mai fatto. L'entusiasmo si manifesta in tutt'altro modo. Lo dovreste pur sapere per propria e sperienza come fa bene sentirsi applaudire dalle mani d'un artista. Se voi non apprezzate la mia orera e non mi volete riconoscere come vostro pari, chi altri lo farà?"
A quest'intemerata, Goethe rimase dapprima senza rarole: egli ben sentiva che Beethoven, in fondo, aveva ragione e non sapeva come riparare al suo errore.
C'erano allora a Teplitz l'imperatrice e gli arciduchi d'Austria, e Goethe, che era stato colmato da loro di gentilezze e di onori, si dava un gran daffare per dimostrare all'imperatrice in mille guise la sua profonda devozione. Anche a Beethoven non poté fare a meno di parlarne e lo fece con tono solenne e dimesso. “Macché!”, l'interruppe il Maestro: “codesto non è il modo di trattare coi principi; così non verrete a capo di nulla. Voi dovete far sentir loro chi siete, altrimenti non lo capiranno mai. Non v'è principessa che riconosca il valore del Tasso, se non in quanto lusinga la sua vanità. Io ho usato un altro metodo. Un giorno che l'arciduca Rodolfo, cui davo lezioni, mi fece fare anticamera, per roco non gli slogai, con gli esercizi, le dita. E come mi domandò perché fossi così impaziente, gli risposi che m'aveva fatto perdere troppo tempo in anticamera, perché mi potessi ora permettere il lusso d'esser paziente. Da quel giorno non feci più anticamera. E gli dissi ancora che mi potevano ben appiccicare l'uno o l'altro dei loro ordini, ma che per questo non mi sarei sentito punto migliore. Possono ben creare dei consiglieri intimi, dei consiglieri aulici, ma un Goethe, un Beethoven non li creeranno mai. È bene dunque che imparino a rispettare quel che non è opera loro, quel che essi non sono”.

Terza lettera di Beethoven a Bettina:

Teplitz, 15 agosto 1812
Mia cara, mia buona Bettina, i re e i principi posson ben creare dei professori e dei consiglieri segreti, possono conferire titoli e onorificenze, ma non possono creare gli uomini grandi, degli spiriti che s’ergano alti, sublimi sopra la canaglia umana. E per questo, quando due uomini come me e Goethe s'incontrano, bisogna far capire a quei signori qual'è la vera grandezza.
Ieri, tornando a casa, incontrammo la famiglia imperiale. Appena la scorgemmo da lontano, subito Goethe si staccò dal mio fianco per tirarsi rispettosamente in disparte. A nulla valsero le mie proteste: non riuscii a portarlo avanti d'un passo. Allora, calcatomi il cappello ben bene in testa e abbottonato il soprabito, passai con le braccia incrociate framezzo alla compagnia, e principi e cortigiani fecero spalliera al mio passaggio; l'arciduca Rodolfo si levò il cappello, l'imperatrice salutò lei per prima. Le loro altezze mi conoscono troppo bene! Io mi divertivo un mondo a veder sfilare la processione davanti a Goethe, che se ne stava da un lato della strada, a capo scoperto e chino in atto di riverente omaggio. Quando fummo soli, gli feci una buona lavata di capo. Non gli diedi quartiere; a uno a uno gli feci passar davanti tutti i suoi peccati e più di tutto lo rimproverai dei modi usati con Lei, cara Bettina, ché poco prima s'era parlato di Lei. - Oh, se fosse stato concesso a me di godere la Sua compagnia tanto tempo come lui, avrei compiuto, mi creda, opere ben più grandi. Anche il musicista è poeta e due begli occhi possono rapire anche lui in un mondo più bello, dove gli spiriti magni scherzano con lui e gl'impongono compiti sempre più difficili. Quante cose mi turbinavano nella mente quando ti conobbi! ... Dai Suoi occhi s'insinuavano nel mio cuore i temi più belli, più meravigliosi, che formeranno la gioia delle future generazioni, quando Beethoven non sarà più. Se Iddio mi concederà ancora alcuni anni di vita, io ti devo rivedere, mia cara cara Bettina: così vuole l'intima voce della mia coscienza, che mai non falla. Anche gli spiriti possono amarsi, e io amerò sempre il Suo; la Sua approvazione mi sarà più cara che quella di chiunque altro.
A Goethe ho detto il mio sentimento. Gli ho fatto capire quale effetto abbia su di me l’applauso, e che dai suoi pari voglio esser giudicato con l'intelletto; la commozione (perdonamelo) sta bene alle donne, l'anima dell'uomo deve essere infiammata dalla musica. - Cara bambina, da quanto tempo noi due andiamo d'accordo in tutto e per tutto! Non vi è altra gioia al mondo che avere un'anima buona e gentile, un cuore di cui conosciamo i più segreti palpiti e per il quale non abbiamo segreti. Per parere, bisogna prima essere. Il mondo ci deve conoscere; non sempre esso è ingiusto. Tuttavia questo a me non importa, perché ho una meta ben più sublime.
Domani parte la Corte, oggi danno ancora un concerto. Goethe e il suo duca vogliono sentirmi sonare qualcosa di mio; ma io mi sono rifiutato. Tutt'e due vanno matti per le porcellane cinesi, e bisogna scusarli, perché hanno perduto la testa. Ma io non mi presto a soddisfare i loro stravaganti capricci.
Addio, addio, mia buona amica! La tua ultima lettera ha riposato tutta la notte sul mio cuore e m'ha dato una meravigliosa frescura. Oh, i musici si permettono tutto!
Dio, come L'amo! Il tuo fido amico, il tuo sordo fratello
Beethoven

Lettera di Goethe a Zelter

Karlsbad, 2 settembre 1812
... Ho conosciuto Beethoven a Terlitz. Son rimasto meravigliato del suo talento; ma egli è purtroppo una natura tuttavia indomita e selvaggia che ha, sì, tutte le ragioni di trovar detestabile il mondo, ma con ciò non lo rende più gradevole né a sé né agli altri. Conviene però scusarlo e compatirlo, perché va perdendo l'udito, ciò che nuoce forse meno al musicista che all'uomo nei suoi rapporti con la società; il difetto fisico viene ad accentuare più che mai il suo naturale laconismo.

Lettera di Beethoven a Goethe

Vienna, 8 febbraio 1823
Eccellenza,
mentre vivo ancor sempre, come negli anni della mia giovinezza, nelle Sue opere immortali, e sempre ancora ricordo con intima, ineffabile gioia le ore passate in Sua compagnia, mi trovo questa volta nella necessità di fare appello alla Sua buona memoria. Spero ch'Ella avrà ricevuto le due canzoni e dedicato a Lei, “Calma del mare" e “ Felice navigazione” (op. 112). Scelsi queste, perché mi sembravano, nel loro contrasto, particolarmente adatte alla composizione.
Come avrei caro sapere se m'è riuscito di accordare la mia armonia alla Sua, e Le sarei grato anche per le osservazioni e le critiche ch'Ella avesse a fare alla mia opera, perché amo soprattutto la verità, né mai varrà per me il detto “veritas odium parit”. Forse che in breve si pubblicheranno ancora altre Sue poesie da me musicate, fra cui "Amore senza posa". Quanto gradirei un Suo giudizio sulla composizione delle Sue poesie.
Devo pregare l'E.V. d'un favore. Ho scritto una grande Messa che, per ora, non intendo pubblicare, volendola prima offrire manoscritta alle prime Corti di Europa; l'onorario importa 50 ducati. A questo fine mi son rivolto, tra l'altro, anche all'ambasciata del granducato di Weimar e ho presentato a mezzo di essa un'istanza al Granduca. La Messa può eseguirsi anche come oratorio, e tutti sanno che gli oratori s'adattano più di ogni altro genere di musica per serate di beneficenza. Vorrei dunque pregarla di richiamare l'attenzione di Sua Altezza su quest'opera, perché sia indotta a sottoscrivere. All'Ambasciata mi fu detto che sarebbe stato bene se qualche persona influente ne avesse parlato prima al Granduca.
Ho scritto già tanto, ma con poco frutto. Ma ora non sono più solo. Da sei anni faccio da padre a un mio nipote, un giovinetto di sedici anni, che promette bene; studia con grande ardore e si può dire che il mondo greco gli è fin d'ora familiare. Ma tutto questo nel nostro paese costa molto, e quando s'ha a provvedere per un giovane incamminato per la via degli studi, bisogna pensare non solo al presente, ma ancora all'avvenire.
Finora il mio occhio era rivolto solo al cielo; ora devo guardare un po' anche alla terra. Sul mio stipendio non posso contare. D'altra parte la mia malattia non mi ha permesso d'intraprendere negli ultimi anni giri artistici e, in genere, non ho potuto andar dietro ai guadagni.
L'E.V. non deve però credere ch'io Le abbia dedicato la composizione delle Sue due canzoni per ottenere in contraccambio questo favore. Le canzoni le musicai già nel maggio del 1822, mentre il pensiero di divulgare in questo modo la Messa, m'è venuto appena nelle ultime settimane. Quella venerazione e quell'amore ch'io nutrivo per il grande Goethe negli anni della mia giovinezza, li conservo immutati anche adesso. Le parole non bastano a esprimere tutta la pienezza d'un affetto profondo e sincero, e men che meno potrebbero bastarvi quelle di un imbrattacarte come me, che non ha mai pensato ad altro che a conquistarsi il dominio dei suoni. Ma poiché vivo, come dissi, nelle Sue opere, non posso fare a meno di dirle almeno un tanto.
Sono convinto ch'Ella non rifiuterà d'interessarsi per un artista, il quale troppo duramente sente come la caccia al guadagno è la negazione dell'arte, e gli sarà largo del Suo aiuto in un momento in cui è costretto a lavorare non soltanto per sé, ma anche per gli altri. Siamo uniti nella comune aspirazione verso il bene; perciò confido ch'Ella non respingerà la mia preghiera.
Coi sensi della venerazione più profonda, più illimitata.
Il Suo Beethoven

(A questa lettera non fu risposto né dalla Corte di Weimar né dal Ministro Goethe). Mentre si viveva nell'angosciosa attesa del risultato di questo passo, venne improvvisamente un corriere dalla Corte di Parigi. Era il duca d'Achâts, gran ciambellano di Luigi XVIII, il quale recava una medaglia d'oro del peso di 21 luigi d'oro con l'effigie del re come prezzo di sottoscrizione.
Vi erano incise le parole: “Donné par le Roi à Monsieur Beethoven”.)
 

34 - Ancora dal “giornale intimo” di Amiel (a proposito di Goethe) (Enrico Federico Amiel)

19 gennaio 1871 (ore 23.30)
Ciò che oggi ho letto di Goethe (Epistole-Epigrammi; Le quattro stagioni) non è atto a farmelo amare. Perché? Perché egli ha poca anima. Il suo modo di concepire l'amore, la religione, il dovere, il patriottismo è un po' meschino e spiacevole. Gli fa difetto la generosità ardente. Una segreta aridità, un egoismo mal dissimulato penetrano nell'ingegno così flessibile e ricco. Si saluta il poeta, ma ci si mette sulla difensiva davanti all'uomo, che pare assai poco capace di sacrificio e che ha assai poca tenerezza per i piccoli ed i diseredati di quaggiù. Perisca il mondo, pur che il poeta possa titillare tranquillamente la sua lira e coltivare le sue disposizioni personali...

20 gennaio 1871 (ore dieci)
... Nell’egoismo goethiano è eccellente il rispetto della libertà di ciascuno ed il lieto riconoscimento di tutte le originalità; tuttavia quest’egoismo non aiuta nessuno a sue spese, non si tormenta per nessuno; non si incarica del fardello di nessuno, in una parola, sopprime la carità, la grande virtù cristiana. La perfezione per Goethe, consiste nella nobiltà personale, non nell'amore: il suo centro è l'estetica. Ignora la santità e non ha mai voluto riflettere sul terribile problema del male. Spinozista fino alle midolla, egli crede alla fortuna individuale, non alla libertà né alla responsabilità. È un greco integro, non mai sfiorato dalla crisi interiore della coscienza religiosa; rappresenta dunque uno stato d'anima anteriore o posteriore al cristianesimo, ciò che i prudenti critici del nostro tempo denominano spirito moderno; e ancora lo spirito moderno considerato soltanto in una delle sue tendenze, cioè il culto della natura, poiché Goethe è estraneo alle aspirazioni sociali e politiche delle folle; s'interessa ai diseredati, ai deboli, agli oppressi tanto quanto se ne interessa la Natura, madre noncurante e feroce, sorda verso tutti gli sfortunati...

stesso giorno (mezzanotte)
Lettura di quindici sonetti e di nove poesie di Goethe.
L'impressione di questa parte delle "Gedichte" è assai più favorevole di quella suscitata dalle Elegie e dagli Epigrammi, "Gli spiriti delle acque", "La mia dea", "Il viaggio dello Harz", "Il Divino" posseggono grande nobiltà di sentimento. Non bisogna mai affrettarsi a giudicare queste nature multiple... Senza giungere al sentimento dell'obbligo e del peccato, Goethe arriva ai grandi problemi per il cammino della dignità. Il suo catechismo di virtù è la statuaria greca...
Enrico Federico Amiel

35 – Mignon (J. W. von Goethe)

… Egli salì le scale verso la sua camera, quando d'un tratto gli saltò incontro una giovane creatura, che attirò la sua attenzione. Una vestina corta di seta con maniche aperte alla spagnola, dei calzoncini lunghi e stretti con risgonfi vestivano molto bene la figurina. Lunghi capelli neri in anellature e trecce erano arricciati e intrecciati intorno alla testa. Wilhelm guardò ammirato l'apparizione e non poté capire se fosse un ragazzo o una ragazza. Ma presto si convinse ch’era una bimba e, mentre gli passava dinanzi, la trattenne, dandole il buon giorno e le domandò a chi appartenesse, quantunque facilmente potesse vedere che ella era un membro della compagnia dei saltimbanchi e dei ballerini. Con l'occhio nero e penetrante, ella lo guardò di traverso, e staccandosi da lui, corse in cucina senza rispondergli.
... Il popolo si era a poco a poco allontanato (dopo lo spettacolo) e la piazza si era fatta vuota. Wilhelm vide, affacciato alla finestra, nella strada la strana bambina presso a dei ragazzi che giocavano e richiamò l'attenzione di Filina, che subito, nel suo modo vivace, la chiamò e le fece cenno, e siccome la bambina non voleva venire, cantando e battendo i tacchi sulle scale, scese giù e la ricondusse con sé. - Qui è l'enigma - ella disse, introducendo la bimba. Questa restò ferma sulla soglia, come se avesse subito voluto sgusciar via, si mise la mano destra sul retto, la sinistra dinanzi la fronte e s'inchinò profondamente. - Non aver paura, piccola cara ‑ le disse Wilhelm avvicinandosele. Ella lo guardò con sguardo incerto, e si apprestò di alcuni passi.
- Come ti chiami? - le domandò. - Mi chiamano Mignon. - Quanti anni hai? - Nessuno li ha contati. - Chi era tuo padre? - Il gran diavolo è morto. -
- Questo è meraviglioso! - esclamò Filina. Le fecero ancora qualche domanda; ella dava le sue risposte in un tedesco stentato e con una certa solennità; dopo ogni risposta si portava di nuovo le mani al petto e al capo e si inchinava profondamente.
Wilhelm non si stancava di guardarla. I suoi occhi e il suo cuore furono irresistibilmente attratti dalla condizione misteriosa di quella creatura. Le dava dai dodici ai tredici anni; il suo corpo era ben costruito, solo che le membra promettevano un più forte sviluppo o ne annunziavano uno rimasto indietro. I suoi lineamenti non erano regolari ma piacenti: la fronte piena di mistero, il naso straordinariamente bello, e la bocca, sebbene sembrasse, per l'età della ragazza, troppo chiusa e contraesse le labbra, era pur sempre sincera e graziosa. I colori bruni della faccia si potevano appena riconoscere per il belletto. Questa figura fece a Wilhelm una profonda impressione: egli seguitò a guardarla, in silenzio, e dimenticò, nelle sue osservazioni, i presenti; Filina lo destò dal suo dormiveglia, mentre dava alcuni dei dolci rimasti alla bimba e le faceva cenno di allontanarsi. Ella fece ancora una volta il suo inchino e scappò come un fulmine fuor della porta.
Si fece un po’ tardi. I saltimbanchi avevan già cominciato a produrre le loro arti. Sulla piazza si eran radunati molti spettatori, ma quando vi discesero i nostri amici si accorsero di un gran scompiglio che aveva attirato gran numero di gente verso la porta dell'albergo dove Wilhelm era alloggiato. Wilhelm corse là per vedere cosa succedesse, e mentre si spingeva fra la folla vide con orrore il padrone della compagnia dei saltimbanchi, che si sforzava di trascinare per i capelli fuori della casa la bimba che l'aveva interessato, e senza pietà le batteva il piccolo corpo col manico della frusta.
Wilhelm corse, come un fulmine, su quell'uomo e lo afferrò per il petto. - Lasci star la bimba! - gridò come un forsennato - o uno di noi due resta qui sul posto. - E così dicendo afferrò per la gola l'omaccio con quella forza che solo l'ira può dare, si che questi credè di soffocare, lasciò la bimba, e cercò di difendersi contro il suo assalitore. Alcuni, che avevan si compassione della bimba, ma non ardivano cominciare una lite, si scagliarono subito alle braccia del saltatore, lo disarma rono e lo minacciarono con invettive. Questi, ridotto ormai solo alle armi della bocca, cominciò terribilmente a minacciare e a imprecare contro quella creatura pigra e disattenta che non voleva eseguire il suo compito: si rifiutava di ballare la danza delle uova, ch’egli aveva promesso al pubblico, voleva perciò, batterla a morte e nessuno glielo doveva impedire. E si sforzava di liberarsi per ricercare la bimba che s'era appiattata dietro la folla. Wilhelm lo trattenne e gli gridò: - Tu non devi rivedere né toccare questa creatura prima che tu non abbia dato conto dinanzi alla giustizia dove tu l'hai rubata. Io ti spingerò agli estremi; tu non mi sfuggirai - Questo discorso che Wilhelm nel calore aveva pronunziato, senza pensiero e senza intenzione, per un oscuro sentimento, o, se si vuole, per ispirazione, calmò finalmente l'uomo furente. Egli gridò: - Cosa ho da farmene io di codesta creatura disutile? Mi paghi quel che mi costano i suoi vestiti, e se la può tenere: questa sera stessa ci metteremo d'accordo. - Si affrettò quindi a proseguire la rappresentazione interrotta e a quietare l'impazienza del pubblico con qualche bell'esercizio.
Wilhelm, acquetatosi, ricercava intanto la bimba, che non si poteva trovare in nessun luogo. Alcuni volevan averla vista in soffitta, altri sui tetti delle vicine case. Dopo che si furon fatte ricerche da per tutto, si dovettero calmare e attendere che la bimba volesse ritornare da sé.
Frattanto Narciso era venuto a casa e Wilhelm gli domandò della storia e della provenienza della bimba. Ma questi non ne sapeva niente, poiché era nella compagnia solo da poco.
Si conchiuse poi il contratto con l’impresario riguardo alla bimba, che fu rilasciata al nostro amico per trenta talleri, di fronte ai quali il focoso italiano dalla barba nera rinunciò completamente ai suoi diritti; della venuta della bimba non volle però dir altro se non che egli l'aveva presa con sé dopo la morte di suo fratello, che, per la sua straordinaria abilità, era chiamato il gran diavolo.
La mattina di poi passò nella ricerca della bambina. Invano si frugò in tutti i cantucci della casa e del vicinato: era sparita e si temè che fosse saltata in acqua o si fosse fatta male in qualche altro modo. Wilhelm passò una triste giornata. Anche la sera, quando i saltatori e i ballerini dispiegarono tutte le loro forze per prender congedo nel miglior modo dal pubblico, l'anima sua non poteva esser rasserenata e distratta.
Il giorno dopo, quando con gran chiasso i saltimbanchi se ne furono andati, si ritrovò subito Mignon che si appressò, mentre Wilhelm e Laerte continuavano nella sala i loro esercizi di scherma . - Dove ti sei nascosta? - le chiese Wilhelm affabilmente; - ci hai tenuto molto in pensiero. - La bimba non rispose nulla e lo guardò. - Tu sei nostra, ora - disse Laerte - noi ti abbiamo comprata. - Che cosa hai pagato? - chiese la bimba, asciutta. - Cento ducati - rispose Laerte; - se tu ce le rendi, puoi essere libera. - È molto? ‑ domandò la bimba. - Oh sì, ma, basta che tu ti porti bene. - Voglio servirvi - rispose.
Da questo momento fece grande attenzione ai servizi che il cameriere prestava ai due amici, e già il giorno dopo non volle più ch’egli entrasse nella stanza. Voleva far tutto lei; sebbene facesse le sue faccende assai lentamente e talora con un certa inabilità, pure le compiva con precisione e con molta cura.
Si fermava spesso innanzi a un bacino d'acqua e si lavava il viso con gran premura e con forza, sì da scorticarsi quasi le guance, finché Laerte con domande e con motteggi seppe ch’ella voleva a ogni costo levarsi il belletto dalle guance e, per lo zelo con cui lo faceva, credeva belletto ostinato quel rossore che strofinandosi s'era prodotto. Glielo spiegarono e allora, lasciò andare e, ritornata calma, mostrò un bel volto di color bruno, sebbene ravvivato solo da un poco di rosso delle guance. Allettato dalla misteriosa presenza della bimba, Wilhelm passò alcuni giorni in questa strana compagnia e giustificandosi dinanzi a se stesso con un assiduo esercizio di scherma e di danza, per cui non credeva che avrebbe ritrovato così facilmente l'occasione.
Wilhelm pensò che non avrebbe dovuto trattenersi là così a lungo; si scusò e volle prendere le disposizioni per proseguire il viaggio.
Intanto la figura e la natura di Mignon gli eran divenute sempre più gradite. In tutto quel che faceva la bimba c'era qualcosa di straordinario. Non saliva o scendeva le scale, ma andava saltellando. Montava su per le ringhiere dei ballatoi e prima che ci si potesse accorgere, era seduta sopra un armadio e stava lì a riposarsi. Wilhelm s'era anche accorto che, per ognuno, ella aveva uno speciale modo di salutare. Lui lo salutava con le braccia incrociate sul retto. Alcuni giorni se ne stava zitta zitta e a volte rispondeva più diffusamente a diverse domande: sempre stranamente, ma così che non si potesse distinguere se era spirito o ignoranza della lingua, poiché parlava un tedesco spezzato e frammisto di francese e italiano. Nel suo servizio era instancabile e la mattina era su col sole: invece scompariva per tempo la sera e dormiva in una camera sulla terra nuda, e non si poteva convincerla per nulla ad accettare un letto o un saccone di paglia. Wilhelm la trovava spesso che si lavava. Anche i suoi abiti erano puliti, sebbene tutto fosse rammendato due e anche tre volte. Si disse anche a Wilhelm che ogni mattina, molto presto, ella andava alla messa, dov’egli la seguì una mattina e la poté vedere in un angolo della chiesa, inginocchiata, con la corona, che pregava devotamente. Mignon non si accorse di lui: egli ritornò a casa facendo mille riflessioni su questa creatura e non potendo pensare di lei nulla di preciso.
- Vai, Mignon, - disse Felina - e - procuraci quel che abbiamo bisogno: dillo al cameriere e aiuta a servire. -
Mignon si fece dinnanzi a Wilhelm e, nel suo modo laconico, chiese: Devo? posso? - E Wilhelm rispose: - Fai, bimba mia, quel che dice Mademoiselle. –
La bimba provvide a tutto e servì tutto il giorno gli ospiti con la più gran cura. Dopo pranzo, Wilhelm cercò di fare una passeggiata da solo e gli riuscì lasciare l'amichevole compagnia.
Mignon lo aveva aspettato e gli fece luce per le scale. Quando ebbe posato il lume, lo pregò di permetterle di fare quella sera un esercizio. Più volentieri egli avrebbe rifiutato, tanto più che non sapeva di che cosa si trattasse. Ma a quella buona creatura non poteva nulla rifiutare. Dopo breve tempo ella rientrò. Portava sotto il braccio un tappeto che distese a terra. Wilhelm la lasciò fare. Ella vi portò sopra quattro candele, mettendone una ad ogni angolo del tappeto. Un cestino con delle uova, che andò a prendere, rese più palese l'intenzione. A passi misurati con arte, camminava avanti e indietro sul tappeto disponendo le uova a diverse distanze: poi chiamò dentro un uomo che aspettava in casa e sapeva suonare il violino. Egli si mise in un angolo col suo strumento; Mignon si bendò gli occhi, fece un cenno, e, come una macchina caricata, insieme con la musica, cominciò tosto i suoi movimenti, accompagnando la cadenza e la melodia col batter delle nacchere.
Agile, leggera, pronta, precisa eseguiva la danza. Ella passava così rapida e sicura fra le uova, che ad ogni momento pareva avesse da romperne uno, o, nelle veloci giravolte, lanciarne via un'altro. Per nulla! non ne toccava alcuno quantunque passasse attraverso le file delle uova con salti, ed alla fine quasi inginocchiata. Senza riposo, come un orologio, correva la sua via, e la strana musica dava, ad ogni ripresa, un nuovo slancio alla danza sempre ripetentesi e impetuosa. Wilhelm fu tutto preso dallo straordinario spettacolo; dimenticò tutti i suoi pensieri, seguì ogni movimento della cara creatura ed era ammirato come in questa danza si sviluppasse meravigliosamente il suo carattere.
Ella si mostrava severa, aspra, fredda, viva e in molte posizioni più solenne che piacevole. Egli sentì in questo momento d'un tratto quel che già provava per Mignon. Desiderò di adottare nel suo cuore quest'essere abbandonato al posto d’un figlio, di prenderla nelle sue braccia e coll'amore di un padre ridestare in sé la gioia della vita.
La danza finì: ella fece ruzzolare le uova coi piedi, le radunò in un mucchietto, senza lasciarme fuori nessuno, e senza romperne punti, ci si sedette vicino togliendosi la benda dagli occhi e terminando con un inchino l'esercizio.
Wilhelm la ringraziò di avergli mostrato con un'improvvisata così gentile la danza, che desiderava di vedere. La carezzò e gli rincrebbe che ella avesse sudato per lui. Le promise un vestito nuovo, ed ella rispose vivamente: - Il tuo colore! - Anche questo le promise, sebbene non sapesse chiaramente quel ch’ella intendeva con questo. Raccolse le uova, prese il tappeto sotto il braccio, domandò se egli aveva altro da comandare e sparì dalla porta.
D’un tratto entrò l'oste e annunciò un suonatore di arpa. - Si divertiranno molto - disse - alla musica e al canto di quest'uomo; nessuno di quelli che l'ascoltano può trattenersi dall'ammirarlo e dall'offrirgli qualcosa. –
La figura di questo strano ospite mise in istupore tutta la compagnia. Egli si era già impossessato di una seggiola, prima che qualcuno avesse cuore di domandare o di offrirli qualche cosa. Il suo cranio calvo era circondato tutto attorno da pochi capelli grigi, grandi occhi azzurri lucevano dolcemente sotto folte sopracciglia bianche. Al naso ben fatto si ricongiungeva una lunga barba bianca, senza coprire labbra piacenti, e una veste marrone scuro avvolgeva dal collo ai riedi il suo gracile corpo. Egli cominciò intanto a far preludi sull'arpa che si era messa dinanzi. I bei suoni che traeva dall'istrumento rallegraron presto la compagnia.
- Voi sapete anche cantare, buon vecchio - disse Filina. - Dateci qualcosa che allieti insieme coi sensi il cuore e lo spirito - disse Wilhelm. – Lo strumento dovrebbe solo accompagnare la voce; poiché melodie passaggi e fughe senza parole e senso, mi pare che somiglino a farfalle o a begli uccelli variopinti che volan nell'aria innanzi ai nostri occhi, e che noi cerchiamo di afferrare e desidereremmo di possedere; mentre il canto, come un genio, si eleva verso il cielo, e eccita a accompagnarlo la parte migliore del nostro io. -
Il vecchio guardò Wilhelm, poi in alto; fece alcuni accordi sull’arpa e cominciò la sua canzone. Essa conteneva una lode del canto, esaltava la felicità dei cantori ed esortava gli uomini ad onorarli. Con tanta vita e verità espresse la canzone, da parere che l’avesse poetata in quel momento e in quell'occasione, Wilhelm si tratterme appena dal gettarglisi al collo; solo il timore di eccitare una forte risata lo trattenne sulla seggiola; poiché gli altri facevano già a mezza voce alcune sciocche osservazioni e si disputavano se il cantore fosse un prete o un ebreo.
Quando gli chiesero dell'autore, del canto, non dette alcuna risposta decisa; soltanto rassicurò, di esser ricco di canzoni e di desiderare solo che potesser piacere. La maggior parte della società era lieta e allegra, anzi lo stesso Melina, a modo suo, si era fatto più aperto, e mentre si chiacchierava e si scherzava, il vecchio cominciò a cantare con la più alta ispirazione la lode della vita socievole.
Con toni delicati esaltò l'unità e la socievolezza. D'un tratto il canto si fece asciutto, aspro e confuso quando rimpianse l'odiosità della vita solitaria, l’inimicizia bestiale e la discordia pericolosa, ed ogni anima rigettò queste incomode catene, quand’egli, portato sulle ali di una penetrante melodia, celebrò i fondatori della pace e cantò la felicità delle anime che si ritrovano.
Egli aveva appena finito, che Wilhelm esclamò: - Chiunque tu sia, che vieni a noi, spirito protettore ricco di canti, con una voce che benedice e che anima, abiti la mia ammirazione ed il mio ringraziamento. Tu senti come noi tutti ti ammiriamo; confidaci se ti occorre qualcosa! -
Il vecchio tacque, fece prima passare leggere le dita sulle corde, poi le scosse più forte e cantò:
(Che odo mai fuor della porta, che odo risuonar sul ponte? fate che il canto echeggi al nostro orecchio dentro la sala! Il re par1ò, il paggio accorse; venne il ragazzo, il re esclamò: - Conduci dentro il vecchio. - Salute a voi forti signori! Salute a voi, mie belle dame! Che ricco cielo! Stella con stella! Chi mai sa tutti i vostri nomi? Dentro la sala piena di pompa e magnificenza occhi chiudetevi: qui non è tempo di dilettarsi di meraviglie. - Il cantore chiuse gli occhi ed arpeggiò a pieni suoni; il cavaliere riguardò commosso, e in grembo suo la bella; il re cui piacque la canzone in premio dei suoi suoni gli fece portare una catena d'oro.
Non dare a me questa catena d'oro, dà la catena ai cavalieri, poiché al loro sguardo ardito si schiantano le lance dei nemici. Dalla a questo cancelliere che hai, e fa che porti ancor dell'oro il peso oltre ai suoi altri pesi. –
- Io canto come pur canta l'uccello che abita fra i rami. Il canto ch’esce in forza dalla gola è il ricco premio. Pure se posso chiedere, solo chiedo: fate portare un sorso del migliore vino dentro a un vetro risplendente.
Prese il bicchiere e lo vuotò: - O coppa di dolci delizie! O casa tre volte beata dove tu sei solo piccolo dono! Or vivetevi bene e ripensate a me, e ringraziate Iddio così com’io ringrazio voi per questo dono).
Quando il cantore, terminata la canzone, prese in mano un bicchiere di vino, che gli avevano versato e messo lì presso, e col volto sereno bevve volgendosi verso i suoi benefattori, sorse nella riunione una generale gioia. Si batterono le mani e gli si gridò di bere il bicchiere alla sua salute e al rinvigorimento delle sue vecchie membra. Egli cantò ancora alcune romanze suscitando nella compagnia sempre maggior gioia.
Wilhelm andò nella sua stanza e trovò Mignon occupata a scrivere. La bimba da qualche tempo scriveva con gran diligenza tutto quel che sapeva a memoria, rer darlo poi a correggere al suo padrone e amico. Era instancabile e capiva presto; solo le lettere erano ineguali e le righe storte. Anche in questo pareva che il suo spirito corrispondesse al suo corpo. Wilhelm cui l’attenzione della bimba dava grande gioia quando era tranquillio, fece poca attenzione questa volta a quel che gli mostrava; ella lo capì e si addolorò tanto più perché credeva che questa volta di avere fatto molto bene.
Nella molesta inquietudine in cui si trovava, gli venne in mente di ricercare il vecchio, con la cui arpa sperava di disperdere i cattivi spiriti. Quando domandò di quest'uomo, gli si accennò un brutto albergo in un cantuccio lontano della cittadina, ed in questo, su per le scale fino alla soffitta, dove da una camera gli echeggiò incontro un dolce suono d'arpa. Erano melodie commoventi, lamentose, accompagnate da un canto triste e angoscioso. Wilhelm si avvicinò alla porta e siccome il buon vecchio suonava una specie di fantasia e ripeteva sempre, ora cantando, ora recitando, alcune strofe, l'ascoltatore, dopo breve tempo, poté intendere presso a poco quel che segue:
(Chi non mangiò con lagrime il suo pane, chi non passò le angosciose notti piangendo nel suo letto, non vi conosce o potestà celesti. Lungo la vita voi ci conducete, il misero per voi divien colpevole, poi lo lasciate con la sua pena; poiché ogni colpa si sconta sulla terra).
Il lamento triste e sincero penetrò profondo nell'anima dell'ascoltatore. Gli pareva che qualche volta il vecchio fosse impedito dalle lagrime di proseguire; allora risuonavan solo le corde, sin che ad esse si mischiava di nuovo con rotte parole, piano, la voce. Wilhelm stava ritto presso lo stipite, l'anima sua era profondamente commossa, la tristezza dello sconosciuto dischiuse il suo cuore oppresso; non si oppose alla simpatia e non poté e non volle trattenere le lacrime che il tenero lamento del vecchio attiro alla fine anche dai suoi occhi. Nello stesso tempo si sciolsero tutti i dolori che opprimevano la sua anima: si dette tutto a loro e spinse la porta della camera; si fermò dinanzi al vecchio, costretto a sedersi su un misero letto, l'unico mobile, l'unico mobile della povera abitazione.
- Quali sentimenti hai risvegliato in me, buon vecchio! - egli disse - tutto quello che ristagnava nel mio cuore, tu l'hai liberato: non ti scomodare ma prosegui a far felice un amico, mentre mitighi i tuoi dolori. Il vecchio si voleva rizzare e dire qualcosa, ma Wilhelm glielo impedì: poiché, il giorno, si era accorto che il vecchio non parlava volentieri; e si sedè invece presso di lui, sul saccone di paglia.
Il vecchio si asciugò le lagrime e chiese con un sorriso amichevole: - Come è che viene qui? Io volevo stasera rifare il giro. -
- Qui siamo più tranquilli - rispose Wilhelm - cantami quel che vuoi, quel che si adatta al tuo stato d'animo e fa come s'io non fossi qui. Mi pare che oggi tu non possa sbagliare. Penso come tu sei felice di poterti occupare e dilettare così piacevolmente nella solitudine, e siccome tu sei ovunque uno straniero, puoi trovare nel tuo cuore la migliore compagnia. -
Il vecchio guardò le sue corde, e dopo aver preludiato dolcemente, intonò e cantò:
(Chi si abbandona alla solitudine, ah! quegli presto è solo; ognuno vive, ognuno ama e lo lascia alla sua pena. Ah si! lasciatemi al mio tormento! E se pure una volta posso esser davvero solo, allora non sono solo. Spiando, attento, scivola un amante: forse la sua amica è sola? Così s'insinua giorno e notte sopra me solitario la pena, sopra me solitario il tormento. Ah, sol ch'io sia una volta solo nella mia tomba, e allora sarò solo!).
Noi ci potremmo dilungare anche troppo, e tuttavia non arriveremmo mai ad esprimere la grazia, della strana conversazione del nostro amico con l’avventuriero. A tutto quello che il giovane gli diceva, il vecchio rispondeva con la più pura corrispondenza, per mezzo di accordi che suscitavano mille sensazioni affini e aprivano un gran infinito alla fantasia.
Chi abbia vissuto vicino a una riunione di uomini pii che, disgiunti dalla chiesa, credono di edificarsi più puri, più cordiali, più ispirati, si potrà anche fare un'idea della scena presente: si ricorderà come il cantore liturgico sappia adattare alle sue parole il verso di un canto, che eleva l'anima là dove l'oratore vuole che essa prenda il suo volo; e come, subito dopo, un altro della riunione, in altra melodia aggiunga a quel verso il verso di un altro canto, e a questo un terzo ne riannodi un terzo, per cui vengono suscitate le idee affini dei canti da cui essi sono tolti; ma, ogni passo diviene nuovo e individuale per il nuovo congiungimento, come se fosse inventato nel momento: e così da un noto cerchio di idee, da noti canti e sentenze, sorge per questa speciale compagnia, in codesto dato momento, un tutto proprio, dal cui godimento essa è animata e riceve forza e conforto. Così il vecchio edificava il suo ospite mentre con canti e passi noti e ignoti, portava in circolazione sentimenti prossimi e lontani, e sensazioni deste e sopite, grate e dolorose, per cui, nello stato presente del nostro amico, c'era da sperare meglio.
Wilhelm si affrettò alla sua stanza dove mille spiacevoli pensieri lo oppressero. Si ricordò del tempo in cui il suo spirito era innalzato da un ardore illimitato e ricco di speranza. Gli appariva chiaro d'esser ormai caduto in un ozio senza scopo che gli permetteva di gustare solo a sorsi quel che prima aveva succhiato con tutte le forze: ma non poteva veder chiaro quale invincibile bisogno la natura gli aveva imposto come legge, e come questo bisogno, esasperato soltanto dalle circostanze, veniva in parte soddisfatto, in parte traviato.
Perciò nessuno si deve meravigliare che, considerando il suo stato e cercando a pensarsene fuori, egli cadesse nella più gran confusione. Non bastava ch’egli fosse stato trattenuto più a lungo dal bisogno, dalla sua amicizia per Laerte, dalla sua simpatia per Filina, dal suo interesse per Mignon in un luogo e in una società ove poteva nutrire la sua inclinazione prediletta, quietare furtivamente i suoi desideri e, insieme, trascinarsi dietro i suoi antichi sogni, senza proporsi uno scopo preciso. Credette di aver forza abbastanza per liberarsi da codesti rapporti e staccarsene subito. - Devo andar via. - esclamò - voglio andar via! - E si lasciò andare su una seggiola, assai commosso.
Mignon entrò e chiese se doveva fargli i ricci. Ella veniva silenziosa, ed era profondamente addolorata per aver intuito che Wilhelm volesse separarsi anche da lei.
Nulla è più commovente di un amore, nutrito in silenzio, di una fede, fatta nel segreto più salda, che finalmente, nell'ora propizia, s'avvicina a quello che sinora non ne era stato degno, e gli si palesa. Il boccio a lungo e a forza rimasto chiuso, era maturo e il cuore di Wilhelm non poteva esser più sensibile. Ella gli si fermò dinanzi e vide il suo turbamento. - Signore! - esclamò - se tu sei infelice, che ne sarà di Mignon? - Cara creatura, diss’egli, prendendole le mani, anche tu sei fra i miei dolori. Devo andarmene. - Ella lo guardò negli occhi, che brillavano di lagrime trattenute, e gli si inginocchiò con impeto dinanzi. Wilhelm le trattenne le mani, Mignon posò la testa sulle sue ginocchia e restò silenziosa. Egli giocava coi suoi capelli ed era lieto. Ella restò a lungo ferma. Alla fine Wilhelm sentì in lei una specie di sussulto che cominciò pian piano e, crescendo, si propagò a tutte le membra. - Che hai Mignon? che hai? - Alzò verso di lui la sua testina, lo guardò negli occhi, portò ad un tratto una mano al cuore, come chi reprime uno spasimo. Wilhelm la rialzò ed ella gli cadde sulle ginocchia; la strinse a sé e la baciò. Non rispose con alcuna pressione di mano, con alcun movimento. Si premeva il cuore, e ad un tratto mandò un grido, accompagnato da moti convulsi del corpo. Si alzò e tosto gli ricadde dinanzi, come spezzata in tutte le membra. Era uno spettacolo orribile! - Bimba mia! - gridò Wilhelm, sollevandola e bracciandola stretta - bimba mia che hai? - La convulsione seguitava e si comunicava dal cuore alle altre membra che si agitavano: ella pendeva solo dalle sue braccia. Wilhelm la stringeva al cuore e la bagnava delle sue lagrime. D'un tratto parve irrigidirsi come uno che sopporta un forte dolore fisico; e tosto con un nuovo impeto riebbero vita tutte le sue membra, gli si gettò al collo come una molla che scatta, mentre nel suo interno avveniva come un potente strappo e nel momento stesso le sgorgava dagli occhi chiusi sul petto di lui un torrente di lagrime. Wilhelm la teneva stretta. Ella piangeva e nessuna lingua può esprimere la forza di quelle lagrime. I lunghi capelli si eran disciolti e pendevano giù dalla fanciulla, e tutto il suo essere pareva fondersi irresistibilmente in quel flutto di lagrime. Le sue membra irrigidite si rifecero morbide, tutto il suo intimo si riversò, e nello smarrimento del momento, Wilhelm temette che gli si dissolvesse nelle braccia, che non gli restasse più nulla di lei. E la teneva più stretta, ancora più stretta. - Bimba mia - esclamò - bimba mia! Si, tu sei mia! se questa parola ti può consolare. Tu sei mia. Io ti voglio tenere per me, non ti voglio lasciare! - Le sue lagrime scorrevano ancora.
Finalmente si rialzò. Una dolce serenità le splendeva nel volto - Padre mio! - disse - tu non mi vuoi abbandonare! Tu sarai il mio babbo! Io sono la tua bimba. -
Dolcemente cominciò l’arpa a suonare innanzi alla porta; il vecchio portava i suoi canti più affettuosi, come sacrificio della sera, all'amico che, tenendo sempre più stretta la bimba fra le braccia, godeva della più pura e più indicibile gioia.
(Conosci tu la terra dove i cedri fioriscono, e fra le foglie oscure fulgono le arance d'oro? Un vento lieve alita nel cielo azzurro; placido il mirto e gioisce l'alloro. Di' la conosci tu? Laggiù laggiù andar con te o amato mio, vorrei! Conosci tu la casa? Posa sopra colonne il tetto, splende la sala e le stanze sono abbaglianti; statue di marmo s’ergono lì e mi guardano: - Povera bimba, cosa t'ha fatto? Di' la conosci tu? Laggiù! laggiù, andar con te, o guida mia, vorrei! Conosci il monte tu, e il sentier tra le nuvole? Cerca il mulo la strada nella nebbia, e nidi d'antichi draghi nelle grotte s’ascondono; precipita la roccia e sovr’essa i flutti. Di' lo conosci tu? Laggiù! laggiù la nostra strada va; o padre fa' che andiamo.)
Quando la mattina Wilhelm cerco Mignon per la casa, non la trovò, ma sentì ch’era già uscita. Passata qualche ora egli udì della musica davanti la porta. Dapprima credette che il suonatore d'arpa fosse già di ritorno; ma presto distinse il suono di una cetra, e la voce che incominciò a cantare era la voce di Mignon. Wilhelm aprì la porta, la bimba entrò, e cantò la romanza che abbiamo trascritto più su.
Specialmente la melodia e l'accento piacquero al nostro amico, sebbene non potesse comprendere tutte le parole. Si fece ripetere e spiegare le strofe, le trascrisse, e le tradusse in tedesco. Ma non poté che imitare l'originalità delle frasi; la ingenuità infantile dell'espressione scompariva, dal momento che la lingua, spezzata della bimba diveniva organica e quanto era stato detto alla rinfusa prendeva connessione. Ed anche la squisitezza della melodia non poteva essere uguagliata con nulla.
Ella incominciava ogni verso festosamente, con voce sonora, come volesse richiamare l'attenzione su qualche cosa di straordinario, come volesse dire qualche cosa d'importante. Al terzo verso il canto diveniva più fosco e cupo; “Di’ lo conosci tu” ella lo esprimeva assorta e piena di mistero; nel “laggiù! laggiù” c'era un'irresistibile malinconia; e ad ogni ripetizione sapeva modificare talmente il suo “fa' che andiamo”, che ora era supplichevole e stringente, ora incalzante e pieno di promesse.
Quand'ella ebbe cantato per la seconda volta la sua canzone, stette un momento assorta, guardò Wilhelm intensamente e domandò: - Lo conosci tu il paese? - Bisogna ben credere che sia l'Italia - rispose Wilhelm; dove hai imparato questa canzoncina? - L'Italia! disse con intenzione Mignon; se vai in Italia, portami con te, qui ho freddo! - Ci sei di già stata, cara piccola? - domando Wilhelm. - La bimba stette zitta, e Wilhelm non poté più cavarle una parola. La cetra faceva parte del guardaroba dei teatranti. Mignon l'aveva chiesta quella mattina e l'artista l'aveva subito messo in ordine. In questa circostanza la bimba dimostrò un talento che fin allora nessuno sapeva che avesse.
Quando la compagnia uscì all'aria libera, quasi tutti s'accorsero che per quella sera avevan gustato un po' troppo del buon vino. Senza prender congedo si spersero uno di qua e uno di là.
Appena Wilhelm fu nella sua stanza, gettò via i vestiti e spento il lume si buttò sul letto. Il sonno voleva impossessarsi subito di lui; ma un fruscio, che gli parve venire nella sua stanza di dietro la stufa, lo rese attento. In quella si presentò davanti la sua fantasia accesa, l'immagine del re armato (prodottosi sulla scena); egli si rizzò per parlare al fantasma, quando si sentì circondato da due tenere braccia, la bocca chiusa da baci impetuosi, e premersi contro il suo petto che egli non ebbe il coraggio di respingere.
La mattina dono Wilhelm si svegliò con un senso di malessere, e trovò il letto vuoto. Aveva ancora il cervello annebbiato per l’ubriacatura non completamente svanita ed il ricordo della misteriosa visita notturna lo rese inquieto. Il suo primo sospetto cadde su Filina, eppure gli pareva che quel corpo amabile ch’egli aveva stretto fra le braccia, non fosse il suo. Fra carezze impetuose il nostro amico si era addormentato allato della singolare visitatrice, ed oramai non se ne poteva scoprire più nemmeno una traccia. Balzò su, e vestendosi trovò la porta, che egli di solito chiudeva a chiavistello, solo socchiusa, e non poté rammentarsi se la sera prima l’aveva chiusa o no.
In quel momento entrò Mignon e gli recò la colazione. Wilhelm stupì all'aspetto della bambina, anzi, si può dire, si spaventò. Pareva che ella fosse divenuta più grande; si fermò con un alto e nobile atteggiamento davanti a lui e lo guardò negli occhi così seria, ch’egli non poté sopportare lo sguardo. Ella non lo toccò, come di solito, quando gli stringeva la mano e gli baciava la guancia, la bocca, un braccio o una spalla, ma dopo aver disposto in buon ordine le sue cose, riuscì silenziosa.
Venne l'ora stabilita per una prova di lettura; si adunarono, che tutti erano pesti per la festa del giorno prima. Alla sera provarono in fretta qua e là e quando, abbastanza tardi, si separarono, Filina congedandosi sussurrò a Wilhelm: - Devo venir a prendere le mie pantofole; certo che tu non tiri il chiavistello? - Quando fu nella stanza queste parole lo tennero in grande imbarazzo; poiché la supposizione che l'ospite della notte prima fosse Filina era così rinforzata; ed anche noi siamo costretti ad attenerci a questa opinione. Egli andò inquieto parecchie volte su e giù per la stanza: effettivamente non aveva ancora tirato il paletto.
D’un tratto Mignon si precipitò dalla porta, gli si aggrappò addosso e gridò: - Meister! salva la casa! brucia! - Wilhelm balzò fuori dalla porta, ed un fumo denso si spinse contro di lui giù dalla scala. Si sentiva di già in istrada che gridavano: Al fuoco! L'arpista veniva giù per le scale, soffocato dal fumo, col suo strumento in mano. Aurelia si precipitò dalla sua stanza e gettò il piccolo Felice, che aveva con sé, fra le braccia di Wilhelm. - Salvi il piccino! – ella gridò - noi ci occuperemo degli altri ! –
Wilhelm che non credeva tanto grave il pericolo, pensò da prima, di spingersi verso l’origine dell'incendio con la speranza di spegnerlo nel suo principio. Consegnò il fanciullo al vecchio, e gli ordinò di correre giù per la scala di pietra a chiocciola che conduceva al giardino traverso una piccola volta e di restare all'aperto coi ragazzi. Mignon prese una candela, per fargli lume. Wilhelm pregò ancora Aurelia di salvare le sue cose per la stessa strada. Poi corse attraverso il fumo, ma si espose invano al pericolo. Pareva che la fiamma incalzasse dalla casa vicina: aveva già preso i corpi in legno della soffitta e una scala volante; altri, ch’erano accorsi in aiuto, soffrivano come lui del fumo e per il fuoco. Pure egli ispirò coraggio e gridò che si portasse dell'acqua.
In quel momento Mignon corse su, e gridò: - Meister! Salva Felice; il vecchio è impazzito, il vecchio lo uccide! – Wilhelm saltò, senza essersi ancora raccapezzato giù dalla scala, e Mignon gli corse dietro alle calcagna.
Egli si fermò terrorizzato, sugli ultimi gradini che conducevano nella serra. Grandi fasci di paglia e di canne, ammucchiati in quel posto, ardevano con chiara fiamma, Felice giaceva a terra e urlava; il vecchio, col capo inclinato, stava appoggiato sulla parete di fianco. - Che fai, sciagurato? - gridò Wilhelm. Il vecchio tacque; Mignon aveva sollevato Felice e a fatica lo trascinava nel giardino, mentre Wilhelm cercava di disperdere e di soffocare il fuoco; ma con ciò aumentava solo la veemenza e la vivacità delle fiamme. Infine dovette anch’egli fuggire nel giardino, con le ciglia e i capelli arsi, trascinandosi dietro attraverso il fuoco il vecchio, che lo seguiva controvoglia con la barba bruciata.
Wilhelm corse subito a cercare i bimbi in giardino. Li trovò sulla porta d'un padiglione appartato, mentre Mignon faceva del suo meglio per calmare il piccolo. Wilhelm lo prese in collo, lo interrogò, lo tastò, e non poté cavare nulla di logico dalle labbra dei due ragazzi. Lo tastò su tutto il corpo, ma non dette alcun segno di dolore; a poco a poco si quietò ed incominciò a meravigliarsi guardando le fiamme, anzi a divertirsi per i bei travi e le impalcature che ardevano in ordine, come in un'illuminazione. Strinse il fanciullo contro il suo cuore con un senso tutto nuovo; volle abbracciare anche Mignon, ma ella si sciolse dolcemente, gli prese la mano e la tenne stretta. - Meister, - disse (ancora mai, prima di questa sera, ella l’aveva chiamato col suo cognome perché prima usava chiamarlo Signore, e poi Padre) - Meister! noi siamo scampati a un grande pericolo, poiché Felice stava per morire. –
Wilhelm seppe finalmente che l'arpista, appena arrivato nel portico, le aveva strappato di mano la candela, e aveva dato fuoco alla paglia. Poi aveva deposto a terra Felice, e stendendo una mano sul suo capo con strambe mosse, aveva tirato fuori un coltello come se avesse voluto sacrificare il fanciullo. Mignon gli era saltata addosso e strappato il coltello di mano; - aveva gridato e le era accorso in aiuto uno della casa che cercava di salvare nel giardino alcuni oggetti; ma nella confusione questi doveva essere corso subito via e aver lasciati soli il vecchio e il bambino. Wilhelm era in pensiero per i suoi amici, meno per le sue cose. Non si fidava di lasciar soli i ragazzi e vedeva il disastro aumentare sempre più.
Passò alcune ore in uno stato angoscioso. Felice gli si era addormentato in collo; Mignon gli stava vicino e gli stringeva sempre la mano. Finalmente i soccorsi improvvisati misero argine al fuoco. Gli edifici incendiati crollarono, sopravvenne il mattino, i bimbi incominciarono a tremar dal freddo e anche a lui, col suo vestito leggero, la rugiada che cadeva, riusciva insopportabile. Egli li condusse verso le rovine degli edifici crollati, e vicino al mucchio di carboni e di cenere trovarono un calore molto gradito.
Il giorno sorgente portò a poco a poco insieme tutti gli amici e i conoscenti. Tutti s’eran salvati, nessuno aveva perduto gran che e si ritrovò anche il baule di Wilhelm.
Dal grande imbarazzo in cui Wilhelm si trovava per quel che fosse da fare per l'infelice vecchio, che dava così chiari segni di pazzia, lo trasse Laerte quella mattina stessa. Questi aveva veduto al caffè un uomo che qualche tempo prima aveva sofferto di violentissimi attacchi di malinconia. L’avevano affidato ad un parroco di campagna, che s'era fatto una speciale occupazione di curare simile gente. Anche questa volta egli c'era riuscito; si trovava ancora in città e la famiglia dell'uomo che aveva riacquistato la ragione, gli rendeva grandi onori.
Wilhelm s'affrettò a cercare quest'uomo, gli confidò il caso, e si trovò d'accordo ad affidargli il vecchio. La separazione addolorò profondamente Wilhelm, e solo la speranza di rivederlo guarito, poté rendergliela sopportabile.
Il fuoco aveva distrutto anche il piccolo guardaroba di Mignon, e quando dovettero comprare qualche cosa di nuovo, Aurelia fece la proposta che smettesse i calzoncini e si vestisse una buona volta da ragazza. – Niente affatto, no! - e pretese con grande violenza il suo vecchio costume, tanto che infine dovettero cedere .
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Proprio in questo tempo cadde un lutto cittadino, per cui si fu costretti a chiudere il teatro per qualche giorno. Wilhelm approfittò di questo frattempo per visitare quel parroco da cui l'artista si trovava in cura. Lo trovò in un'amena contrada, e la prima, cosa ch’egli incontrò nel cortile del parroco fu il vecchio che impartiva una lezione ad un ragazzo sul suo strumento. Egli mostrò gran gioia vedendo Wilhelm, si rizzò, gli tese la mano, e disse: - Vede che sono ancora buono a qualche cosa in questo mondo. - Il parroco salutò Wilhelm nella maniera più cordiale e gli raccontò che il vecchio stava già proprio bene e che si aveva speranza di guarirlo completamente. - Io vo lentamente all'opera; ma quando avrò potuto fargli smettere la barba e la tunica, avrò guadagnato molto; perché nulla ci accosta di più alla pazzia che staccarci dagli altri, e nulla rinsalda di più il retto intelletto, che vivere nel senso comune di molti uomini. Purtroppo, quante cose ci sono nella nostra educazione e nei nostri ordinamenti civili, con cui noi prepariamo noi stessi ed i nostri figli alla pazzia!
Wilhelm tornò in città e dovette fare i preparativi per un nuovo viaggio che sarebbe stato, questa volta, più lungo. Mignon che era presente, gli chiese se viaggiava verso il sud o verso il nord; e quando ebbe da lui quest'ultima risposta disse: - Allora, ti voglio aspettare qui. - Gli chiese il vezzo di perle che appartenne a Marianna, ch’egli non poté negare alla cara creatura; il fazzoletto da collo ella l'aveva di già. Il piccolo Felice era molto contento durante i saluti, e quando gli chiese che cosa voleva che gli portasse, rispose: - Senti! Portami un babbo. Mignon prese la mano del partente e rizzandosi sulla punta dei piedi gli dette sulle labbra un bacio vivo e cordiale, ma senza tenerezza, dicendogli: - Meister, non dimenticarci e ritorna presto. -
E così noi lasciamo il nostro amico che fra mille pensieri e mille sentimenti incomincia il suo viaggio, e notiamo qui ancora una poesia che Mignon aveva una volta recitato con grande espressione e che noi fummo impediti di far conoscere prima, per la rapidità di tanti e così strani avvenimenti:
(Non mi far parlar, lascia ch'io taccia poiché il segreto è per me un dovere; io ti vorrei mostrar tutto l'animo mio ma non lo vuole il destino. A giusto tempo, il corso del sole incalza la buia notte, che deve illuminarsi; e il duro macigno spalanca il suo petto e non rifiuta alla terra le fonti profonde nascoste. Ognuno cerca in seno all'amico la pace, e là può il petto sciogliersi in lamenti; ma un giuramento suggella le mie labbra e solo un dio le potrà dischiudere.)
Perduto nelle sue osservazioni, Wilhelm cavalcò avanti, lasciò il cavallo in un albergo, e s'afrettò, non senza commozione, verso il castello.
Ur vecchio servo lo ricevé alla porta e con molta cortesia lo informò che gli sarebbe stato assai difficile oggi farsi ricevere dal signore. Wilhelm si fece più insistente, e alla fine il vecchio dovè cedere e annunziarlo. Ritornò e introdusse Wilhelm, in una grande sala antica. Là pregò Wilhelm di aver pazienza perché forse il padrone non sarebbe comparso per un certo tempo ancora. Dopo qualche attesa, alla fine comparve da una delle porte laterali un uomo di bella presenza in stivali e con un semplice soprabito. ‑ Cosa mi porta di buono? disse con voce amichevole a Wilhelm - mi perdoni d'averla fatta aspettare.
Non senza imbarazzo, Wilhelm gli tese il foglio di Aurelia e disse: - Reco le parole di un'amica che Lei leggerà non senza commozione. –
Lotario prese la lettera e ritornò tosto nell'altra stanza. Wilhelm andò poi fino alla soglia e voleva incominciare il suo discorso che in precedenza aveva fissato in mente, quando una delle porte mascherate s'aperse e comparve un abate. - Io ricevo il più singolare dispaccio del mondo - gli gridò incontro Lotario, e proseguì, rivolto a Wilhelm: - Mi perdoni se in questo momento non posso ulteriormente intrattenermi con Lei. Resti stanotte da noi! E Lei, abate, prenda cura del nostro ospite, che nulla gli manchi. –
Con queste parole fece un inchino dinanzi a Wilhelm, e il prete prese per mano il nostro amico che lo seguì senza opporsi. In silenzio, attraverso misteriosi corridoi, giunsero a una bella camera. Il prete lo condusse dentro e ve lo lasciò senza altre scuse. Poco dopo apparve un vispo ragazzo che si annunziò presso Wilhelm come suo servitore e portò la cena.
Dopo si spogliò e sentì un irresistibile bisogno di dare aria al suo cuore, lacrime spuntavano nei suoi occhi, né si poté riavere finché il sonno non lo vinse.
L'indomani si destò e trovò la sua camera già illuminata dal chiaro sole.
Il ragazzo invitò Wilhelm per la colazione, questi trovò già l'abate in sala; Lotario si disse, era uscito a cavallo; l'abate non era molto loquace, e pareva piuttosto pensieroso; chiese della morte d'Aurelia e ascoltò con interesse il racconto di Wilhelm.
Dopodiché la porta si aprì con violenza, una giovane ragazza entrò, respingendo il vecchio servitore che le era venuto davanti. Corse dritta verso l'abate, e afferratolo per il braccio, poté dal pianto metter fuori queste poche parole: - Dov’è? Io so cosa accade! Voglio seguirlo! -
Si calmi, bimba mia, - disse con calma l'abate - venga nella Sua camera, deve saper tutto: solo deve poter anche udire, se Le devo raccontare. - Le offrì il braccio, con l’intenzione di portarla via. - Non andrò in camera mia - disse -, ho saputo tutto, il colonnello lo ha sfidato, egli è uscito a cavallo per trovarsi con il suo avversario e forse proprio in questo momento... - . Si sentì venire una carrozza, ella spalancò la finestra: - Ecco lo portano/ È ferito, se no verrebbe a cavallo. Lo portano! - Si precipitò fuori della porta e giù per le scale. L'abate le corse dietro; Wilhelm li seguì e vide come la bella s'incontrava con Lotario che saliva. Egli si appoggiava al suo compagno che Wilhelm subito riconobbe per la sua antica conoscenza Jarno. Lotario parlò all'inconsolabile ragazza con grande amore e cordialità, e appoggiandosi a lei, salì lentamente le scale, salutò Wilhelm e fu condotto nel suo gabinetto.
Non molto dopo ne venne fuori Jarno e andò da Wilhelm: - Lei è predestinato, come pare - disse - a trovare dovunque attori e teatri; siamo appunto ora presi in un dramma che non è affatto allegro. -
- Io mi rallegro - disse Wilhelm - di ritrovarla in questo strano momento. Dica, c’è pericolo? Il barone è ferito gravemente? - Non credo - rispose Jarno.
L'abate uscì dalla camera, fece cenno a Jarno di entrare al posto suo e disse a Wilhelm: - Il barone La prega di restare qui ad accrescere per qualche giorno la Sua compagnia e contribuire, in queste circostanze a intrattenerlo.
Da questo momento il nostro amico fu trattato in casa come se fosse stato della famiglia. Qualche volta si leggeva al malato e Wilhelm adempiva con gioia a questo piccolo servigio. Lidia, la ragazza, non si moveva dal letto, la sua cura per il ferito assorbiva ogni altra attenzione; ma quel giorno Lotario era distratto, e pregò che non si leggesse più.
Venne il medico, visitò il ferito e non parve affatto contento delle sue condizioni. Ebbe poi luogo un lungo colloquio con Jarno, ma quando alla sera vennero a tavola non lasciarono trapelare nulla. Il buon medico era quello stesso che aveva in cura il suonatore d'arpa e Wilhelm lo salutò cordialmente e s'informò sul conto del suo protetto. - Dovrebbero udirlo - disse il medico - quando in ore confidenziali egli alleggerisce il suo cuore; io l'ho ascoltato talora con la più grande commozione. Una sera che cantò una canzone sui suoi capelli grigi sedevamo attorno a lui e piangevamo. Ma non ha scoperto nulla di quello ch’egli chiama il suo delitto, - chiese Jarno - nulla della sua strana condotta, del suo contegno durante l'incendio, della sua furia contro il bimbo? - La sua fissazione maggiore è quella di credere di portare ovunque disgrazia, e che gli sta dinanzi la morte per mezzo di un innocente ragazzo. Dapprima aveva paura di Mignon, prima che sapesse ch’ella era una bimba; poi lo impauriva Felice, e siccome, in tutta la sua miseria egli ama infinitamente la vita, da questo sembra sia sorta la sua avversione contro il bambino. - Sono curioso di leggere le sue canzoni - disse Jarno. - Gliene potrò dare qualcuna - disse il medico Il figlio del pastore, il parroco, che è abituato a scrivere a memoria le prediche di suo padre, ne ha notato qualche strofa, senza che il vecchio se ne accorgesse, e ne ha rimesse insieme, un po' per volta, delle canzoni.
La mattina di poi Jarno andò da Wilhelm e gli disse: - Lei deve farci un piacere; Lidia deve essere allontanata per un po’ di tempo: il suo violento amore, la sua passione, impediscono la guarigione del barone. Le abbiamo fatto credere che una buona amica sia qui nelle vicinanze e desidera vederla. Ella si è lasciata convincere di andare da una comune conoscenza che abita soltanto due ore da qua. Questa persona è informata e rimpiangerà che la signorina Teresa, amica di Lidia, sia partita proprio in quel momento finché di luogo in luogo, si trasporterà la ragazza, fino alla casa di Teresa ed ivi rimarrà finché Lotario non sarà ristabilito.
- Mi da un incarico strano e difficile - rispose Wilhelm. – Com’è penoso lo spettacolo di un amore fedele e dolorante! E io stesso devo essere lo strumento di questo inganno? È la prima volta in vita mia che inganno qualcuno in questa maniera. Io mi assumo l'incarico per il vivo desiderio di facilitare la guarigione del Suo amico. - D'altra parte non L’attende una piccola ricompensa – poiché conoscerà la signorina Teresa, una ragazza come ce ne sono poche; ella fa vergogna a cento uomini per le doti del suo carattere e per le sue capacità, realizzatrici. -
La carrozza stava davanti la porta, Lidia esitava un po' a montare. Delle lagrime erano nei suoi occhi quando, partendo, si voltò ancora una volta. Si voltò verso Wilhelm e, contenendosi, disse: - Lei conoscerà Teresa, una persona molto interessante. Mi fa meraviglia che venga da queste parti; poiché Lei saprà che essa e il barone si amavano vivamente. Nonostante la distanza, Lotario era spesso da lei; io allora ero spesso insieme a loro e pareva che dovessero vivere l'uno per l'altro. Ma ad un tratto tutto andò a monte, senza che nessuno potesse capire il perché. Egli mi aveva conosciuto ed io nascondevo appena la mia simpatia per lui e nemmeno lo respinsi quando ad un tratto sembrò preferirmi a Teresa. Ella si comportò verso di me come non avrei potuto desiderare meglio, sebbene potesse quasi sembrare ch'io le avessi rubato un così degno amico. Ma quante lacrime mi è costato questo amore! –
La carrozza si fermò dinanzi a una casetta di campagna ben costruita, una ragazza comparve dalla porta e aprì lo sportello. Lidia la guardò fissa, si guardò attorno, la riguardò e cadde svenuta nelle braccia di Wilhelm.
Wilhelm fu condotto in una camera porta in soffitta. La casa nuova era tanto piccola e straordinariamente pulita e ordinata. Teresa era ben fatta, senza essere grande, si moveva con molta vivacità, e nulla di quel che accadeva pareva restasse nascosto ai suoi occhi chiari, azzurri e aperti.
Entrò nella stanza di Wilhelm e gli chiese se gli occorresse qualcosa. - Scusi - disse - se io L'alloggio in una stanza, che l’odore della vernice rende ancora spiacevole; la mia piccola casa è stata terminata da poco e Lei inaugura questa stanzina, destinata ai miei ospiti. Fosse almeno qui per un motivo più piacevole! La povera Lidia non ci procurerà dei bei giorni, e sopra tutto bisogna, che Lei si adatti: la mia cuoca è andata via dal servizio in tempo poco propizio, e un servitore si è ferito ad una mano. - Parlò ancora un po’ di diverse cosette. Wilhelm le chiese di Lidia, se potesse veder la buona ragazza e scusarsi con lei. - Non avrebbe per ora nessun effetto - rispose Teresa. - Il tempo perdona, come consola. -
Corse via e promise di venirlo presto a prendere per una passeggiata. La sua presenza aveva avuto un buon effetto su Wilhelm, che desiderava di conoscere i suoi rapporti con Lotario. Sentì chiamarsi, ella gli venne incontro dalla sua camera.
Fecero una passeggiata attraverso campi, prati e alcuni frutteti. Teresa informava il proprio fattore di tutto, gli sapeva render conto di ogni piccolezza, e Wilhelm aveva ragione abbastanza per meravigliarsi delle sue conoscenze, della sua sicurezza e della sua abilità di saper dare in ogni caso il consiglio giusto. Wilhelm le mostrò le sua ammirazione per le sue conoscenze d’economia.
Andarono, e per via Teresa disse al suo compagno: - Non è giusto che Lei faccia parlare me soltanto: Lei sa già abbastanza di me, e io non so la minima cosa di Lei; mi racconti intanto qualcosa che La riguardi perché io abbia coraggio di esporle la mia storia e le mie condizioni. - Purtroppo io non ho da raccontare - rispose Wilhelm - altro che errori sopra errori, deviamenti sopra deviamenti, e non saprei a chi nasconderei più volentieri che a Lei i disordini in cui mi trovai e mi trovo. -
Salirono la collina e si distesero sotto una grande quercia, che spandeva tutto intorno la sua ombra.
- Qui - disse Teresa - sotto questo albero voglio raccontarle la mia storia; mi ascolti pazientemente. Mio padre era un nobile benestante di questa provincia, un uomo sereno, chiaro, attivo, leale, un padre affettuoso, un ospite eccellente in cui riconoscevo un unico difetto: d’essere troppe indulgente verso una donna che non sapeva apprezzarlo. Purtroppo devo dir questo della mia propria madre. Il suo carattere era del tutto opposto a quello di mio padre. Ella era inconsiderata, incostante, senza amore per la sua casa e per me, la sua unica bimba; dissipatrice ma bella, ricca di spirito, piena di talento, la gioia di un circolo, che aveva saputo raccogliere attorno a sé. In verità la sua compagnia non era mai grande e durava poco. Questo circolo era formato sopra tutto di uomini. Io somigliavo a mio padre di figura e di sentimenti. L'ordine e la pulizia della casa sembravano esser anche quando giocavo, il mio solo istinto, la mia sola attenzione. Mio padre se ne rallegrava e secondava gradatamente il mio desiderio infantile con adeguate occupazioni. Io crescevo, cogli anni aumentava la mia attività e l'amore di mio padre per me. Quando eravamo soli e andavamo per i campi, quand’io lo aiutavo a rivedere i conti, potevo veramente sentire com’egli era felice. Mia madre con grande entusiasmo a darsi alla scena e fu costruito un teatro; uomini non ne mancavano di tutte le età e di tutte le figure che si presentavano con lei sulla scena, ma donne invece ne mancavano spesso. Lidia, una gentile ragazza ch’era stata educata con me e che già nella prima giovinezza prometteva di divenire seducente, dovette prendersi le seconde parti e una vecchia cameriera dovette rappresentare le madri e le zie, mentre mia madre si riservò le parti delle prime amorose, le eroine e le pastorelle di ogni genere. Mia madre era ricca di suo, ma divorava ancor più che non dovesse. Non so bene quel che passò fra lei e mio pidre, ma egli acconsentì a permetterle un viaggio ch’ella voleva fare nella Francia meridionale. Eravamo alla fine liberi e vivevamo come in cielo. Si licenziò tutta la servitù inutile, e la felicità, sembrò che favorisse il nostro ordine; avemmo degli anni beati, tutto andava a nostro desiderio. Inaspettatamente mio padre fu colpito d’apoplessia che gli paralizzò la parte destra e gli tolse la parola. Una cosa sola mi era chiara, ch’egli non voleva niente, non desiderava altro, aspirava solo a rivelarmi qualcosa, ch'io purtroppo non potei apprendere. Il suo male si ripeté, di lì a poco divenne completamente impotente e incapace di tutto e non molto dopo morì. Ero stata sempre in buoni rapporti con una signora vicina che aveva grandi possessi; ella mi accolse con piacere e mi fu facile mettermi presto a capo del governo della sua casa. Ella viveva molto regolarmente, e amava in tutto l’ordine e io l'aiutavo fedelmente nella lotta coll’amministratore e con la servitù. Ormai ero di nuovo nel mio elemento e in silenzio piangevo la morte di mio padre. Lidia ritornò; mia madre era stata crudele abbastanza per respingere la povera ragazza. Essa aveva imparato da mia madre a riguardare le passioni come un destino, era abituata a non contenersi in nulla. Quando ricomparve inaspettata, la mia benefattrice accolse anche lei: voleva andare per mano con ne e non sapeva conformarsi in nulla. In questo tempo i parenti e i futuri eredi della mia signora, venivano spesso in casa e si divertivano con la caccia. Anche Lotario era qualche volta con loro: io notai presto come egli si distingueva da tutti gli altri, naturalmente non solo verso di me. Era cortese con tutti, e presto parve che Lidia. Nessun uomo ascoltavo volentieri, come Lotario, quando raccontava dei suoi, delle sue campagne. Il mondo gli era così chiaro, così aperto, come a me il luogo che io amministravo. Ma indicibile fu la mia contentezza, quando una sera lo sentii parlare delle donne: che si era ingiusti contro il loro sesso, cioè che gli uomini volevan ritenersi una cultura superiore, che non ci si voleva far accedere a nessuna scienza, che si richiedeva da noi d'essere soltanto delle frivole bambole e governanti della casa. Dopo questo fece una descrizione di come egli si desiderava sua moglie. Divenni rossa, perché descriveva me, anima e corpo! Non mi ricordo nella mia vita una più piacevole sensazione di questa che un uomo, ch'io stimavo, desse la sua, preferenza non alla mia persona, ma alla mia più intima natura.
Che ricompensa sentivo e che incitamento mi fu! Io non avevo mai amato e neppure allora amavo; ma sebbene mi, fosse infinitamente caro di vedere come la mia natura era apprezzata da un uomo stimabile, pure non voglio nascondere che ciò non mi rendeva a pieno soddisfatta. Desideravo anche che mi conoscesse, prendesse personalmente parte a me. Sentii che la compagnia dei giovani aveva di nuovo preparato con Lotario una partita di caccia; per la prima volta in vita mia mi venne in mente di parere, o, per non farmi torto, di valere agli occhi di quell’eccellente uomo per quello che ero. Indossai i miei abiti maschili, presi il fucile in ispalla e uscii col nostro cacciatore per aspettare al confine la compagnia. Essa giunse. Lotario non mi riconobbe subito. Un nipote della mia benefattrice mi presentò a lui come un'abile guardia forestale, scherzò sulla mia giovinezza e spinse così a lungo il suo giuoco in lode mia finché alla fine Lotario mi riconobbe. Il nipote secondo la mia intenzione, come se ci fossimo messi d'accordo prima. Raccontò minutamente e pieno di gratitudine cosa avevo io fatto per i possessi della zia e, quindi, anche per lui. Lotario ascoltò attento, s'intrattenne con me, chiese di tutte le condizioni dei possessi e del luogo ed io ero lieta di potergli mettere davanti le mie cognizioni. La mia contentezza cresceva ad ogni momento, ma fortunatamente io volevo essere conosciuta, non amata poiché quando arrivammo a casa, notai più del solito che l'attenzione ch’egli mostrava per Lidia sembrava, tradisse una segreta simpatia. Io avevo raggiunto il mio scopo e pure non ero tranquilla; da quel giorno e egli mostrò una vera stima, e una bella confidenza verso di me. Mi tirava nel discorso addirittura quando si parlava di economia nazionale in genere e di finanze, e io cercavo in sua assenza di acquistare più cognizioni sulla provincia, anzi su tutto il paese. Mi era facile, poiché si ripeteva solo in grande, quel che io sapevo e conoscevo in piccolo così precisamente. Da quel tempo venne più spesso in cara nostra. Comunque credevo di accorgermi sempre più che le sue frequenti visite erano per Lidia e non per me. Essa mi fece sua confidente e con questo mi trovai in un certo senso consolata. Quello che lei considerava come un suo grande vantaggio, io lo trovavo affatto insignificante; dell'intenzione di un’unione seria, duratura non si mostrava traccia alcuna, e tanto più chiaramente vedevo il desiderio della appassionata ragazza di diventare sua ad ogni costo. Così stavano le cose, quando la signora di casa mi sorprese con un'insospettata collera. - Lotario, ella disse, Le offre la sua mano, e desidera di averla nella vita sempre al suo fianco. - Data la mia approvazione, venne egli stesso, parlò da solo con me, mi offrì la sua mano, mi guardò negli occhi, mi abbracciò e premé un bacio sulle mie labbra. Il primo e l'ultimo. La cosa non era più un segreto, Lidia lo seppe, credé di apprendere qualcosa, d'impossibile. Quando alla fine non poté avere più dubbi, sparì d'un tratto e non si seppe dove si fosse perduta. Un giorno vado verso la mia stanza, prendo la scatole, dei miei gioielli e l'apro in presenza di Lotario; egli ci guarda appena dentro che scorge un medaglione col ritratto di una giovane donna; lo prende in mano, lo riguarda con attenzione e chiede con impeto: - Di chi è questo ritratto? - Di mia madre - gli rispondo. - Avrei giurato - esclama - che fosse il ritratto di una signora di Saint Alban, che incontrai anni fa nella Svizzera. – È la stessa persona - risposi io sorridendo; - e così, senza saperlo, Lei ha conosciuto Sua suocera. Saint Alban è il romantico nome sotto cui mia madre viaggia, e con esso si trova in questo momento in Francia. - Io sono il più infelice degli uomini! - esclamò ributtando il ritratto nella cassettina, si coprì colla mano gli occhi e lasciò subito la stanza. Si gettò sul suo cavallo, io corsi sul balcone e lo chiamai, si rivolse, agitò la mano, si allontanò in fretta, e non l'ho più riveduto.
Il sole tramontava, Teresa guardava nel fuoco con occhio fisso, e i suoi begli occhi si empirono di lagrime.
Tacque e pose la mano sulle mani del suo nuovo amico; egli gliela baciò con simpatia, le asciugò le lagrime e si alzò. - Ritorniamo - ella disse - e provvediamo ai nostri ospiti! -

Quando Wilhelm ritornò al castello, trovò il nobile Lotario sulla via della guarigione; il medico e l'abate non erano presenti, Jarno solo era rimasto.
Così una sera Lotario se ne stava silenzioso a tavola, sebbene paresse contento. - Quale paradiso, egli disse poi, avevo io sognato con Teresa! Non il cielo di una gioia esaltata, ma quello di una vita sicura in terra: ordine nella felicità, coraggio nella sventura, cura alle cose più piccole, e un'anima capace di comprendere ogni cosa più sublime. Oh! in lei io ben vedevo quelle disposizioni il cui sviluppo noi ammiriamo, quando nella storia troviamo donne che ci sembrano molto più degne di tanti uomini. Lei può ben perdonarmi - disse, rivolto a Wilhelm se Teresa mi strappò ad Aurelia; con quella potevo sperare in una vita serena, con questa non c'era da pensare neppure a un'ora felice. - Non Le nascondo - disse Wilhelm - ch'io sono qui con grande amarezza in cuore contro di Lei e che mi ero proposto di biasimare molto severamente la sua condotta verso Aurelia. - E merita d'essere biasimata davvero - disse Lotario; - non avrei mai dovuto scambiare la mia amicizia per lei col sentimento dell'amore, al posto della stima che meritava, non avrei dovuto fare entrare un affetto ch’ella non poteva né suscitare né tenere in vita. - Ma presso la tomba, dove dorme la madre infelice, lasci ch'io Le chieda, disse Wilhelm, perché non prende con sé il bimbo? un figlio, che farebbe rallegrare chiunque, e che Lei, a quel che pare trascura completamente. Come può Lei, coi suoi delicati sentimenti, mostrare di non avere nessun affetto paterno? -
- Ma di chi parla? - chiese Lotario - io non La capisco. - E di chi altro, se non di Suo figlio, del figlio di Aurelia, del bel bimbo, alla cui felicità nulla manca se non un padre che s'interessi di lui? -
- Lei si sbaglia di gran lunga, amico mio - esclamò Lotario; - Aurelia non aveva figli, altrimenti con gioia me ne sarei occupato: ma nel caso presente voglio riguardare la creaturina come un suo lascito e pensare alla sua educazione. Ha fatto capire qualcosa che il bambino fosse mio, che fosse suo? - Non mi ricordo di averla mai sentita pronunziare una parola al riguardo; il fatto era già sottinteso, e io non ne ho dubitato un momento - replicò Wilhelm.
- Posso dare alcuni schiarimenti in proposito - esclamò Jarno. - Una vecchia, che Lei deve spesso aver vista, portò il bimbo ad Aurelia, ella lo accolse con passione e sperò di mitigare con la sua presenza i propri dolori. -
Per questa scoperta Wilhelm divenne molto inquieto, pensò vivamente alla buona Mignon insieme col grazioso Felice, mostrò il suo desiderio di levare i due ragazzi dallo stato in cui si trovavano. - Metteremo presto a posto tutto ‑ rispose Lotario. - La misteriosa bimba la daremo a Teresa, non può certo capitare in mani migliori, e per quel che riguarda il ragazzo, penso, potrebbe prenderselo Lei con sé poiché quel che le dorme lasciano che ancora si formi, lo sviluppano poi i bimbi se ci occupiamo di loro. – Senza far lunghi discorsi vorrei pregarlo di andar a prendere i ragazzi, il resto verrà da sé. - Sono pronto a ciò – rispose Wilhelm. - sono inquieto e curioso, se posso scoprire qualcosa di più sicuro sul conto del ragazzo e desidero rivedere la bimba che si è affezionata così stranamente a me. Il giorno dopo egli si era preparato, il cavallo era sellato e, congedatosi dagli amici, Wilhelm partì.
Nel suo cammino verso la città, Wilhelm aveva in mente le nobili creature femminili che conosceva o di cui aveva sentito parlare e le loro strane sorti, che contenevano così poche gioie, gli erano dolorosamente presenti. - Ah! - esclamò - povera, Marianna! cosa dovrò apprendere di te ? -
In città nessuno dei suoi conoscenti era a casa; si affrettò d'andare al teatro, credè di trovarli alla prova: tutto era in silenzio. Quando giunse sulla scena, trovò la vecchia domestica di Aurelia occupata a cucire. Felice e Mignon sedevano in terra presso di lei, tutt'e due avevano un libro, e mentre Mignon leggeva ad alta voce, Felice ripeteva tutte le parole, come se conoscesse le lettere, come se anch’egli sapesse leggere.
I bimbi saltarono su e salutarono il nuovo venuto; egli li abbracciò teneramente e li condusse più vicino alla vecchia. - Sei tu - le disse in tono severo - che ha condotto da Aurelia questo bambino? - Ella alzò gli occhi dal suo lavoro e volse verso di lui il suo viso; egli la vide in piena luce, inorridì, si fece indietro di alcuni passi: aveva riconosciuto la vecchia Barbara, la governante di Marianna.
- Dov'è Marianna? - esclamò.
- Lontano di qui - rispose la donna. - E Felice? -
- È il figlio di quella ragazza sventurata, che solo La amava troppo teneramente. Che Lei non abbia a provare mai quello che Lei ci ha fatto soffrire e che il tesoro che Le consegno possa farla tanto felice, quanto ha reso infelici noi. - Si alzò per andarsene, Wilhelm la tenne ferma. - Non penso di scappare – ella disse , - lasci ch’io vada a prendere un documento che Le farà piacere e dolore. - Si allontanò e Wilhelm, con gioia paurosa guardava il ragazzo che non poteva ancora dire suo. – È tuo - esclamava Mignon - è tuo! - e premeva il bimbo alle ginocchia di Wilhelm. La vecchia ritornò e gli tese una lettera. - Ecco le ultime parole di Marianna - disse. È morta? - egli esclamò. Morta - rispose la vecchia, - vorrei poterle risparmiare ogni rimprovero. - Sorpreso e perplesso Wilhelm aprì la lettera; ma aveva appena letto le prime parole che un amaro dolore lo afferrò; lasciò cadere la lettera, egli cadde su una banchina e restò là disteso per del tempo. Mignon si dava da fare attorno a lui. Intanto Felice aveva raccolto la lettera e tormentò la sua compagna di gioco, finché questa cedette, gli si inginocchiò accanto e gli lesse la lettera. Felice ripeteva le parole, e Wilhelm fu costretto a udirle due volte.
“Se questo foglio giungerà una volta a te, compiangi la tua infelice amante, il tuo amore le ha dato la morte. Il bimbo, alla cui nascita io sopravvivo solo pochi giorni, è tuo; muoio fedele a te anche se l'apparenza mi può essere contraria; con te perdei tutto quello che mi legava alla vita. Muoio contenta, poiché mi si assicura che il bimbo è sano e vivrà. Ascolta Barbara, perdonale, sta bene e non mi dimenticare.” - Ecco, qua tutto! - esclamò la vecchia, senza attendere che Wilhelm si fosse riavuto.
- Faccia che resti segreto che Felice Le appartiene: io avrei da aspettarmi dalla compagnia forti rimproveri - disse Barbara - per aver taciuta la cosa. Mignon non parlerà, è buona e riservata.
Lo sapevo da lungo tempo e non dicevo niente, - rispose Mignon.
Com'è possibile? - chiese la vecchia - Da chi? - chiese Wilhelm.
- Lo spirito me l'ha detto. - Dove? come? -
Nel sotterraneo, quando il vecchio estrasse il coltello, mi sentii gridare: chiama suo padre, e allora mi venisti in mente tu.

Dopo i chiarimenti avvenuti, Wilhelm si spiegò con Barbara: egli voleva prendere Felice con sé, mentre essa doveva portare Mignon da Teresa e poi consumarsi dove avesse voluto, una piccola pensione ch’egli le promise. Egli fece chiamare Mignon per prepararla a questo mutamento. – Meister - ella disse - tienmi presso di te, mi farà bene e male insieme. - Egli le fece osservare che era cresciuta e che bisognava fare qualcosa per una sua migliore educazione. - Sono colta abbastanza - rispose - per amare e per essere triste. - Wilhelm le richiamò l’attenzione sulla sua salute che aveva bisogno di una durevole cura e della guida di un abile medico. - Perché ci si deve curare di me, quando ci sono tante altre cose cui bisogna pensare? Dopo ch’egli si fu data tanta premura per convincerla che non poteva al momento prenderla con sé, che voleva portarla presso persone, dove spesso l'avrebbe vista, parve che Mignon non avesse ascoltato nulla di tutto questo. - Non mi vuoi vicino a te? chiese. - Forse è meglio, mandarmi dal vecchio suonatore d'arpa, il pover'uomo è così solo. - Wilhelm cercò di farle comprendere che il vecchio era in buone mani - Ma io non mi sono accorto - rispose Wilhelm - che tu gli fossi così affezionata, quand’egli era con noi. - Avevo paura di lui, quand’era desto; ma, quando dormiva, mi sedevo volentieri presso di lui, gli scacciavo le mosche e non mi saziavo mai di guardarlo. avessi saputa la strada, sarei già corsa da lui. - Wilhelm le disse che lei era una bambina ragionevole e che non doveva rifiutare di seguire il suo desiderio, al che ella disse: - La ragione è crudele, il cuore è migliore. Voglio andare dove tu vuoi, ma lasciami il tuo Felice -
Dopo molto parlare e riparlare ella era restata sempre nel suo pensiero, e Wilhelm alla fine pensò d'affidare tutti e due i ragazzi alla vecchia e mandarli dalla signorina Teresa. Ciò gli riusciva tanto più facile, poiché esitava sempre a considerare il bel Felice come suo figlio. Lo prese in braccio e lo portò attorno: il bimbo desiderava di esser alzato dinanzi lo specchio, e Wilhelm, senza confessarselo, ve lo portò volentieri cercando là di rintracciare somiglianze fra sé e il bimbo. Un momento gli apparve proprio vero e si premé il bimbo in seno, ma d’un tratto, atterrito dal pensiero che poteva ingannarsi, mise il bimbo in terra e lo lasciò correre via. - Oh! - esclamò - se potessi dir mio questo inestimabile tesoro, e poi mi dovesse essere strappato, sarei il più infelice degli uomini!
I bimbi erano andati via in carrozza. Il bel bimbo gli stava davanti la fantasia come una seducente ed incerta apparizione; lo vedeva, per mano a Teresa, correre per i campi e foreste all'aria libera ed educarsi presso una libera e serena accompagnatrice; Teresa gli era divenuta ancora più degna, dopodiché egli si pensava il bimbo in sua compagnia.
Egli prese finalmente congedo dai teatranti e s'intrattenne con la Signora Melina, sposa del direttore amministrativo. Wilhelm si rammaricava con lei di non aver potuto adempiere a tutte le promesse a suo tempo fatte a quanti avevano con lui condiviso la vita di teatro. - Non sia ingiusto verso se medesimo – rispose la giovane donna, - se nessuno riconosce quel che Lei ha fatto per noi, io non lo disconoscerò mai. - Con la Sua cordiale spiegazione - replicò, Wilhelm – Lei non quieterà la mia coscienza e mi parrà sempre d'essere debitore. -
- È anche possibile che Lei lo sia - rispose Madame Melina, - ma non nel modo in cui Lei pensa. Ci attribuiamo la colpa di non aver adempiuto una promessa, che abbiamo fatto con la bocca. Oh, amico mio, un uomo buono solo con la sua presenza promette sempre troppo! La fiducia che egli attira, la simpatia che ispira, le speranze che suscita, sono infinite, egli diviene e resta, senza saperlo, un debitore.

Wilhelm, ritornato alla campagna di Lotario, trovò grandi cambiamenti. Un suo zio era morto e Lotario era andato là per prender possesso dei beni lasciatigli in eredità. - Lei viene proprio a tempro opportuno gli disse Jarno - per aiutare l'abate e me. Lotario ci ha dato l'incarico dell'acquisto di importanti possessi qui in vicinanza; la cosa era già in discussione da lungo tempo, e ora troviamo, proprio nel momento opportuno, danaro e credito. - Mostrarono le carte a Wilhelm, riguardarono i campi, le praterie e i castelli, e sebbene Jarno e l’abate dessero a capire di intendersene molto, pure Wilhelm desiderò che la signorina Teresa fosse della compagnia (...)
Wilhelm udì rumore dietro di sé, si voltò e vide un viso furbo di bimbo che guardava dietro i tappeti dell'entrata: era Felice. Il ragazzo quando s’accorse d'esser visto si nascose tosto scherzando. - Vieni fuori! - gridò l'abate. Egli venne correndo, suo padre gli corse incontro, lo prese nelle sue braccia e se lo strinse al cuore.
- Sì lo sento - disse - tu sei mio! - quale dono del cielo devo ai miei amici! Di dove vieni, bimbo mio, proprio in questo momento? - Non domandi. - disse l’abate. - Salute a te, giovane! Il tuo tirocinio è finito, la natura ti ha emancipato. -
Felice saltò in giardino e Wilhelm, rapito, lo seguì; il più bel mattino mostrava ogni oggetto con nuove grazie, e Wilhelm poté godere del più lieto momento. Felice era nuovo nel libero e splendido mondo e suo padre non conosceva molto più di lui gli oggetti, di cui il piccino gli chiedeva ripetutamente e instancabilmente. Alla fine incontrarono il giardiniere che dovette raccontare loro dei nomi e dell'uso delle varie piante; Wilhelm vedeva la natura attraverso un nuovo organo, e la curiosità e l'ardore di sapere del bimbo gli fecero capire quale debole interesse egli aveva preso, fino ad allora per le cose al di fuori di lui, quante poche cose conosceva e sapeva. In quel giorno, il più lieto della sua vita, gli parve che cominciasse anche la sua cultura; sentì la necessità d’imparare, giacché era chiamato a insegnare.
Quando Wilhelm pensava quanto poco aveva fatto fin qui per il bimbo, di quanto poco egli stesso era capace, sorgeva allora in lui l’inquietudine, che riusciva a controbilanciare la sua felicità. - Noi uomini, diceva a se stesso, siamo davvero nati così egoisti che ci è impossibile di curarci di un essere al di fuori di noi? Riguardo al bambino, non sono sullo stesso cammino che riguardo a Mignon? Io attirai a me la cara creatura, la sua presenza mi faceva contento e con questo la trascurai nel modo più crudele. Che feci per educarla, mentre lei desiderava tanto di esserlo? Nulla! La lasciai a sé e a tutte le eventualità cui poteva essere esposta in mezzo a una rozza compagnia, e poi per questo bimbo che ti interessava tanto, prima ancora che avesse per te un così gran valore, ti ha mai detto il cuore di fare per lui anche la cosa più piccola? È ormai passato il tempo di dissipare gli anni tuoi e quelli degli altri; raccogliti e pensa a quel che hai da fare per te e le buone creature che natura e affetto han legato così strettamente a te.
In verità, questo monologo non era che un'introduzione a confessarsi ch’egli aveva già pensato, provveduto, cercato e scelto: né poteva a lungo indugiare a confessarselo. Doro il dolore spesso e invano rinnovato per la perdita di Marianna, egli sentì troppo chiaramente che doveva cercare una madre per il bambino (e per Mignon) e che non la poteva trovare con maggior sicurezza, che in Teresa. Conosceva interamente quella eccellente ragazza. Una sposa e una compagna come lei gli parve la sola cui potesse affidare sé ed i suoi. Il suo nobile affetto per Lotario non gli dava affatto da pensare. Per uno strano destino erano separati per sempre; Teresa si riteneva libera, ed aveva bensì parlato del matrimonio quasi con indifferenza, ma pure come una cosa naturale e necessaria.
Doro essersi a lungo consigliato con se stesso, si propose di narrarle di sé quanto più poteva. Ella doveva conoscerlo, com’egli conosceva lei e cominciò così a ripensare la propria storia. È una terribile sensazione quando un uomo nobile è coscientemente sul punto di essere messo in chiaro su se stesso. Tutti i trapassi sono crisi e ogni crisi non è una malattia? Come si va a malincuore, dopo una malattia, davanti a uno specchio! Si sente in sé un miglioramento, ma si vede soltanto l'effetto del male passato.
Wilhelm si occupò d'allora in poi a comporre per Teresa la storia della sua vita e quasi si vergognò di non poter opporre, di fronte alle grandi virtù di lei, nulla che potesse provare in lui un'attività misurata a uno scopo. Per quanto dettagliato fosse nella sua storia, altrettanto brevemente si restrinse nella lettera che stese; la pregò di volergli concedere la sua amicizia, il suo amore se fosse possibile, le offrì la sua mano e la pregò di una sollecita decisione.
Dopo un po' di dibatto interno se per questo passo importante si fosse dovuto consigliare prima coi suoi amici, con Jarno e l'abate, si decise a tacere; egli ebbe la precauzione di portare da sé la lettera alla posta vicina.
La lettera era stata appena spedita che Lotario ritornò. Ognuno si rallegrava di veder presto conchiusi e terminati tutti gli affari preparati e Wilhelm era ansioso di vedere come tanti fili si sarebbero in parte annodati, in parte disciolti e come si sarebbe fissata per l'avvenire la sua sorte. Lotario li salutò tutti cordialmente: si era ristabilito pienamente ed era sereno, aveva l’aspetto di un uomo che sa quel che deve fare e al quale nessun ostacolo attraversa la via. - Questi è, dovè dire Wilhelm a se stesso, l’amico, l'amato, il fidanzato di Teresa al cui posto tu pensi di metterti. Credi di poter mai spegnere o scacciare questa impressione? - Se la lettera non fosse già stata spedita, forse egli non avrebbe osato di mandarla.
Per fortuna il dado era tratto, forse Teresa era già decisa, solo la lontananza copriva ancora con un velo un felice compimento. Guadagno o perdita dovevano presto decidersi. Egli cercò di calmarsi con tutte queste osservazioni, eppure i moti del suo cuore erano quasi febbrili.
Si passò ad altri discorsi e poi Lotario disse a Wilhelm: - Devo ora mandarla in un luogo dove Lei è più necessario di qui. Mia sorella La prega di andare da lei al più presto possibile, sembra che la cara Mignon deperisca e si crede che la presenza di Lei possa forse lenire il male. Mia sorella mi manda questo biglietto, da cui Lei può vedere quanto la cosa le stia a cuore. Lotario gli consegnò il biglietto; Wilhelm lo prese e non seppe cosa rispondere. - Prenda Felice con sé - disse Lotario - affinché i ragazzi si divertano insieme. Lei dovrebbe partire domattina per tempo, la vettura di mia sorella è ancora qui, io Le le dò i cavalli fino a metà strada, poi può prendere la posta. Stia bene, e porti i miei saluti. Dica inoltre a mia sorella che ci rivedremo presto e che si deve preparare soprattutto, a ricevere alcuni ospiti.

Il vetturino non gli lasciò il tempo di continuare nelle sue riflessioni e innanzi giorno lo costrinse a prender posto nella vettura; egli ravvolse bene il suo Felice, la mattina era fredda, ma serena, ed era la prima volta in vita sua che il bimbo vedeva nascere il sole. La sua meraviglia per la vista dei primi raggi, per la presenza crescente della luce, la sua gioia e le sue liete osservazioni rallegravano il padre e gli facevano gettare uno sguardo nel giovane cuore, dinanzi a cui, come su un mare tranquillo e silenzioso, si alzava e fluttuava il sole. In questo momento, Wilhelm tirò fuori dalla tasca interna il bigliettino che non aveva avuto il coraggio di guardare nel primo momento; esso conteneva le seguenti parole: “Mandami presto il tuo giovane amico: in questi due ultimi giorni, Mignon è peggiorata. Per quanto triste sia, quest’occasione, pure io mi rallegro di conoscerlo”. Natalia.
- Allora questa Natalia è l’amica di Teresa. Che scoperta, che speranza e quante cose mi attendono. - Per il bimbo e per sé, Wilhelm aspettava la migliore accoglienza.
Si era fatta notte, la vettura rumoreggiò dentro una corte e si fermò, un servitore, con una fiaccola di cera, uscì da un magnifico portale e scendendo per le ampie scale venne fino alla carrozza. – È già atteso da tempo, - disse aprendo lo sportello. Wilhelm scese, prese in braccio Felice che dormiva, e il primo servo ne chiamò un secondo, che con una lampada era restato sulla porta: - Conduci subito il signore dalla baronessa. -
Un lampo traversò l’anima di Wilhelm: - Che fortuna, sia un proposito sia un caso che la baronessa sia qui! Io devo vedere lei prima di tutti! Forse la contessa dorme già? -
Entrò nella casa e si trovò nel luogo più severo, per il suo sentimento, il più santo dove fosse mai entrato. Un'abbagliante lanterna appesa illuminava una scala lunga e piana che gli stava dinanzi e in alto si divideva in due rami. Statue di marmo e busti erano messi in ordine sui piedistalli e dentro a nicchie; alcune gli sembravano note. Gli pareva quasi d'essere un personaggio di una favola. Il bimbo gli pesava, si fermò sugli scalini e s’inginocchiò come per prenderlo più comodamente. In realtà però aveva bisogno di un momento di riposo. Il servo che andava avanti facendo luce voleva prendergli il bimbo, ma egli non poté distaccarsene. In questo giunse nell'anticamera e il servitore lo invitò ad attraversare un paio di stanze e ad entrare in un gabinetto. Qui, dietro un paralume che le gettava addosso un'ombra, sedeva una signorina e leggeva. Mise giù il bimbo, che pareva destarsi, e pensò d’avvicinarsi alla signorina, ma il bimbo tutto insonnolito cadde giù, la signorina si alzò e gli venne incontro. Le prese la mano e la baciò con effusione. Il bimbo giaceva fra loro due sul tappeto e placidamente dormiva.
Portarono Felice sul canapè, Natalia gli si sedette vicina, invitò Wilhelm a sedersi sulla poltrona lì accanto. Ella gli offrì alcuni rinfreschi ch’egli rifiutò e gli narrò in generale della malattia di Mignon: che la bimba a poco a poco era consumata da alcuni sentimenti profondi e che nella sua grande sensibilità (ch’ella nascondeva), spesso soffriva in modo violento e pericoloso di un crampo al suo povero cuore. Quando questo pauroso crampo era passato, la forza della natura si riespandeva in forti pulsazioni e opprimeva la bimba con l’eccesso, come prima l’aveva fatta soffrire per la mancanza.
- Uno strano cambiamento troverà in lei - aggiunse Natalia, - ella porta ora abiti da donna, di cui pareva avesse prima un così gran spavento.
- Come ha potuto ottenere ciò? - chiese Wilhelm. - Se ciò era desiderabile, ne siamo ora debitori solo al caso. Ascolti com’è andata. Lei forse sa ch'io ho attorno a me un certo numero di ragazze i cui pensieri io cerco di educare verso il vero e il giusto mentre esse crescono vicino a me. Dalla mia bocca non odono nulla se non ciò ch’io stessa credo sia vero; però non voglio impedire che apprendano anche dagli altri quello che nel mondo passa ed è dato come un errore e un pregiudizio. Se m’interrogano su ciò io cerco di riannodare quei concetti estranei e indebiti a un qualche giusto concetto, per renderli, se non utili almeno innocui. Già da qualche tempo le mie ragazzine avevano appreso dalla bocca dei ragazzi dei contadini qualcosa degli angeli, del babbo Natale e che, in certi tempi questi esseri compaiono in persona per far regali ai bambini buoni e punire i cattivi. Avevano il sospetto che fossero persone travestite e volli confermar loro questa verità
Si avvicinava il giorno natalizio di due sorelle gemelle che si erano sempre comportate bene; promisi questa volta, che un angelo avrebbe loro portato i regali che si erano così bene meritate. Erano straordinariamente curiose di questa apparizione. Mi ero scelta Mignon per questa parte, e per quel giorno ella si vestì decorosamente di un lungo e leggero abito bianco. Attorno al petto non le mancava la cintola d'oro e un simile diadema sui capelli. Dapprima io volevo tralasciare le ali, ma le ragazze che l'adornavano, insisterono perché le mettessi due grandi ali d'oro, con cui volevano mostrare proprio tutta la loro arte.
Così, con un giglio in una mano e un panierino nell'altra, entrò la meravigliosa apparizione in mezzo alle ragazze, e sorprese me pure. - Ecco che viene l'angelo - dissi io. Le ragazze fecero come per ritrarsi indietro e alla fine esclamarono: È Mignon! - eppure non osavano appressarsi all'immagine miracolosa.
- Qui sono i vostri doni, - diss’ella tendendo il panierino.
Si radunarono attorno a lei, osservando, toccando, interrogando.
- Sei un angelo? - chiese una bambina. - Vorrei esserlo, - rispose Mignon.
- Perché porti un giglio? - Se così puro e aperto fosse il mio cuore, sarei felice, - ancora replicò. - Come sono le ali? Falle vedere. -
E così ad ogni ingenua domanda ella rispondeva con qualche simbolo. Quando fu quietata la curiosità della piccola compagnia e l’impressione dell’apparizione cominciava a diminuire, la vollero spogliare. Ella si oppose, prese la sua cetra si sedé su quell'alta scrivania e con grazia incredibile cantò una canzone:
- Oh! lasciatemi sembrare, finché io sia veracemente; oh! non mi togliete la bianca veste! Via m'allontano dalla terra bella, verso la casa laggiù.
Là poserò per breve quiete e poscia fresche visioni mi s'apriranno, e lascerò la tunica pura in abbandono e la corona e la cintola.
Ma le creature celesti non chiedono, s'uno sia uomo o sia donna né v'è vestito né panno alcuno, che il corpo circondi.
Certo non vissi con pene e fatica, ma profonda doglia ho già sentito assai. Pei miei dolori sono sì presto adulta - oh, ridatemi per sempre la gioventù! -
- Io mi risolsi tosto, proseguì Natalia, a lasciarle l'abito e procurargliene ancora altri dello stesso genere che porta ancor oggi e in cui, come a me pare, il suo essere ha tutt'un'altra espressione. -
Siccome era già tardi, Natalia lasciò il nuovo venuto che non senza timore si separò da lei: - È sposata o no? - pensava fra sé. Il servo che l’accompagnò nella sua camera si allontanò più presto ch’egli non avesse preso coraggio d’informarsi della cosa.

La mattina di poi, mentre tutto era ancora silenzioso e quieto, egli uscì per visitare un poco la casa.
Era la più bella, la più pura e la più degna architettura che avesse mai visto. Il servo gli aprì varie altre stanze; trovò una biblioteca, una raccolta di storia naturale, un gabinetto di fisica. Felice si era intanto svegliato e gli era corso dietro; il pensiero di come e quando avrebbe ricevuto la lettera di Teresa, gli dava pensiero, temeva d'incontrare Mignon e in certo modo anche Natalia.
Natalia lo fece invitare a colazione. Entrò in una stanza in cui parecchie ragazze ben vestite tutte, come pareva, sotto i dieci anni, preparavano una tavola, mentre una persona d’età portava dentro bevande diverse.
Natalia entrò e le giovani avevano a poco a poco lasciato la stanza per attendere alle loro piccole occupazioni. Wilhelm, ch’era restato solo con Natalia, desiderò di rivedere Mignon; l'amica lo pregò di pazientare finché fosse ritornato il medico che era stato chiamato dalle vicinanze.
Wilhelm, stava per aggiungere qualcosa, quando entrò il medico e, subito dopo i primi saluti, cominciò a parlare dello stato di Mignon. Natalia che aveva preso per mano Felice, disse che voleva condurlo da Mignon e preparare così la bimba alla comparsa del suo amico.
Il medico, appena fu solo con Wilhelm, proseguì: - Ho da raccontarle strane cose che Lei appena suppone. Natalia ci dà modo di poter parlare liberamente di fatti che pur avendoli appresi da lei non si potrebbero discutere con tanta libertà in sua presenza; la singolare natura della bimba, di cui ore si parla, consiste esclusivamente in una profonda nostalgia. Il desiderio di rivedere la sua patria e il desiderio di Lei, amico mio, sono, potrei dire, la sola cosa terrena in lei; tutte e due queste cose si prospettano alla fanciulla solo in un'infinita lontananza, tutti e due gli oggetti giacciono irraggiungibili dinanzi a quest’anima singolare. Deve essere nata nelle vicinanze di Milano e nella prima giovinezza, dev'esser stata rapita ai suoi genitori da una compagnia di saltimbanchi. Di più non si può sapere da lei per poter fissare con precisione il nome e il luogo perchè allora era troppo piccina, e specialmente perché ella ha fatto giuramento di non indicare precisamente a nessun uomo vivente né la sua patria né la sua origine. Poiché proprio quella gente che la trovò smarrita ed alla quale così esattamente ella descrisse la propria abitazione, e che con tanta insistenza, pregò di ricondurla a casa, la portò via con sé tanto più in fretta; la notte poi nell’albergo credendo che la bimba dormisse, si mise a scherzare sul buon acquisto assicurando ch’ella non avrebbe ritrovato il cammino. Allora, un terribile spavento prese la povera creatura e, alla fine, le apparve la Madre di Dio che la rassicurò che si sarebbe presa cura di lei. Allora ella fece a se stessa un santo giuramento, che per l’avvenire non si sarebbe mai confidata con nessuno, non avrebbe confidato a nessuno la sua storia e che voleva vivere e morire nella speranza di un diretto aiuto divino. Anche queste cose ch’io le racconto, ella non le ha confidate espressamente a Natalia; la nostra degna amica le ha messe insieme da singole espressioni, da canti e da distrazioni infantili, che tradiscono proprio quel ch’ella vuol tacere.
Wilhelm poteva così spiegarsi qualche canto, qualche parola della enigmatica fanciulla. Egli pregò insistentemente il suo amico di non celargli nulla di quel che gli era noto degli strani canti e delle confessioni della strana creatura.
- Oh! - rispose il medico - si prepari a una strana confessione, a una storia, cui Lei, senza forse ricordarsene, ha preso tanta parte e che, come temo, è stata decisiva per la morte e per la vita di questa straordinaria natura di fanciulla.
- Racconti, racconti - rispose Wilhelm - sono tanto impaziente. -
Si ricorda, disse il medico, di una segreta e notturna visita femminile, dopo una rappresentazione e la festa che ne segui? – Si, me ne ricordo bene! - esclamò Wilhelm arrossendo - ma non credevo di dovermene ricordare in questo momento. -
- Sa, Lei chi era? – No! Lei mi spaventa! Per amore del cielo, non era mica Mignon? Chi era? Me lo dica! -
- Io stesso non lo so. - Allora non era Mignon? - No, certo no! Ma Mignon era sul punto di apprestarsi pian piano a Lei, ma con terrore dovette vedere da un angolo della stanza che una rivale l'aveva preceduta. -
- Una rivale? – esclamò Wilhelm – continui, Lei mi confonde interamente. -
- Sia lieto, disse il medico, di poter apprendere così rapidamente da me questi risultati. Natalia ed io fummo tormentati abbastanza finché non potemmo comprendere chiaramente lo stato di questa buona creatura cui desideravamo portar aiuto. La sua attenzione era stata eccitata da frivoli discorsi di Filina e di altre ragazze e da una certa canzoncina e, l’aveva molto sedotta il pensiero di passare una notte presso l'amato, senza che in questo ella sapesse immaginarsi nulla di più, che un dolce e felice riposo. L'affetto per Lei, amico mio, era già potente e vivo nel suo cuore; nelle Sue braccia la buona figliola si era già quietata da molti dolori, ormai desiderava in tutta la sua pienezza questa felicità. Ora si proponeva di pregarLa cortesemente, ora ne era trattenuta da un segreto timore. Alla fine, la lieta serata e il buon umore per il vino ripetutamente gustato le dettero il coraggio di tentare l'impresa e di introdursi da Lei in quella notte. La aveva preceduto correndo per celarsi nella stanza aperta, solo che, salite le scale, aveva udito un fruscio, si era nascosta e aveva visto una bianca figura femminile entrar quatta quatta nella Sua stanza. Lei stesso arrivò di lì a poco e la bimba udì mettere il paletto. Mignon provò tormenti inauditi, tutti i più vivi sentimenti di una gelosia appassionata si mischiavano all’aspirazione ignota di un oscuro desiderio e colpirono la sua natura non ancora sviluppata. Il suo cuore che sin allora aveva battuto solo di nostalgico desiderio e d’attesa, cominciò d'un tratto ad arrestarsi e come un peso di piombo, a premerle il petto; ella non poteva più respirare né sapeva come aiutarsi, udì l’arpa del vecchio, andò in fretta da lui nella soffitta e in terribili spasimi passò la notte ai suoi piedi.-
Il medico si fermò un momento e siccome Wilhelm taceva, proseguì: - Natalia mi ha confidato che nulla in vita sua l'ha mai tanto spaventata come lo stato della ragazza durante questo racconto: anzi la nostra nobile amica si fece dei rimproveri per averle fatte fare queste confessioni e per avere così crudelmente rinnovellati col ricordo i vivi dolori della povera bimba. -
- La buona creatura, così mi raccontava Natalia, era appena arrivata a questo punto del racconto, che d'un tratto mi cadde a terra dinanzi e con mano al petto cominciò a lamentarsi perché le era ritornato lo stesso dolore come in quella terribile notte. Si ravvoltolava per terra e io dovei radunare tutta la mia fermezza d'animo per ricordarmi e applicare tutti i mezzi che, in simili casi, sapevo utili per lo spirito e per il corpo.
- Lei mi mette in una penosissima situazione, esclamò Wilhelm, e proprio nel momento in cui devo rivedere la cara creatura, mi fa sentire cosi vivamente tutti i miei torti verso di lei. E posso confessarle che non comprendo che aiuto può portare la mia presenza, se la fanciulla è in questo stato d'animo? Se lei come medico è convinto che questa doppia passione abbia così profondamente minato la sua natura da minacciarle la vita, perché debbo io con la mia presenza, rinnovarle il dolore e forse affrettarle la fine? -
- Amico mio! - rispose il medico - quando non possiamo aiutare, abbiamo però l’obbligo di confortare e so, perché ho visto importantissimi esempi, come la presenza di un essere amato tolga alla fantasia la sua forza distruttrice e cambi la passione in una quieta contemplazione. Tutto con misura e per uno scopo! Perché proprio la presenza può riaccendere una passione che si estingue, Veda la buona bimba, la tratti benevolmente e vedremo quel che ne nascerà. -
Natalia rientrò e invitò Wilhelm a seguirla da Mignon. - Sembra che sia tutta contenta con Felice e io spero che accoglierà bene l’amico. - Wilhelm la seguì non senza un po' di ritrosia, profondamente commosso di quel che aveva appreso e temendo una scena passionale. Quando entrò, avvenne proprio il contrario.
Mignon sedeva con una lunga veste bianca e coi folti capelli scuri parte arricciati, parte sciolti, e teneva Felice in grembo e se lo stringeva al cuore, ella aveva preso l'aria di uno spirito che si di disparte e il bambino pareva la vita stessa; a vederli pareva che cielo e terra si abbracciassero. Sorridente tese a Wilhelm la mano e disse: - Ti ringrazio, che mi hai portato il bimbo; l'avevano portato via, Dio sa come, e da allora non potevo più vivere. Finchè il mio cuore avrà, bisogno di qualcosa sulla terra, lui deve riempirne il vuoto. - La calma con cui Mignon aveva accolto il suo amico, mise in gran contentezza tutta la compagnia. Il medico espresse il desiderio che Wilhelm la vedesse assai spesso e che procurassero di mantenerla in equilibrio sia fisicamente che moralmente. Egli stesso si allontanò e promise di ritornare in breve.
Wilhelm poté vedere allora Natalia nella sua cerchia e non avrebbe potuto desiderare nulla di meglio che viverle vicino. La sua presenza aveva l'influenza più pura sui giovani, fanciulle e ragazze di diversa età di cui parte abitavano in casa sua parte venivano più o meno spesso a visitarla dalle vicinanze.
- L'andamento della Sua vita, - le chiese una volta Wilhelm, - è stato sempre molto uguale? Si capisce subito che Lei non ha mai deviato. Lei non fu mai costretta a fare un passo indietro. - Questo lo devo a mio zio e all’abate - rispose Natalia – che così bene seppero riconoscere le mie qualità. Sin dalla mia giovinezza quasi, non mi ricordo di aver mai provato una più forte impressione di quando vedevo ovunque il bisogno degli uomini e provavo un invincibile desiderio di soddisfarli; la più lieta sensazione per me era, ed è anche quando scorgo una mancanza, un bisogno nel mondo e posso tosto ricercarne nello spirito un compenso, un mezzo, un aiuto. Questo modo di vedere era in me del tutto naturale, senza la minima riflessione, sì che io da bimba facevo le più strane figure e più di una volta, con le mie singolari proposte misi gli altri in imbarazzo. –
Mignon chiedeva spesso di essere della compagnia e tanto più volentieri glielo concedevano perché pareva che a poco a poco ella si abituasse a Wilhelm, ad aprirgli il suo cuore, e soprattutto ad essere più serena, e più vivace. Passeggiando si appoggiava volentieri al suo braccio poiché si stancava facilmente. - Ora, diceva, Mignon non si arrampica più e non salta più, e pure sente sempre il desiderio di passeggiare lontano sulle cime dei monti, di camminare da una casa a un'altra, da un albero a un altro. Come sono invidiabili gli uccelli, specialmente quando costruiscono con tanta fiducia il loro nido! –
Era ormai abitudine che Mignon invitasse spesso Wilhelm nel giardino. Se questi era occupato o non lo poteva trovare, Felice doveva allora sostituirlo, e se in alcuni momenti pareva che la ragazza fosse interamente disgiunta dalla terra, in altri in altri invece era attaccata strettamente al padre o al figlio e sembrava che temesse un distacco sopra ogni altra cosa.
Natalia si mostrava pensierosa. – Noi abbiamo desiderato - disse un giorno – di dischiudere di nuovo, con la Sua presenza, quel dolce, povero cuore; se abbiamo fatto bene, non lo sappiamo. - Tacque e parve attendere che Wilhelm dicesse qualcosa. Gli venne in mente che la sua unione con Teresa, nelle circostanze presenti, avrebbe straordinariamente afflitto Mignon; ma nella sua incertezza non osò parlare di questo progetto, non supponendo che Natalia potesse esserne informata.
Assai spesso avevano sino allora parlato della signorina Teresa, assai spesso l’avevano nominata casualmente e quasi ogni volta Wilhelm era stato sul punto di confidare alla sua nuova amica ch’egli aveva offerto a quell’eccellente ragazza il suo cuore e la sua mano. Una certa sensazione che non si sarebbe potuto spiegare lo trattenne; esitò tanto, sinché Natalia stessa, col dolce sorriso, modesto e sereno che sempre le si vedeva, gli disse: - Così devo io rompere alla fine il silenzio e conquistarmi a forza la Sua confidenza! Perché, amico mio, mi tiene segreta una cosa che per Lei è tanto importante e che tocca anche me tanto da vicino? Lei ha offerto la Sua mano alla mia amica… io non mischio nelle cose senza incarico ecco qui la legittimazione! Ecco la lettera che Teresa Le manda per mezzo mio.
- Una lettera di Teresa! – esclamò Wilhelm. - Si, signore! La Sua sorte è decisa, Lei è felice. Lasci che io auguri felicità a Lei e alla Sua amica! -
 

Wilhelm tacque e guardò dinanzi a sé. Natalia lo guardò e si accorre che era divenuto pallido. - La Sua gioia è grande, proseguì, essa prende l’aspetto dello spavento, Le toglie la favella. La mia partecipazione non è meno affettuosa, sebbene mi lasci ancora la parola. Spero che Lei mi sarà grato, poiché posso dirle che la mia influenza su Teresa non fu piccola; ella mi chiese consiglio e per caso Lei era proprio qui, e così potei felicemente vincere i pochi dubbi che la mia amica ancora sollevava; i messaggi andarono e vennero: qui è la decisione! Qui è lo scioglimento! E ora deve leggere tutte le lettere, deve gettare un libero, puro sguardo nel cuore della Sua sposa! –
Wilhelm dispiegò il foglio ch’ella gli tese disuggellato; conteneva le liete parole: “Sono Sua, come sono e come Lei mi conosce. Chiamo mio Lei, com’è e come la conosco. Quello che cambierà il matrimonio in noi e nei nostri rapporti sapremo sopportarlo con ragione con lieto animo e buon volere. Poiché non passione ci ha unito, ma simpatia e fiducia, così arrischiamo meno che mille altri. Lei mi perdonerà certo se io talora mi ricorderò affettuosamente del mio vecchio amico, e per questo voglio stringere al petto Suo figlio, come una madre. Se Lei vuol dividere subito con me la mia piccola casa, ne è padrone e signore; frattanto si conchiuderà l’acquisto del possesso. Desidererei che non vi si facesse alcun cambiamento senza di me, per mostrar subito che merito la fiducia che Lei mi concede. Stia bene, mio buono e caro amico! amato sposo, venerato marito! Teresa la stringe al seno con speranza e con gioia! La mia amica Le dirà di più, Le dirà tutto!”
Wilhelm, cui questo foglio aveva interamente ravvivato davanti l’immagine della sua Teresa, era anche tornato completamente in sé. Alla lettura, i più rapidi pensieri si scambiarono nella sua anima. Si rappresentò dinanzi Teresa nella sua perfezione, rilesse la lettera e apparve sereno. Natalia gli offrì le lettere scambiate da cui vogliamo scegliere qualche passo.
Teresa, dopo aver descritto a modo suo il suo sposo, continuava:
“Così io mi immagino l'uomo, che ora mi offre la sua mano. Come egli pensa di sé, tu potrai poi vederlo dalle carte in cui egli apertamente si descrive a me; sono convinta che sarò felice con lui.”
“Per quel che riguarda la diversità di casta, tu sai com’io ho sempre pensato in proposito. Alcuni uomini sentono terribilmente le discordanze delle condizioni esterne e non le possono sopportare. Io non voglio convincere nessuno, ma agire secondo il mio convincimento. Non intendo di dare un esempio, ma il mio modo d'agire non è senza esempio. A me fan paura solo le intime discordanze, un recipiente che non si adatta a quel che deve contenere: molto sfarzo e poco godimento, ricchezza e avarizia, nobiltà e rozzezza, gioventù e pedanteria, bisogno e cerimonie, queste sarebbero le circostanze che potrebbero annientarmi; il mondo poi può apprezzarle o disprezzarle a suo piacere.”
"Se spero che andremo d'accordo, fondo la mia speranza principalmente sul fatto ch’egli è simile a te, mia cara Natalia, che infinitamente stimo e venero.
"Sì, egli ha di te la nobile ricerca e l’aspirazione del meglio da cui traiamo fuori il bene stesso che crediamo di trovare. Quante volte in silenzio non ti ho biasimata perché trattavi questo o quell'uomo altrimenti ch’io non avrei fatto, e ti comportavi diversamente in questo o quel caso eppure, alla fine, si vedeva che tu avevi ragione. Se noi pigliamo gli uomini solo come sono, dicevi tu, li rendiamo peggiori; se invece li trattiamo come se davvero fossero quel che dovrebbero essere li portiamo allora là dove devono essere portati. Voglio anche confessarti che prima di conoscerti, non conoscevo nulla di più alto nel mondo che la chiarezza e l’intelligenza; solo la tua presenza mi ha convinta, animata, soggiogata e alla tua bella e nobile anima cedo volentieri il primo posto. Anche, nel mio amico venero le stesse qualità; la storia della sua vita è un eterno cercare e non trovare. Ma non un cercare vano, bensì un cercare meraviglioso e buono lo pervade; egli crede che gli si possa dare solo quello che può venire da lui. Cosi, mia cara, anche questa volta la mia chiarezza non mi nuoce, conosco il mio sposo meglio ch’egli stesso non si conosca, e tanto più lo stimo.''
Se penso a Lotario? Vivamente e ogni giorno. Non posso fare a meno di lui neppure un momento, nella compagnia che in ispirito mi circonda. Oh, come rimpiango quest'uomo eccellente che mi è quasi parente per uno sbaglio di gioventù e che la natura ha voluto così prossimo a te. Siamo per lui quel che ci è possibile, finché non trovi una sposa degna e anche allora facciamo che si sia insieme e insieme si rimanga!".
- Che diranno ora i nostri amici? – cominciò Natalia. – Suo fratello non sa nulla di tutto ciò? – chiese Wilhelm – Niente, come tutti quelli di casa sua. La cosa per ora è trattata solo da noi donne. Per quanto riguarda Lidia, si era già prima accordata con mio fratello che si sarebbero scambievolmente partecipati il loro matrimonio, ma che non si sarebbero consigliati prima. -
Natalia scrisse una lettera a Lotario, invitò Wilhelm ad aggiungerci qualche parola: Teresa l'aveva pregata di ciò. Stavano per sigillare la lettera, quando inaspettatamente si fece annunciare Jarno.
Fu accolto nel modo più cortese: pareva molto allegro e desideroso di scherzare, e alla fine non poté fare a meno di dire: - Veramente vengo qui per portarle una notizia molto strana, ma pur bella che riguarda la nostra Teresa. Lei ci ha qualche volta biasimati bella Natalia, di occuparci di tante cose; ma guardi ora, come è bene avere dovunque degli informatori. Indovini e ci mostri ancora una volta la Sua sagacità. -
La compiacenza con cui pronunziò queste parole, l'aria maliziosa con cui riguardò Wilhelm e Natalia, convinsero tutt'e due che il loro segreto era stato già scoperto. Natalia rispose sorridendo: - Siamo molto più esperti che Lei non pensi, abbiamo già messo in carta lo scioglimento della sciarada prima ancora che ci fosse proposta. -
Con queste parole gli tese la lettera diretta a Lotario e fu lieta di sfuggire in tal modo alla sorpresa e alla confusione che a loro eran state preparate. Jarno prese il foglio con un certo stupore, lo scorse soltanto, restò sorpreso, lo lasciò cadere di mano e con grandi occhi guardò tutti e due con un'espressione di meraviglia, quasi di spavento che non si era usi a vedere sul suo viso. Non disse parola.
Wilhelm e Natalia furono non poco colpiti. Jarno andava su e giù per la stanza. - Che devo dire! o, meglio, lo devo proprio dire? – esclamò - Allora segreto contro segreto! Sorpresa contro sorpresa: Teresa non è figlia di sua madre! L'impedimento è tolto: io venivo per pregarli di preparare la nobile ragazza alla sua unione con Lotario. –
Jarno scorse la costernazione dei due amici che abbassarono gli occhi a terra. Egli disse: - Questo è uno di quei casi che peggio di ogni altro si sopportano in compagnia. Quel che ognuno ha da pensare sull'accaduto, lo pensa meglio di tutto in solitudine; io, per lo meno, domando un'ora di permesso. - Si affrettò verso il giardino e Wilhelm lo seguì macchinalmente, ma a distanza.
Dopo un'ora si ritrovarono. Wilhelm prese la parola e disse: - Altre volte, quando io vivevo sconsideratamente, senza piano né scopo, mi venivano incontro a braccia aperte, quasi mi si affollavano intorno, amicizia, amore, simpatia, fiducia; ora che prendo tutto con serietà, sembra che la sorte voglia prender con me altri modi. La decisione di offrire a Teresa la mia mano è la prima che interamente venga, da me stesso. Feci il mio piano riflettendo, la mia ragione era pienamente d'accordo e coll’assentimento dell'impareggiabile ragazza si adempirono tutte le mie speranze. Ora la sorte più strana butta giù la mano tesa. Teresa mi porge da lontano la sua - come in sogno - e io non posso afferrarla e la bella visione scompare per sempre! –
Tacque un momento, con lo sguardo assorto, e Jarno voleva parlare. - Mi lasci dire ancora qualcosa, l'interruppe Wilhelm, poiché si tratta ora di tutta la mia vita. In questo mi viene in aiuto l’impressione che la presenza di Lotario mi fece la prima volta e che mi è restata invariata. Quest'uomo merita ogni specie di affetto e amicizia, e senza sacrificio non è possibile nessuna amicizia: per lui mi sarà possibile rinunziare alla sposa più degna. Vada, gli racconti la strana storia e gli dica a che cosa io sono pronto. - Jarno rispose: - In tali casi ritengo che tutto si risolva da sé a patto che non si agisca con precipitazione. Non facciamo passo alcuno senza il consentimento di Lotario. Voglio andare da lui, attenda calmo il mio ritorno o una sua lettera. –
Partì a cavallo e lasciò i due amici nella più grande tristezza. Ebbero tempo di ripensare in più di una maniera all’avvenimento e di fare le loro osservazioni. Ma il loro stupore crebbe al sommo quando il giorno di poi, venne un messo di Teresa che recava a Natalia la seguente inattesa lettera:
"Per quanto strano possa parere, devo alla mia lettera precedente farne seguire subito un'altra e pregarti di mandarmi in fretta il mio sposo. Egli deve diventare mio marito, qualunque cosa facciano per rubarmelo. Dagli la lettera qui acclusa! Ma che non ci sia nessun testimone, chiunque sia". La lettera a Wilhelm diceva così:
"Che penserà della Sua Teresa, se essa ad un tratto appassionatamente sollecita un'unione che parve iniziarsi solo con la ragione più calma. Non si faccia trattenere da nulla e parta appena ricevuta questa lettera. Venga caro, caro amico mio, ora tre volte amato, giacchè mi si vuol togliere a Lei, o per lo meno si cerca di rendere difficile la nostra unione".
- Che si deve fare? - esclamò Wilhelm, dopo letta la lettera. - In nessun altro caso il mio cuore e la mia ragione han tanto taciuto come in questo momento, rispose Natalia dopo aver un po' riflettuto; non saprei che fare, come non so cosa consigliare. - E aggiunse: - Solo un po’ di pazienza, solo un po' di tempo per riflettere. In questo strano concatenamento, io so solo questo: che non dobbiamo fare con precipitazione cose che poi non possiamo revocare. Se mio fratello ha davvero qualche speranza di unirsi con Teresa, sarebbe allora crudele strapparlo per sempre a una felicità. Aspettiamo soltanto per vedere se egli sa qualcosa, se crede, se spera. - Ad appoggiare i motivi del suo consiglio, venne fortunatamente una lettera di Lotario: “Non rimando Jarno; una riga di mia mano ha più valore per te che le parole dettagliate di un messo. Son certo che Teresa non è figlia di colei che si riteneva fosse sua madre, e non posso quindi abbandonare la speranza di unirmi a lei sinché ella non sia pure convinta di questo nuovo fatto, e allora, con calma riflessione, decida fra me e l'amico. Non lo lasciare andar via da te, ti prego! Ne dipendono la felicità, la vita di un fratello. Ti prometto che quest'incertezza non deve durare a lungo". - Lei vede come sta la cosa – diss’ella amichevolmente a Wilhelm: - mi dia la Sua parola d'onore di non uscire dalla casa. - Gliela do! - esclamò dandole la mano: - non voglio lasciare questa casa contro il Suo volere. Ringrazio Dio e il mio buon genio che questa volta sarò guidato proprio da Lei. -
Natalia scrisse a Teresa come stavano le cose dichiarandole che non avrebbe lasciato partire il comune amico e nello stesso tempo le mandò la lettera di Lotario.
Teresa rispose:
"Sono sorpresa non poco che Lotario stesso si sia convinto, poiché immagino che di fronte a sua sorella non vorrà simulare sino a questo punto. Sono tuttavia irritata, molto irritata. È meglio che non dica altro. Meglio di tutto è che io venga da te non appena avrò messo a posto la povera Lidia che è stata trattata troppo crudelmente. Se il mio amico non si libera, vengo io fra qualche giorno per cercarlo presso di te e per non lasciarlo mai più. Ti meravigli che questa passione si sia impossessata della tua Teresa? Non è passione, è convincimento che, non potendo esser mio Lotario, questo nuovo amico farebbe la felicità della mia vita! Diglielo in nome di Teresa che ha accolto la sua offerta con tanta affettuosa franchezza. Il mio primo sogno di come avrei vissuto con Lotario, è lontano dalla mia anima; il sogno di come penso di vivere col mio nuovo amico, mi è ancora presente. –
Io mi rimetto in Lei - disse Natalia a Wilhelm dandogli la lettera di Teresa; spero che non mi sfuggirà. Pensi che lei ha in mano pure la felicità della mia vita. La mia esistenza è così intimamente unita e radicata nell’esistenza di mio fratello ch’egli non può provare dei dolori senza che anch'io li provi, nessuna gioia che non sia anche la mia gioia. -
Si arrestò, Wilhelm le prese la mano esclamando: - Oh, prosegua questo è il momento di una scambievole confidenza! non abbiamo avuto più di ora bisogno di conoscerci più a fondo. -
Così parlando erano andati camminando su e giù per il giardino. Natalia aveva colti vari fiori di strana forma ch’erano del tutto sconosciuti a Wilhelm e di cui le chiese il nome. - Lei certo non s’immagina, disse Natalia, perché io colgo questo mazzo? È per mio zio di cui ora vogliamo visitare la tomba. Il sole splende adesso così vivamente verso la "Sala del Passato" che io devo condurvela né io ci vado mai senza portare alcuni fiori che mio zio particolarmente prediligeva.
Con queste parole erano arrivati all'edificio principale. Natalia lo condusse attraverso un ampio corridoio sino a una porta, dinanzi a cui stavano due sfingi di granito. La porta stessa, secondo l'architettura egiziana, era in cima un po' più ristretta che alla base, e i suoi battenti di bronzo preparavano a una vista severa. Ma come si era poi dolcemente sorpresi quando questa impressione attesa si cambiava nella più pura letizia e si entrava in una sala in cui arte e vita toglievano ogni ricordo della morte e della tomba. Di faccia alla porta, su un magnifico sarcofago, si vedeva la statua di un uomo imponente, appoggiato su un cuscino. Dinanzi a sé teneva un rotolo e pareva vi leggesse con profonda attenzione. Natalia, togliendo un mazzo appassito, mise quello fresco alla figura dello zio. - Qui abbiamo passato molte ore - disse Natalia - prima che questa sala fosse finita. Nei suoi ultimi anni, mio zio aveva chiamato a sé alcuni abili artisti e il suo più gradito passatempo era di aiutarli a immaginare e a eseguire i disegni e i cartoni per queste pitture. -
Wilhelm non poteva saziarsi di ammirare gli oggetti che lo circondavano. - Quanta vita è racchiusa in questa "Sala del Passato"! - esclamò - Si potrebbe chiamarla ugualmente bene la sala del presente e dell'avvenire - Mentre stavano per andarsene, Natalia disse: - Devo richiamare la Sua attenzione su una cosa ancora. Osservi quelle aperture semicircolari su in alto, da tutt'e due le parti! Là possono star nascosti i cori. Negli oratori e nei concerti, ci disturba sempre la figura del musicista: la vera musica è solo per l'orecchio, una bella voce è la cosa più vaga che si possa pensare, e se l'individuo da cui essa emana, col suo corpo determinato, compare innanzi gli occhi, distrugge il puro effetto di quella vaghezza.
Lasciarono la sala quando udirono i ragazzi che correvano con furia nel corridoio, mentre Felice gridava: - No, io! no, io? - Mignon si gettò per prima dentro la porta stretta. Era senza respiro e non poteva parlare. Felice, ancora a una certa distanza, gridò: - Mamma Teresa è là! -
I ragazzi avevano fatto scommessa, pare, a chi portava prima la notizia. Mignon giaceva nelle braccia di Natalia, il cuore le batteva fortemente. – Cattiva! - diceva Natalia - non ti ho proibito ogni moto violento? guarda come batte il tuo cuore! - Lascialo schiantare! - disse Mignon con un profondo sospiro - batte già da troppo tempo.
Si erano appena riavuti da questa confusione, da questa specie di spavento, che Teresa entrò. Volò verso Natalia, abbracciò lei e la cara Mignon. Poi si rivolse a Wilhelm con occhi sereni e disse: - Così, amico mio, come va? Lei non si è lasciato scuotere? - Egli fece un passo verso di lei; ella gli saltò al collo. - Oh Teresa mia! - gridò - Amico mio, mio amato, mio sposo! Sì, in eterno tua! - ella esclamò fra i baci.
Felice la tirava per la gonna, e diceva: - Mamma Teresa, ci sono anch'io. - Natalia era lì ritta e guardava innanzi a sé. Mignon d’un tratto portò la mano sinistra al cuore e stendendo con forza il braccio destro, cadde con un grido ai piedi di Natalia, come morta.
Lo spavento fu grande: non c'era più traccia di moto né nel cuore né nel polso. Wilhelm la prese in braccio e la portò presto su mentre il corpo gli pendeva dalle spalle senza vita. La presenza del medico dette poco sollievo: egli e il giovane chirurgo, si dettero invano ogni premura. Non si poteva richiamare in vita in nessun modo la magnifica creatura.
Natalia fece cenno a Teresa. Questa prese il suo amico per mano e lo portò fuori della stanza. Egli era annichilito e senza parola, e non aveva il coraggio di alzare gli occhi. Così si sedette presso di lei sul canapè su cui la prima volta aveva trovato Natalia. Ci sono momenti nella vita, in cui avvenimenti - simili a spole alate - si muovon qua e là, dinanzi a noi e irresistibilmente compiono un tessuto che noi stessi abbiamo più o meno filato e ordito.
- Amico mio, - disse Teresa rompendo il silenzio e prendendolo per mano – questi sono gli avvenimenti a sopportare i quali bisogna essere due nel mondo. Pensa, senti, che tu non sei solo, perché tu dividi con me i tuoi dolori! - Lo abbracciò e se lo strinse dolcemente al seno; egli la prese nelle braccia e la serrò fortemente a sé. Ma nel suo spirito c'era tristezza e vuoto e solo l'immagine di Mignon fluttuava dinanzi alla sua fantasia. Natalia entrò. Wilhelm si staccò dalle braccia di Teresa. - Dove vuole andare? - chiesero le due donne. - Lasciatemi vedere la bimba che io ho uccisa! - esclamò. - Andiamo a vedere quel povero angelo morto! Il suo aspetto sereno ci dirà ch’ella è felice! - Poiché le due amiche non potevano trattenerlo, lo seguirono; ma il buon medico, che venne loro incontro col chirurgo li trattenne d’avvicinarsi alla defunta e disse: - Mi permettano, per quanto può la mia arte, di dare un po' di durata alle spoglie di questo caro essere dandogli pure l'aspetto della vita. Mi concedano ancora qualche giorno di tempo e non chiedano, per favore, di rivedere la cara bimba sinché non l'avremo portata nella "Sala del Passato". -
Gli amici non ebbero tempo sufficiente per dare più diffusi schiarimenti alla signorina Teresa sulla bimba e sulla causa probabile della sua morte inattesa; poiché furono annunciati degli stranieri che, non appena comparvero, si vide che stranieri non erano.
Lotario, Jarno e l’Abate entrarono. Natalia andò incontro al fratello; fra gli altri si fece momentaneo silenzio. Teresa disse sorridendo a Lotario: - Lei non credeva certo di trovarmi qui; per lo meno non è opportuno che ci avviciniamo in questo momento, ma intanto, dopo una così lunga assenza, La saluto cordialmente. -
Lotario le tese la mano e disse: - Una volta che dobbiamo soffrire e rinunziare, ciò può anche essere in presenza d'un bene amato e desiderato. Non domando di avere nessuna influenza sulla Sua decisione e la mia fiducia nel Suo cuore, nella Sua ragione e nel Suo puro intendimento è sempre tanto grande che io posso deporle volentieri nelle mani la sorte mia e del mio amico. -
La compagnia si divise ben presto in singole coppie per andare a passeggiare. Natalia andò con Lotario, Teresa con l'Abate, e Wilhelm rimase nel castello con Jarno.
La sera l’Abate li invitò alle esequie di Mignon.
La compagnia si recò nella "Sala del Passato" e la trovò stranamente ornata e illuminata. Le pareti erano coperte di tappeti azzurro-cielo dall'alto fin quasi in basso, cosicché apparivano solo la base e il fregio.
Sui quattro candelabri negli angoli ardevano grandi candele di cera e, così in proporzione, sui quattro più piccoli che circondavano il sarcofago centrale. Vicino a questo stavano quattro ragazzi vestiti di celeste e d’argento, e pareva che facessero aria con larghi ventagli di struzzo ad una figura che giaceva.
La compagnia si sedette e due cori invisibili incominciarono a chiedere con voce soave:
- Chi ci portate al tacito avello? - I quattro bimbi risposero con tenue voce: - Una compagna dei nostri giuochi noi vi portiamo, fatela riposare tra voi, fino a che il giubilo la desti delle coorti celesti. –
Coro
O primizia di gioventù, sii benvenuta nelle nostre accolte, benvenuta in tristezza!
Non ti segua un bimbo, non ti segua nessuna fanciulla! Solo vecchiezza, spontanea e pacata, si accosti al tacito portico e tra compagni austeri riposi la cara, ammirevole fanciulla.
Fanciulli

Ah! con che tristezza noi la portiamo qua! Ah! e deve restarvi! Lasciate restare anche noi, lasciateci piangere sulla sua tomba.
Coro
Vedete, vedete le ali possenti! Guardate la pura veste leggera! e splende dal capo la benda d'oro! vedete il bello, il degno riposo!
Fanciulli
Ah! che non s’alzano l'ali, e in giuochi leggeri più non ondeggia la veste; quando di rose adorneranno il suo capo, amica e benigna lei ci guardava.
Coro
Guardate con gli occhi dell'anima! in voi viva la forza che crea, la forza che porta il più bello, il più alto, sopra le stelle: la vita.
Fanciulli
Ma ahimé noi qui la desideriamo invano; più non s'aggira pei giardini, più non raccoglie nei prati i fiori. Lasciateci piangere, noi la lasciamo qui! Lasciateci pianger, restare con lei!
Coro
Bimbi, tornate di nuovo alla vita! l'aria fresca vi asciughi le ciglia, l’aria che gioca intorno all'acqua scorrente. Fuggite la notte! Il dì, la gioia e la perpetuità sono la parte del vivente.
Fanciulli
Orsù, torniamo alla vita. Il giorno ci dia gioie e lavoro, sinché sera ci rechi riposo e il sonno notturno ci ristori.
Coro
Bimbi! tornate alla vita! Nella pura veste della bellezza vi incontri l’amore con lo sguardo celeste e la corona d’immortalità.
I ragazzi erano già lontani; l’Abate s’alzò dalla sua sedia e si mise dietro la bara. - È ordine dell'uomo che ha preparato questo silente soggiorno, egli disse, che ogni nuovo arrivato vi venga accolto con solennità. Dopo di lui, costruttore di questa casa, fondatore di questi luoghi, noi abbiamo per prima qui condotta una giovane straniera, e così questo piccolo spazio rinchiude già due diversissime vittime della severa, capricciosa, inflessibile dea della morte. Noi nella vita entriamo secondo leggi prescritte, sono contati i giorni concessici a maturare fino a vedere lo splendore della luce, ma per la durata della vita non c'è legge. Il più sottile filo di vita si protrae in inaspettata lunghezza, ed il più forte è troncato a forza dalle forbici d’una parca che pare si diletti di contraddizioni.
Della bimba che noi qui seppelliamo, sappiamo dire ben poco. Ancora ci è sconosciuto donde veniva, non conosciamo i suoi genitori e possiamo solo supporre il numero dei suoi anni. Il suo cuore profondo e rinchiuso ci ha lasciato indovinare appena le sue condizioni più intime; nulla v'era di comprensibile in lei, nulla di manifestato, se non l'amore per l'uomo che la salvò dalle mani di un barbaro. Questo tenue affetto, questa viva gratitudine fu quasi la fiamma che divorò l'olio della sua vita; l'abilità del medico non poté conservare la sua bella vita, l'amicizia con le cure più amorevoli non poté prolungarla. Ma se l'arte non poté incatenare lo spirito che si partiva, ha per altro impiegato tutti i suoi mezzi al fine di conservare il corpo e sottrarlo alla caducità. Una sostanza balsamica è penetrata attraverso tutte le vene e colora adesso, invece del sangue, le guance così presto impallidite. Avvicinatevi, amici miei, e guardate il miracolo dell'arte e dello zelo!
Levò il velo, e la bimba giaceva nelle sue vesti da angelo, come dormendo nella posa più bella. Tutti s'appressarono e ammirarono quella parvenza di vita. Solo Wilhelm restava a sedere e non poteva riaversi; non osava pensare a quel che sentiva ed ogni pensiero pareva voler distruggere i suoi sentimenti.
L'Abate continuò: - Con santa fiducia, questo cuore così buono, così chiuso verso gli uomini, fu costantemente rivolto a Dio. L’umiltà, quasi un'inclinazione ad abbassarsi esternamente, parevano innate in lei. Con zelo si teneva fedele alla religione cattolica, in cui era nata ed educata. Spesso ella espresse il desiderio di riposare in terra consacrata e, secondo il rito della chiesa, noi abbiamo consacrato questo involucro marmoreo, e la poca terra nascosta nel suo origliere. Con che fervore ella baciò negli ultimi momenti l'immagine del crocifisso che sta leggiadramente disegnata con mille punti, sul suo tenero braccio! - E dicendo questo alzò la manica del braccio destro e si vide un crocifisso azzurrognolo accompagnato da lettere e segni sulla pelle bianca.
Premendo una molla l'Abate fece scendere lentamente il corpo nelle profondità del marmo. Quattro giovani, vestiti come i ragazzi di prima, uscirono di dietro il tappeto a tenda, sollevarono sulla bara il pesante coperchio bene adornato, e incominciarono il loro canto.
I Giovani
Ben serbato è oramai il tesoro, la bella immagine del passato!
Qui nel marmo riposa incorrotto ed anche nei vostri cuori continua a vivere, a operare. Tornate! tornate alla vita! prendete con voi la sacra austerità; poiché la severità, soltanto, la sacra, tramuta la vita in eternità!
L'invisibile coro si unì nel canto alle ultime parole, ma nessuno nella compagnia comprese le parole di conforto; ognuno era troppo occupato dei propri sentimenti. E solo quando il canto fu interamente svanito ricominciarono con nuova forza il dolore, le riflessioni, i pensieri; ed ognuno desiderava ardentemente di ritornare in quell'atmosfera armoniosa.
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

36 - I sacrifici che valgono (Giovanni Ferreri (l884- ?)

L’umanità è sempre stata considerata dagli spiriti svegli come una grande malata, non solo per i mali di cui soffre perennemente ma anche per i rimedi che essa si dà e dei quali, come si sa, non uno procura la guarigione, anzi neppure un lenimento. L'amabile scetticismo di un poeta non disturbava nemmeno la farmacopea per scegliere l’immagine sconsolata atta a scolpire ironicamente la realtà. Per lui i rimedi che la umanità si somministra fanno assumere alla grande ammalata soltanto la configurazione dell’infermo che si gira e si rigira nel letto trovando un momentaneo sollievo nel mutar di posizione, e non ha ancora goduto bene del sollievo, che già diventa urgente tornare a quella di prima.
Si può fondare su tale concezione, se di vuole, tutta una filosofia, tutta una scienza politica ed una sociologia, tutta una morale ed una pedagogia. Ma questo porterebbe fuori del nostro terreno. E d'altra parte non vogliamo recare alcun soccorso allo scetticismo che è anche troppo pronto ad avvelenare l'anima umana paralizzandone la capacità d'azione, distruggendo ogni fede che è slancio verso il meglio in cerca del bene, sempre implicito riconoscimento del Bene eterno cui deve far capo la vita, fede della quale abbiamo assoluto bisogno, non foss'altro in quel suo albore che chiamiamo la speranza.
Ma la nostra fede è fede che vuole essere illuminata ed una speranza che vuol darci il più solido fondamento.
Com’è difficile trovare quell'assoluto di cui e la fede e la speranza hanno bisogno per sentirsi ancorate a qualche cosa che non partecipi della labilità universale. Più si avanza nell'esperienza e più si diventa umili ed esitanti nel dogmatizzare, mentre si cerca sempre più verso l'assolutamente altro il proprio punto d'appoggio. E voi sapete che oggi chi dogmatizza di più lo fa lanciando strali contro il dogma.
Non neghiamo nessuno dei valori umani e niente che possieda, anche soltanto un po' della loro polvere d'oro. Esaltiamo tutte le virtù. Ma dei valori umani vediamo il caduco e delle virtù scorgiamo lucidamente i limiti oltre i quali esse stesse diventano vizi o conducono al vizio, proprio come da tanti vizi (sol che si muti l'orientamento spirituale), possono scaturire, tante virtù.
Ci sono delle virtù che possono rendere angusti e angustiare la vita degli altri.
Vero è che il bene altrui può derivare proprio dall'angustiargli la vita. Le medicine efficaci fanno sempre più o meno soffrire o recano qualche noia. Ma posti su questo terreno, i virtuosi vanno spesso tormentando il prossimo senza alcun costrutto, almeno per il prossimo.
Peggio ancora; perché l'inganno è più sottile: si può aduggiare il prossimo e non giovargli punto anche tormentando soltanto se stessi, con la migliore delle intenzioni; per esempio: quella di sacrificarsi per gli altri. Ci sono creature che a furia di sacrificarsi per gli altri sono diventate cagione di sacrificio per questi stessi altri in pro dei quali si sacrificavano.
C’è un veleno insidiosissimo il cui reperto è quanto mai difficile e che rende malefiche tante cose buone. È il nostro egoismo che si dissimula nelle maniere più impensabili.
Invero: anche nel sacrificarsi si può soltanto soddisfare una propria brama. Nobile brama, dite voi. Non sempre. Come esiste un terribile egoismo nelle persone che amano più intensamente ed è difficile salvarsi dall’egoismo di chi ama di un amore che è soltanto natura, così è possibile nel sacrificio seguire inconsciamente una falsa pista che è quella della soddisfazione di una propria brama.
Amore e egoismo si fondono stranamente insieme. È difficile tracciarne i confini. Per questo è così difficile delineare i contorni del sacrificio che giova agli altri ad è provocato da una evidente loro necessità, per distinguerlo da quello che muove soltanto dal bisogno proprio.
Inutile pensare che il cuore sia lui la guida infallibile. L'esperienza è già stata fatta. Ad un certo punto il cuore si deve dare per vinto di fronte agli inestricabili garbugli che crea, e chiamare in soccorso la ragione, tanto disprezzata, per mettere un po' in sesto le faccende della propria esistenza; finché la ragione stessa - mettendo troppo a sesto - crea le condizioni della prossima rivolta del cuore.
E così...all'infinito? Dobbiamo proprio accontentarci di un equilibrio instabile? E sarà sempre questo il prodotto di opposte esperienze? Nulla dunque su cui appoggiarsi definitivamente?
Nulla. Fuorché Dio.
I sacrifici rituali perdevano nelle epoche di decadenza religiosa la loro significazione e il loro valore, ed i profeti potevano dire che Dio non li gradiva (…) Così i nostri sacrifici per gli altri possono subire la stessa sorte quando venga ad esaurire il contenuto spirituale che non è dato solo dall'amore, ma dall'amore che viene dal nostro essere ancorati in Dio per fede.
Qui è la speranza del mondo, perché senza quest'ancoraggio, tutto il relativismo che è nella vita, tutto il contraddittorio che è nelle cose e perfino quello della ragione, tutto il cumulo delle esperienze fallimentari del vivere, trascinano al nichilismo più esasperato quanto assurdo, dato che la vita mostra da sé di essere più forte di ogni fallimento e al di sopra di tutto l'ondeggiare del vivere e più logica di tutto il nostro ragionare.
Mentre dunque noi scopriamo i limiti contro i quali anche le più alte virtù cozzano, noi cerchiamo il nostro equilibrio sempre rinnovantesi, nel senza-limiti: in Dio, Infinito e assoluto amore.
Giovanni Ferreri (l884- ?)

37 – L’Evangelo della ragione (Gotthold Ephraim Lessing)

la strada, sulla quale il genere umano perviene alla sua perfezione, deve averla prima percorsa ciascun singolo uomo, chi prima, chi dopo - Averla percorsa in una e medesima vita?
Può egli essere stato nella stessa vita un Giudeo sensista e un Cristiano spirituale? Può averli riuniti entrambi in una medesima vita?
Questo no, senza dubbio! - Ma perché ciascun singolo uomo non potrebbe essere stato più di una volta a questo mondo? –
Forse questa ipotesi è o così risibile perché è la più antica? E perché l’intelletto umano, prima che la sofistica della scuola lo avesse disperso e indebolito, subito si rivolse ad essa?
Perché non dovrei anche poter avere già fatto qui una volta tutti i passi per il mio perfezionamento, cui possono arrecare solo le pene e le ricompense temporali degli uomini?
E perché non un'altra volta tutti quelli, che ci aiutano così potentemente a fare le previsioni di ricompense eterne?
Perché non dovrei ritornare tanto spesso, quanto sono destinato ad ottenere nuove conoscenze, nuove capacità? Forse ch'io a bella prima ho così progredito, che non valga la pena di ritornare?
Perché? - O forse, perché mi dimentico, che già sono esistito? Bene per me, ch’io me ne dimentichi: la reminiscenza delle mie precedenti condizioni non mi permetterebbe che di fare un cattivo uso della presente. E ciò che ora debbo dimenticare l'ho poi dimenticato per sempre?
O forse, perché andrebbe perduto per me tanto tono? - Perduto? - E che cosa ho da perdere? Non è mia tutta l'eternità?
Gotthold Ephraim Lessing (1729-81)

38 - La vittoria sulla caducità (V. Solovev)

...Che la vita naturale carnale non solamente nella forma grossolana di male, ma legata anche con le forme della socialità umana sia una via cattiva e falsa, lo si sapeva prima del Cristo. Lo sapevano i savi dell'India, i bramini ed i buddisti; lo sapevano i filosofi greci, Platone ed i suoi seguaci. Ma è insufficiente conoscere e condannare questa via perversa, che i filosofi platonici mostravano nel mondo ideale della verità, bellezza e bene sussistente per sé; fa mestieri mostrare realmente che questa vita esiste, fa mestieri portare questa vita nell'uomo e nella natura rivelando in essi ciò che si nasconde in questa vera vita. E se questa è la vera vita, essa non può divenire impotente e inattiva: essa, deve vincere la falsa e perversa vita, e sottomettere la legge cattiva di essa con la sua grazia.
Il fondamento della vita carnale è la malizia, la sua fine, la morte e la corruzione. Il principio della vera vita, l'amore, vince la malizia e la sua conclusione, la resurrezione, vince la morte. Se la morte e la corruzione sono invincibili, ciò vuol dire che la legge della vita animale, la legge del peccato e della schiavitù, è l'unica legge del mondo; ciò vuol dire che la vita della carne è la vita reale e non vi è altra vita nella realtà: non solo nell'immaginazione e nei pensieri umani; ciò vuol dire, che in Verità vi è solamente il torrente della materia, e tutto il resto, sogni vuoti di senso; e se così è, noi dobbiamo vivere al momento che scorre, dobbiamo gozzovigliare e godere il giorno di oggi. Tutto quello che ieri avvenne è già trascorso e non ritorna, e domani noi stessi morremo.
E se l'altra vita spirituale non è solamente un sogno, essa deve manifestarsi nelle sole sensazioni e desideri, non nei soli pensieri e parole, ma in realtà, nella vittoria reale dello spirito sovra la natura materiale. Ed una tale vittoria della forza spirituale della materia deve avere totalmente un altro carattere che la vittoria di una forza materiale sovra un'altra nella lotta naturale per l'esistenza, nella quale il vinto è offerto in sacrificio, è inghiottito e annientato. Il principio spirituale, specialmente nella sua vittoria sulla natura ostile, deve mostrare la sua preminenza, nel non divorare ed annientare questa natura vinta, ma nel ristabilirla in una nuova miglior forma di essere. La risurrezione è l'interna conciliazione della materia con lo spirito, col quale essa qui forma un solo essere come la sua reale espressione, come il suo "corpo spirituale". La finale e distintiva verità, del cristianesimo consiste nella spiritualizzazione e divinizzazione della carne. Non vi è niente di più contrario, a questa verità che lo spiritualismo unilaterale. L’incarnazione e la risurrezione del Logos è un triplice trionfo: qui vi sono tre principi dell'essere: il divino, il materiale e l’umano rivelano la loro importanza assoluta. Dio è glorificato nel mondo perché si rivela come un essere attivo, sostegno di tutto l'infinito il quale non solo limita la forza estranea della materia e non solo distingue da sé la sua non verità ma anche penetra nel profondo del suo essere come in se stesso, internamente sottomettendola e assimilandola a se stesso e attenuandosi in essa. Ciò è un compimento e un trionfo della natura materiale. Perché prima dell'apparizione dell’uomo spirituale la forza della natura in ogni essere, la sua peculiare volontà vivente nella sua tendenza verso l'essere infinito, è dominata dalla legge della specie, sotto il cui giogo perisce ogni individuo; e quantunque l'uomo naturale può penetrare nel dominio dell’essere eterno, solo per via di contemplazione, la sua vita personale resta soggetta alla legge dell'essere materiale, al lavorio della morte e della corruzione come la vita delle altre creature. Solamente nell'incarnazione e risurrezione del Dio-uomo, l'essere naturale nella forma di organismo umano prima soddisfa la sua pretesa limitata, conseguendo per sé la pienezza e l'integrità della vita divina. La rovina di un individuo naturale non è la soluzione della contraddizione del mondo fra il particolare e l'universale, ma la sua risurrezione e l'eterna vita. Ed infine, questa soluzione è raggiunta mediante la ragionevole e libera azione della volontà umana. La condizione della risurrezione è l'eroismo, quell'atto della personalità divino-umana col quale il Cristo si strappò alla legge del peccato e si sottomise all'assoluta volontà divina, facendo del suo principio umano il canale della azione divina nella natura materiale. Quando in tal modo la radice del male del mondo fu strappata, il suo frutto, la morte fu abolito dalla risurrezione nella quale, per conseguenza, insieme con Dio e la materia, trionfa il principio umano che li congiunge entrambi.
La perfetta incarnazione, del senso (ratio) divino nel Cristo libera il principio umano per una nuova attività. Se l'antica umanità cercava solamente Dio, e perciò non poteva vivere secondo Dio, per la nuova, umanità – per la quale il vero Dio è rivelato nel Cristo - vi è l'obbligazione di vivere secondo Dio, cioè attivamente assimilarsi e restituire i semi della vita divina manifestati in essa. Ad essa non è più necessario cercare la verità, la verità è data. Essa deve attuarla nella realtà: e poiché la verità data è assoluta, infinita, essa deve essere realizzata i tutta la sua realtà, in tutta la pienezza dell’essere naturale ed umano il quale non deve offrire nessun limite a questa verità V affinché Dio sia tutto in tutti. Al mondo antico era sufficiente contemplare la divinità come idea, il nuovo mondo, che ha la visione della divinità come reale apparizione, non può limitarsi alla contemplazione: esso deve vivere ed agire in virtù del principio divino che si rivela in lui, trasformando se stesso ad immagine e somiglianza del Dio vivente. L'umanità è tenuta non già a contemplare la divinità, ma rendere se stessa divina. Conforme a ciò la nuova religione non può essere unicamente una passiva venerazione di Dio e adorazione, ma deve realmente essere un’azione riunita della divinità e dell'umanità per la trasformazione di quest'ultima, da carnale e naturale, in spirituale e divina. Cioè non è una creazione dal nulla, ma una trasformazione, una transustanziazione dalla materia nello spirito, dalla vita della carne nella vita divina.
Vladimiro Solovev (1853-1900)

39 – Pestalozzi (Giovanni Niederer)

L’attività esteriore della vita di Pestalozzi (1746-1827), si svolse in un cerchio molto limitato. Il suo viaggio più lungo fu da Zurigo a Lipsia, e persino nell'ambiente ristretto della sua patria si dolse spesso di non essere riuscito a fare neppure un giro nelle Alpi svizzere. In compenso seppe estendere la sua attività spirituale nell’incommensurabile e, grazie ad una energia quasi senza confronto, riuscì a vincere i limiti dello spazio e del tempo. Pari ad un vulcano portò la sua luce a grande distanza suscitando l'attenzione dei curiosi, lo stupore degli ammiratori, lo spirito investigatore degli osservatori e la partecipazione dei filantropi di molti continenti.
Attirò a sé il mondo a cui egli non poteva giungere. Il mondo venne a lui e dovunque penetrò la cultura, si divulgò se non la luce del suo spirito, la fama del suo nome. Il carattere di questa creatura straordinaria, che io così chiamo perché era ben più creatura umana che non solo virile riunendo in sé le caratteristiche di ambedue i sessi in lineamenti inconfondibili, già per questa ragione è più difficile da comprendere di quello che non si creda generalmente, a meno che non si concepisca la semplicità come quella profondità che è insieme base e compendio della molteplicità. Il suo modo d'agire, era anch’esso straordinariamente ineguale e appariva necessaria un'assoluta assenza di regole. Egli, infatti, sebbene con idee ben decise cercava sempre qualcosa di nuovo e di diverso nei modi più molteplici, nel campo più vasto o nelle direzioni più opposte. Le espressioni correnti e più comuni: animo infantile, pia felicità, fervida dedizione non arrivano a spiegare quest'uomo. La sua immagine, la struttura del suo corpo, il suo modo d'essere esteriore già lo dimostrano: l'andatura ineguale, il modo d'apparire, di camminare, di parlare, ora frettoloso, ora circospetto e come smarrito nel proprio pensiero, ora precipitoso, ora ardito e imponente, il tono della sua voce modulato secondo i vari sentimenti dell’anima; i tratti del viso composti di elementi molteplici, contrastanti, mutevoli e mobili in tutte le direzioni; gli occhi incavati ora luminosi come stelle e raggianti, ora ritirati in se stessi come se si affissassero in una íncommensurabílità interiore, la fronte sfuggente liscia e ardente, i capelli folti a ciuffi quasi irti sul cranio, le labbra sottili eppur capaci di ingrossarsi, una bocca straordinariamente espressiva dal punto di vista fisionomico ad attraente, per così dire assorbente ed espellente, capace di esprimere ardore, giocondità, bontà, scherzo, scherno e derisione a seconda dell'oggetto o dell'impulso; il complesso dei tratti del volto esprimenti ora la più tenera mitezza, ora dolore lacerante e profonda malinconia, ora spaventosa serietà, ora un paradiso di amore e di delizia che poteva giungere fino a trasfigurarlo, il petto largo e prominente, il dorso grosso incurvato, la vigorosa e diritta muscolatura: in breve, ciò che colpiva in lui nei più piccoli come nei più grandi particolari, specialmente però la quantità e la varietà di ciò che colpiva, annunciavano un individuo in cui vibravano o avevano vibrato tutte la corde della natura umana. Candido e fiducioso come un bambino; mite e cortese, delicato e sensibile come una donna, fermo e volitivo, virile nell'osare e nell'imporsi, sempre pronto alla ripresa e al sacrificio, superando gli ostacoli come un'eroe, e tutto questo partendo dai più tenui moti e dalle minime risonanze nelle diverse situazioni della vita, attraverso tutte le gradazioni fino al più sublime entusiasmo e al rapimento; per contro mostrando nello stesso grado le debolezze e gli errori del lato opposto di questa natura fino al dolore più lacerante, fino all'espressione più furiosa della passione violenta: ecco cos’era personalmente Pestalozzi. Così lo hanno visto i testimoni e collaboratori della sua opera educativa a Burgdorf, a Münchenbuchsee e a Yverdon. Così lo abbiamo imparato a conoscere noi forse meglio che nessun altro e vogliamo credere con futuro vero vantaggio dell'educazione umana, neppure esperienze di questa sorta permettono di scrutare sicuramente i germi del bene e del male della natura umana, condizione indispensabile per rinvigorire i primi e soffocare i secondi, il che costituisce la meta dell'educazione.
Il tratto fondamentale dell'individualità di Pestalozzi, l'essenza quasi della personalità che penetrava, determinava, dominava tutte le sue altre doti era l'originalità nel vero senso della parola. Il suo modo di essere e di agire era proprio assolutamente suo e solamente suo. Pieno d'infinita eccitabilità, e ricettività per quello che lo circondava, egli trasformava tutto ciò che vedeva, udiva, toccava, trattava in quanto assorbiva tutto nella sua indole. Tutto quello che diceva e faceva, scriveva e tentava non si appoggiava su niente di quello che la società aveva accettato; le idee, le rappresentazioni altrui non coincidevano con le sue, in realtà esistenti e generalmente valide. Tutto ciò si riferiva a una totalità che viveva originariamente in lui, derivava dal suo modo speciale di vedere il mondo e l'umanità e ogni sua singola espressione o imprese, ora come un lampo di quella visione che irradiava in tutte le direzioni: spesso sembrava lampeggiare come dalla notte e dalle nubi e aveva la sua coerenza e il suo vero significato solo in essa e da essa separato appariva in stridente contrasto col resto. Da questa originalità che è in sé il marchio del genio, la testimonianza divina della forza creatrice, della somiglianza di Dio nella natura umana, la quale se agisca pura nell'intimo e indisturbata all'esterno produce le opere dal vero, del buono e del bello, esaltatrice dell'uomo, derivò la bontà e la grandezza personale dal Pestalozzi; essa fu però anche la sorgente di incassanti malintesi e sbagli e dei relativi conflitti che derivarono nella sua esistenza. Questa originalità si rivelava in lui come energia dello spirito e dell'animo separata dalla sua dedizione ed in contrasto con essa. Nel Pestalozzi scrittore si mostrò l'impressionante effetto della disarmonia, per esempio nel fatto che, malgrado tutta l’intima pienezza poetica e malgrado tutti gli sforzi, egli con suo rammarico non poté mai esser poeta; fece tutti gli sforzi per giungere alla forma poetica, senza poter produrre una poesia. L'influsso di questa duplicità sulla sua opera e sul suo destino fu ben più infelice. Dagli altri egli non accoglieva se non quanto già in lui viveva, e per la stessa ragione, riusciva a essere e dare agli altri solo ciò che esisteva esclusivamente nelle sua personalità, e individualità. Egli capiva gli altri a suo modo e gli altri lo capivano nel loro, involontariamente egli ingannava loro ed essi ingannavano lui. Così la sua originalità fin dall'infanzia, divenne, per lui come per gli altri, insieme con una sorgente di luce e di entusiasmo anche una fonte di sbagli e di traviamenti, di contraddizione con se stesso e di lotta colla vita …
A questo si unì la sfortuna della sorte nella sua situazione esteriore. Quello che la natura concede in pura e perfetta pienezza ad ogni epoca della vita umana, quello che essa conferisce a ciascuno, in modo particolare egli lo gode dal principio alla fine della vita solo frammentariamente e in disarmonia. Già da bambino non trovò nessun saldo punto d’appoggio, di acquietamento dell'animo; da giovanetto nessuna soddisfazione spirituale interiore. Il suo agire fu quindi sempre tensione, un incessante scambiare e rifiutare un soggetto per un altro, perché non riuscì a trovare in nessuno quell'infinito verso cui la sua natura lo spingeva. Così gli accadde di cercare la soddisfazione di sé nella quantità delle cose finite, la certezza della meta in una realtà non definita e solo presagita. La sua posizione come uomo non era naturale e quindi il suo sforzo dovette essere violento. Gli fu negata la soddisfazione dell'impulso irresistibile che lo dominava in quel tempo di partecipare colle suo idee e colle suo forze alla vita del popolo, alla società e al governo del suo costume, cose a cui egli legittimamente aspirava sia per nascita che per condizione sociale, l'impetuosa fiumana respinta cercava degli sbocchi come poteva e scavava nel profondo. Ma non essendo preparato né spiritualmente né eticamente all'interno, né civilmente né socialmente all'esterno, né infine in ambedue i riguardi, non avendo avuto una cultura completa, né scientifica né artistica, non fu capace né di dominare se stesso, né di scavarsi un letto sicuro per il proprio corso. Per quanto producesse in ogni campo cose eccellenti, non aveva però nessun punto d'appoggio, nessuna connessione con la realtà. Egli si smarrì nella sua propria dispersione e in quella del suo tempo. Questa cattiva sorte continuò fin nella sua vecchiaia e lo rese irrequieto ed esageratamente eccitato. Per quanto alto salisse e per quanto giovanilmente si riprendesse, le manchevolezz J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)a dei vari periodi precedenti della sua vita non poterono più essere risanate e gli fu impossibile liberarsi dal loro peso...
Da questa eccentricità e dalle sue conseguenze derivò il compito che la sua personalità dovette assolvere per tutta la vita, ogniqualvolta quell'eccentricità veniva ad apparire. Fu cioè obbligato, per poter affermare la sua originalità, a cercare incessantemente in sé il punto di gravità del suo stato personale e dei movimenti del suo spirito e del suo animo e fuori di sé i punti di collegamento con la condizione e coi movimenti della vita civile e sociale. L'originalità, cioè l'energia di un'individualità è già di per sé unilaterale. Ogni grande sforzo dell'individuo, come ogni suo decisivo progresso, distrugge il suo equilibrio interno ed esterno ed esige che sia ristabilito. Lo stesso sviluppo della natura umana consiste in un continuo spostamento e ristabilimento del suo equilibrio. Ma per la sua eccentricità il Pestalozzi non poteva trovare questo equilibrio né in sé né nella società, come essa realmente era. Doveva conquistarselo in qualcosa, al di fuori e al disopra di entrambi oppure rinunciarvi, cioè rinunciare, a se stesso. Da questo bisogno derivò per psicologica necessità, la scelta dei soggetti ai quali egli diresse il suo spirito e la sua attività. La società non gli offriva nessun riconoscimento positivo in cui egli potesse compiacersi e soddisfare il suo cuore; perciò egli fece di questa società l'oggetto delle sue osservazioni e delle sue ricerche. Le professioni e i campi di attività allora esistenti non gli offrivano uno sbocco libero, non ostacolato che desse un adeguato campo d'azione alla pienezza della sua forza, un campo in cui egli potesse servire con gioia il mondo e l'umanità e in cui valesse la pena d’impegnarsi secondo il suo sentimento. Egli quindi s’abbandonò a tentativi, ossia, detto con altre parole, creò nuovi campi d'attività. Respinto su se stesso egli si abbandonò a un'instancabile introspezione, cercando la chiave del mistero del mondo e del cammino dell’umanità negli abissi del suo essere intimo...
Nondimeno, data la singolarità delle sue attitudini a delle sue doti, proprio queste difficoltà, e questi errori furono per lui il mezzo per cui egli tese tutta le molle della sua natura, e fu guidato ad assolvere il suo destino nel tempo e nel mondo, a portare una rivoluzione spirituale in mezzo al popolo e agli uomini, riconducendo il processo di sviluppo e di educazione alla vera natura umana, dando nella sua persona un esempio unico nel suo genere, inesauribilmente istruttivo, sublime e tremendo nello stesso tempo, delle condizioni da cui dipende il bene e il male della nostra stirpe e dei suoi individui.
Giovanni Niederer (1779-….)

40 – Fondamenti per prolungare la vita (Giovanni Amos Comenius)

1. Quanto alla brevità dalla vita Aristotele insieme con Ippocrate si lamenta e se la prende con la natura, perché ai cervi, ai corvi e ad altri animali concede di vivere parecchi anni, e assegna alla vita dell'uomo, nato a cose importanti, termini tanto brevi. Ma Seneca sapientemente risponde: “La vita non la riceviamo breve ma la rendiamo breve noi: e non ne abbiamo meno del bisogno, ma ne facciamo un grande sciupio. Se ne sai fare buon uso, la vita è lunga”. E lo stesso aggiunge: “ C'è concessa una vita lunga abbastanza, e c'è data con larghezza sufficiente, per condurre a fine le cose più importanti, se s'impiega tutta bene”.
2. E se questo è vero com'è di fatti, è dunque colpa nostra se la vita non ci basta nemmeno per sbrigare le cose della massima importanza; e non c'è da far la meraviglia perché noi stessi facciamo un grande sciupio della vita, parte gettandoci alla violenza in modo che necessariamente la vita si deve estinguere prima del naturale termine; parte spendendo i ritagli di tempo in cose da nulla.
3. Uno scrittore, di certo non ignobile, dice e prova, con argomenti che anche l’uomo del più delicato temperamento, se viene alla luce senza mancamenti, ha in sé tanta forza vitale, che gli basta naturalmente fino a sessant'anni e a chi di temperamento fortissimo, fino a centoventi anni. Se alcuni muoiono prima di questi termini (e chi non sa che si muore nell'infanzia, nella giovinezza e nella virilità?) è colpa degli uomini che commettendo vari eccessi e non tenendo conto della vita, mandan tanto male sia la salute loro propria, sia la salute dei figlioli che possono generare, e affrettano la morte.
4. Che poi nella breve durata della vita (per esempio, di 50, 40, 30 anni) si possa arrivare a eseguire, la parte più importante delle cose, purché si sappia far buon uso del tempo, ce lo prova l'esempio di quelli che prima d’aver compiuto gli anni della virilità, arrivarono dove altri non tentarono nemmeno d’arrivare, benché avessero vita lunghissima.
Alessandro Magno se ne andò all'altro mondo di trentatre anni e aveva non solo una meravigliosa cultura, ma aveva vinto tutto il mondo, soggiogando non tanto con la forza delle armi, quanto con la sapienza dei suoi disegni e la sua meravigliosa rapidità nel compiere le imprese (non rimandando mai nulla al giorno dopo). Giovanni Pico della Mirandola, non arrivò nemmeno all'età di Alessandro, ma per l'amore della sapienza s'innalzò sopra tutti i punti dove può salire l'ingegno umano, che nel suo secolo era stimato un miracolo d’uomo.
5. E per non citare altri esempi, lo stesso signor nostro Gesù Cristo, benché non stesse sulla terra altro che 34 anni, compì la grande opera della redenzione pensando senza dubbio, di mostrare col suo esempio (poiché tutta la sua vita è allegorica) che qualunque numero d'anni tocchi di vivere all'uomo, gli bastano per prepararsi e molto bene, all'eternità.
6. A questo punto non posso fare a meno di riferire le parole auree dette da Seneca a questo proposito (dalla lettera 93): “Ho trovato molti giusti recalcitranti agli uomini, nessuno recalcitrante a Dio. Rimproveriamo ogni giorno il fato ecc… Che male c'è a uscir presto di dove prima o poi bisogna uscire? La vita è lunga, se arriva alla sua pienezza, e arriva alla sua pienezza, quando l'animo si è procacciato il bene suo proprio ed è diventato padrone di se stesso”. Ed aggiunge: “Ti scongiuro, o mio Lucillo, facciamo in modo che, come una cosa preziosa, così la nostra vita non abbia grande ampiezza, ma grande valore. Misuriamola dai fatti, non dal tempo”. E poco dopo: “Lodiamo dunque e mettiamo nel numero dei fortunati colui che ha impiegato bene quel pochino di tempo che gli è toccato perché ha veduta la vera luce e non è stato uno dei tanti che ci sono; ed è vissuto davvero e in pieno vigore.” E di nuovo: “Come un uomo può essere perfetto anche se è di piccola statura, così la vita può essere perfetta, anche se è di breve durata. La durata della vita è una delle tante cose esteriori. Vuoi sapere quanto, al massimo, si dovrebbe vivere? Fino a quando non siamo arrivati alla sapienza. Chi ci arriva, tocca non la meta più lontana, ma la meta più ragguardevole”.
7. Adunque contro i lamenti sulla brevità della vita ci sono per noi e per i nostri figlioli (e anche per le scuole) questi due rimedi: provvedere quanto è possibile I) a difendere il corpo dalle malattie e dalla morte, II) a disporre la mente a far tutto con assennatezza.
8. Siamo obbligati a tenere il corpo al sicuro dalle malattie e dalle cadute; primo perché è l'abitazione, anzi l'unica abitazione dell'anima; e perciò se si rovina il corpo l'anima è costretta a emigrare subito da questo mondo; e se anche si rovina a poco a poco facendogli una rottura ora da una parte ora da un’altra, l’ospite sua, l'anima sta scomoda nella propria abitazione. Se dunque nel palazzo del mondo, dove siamo stati messi per benignità di Dio, è piacevole starci quanto più e quanto meglio si può, si deve aver provvida cura, di questo padiglione formato dal corpo. Secondo, lo stesso corpo è stato fatto non solo per abitazione dell’anima razionale, ma anche per suo organo e senza questo non può sentire, né vedere, né far nulla, anzi non può nemmeno pensare. Infatti, siccome non può essere oggetto del senso, la mente non riceve la materia di tutti i suoi pensieri altro che dal senso e non può compiere l'atto di pensare se non per mezzo della sensazione interna ossia contemplando le immagini astratte delle cose. Di qui nasce che, danneggiando il cervello, si danneggia la facoltà immaginativa e se le membra del corpo stanno male, sta male anche l'anima.
9. Il nostro corpo poi si mantiene vigoroso con una dieta moderata; ma di questa parlano di proposito i medici: noi accenniamo soltanto poche cose servendoci dell'esempio d'una pianta. Una pianta per natura ha bisogno di tre cose: 1) l’umidità continua, 2) di traspirazione frequente, 3) di riposo alternato. Ha bisogno di umidità perché questa si guasta e secca; ma bisogna, che l'umidità sia moderata perché se è troppa fa marcire le barbe.
Così il corpo ha bisogno d'alimenti perché senza questi diventa secco, stecchito dalla fame e dalla sete; ma gli alimenti non devono essere troppi affinché le forze digestive non ne restino aggravate e oppresse. Con quanta più moderazione tu somministri gli alimenti allo stomaco e tanto più certa e perfetta sarà la digestione: e siccome in generale a questo non ci si bada, parecchi si rovinano le forze e la vita col soverchio alimento. E invero la morte viene dalle malattie, le malattie dai cattivi umori, i cattivi umori dalla cattiva digestione, la cattiva digestione dalla sovrabbondanza d'alimento perché se ne ficca tanto dentro le stomaco che non è capace a digerirlo e, per conseguenza, deve diffondere per le membra umori poco o punto digeriti dai quali è impossibile che non provengano malattie: “Molti son morti per voracità. (dice l'Ecclesiaste), ma chi pensa ai casi suoi, prolungherà la vita.
10. Ma per mantenere il vigore della salute non c'è bisogno soltanto di prendere alimenti misurati, ma anche alimenti semplici. Il giardiniere non annaffia la pianta, sia pur delicata quanto vuoi, col vino o col latte, ma col liquido richiesto da tutti i vegetali, cioè con l'acqua. Bisogna dunque che i genitori guardino di non avvezzare i giovanetti alle sostanze che irritano la gola e principalmente, i giovanotti destinati o da destinarsi agli studi, perché fu scritto non a caso, che Daniele e i suoi compagni, giovanetti di sangue reale, consacrati agli studi, benché si nutrissero con legumi e acqua, furono trovati più agili e grassi e quel che è più, più intelligenti di tutti gli altri che mangiavano le delizie della tavola del re.
11. Una pianta ha bisogno anche di traspirare e d'invigorirsi spesso mediante i venti, le piogge e il freddo ché altrimenti si intristisce e si guasta. Così il corpo umano ha proprio bisogno di moto e di ginnastica e d'esercizi seri e scherzevoli (come pure d'esser allenato alle intemperie, al freddo e al caldo).
12. Infine la pianta di tanto in tanto ha bisogno di riposo. E naturalmente non è necessario che mandi sempre fuori germogli, fiori e frutti, ma ogni tanto deve lavorare nel suo interno, digerire i succhi e in questo modo rafforzare sé medesima. E Dio volle che al caldo succedesse il freddo, appunto per dare riposo a tutti gli esseri che crescono sulla terra e così anche alla terra stessa: e a questo effetto comandò per legge che ogni sette anni si desse riposo alla terra, (Levitico, 25/3-4). Similmente ordinò per gli uomini (e per tutti gli altri animali), la notte perché sia col sonno, sia col tener anche le membra in riposo, ricuperassero le forze perdute con le occupazioni del giorno. Ma tanto al corpo quanto alla mente ad intervalli bisogna dar sollievo con qualche ricreazione minore di un'ora per evitare il pericolo che lavorino costretti dalla violenza la quale è nemica della natura. Perciò è bene interrompere anche i lavori diurni concedendo un po' di respiro e di fare un po’ di conversazione, scherzi e giuochi, musica e di simili altre cose che ricreano i sensi interiori ad esteriori.
13. Se uno osserva queste tre regole (di nutrirsi misuratamente, d'esercitare il corpo e di dar man forte alla natura) è impossibile che non conservi lunghissimamente la salute e la vita, eccettuato il solo caso di forza maggiore.
14. Bisogna ora parlare del modo di dispensare prudentemente il tempo che resta e che deve essere consacrato al lavoro.
Par cosa da poco e facile a dirsi: trent’anni; ma trent'anni sono un bel numero di mesi e più di giorni e ore. È certo che in così grande tratto di tempo può far molto viaggio chi viaggi, anche se viaggia lemme lemme. Ne è prova evidentemente, il modo in cui crescono le piante, le quali nemmeno con la vista più acuta non ci si può accorgere che crescono perché è un fatto che, avviene a poco a poco e insensibilmente; ma pure si vede che ogni mese crescono un po' e dopo trent'anni tu osservi che son cresciute tanto da essere già piante grandissime. Il nostro corpo nel crescere di statura tiene la stessa regola: non lo vediamo crescere, ma vediamo che è cresciuto. E che la regola tenuta dalla mente che cerca d’acquistare conoscenza delle cose, non sia diversa, ce lo provano questi versucci proverbiali:

Se a un monticino, senza smetter mai,
un pochino di roba aggiungerai,
in poco tempo, come per incanto,
diverrà il monticino un monte tanto.

15. Chi conosce la forza del progresso, lo avverte subito perché mentre da ogni gemma spunta soltanto un germoglio o un pollone l'anno, dopo trent’anni una pianta avrà mille rami, più grossi e più piccoli e foglie e fiori e frutti innumerevoli. E deve parere impossibile, che l'energia dell'uomo in venti o trent’anni, arrivi a qualunque altezza e a qualunque distanza? Guardiamo un po' se è impossibile.
16. Il giorno civile è di 24 ore che, divise in tre parti per i bisogni della vita, otto si danno al sonno, altrettante alle faccende secondarie (per esempio, alla salute, al mangiare, al vestirsi, allo spogliarsi, alle ricreazioni oneste, a conversazioni con gli amici, ecc.), e così ce ne restano altre otto per sbrigare le faccende serie con ardore e senza noia.
Ogni settimana perciò (lasciato il settimo giorno tutto al riposo) si hanno 48 ore da destinare al lavoro; ogni anno 2.490; e in dieci, venti, trent'anni?
17. Ebbene, se ogni ora tu impari o un teorema di qualche scienza o una regola di arte pratica o una bella storia o una bella massima (e queste è manifesto che si può fare senza nessuna fatica), di grazia che tesoro d istruzione riuscirai tu ad acquistarti?
18. Perciò disse bene Seneca: “Se della vita ne sappiamo far buon uso, essa è lunga abbastanza ed è sufficiente a condurre a fine le cose più importanti, se si impiega tutta bene”. Ma tutto sta qui, nel saper l'arte d'impiegarla bene tutta, cosa che oramai dev'essere l'oggetto delle nostre ricerche.
Giovanni Amos Comenius (1592-1670)

41 - Il fenomeno puro (J. W. von Goethe)

I fenomeni, che noialtri siamo anche soliti chiamare fatti, sono certi e determinati quanto alla loro natura, e invece spesso indeterminati e oscillanti in quanto appaiono. Il naturalista cerca di capire e di fissare ciò che nei fenomeni è determinato; in singoli casi non fa attenzione soltanto a come i fenomeni appaiono, bensì anche a come essi dovrebbero apparire. Come spesso ho potuto osservare specialmente nel campo nel quale lavoro, vi sono molte frazioni empiriche che bisogna eliminare per conservare un fenomeno costante e puro, ma appena, mi permetto ciò stabilisco già una specie di ideale.
Tuttavia, vi è una grande differenza se, come fanno i teorici, si sacrificano ad una ipotesi dai numeri interi oppure se si sacrifica all'idea del fenomeno puro una frazione empirica.
Poiché l'osservatore non vede mai con gli occhi il fenomeno puro ma molto dipende dal suo stato d'animo, da come si trova l’organo in quel momento, dalla luce dall'aria, dalla temperatura, dai corpi, dal trattamento e da migliaia di altre circostanze; è come voler bere il mare, quando ci si vuole attenere all'individualità del fenomeno e la si vuole osservare, misurare, ponderare e descrivere.
Nella mia osservazione e considerazione della natura, specialmente, negli ultimi tempi, mi sono attenuto, per quanto era possibile, al seguente metodo.
Se ho sperimentato la costanza e la coerenza dei fenomeni fino ad un certo grado, ne deduco un legge empirica, e la prescrivo agli altri fenomeni. Se la legge e i fenomeni si adattano completamente a tale successione, ho vinto, se non vi si adattano interamente, rivolgo la mia attenzione alle circostanze dei singoli casi e sono costretto a cercare nuove condizioni nelle quali io possa rappresentare in modo più puro gli esperimenti contradditori; ma se talvolta, nelle stesse circostanze si verifica un caso che contraddice la mia legge, mi accorgo che debbo andare avanti con tutto il mio lavoro e cercarmi un punto di vista superiore. Secondo la mia esperienza dunque, sarebbe quello il punto in cui lo spirito umano può meglio approssimarsi agli oggetti nella loro universalità, avvicinarseli, in un certo senso, amalgamarsi razionalmente con essi, come del resto facciamo nella comune empiria.
A proposito del nostro lavoro avremo da indicare i punti seguenti:
Il fenomeno empirico che ogni uomo percepisce nella natura, che quindi viene elevato
a fenomeno scientifico mediante esperimenti, in quanto lo si rappresenta in circostanze e condizioni diverse da quelle in cui l’abbiamo conosciuto a tutta prima, ed in una successione più o meno felice.
Il fenomeno puro, infine, si presenta come risultato di tutte le esperienze e di tutti gli esperimenti. Non può mai essere isolato, ma si mostra in una successione costante di fenomeni. Per rappresentarlo lo spirito umano determina ciò che è incerto, escludendo ciò che è intricato, anzi scopre ciò che non è noto.
Qui, se l'uomo sapesse contentarsi, sarebbe forse l'ultimo fine delle nostre energie. Giacché qui non si chiedono le cause, bensì le condizioni nelle quali i fenomeni appaiono; si contempla e si accetta la loro successione coerente, il loro eterno ritornare in mille circostanze diverse, la loro unitarietà e mutevolezza, si riconosce la loro determinatezza e la si determina di nuovo mediante lo spirito umano.
A dire il vero questo lavoro non dovrebbe essere definito speculativo giacché, mi pare, alla fine si tratta soltanto di operazioni pratiche - che rettificano se stesse - del comune intelletto umano, il quale osa cimentarsi in una sfera superiore.
J. Wolfgang von Goethe (1749-1832)

42 - Materia ed etere (Günther Wachsmuth)

La moderna scienza della natura si forma un immagine del mondo riconducendo la infinita molteplicità dei fenomeni della natura a due concetti, cioè a due immagini fondamentali: materia ad etere. Ma le rappresentazioni, che di queste due estreme fondamentali unità ci danno i ricercatori più avanzati, sono così differenti che, in questo momento, tutto l'edificio scientifico, costruito su questi due concetti fondamentali, tanto discussi, vacilla.
Il famoso studioso dell'etere, P. Lenard, nel suo discorso ben noto "Su l'etere, e la materia" tenuto dinanzi all'accademia di scienze di Heidelberg, diceva che uno studioso moderno della natura a chi gli domandasse come, adunque, gli si rappresenti il mondo, risponderebbe in questa guisa: "Per parlare di questo argomento, deve innanzi tutto constatare che le sue asserzioni si riferiscono solo a quella parte del mondo che è accessibile alla ricerca quantitativa, con l'aiuto degli organi dei sensi. Il quantitativo appunto, la possibilità cioè di confrontare sempre per mezzo del calcolo, tutti i risultati colla realtà e controllarla con essa, distingue la scienza della natura dalla scienza dello spirito che si occupa sopra tutto dell'altra parte del mondo. Possiamo anche chiamare mondo materiale quantitativo la parte di esso accessibile alla indagine quantitativa per mezzo dei sensi, e solo di questa si occupa lo studioso della natura e di questa sola egli si è formata un'immagine.
Dobbiamo sottoporre a un esame critico questa tendenza fondamentale del modo di rappresentazione della scienza naturalistica dell'ultimo secolo per giungere a una concezione feconda dell’essenza dell'etere e della materia e per comprendere perché non si può giungere a una conoscenza soddisfacente dell'etere sulla base di tale tendenza della scienza naturalista che si costringe solo: 1) al quantitativo, 2) a ciò che è percepibile con gli organi dei sensi. L'etere: 1) non ha solo proprietà quantitativa, ma anche proprietà qualitative inscindibili da quelle, 2) non è percepibile ai nostri organi fisici dei sensi. Quindi chi vuole limitarsi al solo quantitativo e a ciò che è percepibile ai sensi, non giungerà mai a una giusta visione di ciò che è l'essenza e l’attività dell'etere.
Lenard dice che le immagini dello studioso moderno della natura sono di due specie: "Sempre sono quantitative, ma possono esaurirsi completamente - e questa è la prima specie - nei rapporti quantitativi tra le grandezze osservabili: e allora sono rappresentabili perfettamente nella forma di formule matematiche specialmente con equazioni differenziali. Questa è la via preferita da Kirchhoff e Helmoltz, è detta descrizione matematica della natura. Esempi di tali immagini sono: la legge di gravitazione di Newton o le equazioni dell'elettrodinamica, di Maxwell. Le conseguenze logicamente necessarie delle immagini, nello sviluppo delle quali consiste e la utilizzazione e la riprova delle immagini, non sono altro che conseguenze matematiche di quelle equazioni. Ma si può procedere oltre - e questa è la seconda specie - : lasciarsi guidare da un'idea, senza di che certamente la ricerca della natura - di quella inanimata almeno - siano meri processi di movimento consistano solo in cambiamento di posto di una materia, data una volta per sempre. Si tratterebbe allora in ogni caso di meccanismi, e le equazioni, che abbiamo formato come immagini della prima specie, dovrebbero essere equazioni di meccanica, dovrebbero corrispondere a ben determinati meccanismi; e allora noi possiamo considerare questi meccanismi come immagini che noi ci siamo fatti del processi della natura. Allora abbiamo modelli meccanici, modelli dinamici delle cose come immagini loro nel nostro spirito. E Lenard riassumendo conclude: “Tutto ciò che accade nel mondo è movimento, cambiamento di posto di materia data, una volta per sempre. In nessuna parte si ha il più piccolo segno di un nuovo sorgere o di uno svanire della materia. Si tratterà quindi soltanto di indicare di quale specie sono i movimenti. Dobbiamo quindi fare innanzi tutto questa affermazione fondamentale, la sostanza, ciò che è mosso, di cui consta l'insieme del mondo materiale, è di due specie: materia ed etere”. E dopo avere inserito in questa immagine del mondo le ricerche più moderne su la radioattività egli indica come l’immagine del mondo non etere e materia, ma etere ed elettricità. Anche il Lenard deve però dire: “La questione, è soltanto questa: riusciamo noi a riprodurre, esattamente, per questa via, l’immagine della realtà? È lo spirito umano in grado di riprodurre in sé esattamente in questo modo il complesso della natura - quella inanimata, diciamo? Proprio oggi sorgono su questo i dubbi più recisi…” E conclude: “Io credo che le difficoltà non debbano trattenerci dal coltivare e sviluppare l’immagine che ora abbiamo, perché altrimenti dovremmo rinunziare a qualsiasi immagine di tale specie e, in genere, alla possibilità di una concezione meccanica della natura. Io non credo che ciò possa accadere, neppure se, per chiarire la meccanica dell'etere, dovessimo ammettere, accanto o dietro all'etere e alle sue parti, un altro etere”.
In queste parole l’"ignorabimus" Franco di Du Boie Reymond appena velato dalla speranza di una via d'uscita. Ma questa speranza non si può realizzare finché si cerca di salvare la ipotesi meccanica, ricorrendo a sempre nuove più ipotetiche specie di etere. Lenard, combattendo la teoria di Einstein, che spoglia l’etere di ogni proprietà meccanica, ha introdotto, per salvare la sua immagine del mondo, un etere primo accanto all'etere finora ammesso; ma questo è un procede per una via che col tempo si dimostrerà sempre più un vicolo cieco.
Già Carlo C. Planck, forte pensatore e ricercatore, prese, suo tempo, una posizione molto aperta e coraggiosa di fronte alla spiegazione meramente meccanica di entità quali il calore, la luce, la gravità. Egli, lottando contro la separazione degli attributi qualitativi e quantitativi, fatta per il metodo di osservazione adottato dalla scienza della natura nell'ultimo secolo, tentava di mostrare, che con tale arbitraria scissione la scienza della natura, ha foggiato un’immagine del mondo per cui l'azione dello spirito non si può chiarire nel mondo detto materiale e il sorgere, la genesi del mondo della sostanza da ciò che era prima della “nebulosa primordiale”, è assolutamente inintelleggibile. Planck nel suo “Testamento di un tedesco” dice: “Con tale spiegazione meccanica anche il rapporto del corporeo con la luce e il calore vedrà, alla fine, come il rapporto della gravità, sovvertito... Gli atomi materiali secondo tale concezione, in sé non hanno nulla a che fare né con la luce, né col calore; essi sono pensati, secondo la loro propria essenza, come parti stanti per sé, e producono calore e luce solo per i loro rapporti meccanici di movimento con altri atomi. E così il vero primordiale fondamentale rapporto della natura e della sua legge universale di evoluzione viene totalmente rovesciato; poiché il primordiale non sarebbero più quelle forme che, secondo la reale apparizione, sono ancora prive di individualità e universali - la concentrazione, la gravità e le loro controforme immediate calore e luce, ma vengono presupposti per la gravità, calore, luce, gli atomi materiali individuali, differenziati per sé stanti. Mentre anche la stessa moderna visione scientifica deve ammettere che lo stato dei corpi cosmici si è sviluppato primamente da uno stato caldo e luminoso ancora uniforme differenziato a uno stato di molteplicità separate e individuali, nell'ultimo atteggiamento invece viene dato il primo posto non a quelle forze dell'unità non individualizzata, uniforme del tutto (calore, ecc.) ma, al contrario, alle singole parti separate individuali (atomi). Viene del tutto capovolta la legge della evoluzione che dovrebbe valere per tutta la natura e massimamente per la evoluzione di tutto ciò che è organico; e appunto perché si vuole porre al principio, come primordiale la esteriorità meccanica degli atomi separati, queste parti consistenti per sé, è resa impossibile, come vedremo, ogni spiegazione dello organico, dello psichico, dell’universale spirituale".
Planck ammoniva, così di non mettere geneticamente, il mondo degli atomi prima del mondo delle entità calore, luce, ecc, e di non porre pregiudizialmente a base dello studio della natura un concetto che può solo imporre limitazioni più ristrette alla conoscenza della natura.
Poiché sono sorti tra i più grandi studiosi della natura tanti dubbi su la loro stessa moderna concezione del mondo, non si capisce perché non sia ancora stato accolto l’indirizzo dell'indagine, iniziato dal dr. Rudolf Steiner nei suoi scritti su la natura che dà modo di uscire da un tale dilemma. Già nel 1891 indicava nei suoi scritti la falsità della via che segue quella concezione del mondo la quale come Du Bois Roymond, risolve i processi della natura solo nella “meccanica degli atomi” o come Ostwald, in “estrinsecazioni d’energia”. Steiner ha mostrato come la scissione dell'immagine del mondo, qual si è fatta finora, in una parte oggettiva (che si può comprendere solo matematico-meccanicamente), e una parte soggettiva, ha condotto a uno sfiguramento e a una falsificazione appunto di questa immagine del mondo. Le considerazioni più recenti di filosofi e scienziati della natura hanno “portato a credere che i processi esterni che provocano il suono nell'orecchio, la luce nell'occhio, il calore nell'organo di senso del calore ecc. non abbiano nulla in comune con la sensazione del suono, della luce, del calore e così via. Questi processi esterni sarebbero movimenti determinati dalla materia. E allora, lo studioso della natura ricerca quale specie di processo esterno di movimento faccia sorgere nell'anima umana il suono, la luce, il calore. E giunge alla conclusione che in nessuna parte dello spazio cosmico, fuori dello organismo umano esiste il rosso, il giallo, l'azzurro, ma vi è soltanto un movimento di onde di una materia sottile, elastica, l'etere, che, percepito dall'occhio, viene rappresentato come rosso, giallo, azzurro. Se non vi fosse l’occhio percipiente non vi sarebbe colore, ma soltanto etere mosso: così pensa, il moderno scienziato della natura. L’etere è oggettivo, il colore è soltanto qualcosa di soggettivo, formato nel corpo umano.” E oppone: “Chi non abbia fondamentalmente alterata da Descartes, Locke, Kant e dalla fisiologia moderna la facoltà di rappresentazione, non riuscirà mai a comprendere come si possano ritenere quali stati meramente soggettivi dell'organismo umano luce, calore, suono, colore e affermare insieme la presenza reale di un mondo oggettivo di processi fuori dall'organismo umano. Chi fa l'organismo umano generatore degli accadimenti suono, calore, colore ecc., deve farlo anche produttore della estensione, della grandezza, posizione, movimento, della forza, ecc. Poiché queste qualità matematiche e meccaniche sono inscindibilmente connesse con tutto l'altro contenuto del mondo dell'esperienza. Separare i rapporti di spazio, numero, movimento, la manifestazione della forza del calore, suono, colore dalle altre qualità sensibili è soltanto atto del pensiero astratto”. “Ma questa è una considerazione parziale: si tira una linea attraverso a ciò che è percepibile coi sensi e si dichiara una parte oggettiva, l'altra soggettiva. Solo questo è conseguente: se vi sono atomi, essi sono parte di materia, con le proprietà della materia, non percepibili per la loro piccolezza che sfugge ai nostri sensi. Svanisce però la possibilità di trovare nel movimento degli atomi qualcosa che si possa opporre come oggettivo alla qualità soggettiva del suono, colore, ecc. Cessa anche la possibilità di trovare nella connessione tra il movimento e la sensazione del rosso, per esempio, qualcosa di più che tra due processi che appartengono pienamente al mondo sensibile. È chiaro: movimento dell'etere, posizione degli atomi ecc., appartengono allo stesso piano di sensazioni. Dichiarare queste soggettive è solo il risultato di una riflessione non chiara. Se si dichiarano meramente soggettive le qualità sensibili, si deve farlo anche per il movimento dell'etere. Noi non percepiamo il movimento dell'etere non per ragione di essenza, ma soltanto perché gli organi dei sensi non sono abbastanza finemente organizzati. Ma questo è soltanto una circostanza accidentale. Può darsi che, per un progressivo affinamento degli organi di senso, l'uomo possa un giorno percepire direttamente anche il movimento dell'etere. E l'uomo di questo lontano avvenire, se accogliesse la teoria della soggettività delle sensazioni, dovrebbe anche dichiarare soggettivo questo movimento dell’etere come noi oggi dichiariamo il colore, il suono, ecc.”
Poiché lo studioso della natura non può pensare il movimento senza qualcosa che si muova, egli assume la materia, spogliata di ogni proprietà sensibile, come il veicolo dei movimenti. Ma chi non sia preso da questo pregiudizio dei fisici, deve scorgere che i processi di movimento sono degli stati legati alle qualità che cadono sotto i sensi. Il contenuto del movimento a onde, che corrisponde ai fenomeni del suono, sono le qualità stesse del suono. Lo stesso vale egualmente per le altre qualità sensibili. Noi conosciamo il contenuto delle oscillazioni del mondo fenomenico per mezzo di un divenire interno immediato, non per introduzione di una materia astratta, per mezzo del pensiero nei fenomeni. Quando io pongo dinanzi al mio occhio una superficie rossa, sorge nella mia coscienza la sensazione del rosso. Ora in questa sensazione dobbiamo distinguere il principio, la durata, la fine. Di fronte alla sensazione transeunte deve stare un processo duraturo oggettivo il quale di nuovo, come tale, è obbiettivamente limitato nel tempo, ha cioè principio, durata e fine. Ma questo processo deve prodursi in una materia senza principio e fine, indistruttibile, eterna. Questa, è ciò che propriamente permane nel cambiamento dei processi (così pensa lo scienziato moderno della natura). Mentre ancora Wundt dice che la materia è il substrato che “non diviene mai visibile a noi per se stessa, ma solamente sempre nei suoi effetti”, e che soltanto ammettendo tale substrato, possiamo giungere a una spiegazione sicura. Steiner viene a questa conclusione: “L’immagine sensibile del mondo è la somma delle percezioni che si metamorfizzano”. Le proprietà che dovrebbe avere la materia ipotetica, assunta dai fisici e dai filosofi e dai loro sostenitori, sono un non senso. Queste proprietà ricavate dal mondo sensibile, dovrebbero però appartenere a un substrato che non appartiene al mondo sensibile.
Ora importa a noi dichiarare che quando parliamo dell’etere, non si deve mai intendere, per principio, un processo di movimento meccanico, spogliato di ogni proprietà qualitativa, ma sempre sotto questo etere ci si deve rappresentare qualcosa non soltanto oggettivamente quantitativo ma qualcosa, nella sua struttura e attività, oggettivamente qualitatativo: appunto per esser fedeli alla realtà della natura. Potremo mostrarlo concretamente in molti campi dello studio della natura.
La prima limitazione del Lenard, allo studio scientifico della natura di una immagine del mondo solamente meccanico-quantitativa non può per le nostre considerazioni essere accettata perché contraddice fondamentalmente alla realtà del mondo. E non possiamo neanche ammettere la seconda richiesta del Lenard: la restrizione a quello soltanto che è accessibile agli organi fisici del senso. L’immagine del mondo allo stesso studioso moderno della natura contraddice in tutti i punti fondamentali a tale richiesta. Poiché nessun organo dei sensi ha mai finora percepito gli elettroni, il nucleo degli atomi, le vibrazioni ed altri fattori ipotetici dell'immagine del mondo che si forma la scienza della natura, appunto perché ora gli organi fisici dei sensi non sono organizzati in modo da percepire i movimenti dell'etere ecc.
Quando il prof. König nel suo scritto “La materia” dice: “Noi, ritenendo come propriamente reali gli atomi e l’etere e riguardando come semplici esseri fenomenici i corpi che cadono sotto i sensi, siamo già per metà nella metafisica”, egli rileva giustamente che la scienza coi suoi concetti fondamentali e con le sue ipotesi, cade sempre nell'errore di uscire fuori del percettibile, il che pure vorrebbe evitare.
Ma bisogna chiarire quale specie di ipotesi sia giustificata, quale no.
Ipotesi è assunzione di ciò di cui noi non possiamo renderci conto direttamente, ma soltanto per mezzo dei suoi effetti. L'ipotesi (giustificata) può assumere soltanto ciò che io certo non percepisco, ma percepirei senz'altro se eliminassi gli impedimenti esterni. La ipotesi può presupporre il non percepito, ma deve presupporre il percepibile. Quindi ogni ipotesi è giustificata nel caso che il suo contenuto possa essere direttamente confermato dall'esperienza futura. Soltanto le ipotesi che possano cessare di essere ipotesi, sono giustificate. L'ipotesi dell'etere che la scienza moderna della natura assume è ingiustificata, perché né l’etere penetrabile discontinuo che si muove nello spazio né la materia spogliata di tutte le proprietà sensibili, sono percepibili per gli organi di senso.
Günther Wachsmuth (1923- ?)

43 - Il pensiero al servizio della comprensione del Mondo (Rudolf Steiner)

Quando osservo come una palla di bigliardo trasmette ad un'altra la spinta che ha ricevuta, io resto senza alcuna influenza sullo svolgersi del fenomeno che osservo. La direzione e la velocità del moto della seconda palla sono determinate dalla direzione e dalla velocità del moto della prima. Finché io rimango semplice osservatore, non posso dir nulla sul moto della seconda palla se non quando tale moto è già avvenuto. Diverso è il caso se io comincio a riflettere sul contenuto della mia osservazione. La mia riflessione ha lo scopo di formare dei concetti su quel che avviene: mette in rapporto il concetto di una palla elastica con certi altri concetti della meccanica tenendo conto delle speciali circostanze che accompagnano il fenomeno.
Io cerco adunque di aggiungere al processo che ha luogo senza il mio intervento un secondo processo che si compie nella sfera dell’ideazione. Quest’ultimo dipende da me: e ciò è dimostrato dal fatto ch'io posso accontentarmi della semplice osservazione e rinunziare a qualsiasi ricerca di concetti, se non ne sento il bisogno. (...) Com'è sicuro che il processo oggettivo si svolge indipendentemente da me, così è sicuro che il processo concettuale non può svolgersi senza il mio intervento (...)
Noi sappiamo benissimo che insieme con gli oggetti non ci vengono dati senz'altro anche i relativi concetti: l'osservazione immediata ci dice che tale attività viene da noi. La questione per ora è questa: “Che cosa ci guadagnamo noi a scoprire per ogni processo un parallelo concettuale?”.
Vi è una differenza profondissima fra i mutui rapporti che hanno per me i vari elementi di un dato processo prima che io abbia scoperti i corrispondenti concetti, e dopo. La mera osservazione può seguire gli elementi di un dato processo nel suo svolgimento; ma il loro nesso rimane oscuro finché non vengono in aiuto i concetti. Io vedo la prima palla di bigliardo muoversi con una data velocità verso la seconda: per sapere quel che avverrà dopo seguito l'urto, devo aspettare che l’urto sia avvenuto e seguire di nuovo con gli occhi i fatti. Se, ad esempio, qualcuno mi copre, al momento dell'urto, il campo su cui si svolge il processo, io resto – come semplice osservatore - completamente all'oscuro di quel che dopo avviene. Ben diverso è il caso, se io mi ero già formato, prima che mi si coprisse il campo, dei concetti corrispondenti alle condizioni del fenomeno, allora io posso prevedere quel che avviene anche se mi si toglie la possibilità dell'osservazione diretta. Un processo od oggetto semplicemente osservato non fornisce da sé solo alcun dato riguardo al suo nesso con altri processi od oggetti: questo nesso appartiene soltanto quando all'osservazione si congiunge il pensiero.
Osservazione e Pensiero sono i due punti di partenza di tutta l'attività spirituale cosciente dell'uomo. (...)
Il nostro pensiero di un cavallo e l'oggetto cavallo sono due cose che si presentano a noi separate: e l'oggetto cavallo non ci è accessibile che attraverso l'osservazione. Come pel semplice rimirare un cavallo noi non possiamo formarci un concetto del medesimo, così non possiamo per semplice pensare attorno a un cavallo produrre l'oggetto.
Cronologicamente, l'osservazione precede perfino il pensiero in quanto il pensiero non impariamo a conoscerlo se non attraverso l'osservazione. In fondo non abbiamo fatto che descrivere un'osservazione quando, al principio, abbiamo visto come il pensiero si accende in presenza di un fenomeno e va al di là di ciò che senza. il proprio intervento avviene. Di tutto ciò che entra nella cerchia delle nostre esperienze, diveniamo consapevoli solo attraverso l'osservazione. Il contenuto delle sensazioni e delle percezioni, i sentimenti, gli atti di volizione, le immagini del sogno e della fantasia, le rappresentazioni, i concetti, le idee, persino le illusioni e le allucinazioni ci vengono date attraverso l’osservazione.
Però il pensiero, come oggetto dell'osservazione, si differenzia essenzialmente da tutte le altre cose. L'osservazione di una tavola, di un albero, ecc., comincia per me appena questi oggetti appariscono sull'orizzonte della mia esperienza, ma il pensiero attorno a questi oggetti non lo osservo contemporaneamente. La tavola osservo io; il pensiero attorno alla tavola lo eseguisco, ma non l'osservo nello stesso momento. Bisogna prima ch’io mi collochi in un punto di vista esterno alla mia propria attività. (...)
Mentre osservare oggetti e processi e il pensare attorno ad essi sono condizioni quotidiane che riempiono continuamente la mia vita, l'osservare il mio pensiero è una specie di condizione eccezionale. Di questo fatto bisogna tenere adeguatamente conto, quando si tratta di stabilire il rapporto fra il pensiero e tutti gli altri oggetti dell'osservazione. (...)
La speciale natura del pensiero è in ciò che il pensante dimentica il suo pensare nel tempo che lo eseguisce. Non è il pensare che occupa il pensante, ma l’oggetto osservato su cui pensa.
La prima osservazione che facciamo attorno al pensiero, è quindi questa: ch’esso è l'elemento inosservato della vita ordinaria del nostro spirito. E la ragione per cui non osserviamo il nostro pensiero nella vita quotidiana dello spirito, non è altra se non quella che il pensiero è un prodotto della nostra propria attività. (…)
Non posso mai osservare il mio pensiero presente; ( ... ) dovrei scindermi in due personalità - in una che pensa e in una che si guarda pensare - se volessi osservare il mio pensiero presente. Ma non posso far ciò. Posso compier solo ciò in due atti distinti. Il pensiero che deve essere osservato, non è mai quello presentemente attivo ma un altro.
Due cose non sono conciliabili, una produzione attiva e una contrapposizione riflessiva. Questo apparisce già dal primo libro di Mosè. Nei primi sei giorni della creazione Dio fa sorgere il mondo e soltanto quando questo è sorto, sorge la possibilità di rimirarlo. Così succede anche col nostro pensiero. Deve esistere, prima che si possa osservarlo.
La ragione che ci rende impossibile l'osservare il nostro pensiero nel suo svolgimento attuale d’ogni istante, è la stessa che ce lo fa riconoscere come più immediato e più intimo di ogni altro processo nel mondo. Appunto perché noi stessi lo produciamo, conosciamo ciò che è caratteristico del suo svolgimento e il modo in cui si compie il suo divenire. Ciò che negli altri campi dell'osservazione può essere scoperto solo per via indiretta - cioè il nesso causale e il mutuo rapporto dei singoli oggetti - pel pensiero noi lo sappiamo in modo immediato e diretto. Dalla semplice osservazione io non so perché al lampo segue il tuono; ma perché il mio pensiero collega il concetto di tuono con quello di lampo, io lo so immediatamente dal contenuto dei due concetti. Naturalmente non ha in ciò alcuna importanza che i miei concetti di lampo e di tuono siano giusti: il nesso dei due concetti quali li ho, mi è chiaro per se stesso ( ... ).
Quando si fa del pensiero l'oggetto dell'osservazione, si aggiunge al restante contenuto osservato del mondo un qualcosa che sfugge altrimenti all'attenzione, ma non si altera con ciò il genere di rapporto che l'uomo ha con le altre cose. Si allarga il numero degli oggetti dell'osservazione, ma non il metodo dell’osservare.
Quando osserviamo le altre cose, si mescola nel divenire del mondo un processo che viene trascurato, un qualche diverso di ogni altro divenire, che non si mette in linea di conto. Ma quando io considero il mio pensiero, allora non c'è nessun elemento trascurato: ché quel che rimane nello sfondo, è esso stesso di nuovo soltanto pensiero. In questo caso l'oggetto osservato è qualitativamente uguale all’attività che su lui si dirige. E questa è un'altra proprietà caratteristica del pensiero. Quando facciamo del pensiero un oggetto dell'osservazione, non ci vediamo obbligati a ricorrere all'aiuto di qualche cosa di qualitativamente diverso, ma possiamo rimanere nel medesimo elemento. (…)
Quello che con la natura è impossibile: creare prima di conoscere, col pensiero noi lo compiamo. Se noi volessimo aspettare di conoscere un pensiero prima di pensarlo, non arriveremo mai a pensare. Dobbiamo risolutamente pensare per poter poi per mezzo dell'osservazione di ciò che noi stessi abbiamo fatto, arrivare alla conoscenza. Per l'osservazione del pensiero dobbiamo noi stessi fabbricare prima un oggetto: mentre tutti gli altri oggetti sono invece provveduti senza nostra cooperazione. (...)
È dunque indubitato che col pensiero noi reggiamo il divenire del mondo per un lembo, dove senza la nostra partecipazione nulla si produce. E questo è proprio il punto importante. (…) Io studio invero tutto il resto del mondo per mezzo del pensiero; come potrei fare un'eccezione, pel mio pensiero?
Fino a tanto che la filosofia accetterà tutti i possibili principi - come atomo, moto, materia, volontà, incosciente, ecc. - resterà campata in aria. Solo quando il filosofo considererà l’assolutamente ultimo come suo primo, potrà arrivare alla meta. E l'assolutamente ultimo cui è pervenuta l'evoluzione del mondo, è il pensiero.
Rudolf Steiner (1861-1925)

44 - L'idea della libertà (Rudolf Steiner)

Il concetto dell'albero è, per la conoscenza, condizionato dalla percezione dell’albero (…).
Il nesso fra concetto e percezione viene determinato indirettamente e obiettivamente per mezzo dal pensiero applicato alla data percezione.
Il problema si presenta diverso, quando si considera la conoscenza e il rapporto che sorge con essa, fra l'uomo e il mondo. (...).
Chi osserva il pensiero, vive, durante l'osservazione, direttamente in un contesto di essenza spirituale che si sorregge di per sé. (...) .
Nella visione del pensiero, coincidono quelli che altrimenti debbono essere sempre scissi, il concetto e la percezione. (...) E questo sorgere dal pensiero è un fatto che s'impone al punto che solamente chi abbia riconosciuto come in nulla l'organismo umano influisca sulla natura del pensiero, è in grado di intenderne il vero significato. A costui però non può neppure sfuggire, quanto sia peculiare il rapporto fra organismo umano e pensiero. (...)
Le orme di chi cammina sopra un terreno soffice, si imprimono su questo terreno e nessuno sarà tentato di dire che le forme delle orme siano state determinate da forze del terreno, operanti dal basso in alto; non si attribuirà a queste forze nessun concorso alla formazione delle orme. Altrettanto poco, chi abbia osservato obiettivamente le entità del pensiero, attribuirà alle orme lasciate sull'organismo fisico di aver avuto parte alla determinazione di quella; poichè quelle orme sono provenute dal fatto che il pensiero prepara la propria comparsa per il tramite del corpo.
Qui però sorge una domanda quanto mai significativa. Se l'organismo umano non ha parte alcuna nel determinare l’entità del pensiero, quale significato ha quest’organismo entro il complesso dell’essere umano? Orbene, quanto succede in quest’organismo per opera del pensiero non ha certo nulla a che fare con la entità del pensiero stesso, ma bensì col sorgere da questo pensiero della coscienza dell’IO. Nell’essere proprio del pensiero risiede, sì, il vero “IO”, ma non la coscienza dall'Io.
Questo vede, chiunque obiettivamente osserva il pensiero! L’io si trova entro il pensiero; la “coscienza dell'IO” affiora per il fatto che nella coscienza generale s’imprimono nel senso sopraindicato le orme dell'attività del pensiero. (La coscienza dell'Io nasce dunque per virtù dell’organismo corporeo. Non si creda però, per questo, che la coscienza dell’io, dopo che è sorta, continui a dipendere dall'organismo fisico; dopo che è sorta, viene accolta dal pensiero, di cui condivide da allora in poi la essenza spirituale).
La “coscienza dell'Io” è costruita sull'organismo umano, dal quale defluiscono gli atti della volontà. Una visione del rapporto fra pensiero, Io cosciente e attività della volontà, la si potrà avere soltanto, dopo che si sia osservato come l’atto volitivo proceda dall’organismo umano.
Per il singolo atto volitivo c'è da considerare il motivo e la molla spingente. Il motivo è il fattore concettuale o rappresentativo; la molla spingente è il fattore del volere, direttamente condizionato all'organismo umano. Il fattore concettuale o motivo è la causa determinante momentanea del volere; la molla spingente è la causa determinante permanente dell'individuo. Motivo del volere può essere solo un concetto puro od un concetto in un determinato rapporto con la percezione, cioè una rappresentazione.
Concetti generali e individuali (o rappresentazioni) divengono motivi del volere in quanto agiscono sull'individuo umano e lo determinano all'azione in una certa direzione. Un medesimo concetto (o una medesima rappresentazione) agisce però diversamente su individui diversi. Muove uomini diversi ed azioni diverse, il volere non è quindi un mero risultato del concetto (o della rappresentazione) ma anche della indole individuale dell’uomo. Questa indole individuale la chiameremo la disposizione caratterologica,. Il modo in cui concetto e rappresentazione agiscono sulla disposizione caratterologica dell'uomo, dà alla sua vita, una determinata impronta morale o etica.
La disposizione caratterologica, vien formata dal contenuto intrinseco più o meno permanente del nostro soggetto, cioè dal contenuto delle nostre rappresentazioni, e dei nostri sentimenti. (…) La rappresentazione di fare una passeggiata nella prossima mezz'ora determina lo scopo del mio agire; ma questa rappresentazione diviene motivo del volere solo se coincide con una appropriata disposizione caratterologica, cioè solo se attraverso precedenti esperienze si sono formate in me le rappresentazioni della convenienza del passeggiare e inoltre se si accoppia in me anche il sentimento del piacere.
Dobbiamo quindi distinguere: l.) le possibili disposizioni soggettive che sono atte ad elevare a motivi certi concetti e rappresentazioni; 2.) i possibili concetti e rappresentazioni che sono capaci di influenzare la mia disposizione caratterologica in modo tale da provocare un atto volitivo. Quelle costituiscono le molle, questi gli scopi della moralità.
Le molle della moralità possiamo ritrovarle cercando di quali elementi si compone la vita individuale: il primo gradino della vita individuale è la percezione, e precisamente la percezione sensoria. Noi siamo qui in quella regione della nostra vita individuale, in cui la percezione si trasforma immediatamente in volontà, senza intervento di sentimenti e di concetti. La molla dell'uomo, in questo caso, si può senz'altro chiamare impulso. La soddisfazione dei nostri bisogni inferiori (fame, rapporti sessuali istintivi, ecc.) si compie in tal guisa. La caratteristica della vita d'impulso consiste nell'immediatezza, con cui la singola percezione provoca l'atto volitivo. Questo modo di determinazione della volontà che originariamente è proprio solo della Vita dei sensi inferiori, può però venire esteso anche alle percezioni dei sensi superiori. Alla percezione di un qualche accadimento nel mondo esterno (senza oltre pensare e senza che in noi si unisca un particolare sentimento), facciamo seguire un'azione; (...)
La seconda sfera della vita umana è il sentimento. Alle percezioni del mondo esterno si connettono determinati sentimenti. Questi sentimenti possono divenire: molle d’azione. Quando vedo un uomo affamato, la compassione può divenir molla al mio agire (…)
Il terzo gradino della vita è finalmente quella del pensiero e della rappresentazione. Per mera riflessione può una rappresentazione o un concetto divenire motivo di azione. Le rappresentazioni diventano motivi pel fatto che nel corso della vita noi connettiamo continuamente certi scopi del volere con percezioni che, in forma più o meno modificata, ritornano sempre. Queste rappresentazioni ondeggiano dinanzi gli uomini come modelli determinanti per tutte le successive risoluzioni; divengono parte della loro disposizione caratterologica. Tale molla del volere possiamo chiamarla esperienza pratica; (...)
Il gradino più alto della vita individuale è il pensiero puramente concettuale, senza riguardo a un determinato contenuto percettivo. Noi determiniamo il contenuto di un concetto per pura intuizione fuori della sfera ideale. Un simile concetto non contiene nulla che si riferisca a determinate percezioni. Quando noi arriviamo al volere sotto l'influenza di un concetto che implica una percezione cioè di una rappresentazione, allora, è questa percezione che ci determina attraverso il pensiero concettuale. Ma quando noi agiamo sotto l'influenza di mere intuizioni, la molla del nostro agire è il pensiero puro. Poiché in filosofia si è abituati a chiamare ragione la facoltà del pensiero puro, così è giustificato di chiamare ragione pratica la molla morale caratteristica di questo gradino. È chiaro che una simile spinta non si può più, nel senso stretto della parola, considerare come appartenente al campo delle disposizioni caratterologiche. Ché ciò che qui agisce come molla, non è più un qualche di meramente individuale in me, ma è il contenuto ideale e, conseguentemente, universale della mia intuizione. Appena io considero la legittimità di questo contenuto come base e punto di partenza di un'azione, io entro nel campo della volontà e non importa se il concetto esisteva già da tempo in me o è giunto alla mia coscienza solo immediatamente prima dell'azione, cioè non importa se era già presente in me come disposizione oppure no. (…)
I motivi della moralità sono rappresentazioni e concetti. Vi sono dei moralisti che vedono anche nel sentimento un motivo della moralità e, per es., ritengono che scopo dell'azione morale sia la produzione della massima quantità possibile di piacere nell'individuo agente. Ma non è così: il piacere in sé non può diventare un motivo, ma solo lo può un piacere rappresentato. La rappresentazione di un futuro sentimento, ma non il sentimento stesso, può agire sulla mia disposizione caratterologica. Ché il sentimento, nel momento dell’azione, non esiste ancora ma deve essere provocato appunto dall'azione.
La rappresentazione del proprio o dell'altrui bene si può però giustamente considerare come un motivo della volontà. Il principio di ottenere con le proprie azioni la massima quantità possibile di piacere proprio, cioè di raggiungere la felicità individuale, si chiama egoismo. Questa felicità individuale si cerca di raggiungere o col pensare solo al proprio benessere, senza riguardo alcuno magari a prezzo della felicità di altri individui (egoismo puro), oppure col procacciare il bene altrui per la ragione che dalla felicità altrui si attende indirettamente una influenza benefica sulla propria persona o che dal danno altrui si teme vengano minacciati gli interessi propri (morale prudenziale). Il contenuto particolare dei principi morali egoistici dipenderà poi dalla rappresentazione che l'uomo si farà della felicità propria o dell'altrui. A seconda di quel ch’egli considererà come un bene della vita (agiatezza, speranza, di felicità, liberazione da diversi mali, ecc.), egli determinerà il contenuto della sua aspirazione egoistica.
Un ulteriore motivo è da vedersi nel contenuto puramente concettuale di una azione. Questo contenuto non riguarda (come la rappresentazione del proprio piacere) soltanto la singola azione, ma la giustificazione di un'azione per mezzo di un sistena di principi morali. Questi principi possono regolare la vita morale in forma di concetti astratti, senza che il singolo si preoccupi dell'origine dei concetti. Allora noi sentiamo semplicemente la sottomissione al concetto morale, che ondeggia come comandamento, come necessità morale al di sopra delle nostre azioni. La giustificazione di tale necessità la lasciamo a chi richiede la sottomissione morale, cioè all'autorità morale che noi riconosciamo (capo di famiglia, Stato, costume sociale, autorità ecclesiastica, rivelazione divina). Una speciale forma di questi principi morali è quella in cui il comandamento non vien proclamato da un'autorità esterna, ma dal proprio interno (autonomia morale). Crediamo di sentire allora nel nostro proprio interno la voce, alla quale dobbiamo sottometterci. Il nome di questa voce è la coscienza.
Si ha però un progresso morale quando l'uomo non eleva a motivo del suo agire semplicemente il comandamento di una autorità esterna o di quella interna, ma quando si sforza di riconoscere la ragione per cui una data massima deve valere come motivo. Questo progresso è quello che distingue dalla morale autoritaria l'azione basata su giudizio morale. L’uomo giunto a questo gradino studierà la necessità della vita morale e dalla conoscenza delle medesime si lascerà determinare alle sue azioni.
Tali necessità sono:
il massimo bene possibile della collettività umana, puramente per esso medesimo bene;
il progresso della civiltà ossia l'evoluzione morale dell'umanità verso una sempre maggior perfezione;
la realizzazione di fini morali individuali concepiti per pura intuizione. (…)
Gli uomini sono diversi fra loro per potere intuitivo. In uno le idee ribollono, un altro le acquista solo a gran fatica. Le situazioni in cui gli uomini vivono e che formano la scena delle loro azioni, non sono meno diverse. Il modo di operare di un uomo dipenderà quindi dal modo in cui il suo potere intuitivo reagirà di fronte a una determinata situazione. La quantità delle idee attive in noi, il contenuto reale delle nostre intuizioni, è costituito da ciò che di tutta l'universalità del mondo delle idee ha preso in ciascun uomo una forma individuale. In quanto questo contenuto intuitivo agisce sulle azioni, esso costituisce la potenzialità morale dell’individuo.
Lasciare svolgere tale potenzialità è la molla morale più alta e nello stesso tempo il più alto motivo di coloro che intendono come tutti gli altri principi morali si fondano alla fine in questa potenzialità. (...)
Un'azione viene sentita come libera in quanto la sua causa stia nella parte ideale del mio essere individuale; ogni altra parte di un'azione, che venga eseguita per forza di natura che per costrizione di una norma morale viene sentita come non libera. Libero è solo l’uomo che in ogni momento della sua vita, è in grado di obbedire a se stesso. Un'azione morale è una mia azione soltanto se può in questo senso dirsi libera. L'azione libera non esclude ma include, le leggi morali solo si distingue per stare più in alto della azioni dettate unicamente da tali leggi. Perché la mia azione dovrebbe servire meno al bene comune se io la compio per amore, che se io la compio soltanto perché il servire al bene comune è un dovere? Il mero concetto del dovere esclude la libertà, perché non vuole riconoscere l'individualità, ma non reclama la sottomissione a una norma generale. La libertà dell'azione è solo concepibile dal punto di vista di colui che lascia svolgere la sua potenzialità morale.
“Ma come è possibile la convivenza degli uomini se ciascuno si sforza soltanto di affermare la propria individualità?” Ecco un'altra obiezione del moralismo malinteso. Esso crede che una convivenza degli uomini sia possibile solo quando questi siano riuniti da un ordine morale comune per tutti. Questo moralismo non comprende la unicità del mondo delle idee. Non comprende che il mondo delle idee che è attivo in me, è quello medesimo che è attivo nel mio simile. (...) L'individualità è possibile soltanto là dove ogni essere individuale sa dell’altro per osservazione individuale. La differenza fra me e il mio simile non consiste menomamente nel fatto di vivere in due mondi spirituali completamente diversi, ma nel fatto che da un mondo d’idee comune egli riceve altre intuizioni di me. Egli vuole svolgere le sue intuizioni, io le mie. Se entrambi veramente crediamo dall'idea, senza seguire alcun impulso esterno (fisico o spirituale), non possiamo non incontrarci negli stessi sforzi, nelle stesse intenzioni. Un malinteso, un urto morale escluso fra uomini moralmente liberi. Solo l'uomo moralmente non libero che segue l’impulso naturale il comandamento del dovere, urta contro il suo prossimo quando questi non segue lo stesso istinto o lo stesso comandamento. Vivere nell'amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà altrui è la massima fondamentale dell’uomo libero. Egli non conosce alcun dovere all'infuori di quello con cui il suo volere si mette in intuitivo accordo; quel ch’egli sarà per volere in un determinato caso, glielo dirà il suo patrimonio d’idee. (…)
Chi di noi può dire che in tutte le sue azioni egli è veramente libero? Ma in ciascuno di noi alberga un’entità più profonda in cui l’uomo libero trova espressione. La nostra vita si compone di azioni libere e non libere. Ma noi non possiamo arrivare al fondo del concetto dell'uomo, senza arrivare allo spirito libero come espressione più pura della natura umana. Noi siamo veri uomini solo in quanto siamo liberi. (…)
Quando Kant dice del dovere: “Dovere! tu alto e gran nome che non contieni in te nulla di quel che di caro porta con sé la lusinga, ma reclami sottomissione, che stabilisci una legge… davanti alla quale tutte le inclinazioni tacciono, seppur in segreto ad esse si oppongono”; lo spirito libero risponde: “Oh libertà! tu dolce e umano nome, che contieni in te tutto ciò che di moralmente caro massimamente mi lusinga come uomo, che non mi fai servo di alcuno, che non stabilisci alcuna legge, ma attendi ciò che il mio amore morale riconoscerà da sé come legge, perché di fronte a qualsiasi legge impostagli esso non si sente libero!”
Questo è il contrasto fra la moralità legale e moralità libera. (...)
Non bisogna coniare la formula che l’uomo esista soltanto per fondare un ordinamento morale del mondo separato da lui. Chi pensasse così starebbe - riguardo alla scienza dell'uomo - allo stesso punto a cui stava quella scienza naturale che diceva: “Il toro ha le corna, per poter dar cornate”. Fortunatamente la scienza naturale ha abbandonato questi concetti di finalità oggettiva. L'etica riesce più difficilmente a sbarazzarsene; ma come non ci sono la corna allo scopo di poter dare cornate, ma ci sono le cornate per via delle corna, così non c’è l’uomo allo scopo di far della moralità, ma c’è la moralità per mezzo dell'uomo. L'uomo libero agisce moralmente perchè ha un'idea morale, ma non agisce allo scopo di generare moralità. Gli individui umani con le loro idee morali appartenenti al loro essere, sono il presupposto dell'ordinamento morale del mondo.
Rudolf Steiner (1891)

45 - Goethe e Hegel (Rudolf Steiner)

La considerazione goethiana del mondo arriva soltanto fino a un certo limite. Egli osserva i fenomeni della luce e dei colori e s’inoltra fino al fenomeno primordiale; cerca di orientarsi in mezzo alle forme molteplici dell’ente vegetale e perviene alla “Urpflanze” sovrasensibile. Dal fenomeno primordiale alla pianta primordiale non ascende a principi esplicativi superiori. Lascia questo ai filosofi. Per suo conto è soddisfatto di trovarsi su quella vetta empirica, da cui all'indietro può dominare l'esperienza in tutti i suoi gradi e in avanti può, se non entrare, almeno guardare nel regno della teoria.
Nella considerazione del reale Goethe va innanzi fino a che gli si fanno incontro le idee. In quale connessione stanno le idee fra loro, come nella cerchia ideale una cosa sorga dall'altra, questi sono problemi che cominciano appena sulla vetta empirica su cui Goethe riman fermo. “L'idea è eterna ed unica - egli pensa - non è ben fatto che si adoperi anche il plurale. Tutto ciò che noi scorgiamo, e di cui possiamo discorrere, sono solo manifestazioni dell’idea”. Ma poichè nelle manifestazioni l'idea si presenta come una pluralità di idee singole (idea pianta, idea dell'animale, ecc.) queste idee singole devono lasciarsi ricondurre a una forma fondamentale così come la pianta si lascia ricondurre alla foglia. Anche le idee singole sono diverse solo nella manifestazione; nella loro vera essenza sono identiche.
Quindi è nello spirito della concezione goethiana del mondo tanto il parlar di una metamorfosi delle idee quanto il parlare di una metamorfosi delle piante. Il filosofo che ha cercato di rappresentare questa metamorfosi delle idee è Hegel. Quindi egli è il filosofo della concezione goethiana del mondo. Egli parte dalla idea più semplice, da puro “essere”. Nel puro essere il vero aspetto dei fenomeni del mondo si nasconde completamente. Il loro ricco contenuto diventa un'astrazione anemica. Si è rinfacciato a Hegel di dedurre tutto il ricco contenuto del mondo delle idee dal puro essere. Ma il puro essere contiene “in idea” l'intero mondo delle idee, così come la foglia contiene in idea l’intera pianta. Hegel segue la metamorfosi dell'idea del puro essere astratto fino allo stadio in cui l’idea diviene direttamente un apparire reale. Egli vede questo stadio ultimo nell'apparire della filosofia, in quanto nella filosofia le idee che agiscono nel mondo vengono intuite nel loro aspetto originale. Esprimendo ciò in linguaggio goethiano si potrebbe dire: la filosofia è l’idea nella sua massima espansione; il puro essere è l’idea nella sua estrema concentrazione. Il fatto che Hegel vede nella filosofia la metamorfosi più perfetta dell'idea, dimostra ch’egli è altrettanto lontano quanto Goethe dall’auto osservazione. Una cosa, raggiunge la sua più alta metamorfosi quando estrinseca il suo pieno contenuto nella percezione, nella vita immediata. La filosofia invece contiene il contenuto ideale del mondo non in forma di vita, ma in forma di pensieri. L’idea vivente, l’idea come percezione, è data soltanto dall'auto-osservazione umana. La filosofia di Hegel non è una concezione mondiale della libertà in quanto non cerca il contenuto del mondo nella sua forma più alta sul terreno della personalità umana. Su questo terreno ogni terreno diviene affatto individuale. Hegel non cerca questo individuale, ma il generale, la specie. E quindi egli pone l'origine della morale non nell'individuo umano ma in un ordinamento del mondo, posto al di fuori dell'uomo e contenente le idee morali. L’uomo non si dà da se stesso uno scopo morale, ma deve inserirsi entro l'ordinamento morale del mondo. Il singolo, l'individuale rappresenta per Hegel proprio il cattivo, quando rimane nel suo isolamento. Solo entro l'intero acquista il suo valore. Questa è l'opinione della borghesia, dice Max Stirner, “e il suo poeta Goethe come il suo filosofo Hegel, hanno saputo glorificare la dipendenza del soggetto dall’oggetto, la sommissione al mondo oggettivo, ecc.” Qui abbiamo a che fare a sua volta con un altro modo di vedere unilaterale. Tanto a Hegel quanto a Goethe manca l’intuizione della libertà perché ad entrambi manca l’intuizione dell'intima essenza del mondo del pensiero. Hegel si sente assolutamente il filosofo della concezione goethiana del mondo.
Il 20 febbraio 1821 scrive a Goethe: “Ella mette in cima a tutto il semplice e l'astratto, che chiama appropriatamente fenomeno primordiale, mostra poi come le manifestazioni più concrete risultino dal sopravvenire di ulteriori influenze e circostanze, e regola l'intero processo in modo che l'ordine di successione vada dalle condizioni semplici alle più complesse e fa in guisa che così ordinato e decomposto l’intricato apparisca, finalmente chiaro. Rintracciare il fenomeno primordiale, liberarlo dalle circostante accidentali, afferrarlo astrattamente, come noi diciamo: ecco, a mio avviso, il compito di chi ha un senso profondo e spirituale della natura, ecco il metodo per giungere ad una conoscenza veramente scientifica in questo campo (…).
Ma farò ancora accenno a V.S. del particolare interesse che ha per noi filosofi il fenomeno primordiale così come è stato messo in evidenza: in quanto possiamo adesso adoperare un simile preparato direttamente in servigio della filosofia.
Poi che abbiamo spinto il nostro assoluto, originariamente, informe, grigio, o affatto oscuro, verso l'aria e la luce, fino a fargli venire il desiderio delle medesime, abbiamo ora bisogno di finestre ove metterlo fuori alla piena luce del giorno.
Ma i nostri schemi se ne andrebbero in fumo, se volessimo esporli così senz'altro alla confusione variopinta dell'avverso mondo. È qui che i fenomeni primordiali di V.S. giungono molto a proposito; costituiscono una specie di penombra spirituale e comprensibile, per la sua semplicità, visibile e palpabile per la sua materialità, in cui si abbracciano fra loro i due mondi: il nostro mondo astruso e l'esistenza manifesta”.
Anche se la concezione goethiana del mondo e la filosofia hegeliana si corrispondono completamente, errerebbe chi volesse riconoscere uno stesso valore ai pensieri cui è giunto Goethe e a quelli a cui è giunto Hegel. In entrambi vive la stessa maniera di veder le cose. Entrambi vogliono scansare l'autopercezione.
Ma Goethe ha fatto le sue riflessioni su campi in cui la deficienza della percezione non ha effetto nocivo. Se anche non ha mai visto il mondo delle idee come percezione, egli ha però vissuto nel mondo delle idee e imbevuto di esse le sue osservazioni. Hegel non ha più di Goethe riguardato il mondo delle idee come percezione, come esistenza individuale dello spirito, ma ha fatto le sue riflessioni proprio sul mondo delle idee e quindi in molte direzioni tali riflessioni riescono storte e mendaci.
Se Hegel avesse fatto osservazioni sopra la natura, esse sarebbero divenute altrettanto preziose quanto quelle di Goethe. Viceversa se Goethe avesse voluto innalzare un edificio di pensieri filosofici, sarebbe stato abbandonato da quella sicura intuizione della realtà vera, che lo ha guidato nelle sue considerazioni sulla natura.
Rudolf Steiner (1897)
 

46 - Friedrich Nietzsche e la psicopatologia (Rudolf Steiner)

“Come i processi psichici vanno paralleli agli eccitamenti del cervello, così la psicologia fisiologica va parallela alla fisiologia del cervello. Dove questa ultima non le offre conoscenza sufficiente, la psicologia fisiologica dovrà investigare le manifestazioni psichiche come tali in modo del tutto provvisorio, accompagnata però sempre dal pensiero che anche per queste manifestazioni psichiche si deve dimostrare la possibilità di un parallelismo coi processi cerebrali”.
Anche se non si sottoscrive incondizionatamente a questa affermazione di Theodor Ziehen, si dovrà concedere che si è mostrata feconda per il metodo della psicologia. Sotto l'influsso di questo criterio, questa scienza è giunta a vedere conoscenze scientifiche. Ma bisognerà anche aver ben chiaro quale luce getti su la connessione delle manifestazioni psichiche con i corrispondenti processi fisiologici la osservazione delle manifestazioni patologiche dell’anima. I fatti anormali della vita dell'anima ci chiariscono quelli normali. E specialmente importante appare il perseguire le manifestazioni anormli dell'anima, fin nei campi in cui l'attività della medesima raggiunge le più alte produzioni spirituali.
Una personalità come quella di Nietzsche, offre speciali condizioni per una tale osservazione: un nucleo morboso nella sua personalità diede a lui perenne opportunità di riandare alla base profonda fisiologica delle sue rappresentazioni. Egli ha toccato tutti i toni, dalla lingua poetica fino alle più alte vette della astrazione concettuale; e precisamente dice egli stesso come il mondo delle sue rappresentazioni si connetta con le sue condizioni corporali: “Nel 1879 io rinunziai all'insegnamento in Basilea e come un'ombra vissi l'estate a S. Moritz e, l'inverno seguente, il più povero di sole di tutta la mia vita, come un’ombra a Naumburg. Questo fu il mio minimum; nell’anno trentesimo sesto della mia vita, toccai il punto più basso della mia vitalità: vivevo ancora, senza vedere tre passi dinanzi a me. In questo tempo sorse “Il viandante e la sua ombra”. Certo di ombre mi intendevo io allora... Nell'inverno che seguì, il mio primo inverno genovese, sbocciò quel raddolcimento e spiritualizzazione, che è condizionato a estrema povertà di sangue e muscoli, la “Aurora”. La piena chiarità e serenità, esuberanza anche di spirito che quest'opera rispecchia, si unì in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma anche appunto con un eccesso del senso del dolore. In mezzo ai tormenti di un dolore nel cervello, per tre giorni ininterrotti con penosa espettorazione di catarro, io avevo una chiarezza dialettica per eccellenza e riflettevo con molto sangue freddo a cose alle quali in condizioni sane non mi arrampico perché non abbastanza raffinato e freddo. I miei lettori sanno quanto io consideri la dialettica sintomo di decadenza, come nel caso più famoso di Socrate”.
Nietzsche considera il cambiamento del modo delle sue rappresentazioni come prodotto appunto di un mutamento delle sue condizioni corporali: “Un filosofo che ha fatto il suo cammino, e sempre ancora lo fa, attraverso a varie condizioni di salute, è passato anche per diverso filosofie; egli infatti non può che trasportare ogni volta il suo stato nelle fome e lontananze più spirituali; questa arte della trasfigurazione è la sua filosofia”. Nelle memorie della sua vita scritte nel 1888, “Ecce homo”, dice come dalla malattia egli abbia avuto l’impulso a foggiarsi una visione ottimistica del mondo. “Poiché si badi a questo, gli anni della mia più bassa vitalità furono quelli in cui cessai di essere pessimista: l'istinto del ristabilirmi mi proibiva una filosofia di povertà e scoramento”.
La grande contraddizione nel mondo delle idee di Nietzsche appare da questo punto di vista comprensibile. Nelle contraddizioni si muove la sua natura fisica. “Si è presupposto che si è una persona e quindi necessariamente si ha anche la filosofia della propria persona; ma v'è una grande differenza: in un filosofo le sue deficienze, in un altro le sue ricchezze e forze”. E in Nietzsche si riaccendono ora l’uno ora l’altro. Finché fu nel benessere delle forze giovanili che egli accolse il “pessimismo del sec. XIX come segno della più alta forza del pensiero e di una vittoriosa pienezza di vita; ritenne la conoscenza tragica, che trovava in Schopenhauer come “il più bel lusso della nostra civiltà, come la forma della sua prodigalità più preziosa, squisita e rischiosa, ma sempre, su la base della sua straricchezza, come, un lusso permesso”. Ma non poteva vedere permesso tale lusso quando quel che era morboso in lui, prese il sopravvento. E si crea perciò una filosofia che nella vita faccia la affermazione più alta possibile. Aveva bisogno ora d’una visione universale della “affermazione di sé”, della “elevazione di sé”, di una morale di signori; aveva bisogno della filosofia dell’”eterno ritorno”. “Io ritorno, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con questo serpente - non a una vita nuova o a una vita migliore o a una vita simile -: io ritorno eternamente, a questa mia stessa uguale vita nel più grande e nel più piccolo”. “Poiché una mensa di Dei è la terra e fremente di nuove opere creatrici, divine”… Oh, come potrei io essere non ardente per l'eternità, per il nuziale anello tra gli anelli, l'anello del ritorno?”
Per i dati poco sicuri che abbiamo sugli antenati di Nietzsche, non possiamo purtroppo formarci un giudizio soddisfacente su quanto delle qualità spirituali di Nietzsche sia da riportare all’ereditarietà. Non giustamente si è spesso accennato, questo proposito, che suo padre morì di malattia cerebrale; perché questi fu colpito dalla malattia per una disgrazia dopo la nascita di Nietzsche.
Non pare però senza importanza il cenno che Nietzsche stesso fa a un elemento morboso in suo padre: “Mio padre morì a trentasei anni; egli era delicato, amorevole, morboso, come un essere destinato solo a trapassare...” Quando Nietzsche dice che in lui vive qualcosa di decadente accanto a qualcosa di sano, egli pensa che quello gli deriva dal padre, questo dalla madre che era una donna sanissima.
Nella vita dell'anima di Nietzsche incontriamo molti tratti che confinano col patologico e richiamano Heine e Leopardi, che hanno con lui molto di simile.
Heine fin dalla giovinezza fu travagliato dalla più cupa malinconia, soffrì incubi e più tardi seppe anch’egli, dalla più miseranda condizione del corpo, dal deperimento progrediente, attingere idee non lontane da quelle di Nietzsche.
Sì, in Heine abbiamo quasi un precursore di Nietzsche per la contrapposizione della comprensione della vita apollinea o tranquillamente contemplante e la dionisiaca ditirambica affermazione della vita.
E anche la vita spirituale di Heine rimane inesplicabile dal punto di vista psicologico se non si tiene conto del nucleo patologico della sua natura che egli ereditò dal padre, che era una personalità degenerata, quasi un'ombra scivolante attraverso la vita.
Specialmente sorprendenti sono le rassomiglianze dei caratteri fisiologici di Leopardi e Nietzsche. In entrambi la stessa fine sensibilità ai temporali e alle stagioni, ai luoghi e ambienti. Leopardi sente la più lieve mutazione “termometrica e barometrica”. Poteva produrre solo nell'estate e andava errando sempre in cerca di un luogo di sosta adatto al suo creare.
Nietzsche su questa proprietà della sua natura così si esprime: “Ora, che per un lungo esercizio, leggo su me, come su un delicato e sicuro strumento, gli effetti di origine climatica e meteorologica, e in un breve tragitto, da Torino a Milano, calcolo fisiologicamente in me il cambiamento dei gradi di umidità dell'aria, penso con sgomento al fatto inquietante che la mia vita fino agli ultimi dieci anni, gli anni pericolosi della vita, si è svolta in luoghi falsi e a me quasi proibiti. Naumburg, Schulpforta, Thüringen specialmente, Bonn, Lipsia, Basilea, Venezia, altrettanti luoghi di infelicità per la mia fisiologia...”
Con questa inconsueta sensibilità, si unisce in Leopardi come in Nietzsche un dispregio di ogni senso altruistico: per entrambi sopportare gli uomini è un superamento di sé. Dalle parole stesse di Nietzsche, sappiamo che in lui il suo brivido per impressioni forti, per attrattive troppo sollecitanti la sua sensibilità, instilla la diffidenza contro le tendenze non egoistiche. Egli dice: “Ai compassionevoli io oppongo che per essi la vergogna, la riverenza, la tenerezza, facilmente dinanzi alle distanze si perdono”. Il Leopardi afferma che un uomo sopportabile solo di rado si trova e con ironia e amarezza considerava la miseria; Nietzsche faceva suo principio: “I deboli e malformati debbono perire: primo precetto del nostro amore degli uomini. E si deve aiutarli in questo”.
Nietzsche dice che la vita è essenzialmente violazione, sopraffazione dell'estraneo e dei deboli, oppressione, durezza, costrizione al proprio modo, incorporamento o almeno sfruttamento”. Ugualmente per Leopardi la vita è una incessante paurosa battaglia in cui gli uni calpestano gli altri.
Questi pensieri cadono entrambi nel patologico perché sorgono in essi in modo del tutto irrazionale. Non per un esame logico, come l'economista Malthus o il filosofo Hobbes, o per diligenti osservazioni come Darwin, furono portati al concetto della lotta per la esistenza, ma dalla acuta sensibilità, per cui ad ogni stimolo esterno corrispondevano con violento senso di difesa, come ad un assalto ostile.
Questo si vede ben chiaro in Nietzsche. Egli trova in Darwin l’idea della lotta per l’esistenza, non la respinge, ma la interpreta conformemente alla tesa sua sensibilità. “Posto che vi sia questa lotta - e in fatto essa vi è - si svolge però al rovescio, purtroppo di quel che la scuola di Darwin desidererebbe e che forse si dovrebbe desiderare come essa; non favorevolmente cioè ai forti, ai privilegiati, alle fortunate eccezioni. - le specie non crescono in perfezione, ma i deboli si fanno signori dei forti - perché essi sono il numero, e sono anche i più accorti... Darwin ha dimenticato lo spirito - (questo è inglese!), i deboli hanno più spirito... Chi ha forze, si sbarazza dello spirito.”
Senza dubbio fino a un certo grado la sensibilità tesa e l'impulso a indirizzare le proprie osservazioni prevalentemente su la propria personalità si condizionano. Ma le nature sane ed armoniose in ogni parte, come per es. Goethe, vedono nella troppo intensa osservazione di sé qualche cosa che deve far pensare.
Il modo di vedere di Goethe è in piena contraddizione con la rappresentazione di Nietzsche: “Prendiamo la parola: conosci te stesso! Non dobbiamo intenderla in senso ascetico. Non intende affatto la autoscienza dei nostri moderni ipocondriaci umoristi e autopaladini, ma dice semplicemente: “dà in certa misura attenzione a te stesso, prendi notizia di te, perché tu sappia come ti trovi coi tuoi simili e col mondo.”
Non occorre per questo nessun tormento psicologico; ogni uomo sano sa e sperimenta, quel che essa vuole dire: è un buon consiglio che apporta praticamente ad ognuno il più grande vantaggio... Come si impara a conoscerci? Non già con le meditazioni, ma sì con l’attenzione. Cerca di adempiere il compito tuo e tu sei senz'altro quel che è in te”.
Noi sappiamo che anche Goethe aveva una sensibilità fine; ma egli aveva anche il necessario contrappeso, la capacità che egli parlando di altri ha benissimo descritto in un colloquio con Eckermann nel 20 dicembre 1829: “Lo straordinario - quel che fanno uomini squisitamente dotati - presuppone una organizzazione assai delicata che sia capace delle più fini sensazioni. E questa organizzazione è nel conflitto col mondo e con gli elementi facilmente turbata e offesa; e chi come Voltaire, non unisce straordinaria tenacia, a una grande sensibilità è facilmente soggetto a una morbosità cronica”. Questa tenacia manca a nature come Nietzsche e Leopardi.
Esse si perderebbero del tutto sotto le impressioni, gli stimoli che subiscono, se non si chiudessero artificiosamente al mondo esterno, non gli si ponessero ostilmente contro. Si paragoni con la vilenza di Nietzsche nel commercio con gli uomini, la piacevolezza di Goethe, che egli così descrive: “La socievolezza è nella mia natura; perciò in tutte le mie svariate imprese mi guadagnavo collaboratori e mi facevo collaboratore ad essi e così raggiungevo la buona ventura di vedere me continuare a vivere in essi, essi in me.”
Una manifestazione altamente sorprendente nella vita opirituale ai Nietzsche è lo sdoppiamento della coscienza di sé, sempre presente in modo latente, ma emergente a volte in modo notevole.
Il “due anime abitano, ah!, nel mio petto” (Faust), confina in lui col patologico: ed egli non dare l'equilibrio tra le “due anime”. Le sue polemiche a stento si possono comprendere altrimenti che da questo punto di vista. Egli non colpisce coi suoi giudizi quasi mai l'avversario.
Quel che vuole assalire egli se lo pone di fronte in modo veramente degno di nota e poi combatte contro un fantasma che sta ben lungi dalla realta. E questo si comprende solo se si considera che egli, in fondo, non combatte contro un nemico esterno, ma contro se stesso. E combatte tanto più ardentemente quando egli in altro tempo si è trovato nello stato che egli riguarda come avverso, o quando questo stato gioca almeno una parte nella vita della sua anima.
La sua battaglia contro Wagner è solo una battaglia contro se stesso. In un tempo in cui egli veniva sbattuto di qua e di là in campi di idee contrastanti, si unì, in parte involontariemente, a Wagner. Fu accolto come amico e Wagner crebbe smisuratamente ai suoi occhi. Lo chiama il suo “Giove” cui egli aspira “Una vita feconda ricca, che scuote, del tutto diversa, inaudita tra la media dei mortali! Per questo anch’egli vi sta saldamente radicato, con la propria forza, con lo sguardo via da ogni effimero, fuori del suo tempo nel più bel senso”.
Nietzsche si foggiava ora una filosofia della quale egli si poteva dire che coincideva, con la direzione dell'arte e la comprensione delle vita di Wagner. Egli si identifica con Wagner. Lo considera come il primo grande rinnovatore della civiltà tragica, che solo nella antica Grecia aveva avuto un inizio degno di nota, ma che poi, per la raffinata sapienza intellettuale di Socrate e per la unilateralità di Platone, dovette indietreggiare, e solo nel Rinascimento aveva ancora un ravvivamento di breve durata.
Nietzsche fa contenuto della sua propria opera quel che egli crede di aver riconosciuto come missione di Wagner. Ora nei suoi “Scritti postumi” si può vedere come egli sotto l’influsso di Wagner respinse indietro il suo secondo io. Tra questi scritti si trovano parole del tempo prima, e durante il suo entusiasmo wagneriano, che si muovono in direzione di sentire e pensare del tutto opposta. Pure egli si foggia una immagine ideale di Wagner che vive, non nella realtà, ma solo nella fantasia di lui. E in questa immagine il suo io si immerge pienamente. Più tardi sorgono in questo io campi di rappresentazione in contrasto col modo di vedere wagneriano.
Ed egli diviene nel vero senso della parola il più violento avversario del suo proprio mondo di pensieri. Poiché egli combatte non il Wagner della realtà, ma la immagine che egli prima si era fatta di Wagner. La sua appassionata ingiustizia si comprende soltanto se si vede che egli diviene così violento solo perché egli combatte qualcosa che, secondo la sua opinione, lo ha danneggiato traviandolo dal suo cammino. Se si fosse trovato di fronte a Wagner obbiettivamente come un qualunque altro suo contemporaneo forse sarebbe divenuto più tardi un suo avversario, ma in tutta la faccenda assai più ponderatamente calmo e freddo. Ed egli sa che vuole allontanarsi non da Wagner, ma dal suo proprio io quale si è formato in un certo momento.
Egli dice: “Voltare le spalle a Wagner era un destino per me e quindi, ancora voler bene a qualcosa, una vittoria.” Nessuno si era forse immerso più pericolosamente nel wagnerismo, nessuno se ne era più duramente difeso, nessuno si è rallegrato di più di essersene liberato.
Una storia lunga! Come definirla con una parola? Forse superamento di sé? Che, come prima e ultima cosa un filosofo attende da sè? Superare in sé il suo tempo, “liberarsi dal tempo”. Con quello appunto, per cui è figlio del suo tempo. “Bene! Io sono come Wagner, il figlio di questo tempo: un decatente! Ma questo io ho compreso, me ne sono difeso: il filosofo in me si difendeva contro questo”.
E ancora più chiaramente egli dice come sentisse la divisione del suo io e la irrimediabile contraddizione del mondo dei suoi pensieri, nella sua coscienza: “Chi assale il suo tempo, può soltanto assalire sé: che altro può vedere altro che sé? Così “In un altro sé soltanto, si può venerare. Annientamento di sé, divinizzazione di sé, spregio di sé - questo è il nostro giudicare, amare, odiare”.
Nietzsche, quando combatte, quasi sempre combatte contro se stesso. Quando egli nel primo tempo della sua opera di scrittore scese violentemente in campo contro la filologia, combatteva in sé il filologo, il notevole filologo, che prima ancora dell'esame di dottorato era stato nominato professore all'università. Quando nel 1876 cominciò la sua battaglia contro gli ideali, aveva dinanzi al suo occhio il suo proprio idealismo. E quando al termine della sua carriera scrisse con violenza senza esempio il suo “Anticristo”, nient’altro ancora lo provocava che l'intimo “cristiano” che sentiva in sé; egli senza lotta in sé si era allontanato dal cristianesimo, ma se ne era allontanato solo con la mente, con una sola parte del suo essere: col suo cuore, nel mondo del suo sentire, nella condotta pratica della sua vita, rimase fedele alle rappresentazioni cristiane. Insorse come appassionato avversario di una parte del suo proprio essere. “Bisogna aver visto da presso il suo destino, averlo anzi vissuto in sé; per esso essersi quasi affondati per non poter ammettere più scherzo alcuno.
Il libero pensiero dei nostri signori ricercatori della natura e fisiologi è ai miei occhi uno scherzo: manca in loro in queste cose la passione, il soffrire di esse”. Come Nietzsche si sentisse diviso in sé e si sapesse impotente a equilibrare in unità di coscienza le diverse potenze del suo interno, è mostrato nella chiusa di una poesia dell'estate 1888, del tempo cioè che di poco procede la catastrofe: “Ora - tra due nulla rattrappito, un interrogativo, un enigma stracco - un enigma per uccelli da rapina... - oramai ti scioglieranno, hanno fame del tuo scioglimento; svolazzano già intorno a te, loro enigma, a te impiccato!... O Zarathustra!... conoscitore di te!… di te giustiziere”.
Questa incertezza di sé si esprime anche nel fatto che alla fine della sua carriera dà una quasi interamente nuova interpretazione alla sua evoluzione. La sua visione del mondo ha una delle sue sorgenti nella antichità greca. Si può in quasi tutti i suoi scritti rintracciare quale grande influsso abbiano avuto su lui i greci: non si stanca di riaffermare l'altezza della civiltà greca.
Nel 1875 egli scrive: “I greci, l’unico popolo geniale del mondo: anche come discepoli lo sono e lo comprendono nel modo migliore e sanno di quel che hanno appreso fare non solo ornamento e fregio, come fanno i Romani. Il genio fa tributari tutti i mediocri: così anche i persiani mandano le loro ambascerie agli oracoli greci. Come diversi i Romani con la loro arida serietà, dai Greci geniali!”
E quali belle parole trovò nel 1873 per i primi filosofi greci: l'ogni popolo arrossisce quando si guarda ad una società di filosofi così mirabilmente idealizzata come quella degli antichi greci Talete, Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Democrito e Socrate. Tutti questi uomini sono tagliati da una stessa unica, roccia. Stretta necessitá domina tra il loro pensare ed il loro carattere... E così essi formano insieme, quella che Schopenhauer ha detto, in contrapposizione alla repubblica dei dotti, la repubblica dei geniali: un gigante dice all'altro, attraverso ai deserti spazi dei tempi; e, indisturbato dai petulanti schiamazzanti nani che via strisciano sotto di loro, prosegue l'alto colloquio degli spiriti... Proprio come prima esperienza, della filosofia su terreno greco, la sanzione dei sette sapienti è una mirabile ed indimenticabile linea per la immagine dell'ellenismo.
Altri popoli hanno santi, i greci hanno sapienti... il giudizio di quei filosofi sulla vita e sulla esistenza dice assai più che un giudizio moderno, perché essi avevano dinanzi la vita in una rigogliosa pienezza e perché in essi il senso del pensatore non si smarriva come presso di noi, tra il desiderio di libertà, bellezza, grandezza della vita e l'impulso della verità che solo chiede: quale valore veramente ha la vita?”
Nietzsche sempre è dinanzi a questa sapienza greca come dinanzi a un ideale: cercava con una parte del suo essere di uguagliarlo, ma con l'altro lo rinnegava. Nel “Tramonto degli idoli”, dopo aver detto quello di cui vuole esser grato ai Romani, aggiunge: “Ai greci io assolutamente non debbo nessuna forte impressione intima e, per dire con precisione, essi non possono per noi quello che sono i romani. Dai greci non si impara - il loro modo è troppo estraneo e anche troppo fluido per agire imperialmente, “classicamente”. Chi avrebbe imparato da un greco a scrivere? Chi lo avrebbe imparato senza i romani?... La magnifica agile corporeità, l'ardito realismo e immoralismo propri dei greci furono un bisogno, non un natura. Seguirono poi, non furono fin dal principio. E anche con feste e arti niente altro si voleva che sentirsi in alto; mezzi per esaltare sé, per portare, nel caso, paura dinanzi a sé… I greci, secondo il modo tedesco, giudicano secondo i loro filosofi, utilizzano la bonarietà, per così dire della scuola socratica, per decidere che cosa in fondo sia ellenico… I filosofi sono, sí, la decadenza dell'ellenismo…”
Si comprenderanno chiaramente molte manifestazioni di Nietzsche, quando si connetta il fatto che i suoi pensieri filosofici poggiano su la osservazione di sé, con l'altro che questo “sé” era non un quid in sé armonico, ma scheggiato.
Questo “scheggiamento” egli portava, anche nella sua spiegazione del mondo. Guardando in sé egli poteva dire: “Non dobbiamo noi artisti confessare che è in noi una perturbante diversità, che il nostro gusto e d'altra parte la nostra forza creatrice stanno in strano modo per sé, restano per sé e crescono per sé, ciascuno - voglio dire, hanno gradi e tempi del tutto diversi di vecchiaia, giovinezza, maturità, frollezza, fracidezza? Così che un musico, per es., potrebbe durante la sua vita creare cose che contraddicono a quello che il suo orecchio di uditore prega, gusta, preferisce; e neppure occorreva che egli sapesse di questa contraddizione!”
Questa è la spiegazione della natura dell'artista, formata secondo la essenza di Nietzsche. Qualcosa di simile in tutti i suoi scritti.
Certo si va in parecchi casi troppo in là nel connettere manifestazioni della vita dell'anima con concetti patologici; ma per una personalità come quella di Nietzsche si vede che la sua visione del mondo trova piena spiegazione con questa connessione. Come può essere utile per molti rispetti tenersi alla parola di Dilthey: “Il genio non è una manifestazione patologica, ma l'uomo sano, perfetto”; sarebbe però difettoso interdirsi, per un tale dogma, ogni trattazione come quella che abbiamo fatta qui su Nietzsche.
Rudolf Steiner (1900)

47 – Le concezioni radicali del mondo (Rudolf Steiner)

Al principio del decennio 1840-50 un uomo scuote con energia la concezione hegeliana del mondo che egli prima aveva conosciuto a fondo ed intimamente.
È Ludovico Feuerbach (1804-‘72). La dichiarazione di guerra ch’egli mosse alla concezione del mondo ch’egli aveva superata, è data in una forma radicale nei suoi scritti: “Tesi preliminare per la riforma della filosofia” (1842), “Principi della filosofia del futuro” (1843). Possiamo seguire lo svolgimento ulteriore dei suoi pensieri negli altri scritti: “L’essenza del cristianesimo” (1841), “L’essenza della religione” (1845) e “Teogonia” (1857). Con l’attività di Ludovico Feuerbach si rinnovava sul terreno della scienza dello spirito, un processo che già cent'anni prima si era svolto sul terreno delle scienze naturali (1759) coll'intervento di G. Fr. Wolff. L'azione di Wolff aveva significato una riforma dell'idea dell’evoluzione nel campo della scienza degli esseri viventi. In quale maniera Wolff intendesse l’evoluzione, risulta più chiaramente dalle visuali dell'uomo che ha opposto alla trasformazione di questa raffigurazione, la resistenza più violenta: Alberto von Haller. Quest’uomo, in cui i fisiologi venerano a buon diritto uno degli spiriti più forti della loro scienza, non sapeva raffigurarsi lo sviluppo di un essere vivo diversamente dal modo del germe che contiene già in proporzioni esigue tutte le parti che appariscono nel decorso della vita. Lo sviluppo è dunque sviluppo di qualche cosa che era già presente, ma che, sia per la sua esiguità sia per altre ragioni, sfuggiva alla percezione. Se questa concezione viene mantenuta logicamente, nulla di nuovo sorge nel decorso dell’evoluzione, ma qualche cosa di nascosto, di racchiuso viene del continuo messo alla luce. Il von Haller ha rappresentato queste visuali con molta rigidità (...) Nella madre primordiale, Eva, era già latente, tenuissimo, tutto il genere umano. Questi semi umani si sono sviluppati nel decorso della storia dal mondo. Vediamo il filosofo Leibniz (1646-1716) esprimere la stessa opinione: “Credere che le anime che debbono un giorno diventare anime umane sono già state presenti, in forma seminale, come quelle delle altre specie, e che esse hanno esistito nei nostri proavi fino ad Adamo, cioè all'inizio delle cose, sempre in forma di oggetti organizzati”. Ora, a questa idea dell'evoluzione, il Wolff nella sua “Theoria generationis” pubblicata nel 1759, aveva opposto un’altra idea, partendo dal presupposto che le membra che appaiono nel decorso della vita di un organismo, non esistevano prima in nessuna maniera, ma nascono come tante creazioni nuove. Il Wolff aveva mostrato che nell’uovo non si trova in nessun modo la forma dell'organismo evoluto, ma che il suo sviluppo ha una concatenazione di creazioni nuove. Questa teoria sola spiega come può nascere qualche cosa che non era presente ancora, che veramente “diventa”.
La concezione del von Haller nega il divenire, giacchè essa ammette che ciò che esisteva già, diventa visibile. Questo osservatore della natura all’idea del Wolff oppose la parola d’ordine: “Non vi è divenire” (Nulla est epigenesis). La parola d'ordine ha per decenni fatto sì che la concezione del Wolff rimanesse del tutto trascurata. Goethe attribuisce a tale teoria la resistenza incontrata dai suoi sforzi per spiegare gli esseri vivi. Egli ha tentato di capire le formazioni che si vedono nella natura organica mercè il divenire di essa, proprio nel significato di una autentica teoria dell'evoluzione secondo la quale ciò che appare in un essere vivo non è stato latente finora, ma nasce veramente solo nel momento in cui appare. Egli scrive nel 1817 che questo tentativo su cui riposava il suo scritto del 1790 sulla metamorfosi delle piante, abbia incontrato “una accoglienza fredda, quasi ostile. Questa riluttanza era del tutto naturale; la teoria dell'incapsulamento, il concetto della preformazione, dello sviluppo progressivo di ciò che esisteva fin dai tempi di Adamo, dominava in generale perfino i migliori cervelli”.
Anche nella concezione hegeliana del mondo possiamo trovare un resto della vecchia teoria. Il pensiero puro che appare nello spirito umano, doveva essere contenuto in tutti i fenomeni, prima ch’esso giungesse nell'uomo all'esistenza sensibile. Lo Hegel pone questo pensiero puro prima della natura e dello spirito individuale; esso deve essere nello stesso tempo rappresentazione di Dio, come egli era per la sua essenza eterna prima della “creazione” del mondo. L'evoluzione del mondo si presenta dunque come una evoluzione del pensiero puro”.
Tale è l’atteggiamento del Feuerbach di fronte a Hegel. La protesta di Feuerbach contro la concezione del mondo di Hegel riposa sul fatto ch’egli era disposto ad ammettere l'esistenza dello spirito prima della sua apparizione reale nell’uomo, come il Wolff lo era a concedere che le parti dell’organismo vivente si trovassero già nell’uovo. Come il Wolff vedeva negli organi dell’essere vivo creazioni nuove, il Feuerbach ne vedeva nello spirito umano individuale. Questo non è presente in nessuna maniera prima della sua apparizione sensibile. Esso nasce solo nel momento in cui appare nella realtà. Non avrebbe senso per il Feuerbach il parlare di uno spirito universale di un essere, da cui lo spirito particolare tragga l'origine. Non esiste l'essere razionale prima della sua apparizione positiva nel mondo, dove esso plasma la materia e il mondo sensibile in un modo tale che il suo riflesso apparisce infine nell’essere umano. Prima dell'apparizione dello spirito umano non vi sono che materie ed energie irrazionali, che si costituiscono in un sistema nervoso che si concentra nel cervello. In questo nasce come creatura nuova e perfetta, qualcosa che non esisteva ancora, l’anima umana, dotata di ragione. In una tale concezione del mondo, non vi è possibilità di fare derivare i fenomeni e gli oggetti da un’essenza primitiva e spirituale. Un essere spirituale è una creazione nuova che risulta dall’organizzazione del cervello. E quando l'uomo trasporta cose spirituali nel mondo esterno, egli si rappresenta arbitrariamente che una essenza simile a quella che ispira le sue proprie azioni, esiste al di fuori di lui e domina il mondo. L'uomo deve creare ogni essenza spirituale dalla propria fantasia; le cose e i fenomeni del mondo non danno nessuna occasione di ammettere una tale essenza. Non l'essenza spirituale e primordiale in cui gli oggetti giacciono racchiusi ha creato l'uomo nella propria sembianza, ma l'uomo secondo la propria essenza ha formato l'immagine fantastica di un tale essere primordiale. È il convincimento del Feuerbach: “La conoscenza che l'uomo ha di Dio è conoscenza ch’egli ha di se stesso, della propria essenza. Sola l'unità dell'essere e della coscienza è verità. Dove vi è coscienza di Dio, vi è anche l'essenza di Dio - dunque nell'uomo”.
L'uomo non si sentiva abbastanza forte per appoggiarsi completamente su di se stesso; perciò egli secondo la propria immagine si è creato un essere infinito ch’egli venera ed adora. La concezione hegeliana del mondo ha, è vero, allontanato tutte le altre qualità dell'essere primordiale, e non ha serbato per esso che la razionalità. Il Feuerbach toglie perfino questa; e così egli mette da parte l'essenza primordiale. Al posto della saggezza divina egli colloca recisamente la saggezza mondiale. Egli segna, come un momento critico e necessario nell'evoluzione della concezione del mondo, “la confessione e il riconoscimento che la coscienza di Dio non sia altra che la coscienza dell'umanità, che l'uomo non può pensare, presentire, rappresentare, sentire, credere, volere, amare e venerare in questo Assoluto, in quanto Divino, altro essere che l’essere umano”. Vi è una concezione della natura ed un'altra dello spirito umano, ma nessuna concezione v’è dell'essenza divina. Nulla è reale se non il positivo. “Il reale nella sua realtà o in quanto reale è il reale come oggetto dei sensi, il sensibile. Verità, realtà, sensibilità sono termini identici. Solo un essere sensibile, è un essere vero, reale. Solo attravero i sensi un oggetto ci è veramente dato, non attraverso il pensiero in sé stesso. L’oggetto dato dal pensiero o identico ad esso è solo pensiero”.
Questo non significa altro che questo: il pensiero si presenta nell'organismo umano come una creazione nuova e non è consentito raffigurarselo, prima della sua apparizione, come latente sotto qualsiasi forma nel mondo. Non è lecito voler spiegare ciò che si presenta a noi positivamente, facendolo derivare da qualche cosa che già esisteva. Vero e divino è solo positivo “ciò che è immediatamente certo, si esprime immediatamente e convince, ciò che trae immediatamente dietro a sé l'affermazione della esistenza – il decisivo, l'indubitabile, chiaro come il sole. Ma chiaro quanto il sole è solo il sensibile; dove comincia il regno del sensibile finiscono dubbi e conflitti. Il segreto della conoscenza immediata è la sensibilità”. La confessione di Feuerbach culmina in queste parole: “Fare della filosofia il retaggio dell'umanità, fu il mio primo conato. Ma chi una volta ha preso questa via, giunge necessariamente infine a fare dell'uomo il retaggio della filosofia”. “La nuova filosofia fa dell’uomo, includendo la natura come la sua base, l'oggetto unico, universale e supremo della filosofia - l'antropologia dunque congiunta alla filosofia diventa la scienza universale.”
Il Feuerbach esige che la ragione non venga collocata, come punto di partenza, a capo della concezione del mondo, secondo il sistema di Hegel, ma ch’essa, venga osservata come prodotto dell'evoluzione, come creazione nuova dell'organismo umano cui essa difatti si ricollega. Perciò egli respinge ogni separazione tra l'elemento spirituale e il corporale e materiale, perché lo spirituale non può essere che un prodotto dell'evoluzione dell'elemento corporale. “Quando lo psicologo dice: “Mi distinguo dal mio corpo - egli dice pressapoco ciò che dice il filosofo nella logica o nella metafisica dei costumi: “faccio astrazione dalla natura umana”. È ciò possibile? È possibile fare astrazione dalla propria essenza? Non fai l'astrazione perché sei uomo? Puoi pensare senza testa? I pensieri sono anime isolate. Va bene: ma l'anima isolata non è essa una immagine fedele dell'uomo corporale? Non si trasformano perfino i concetti metafisici più generali dell'essere e dell'essenza, come l'essere e l'essenza dell'uomo si trasformano? Che cosa significa dunque fare astrazione dall'uomo? Niente altro che facciamo astrazione dall’uomo in quanto egli è oggetto della mia coscienza e del mio pensiero, ma dall'uomo che giace dietro alla mia consapevolezza, cioè dalla mia natura cui “nolens, volens” la mia astrazione rimane collegata. Così come psicologo puoi nel tuo pensiero fare astrazione dal corpo tuo, ma rimani pure, nell'essenza tua, collegato strettamente ad esso, cioè tu ti pensi distinto da esso, ma non sei perciò veramente distinto... Non ha ragione il Lichtenberg quando egli afferma che non si dovrebbe dire “penso” ma “pensa in me”. Se dunque l'”io penso” si distingue dal corpo, ne segue forse che anche “pensa in me” separa dal corpo ciò che è involontario nel nostro pensiero, la radice e la base dell’“io penso”? Donde proviene dunque che non possiamo pensare ad ogni momento che i pensieri non stanno sempre sottomessi alla nostra volontà, che spesso in un lavoro intellettuale, malgrado gli sforzi più energici della volontà, non progrediamo finché una circostanza esterna, forse un cambiamento di tempo, non ridà elasticità ai nostri pensieri? Donde appare che anche l'attività del pensiero, è un'attività organica. Perché dobbiamo spesso portare nell’anima per anni pensieri finché essi divengano chiari e lucidi? Perché anche i pensieri sono sottoposti ad una evoluzione organica, che i concetti debbono anche essi maturare e svolgersi come i frutti nei campi e le creature nel seno materno!”
Il Feuerbach accenna a Giorgio Cristoforo Lichtenberg, il pensatore morto nel 1799, che può essere, per molte delle sue idee, annoverato tra i precursori della concezione del mondo, che si esprime negli spiriti del tipo di Feuerbach e le cui rappresentazioni sono state tanto feconde per il secolo decimonono, perché le imponenti costruzioni del pensiero di Fichte, Schelling, Hegel posero tutto in ombra e dominarono l'evoluzione spirituale, tanto che sprazzi d'idee aforistiche perfino così rilucenti come quelli del Lichtenberg, rimasero ignoti. Non abbiamo che da ricordare qualche detto di questo uomo eminente, per mostrare come il suo spirito rivivesse nella corrente aperta da Feuerbach.
“Dio creò l'uomo secondo l’immagine sua; questo significa probabilmente che l'uomo creò Dio secondo la sua”. “Il nostro mondo diventerà così raffinato che sarà così ridicolo credere in Dio come lo è oggi credere ai fantasmi”. “Il nostro concetto di Dio è qualcosa di diverso dall'inconcepibile personificato?” “La raffigurazione che ci facciamo dell'anima presenta molta affinità con quella nostra di una calamita nella terra. È solo una immagine. È un’invenzione innata nell’uomo pensare tutto sotto questa forma”. “Invece di dire che il mondo si rispecchia in noi, dovremmo piuttosto dire che la nostra ragione si rispecchia nel mondo. Non possiamo fare diversamente: siamo costretti a riconoscere nel cosmo un ordine e un governo saggio: questo risulta dalla disposizione del nostro pensiero. Non ne consegue necessariamente che qualche cosa, che noi dobbiamo per forza pensare, sia realmente, come la pensiamo... e per questo non si può provare l'esistenza di nessuna divinità. Dio non si lascia provare”. “Siamo consapevoli di certe raffigurazioni che non dipendono da noi; altre, almeno lo crediamo, dipendono da noi; dov'è il limite? Non conosciamo che l'esistenza delle nostre impressioni, raffigurazioni e pensieri. Dovremmo dire: “qualche cosa pensa”, come diciamo: “lampeggia”.
Se il Lichtenberg avesse avuto oltre a questi slanci di pensiero la capacità di fonderli in una concezione armoniosa del mondo, egli non sarebbe stato negletto come lo è stato. Per costruire un concetto del mondo ci vuole non solo la superiorità dello spirito ch’egli possedeva, ma anche il potere di foggiare idee connesse in modi molteplici e di dare a loro una forma plastica. Questa possibilità gli difettò. La sua superiorità si esprime in un giudizio notevole sui rapporti di Kant coi suoi contemporanei. “Credo che come i discepoli di Kant rimproverano sempre ai loro avversari che non li capiscono, molti anche credono che il signor Kant abbia ragione, giacché, essi lo capiscono. La sua raffigurazione filosofica è nuova e si stacca molto dalle solite visuali, e quando si riesce ad intuirla, si è molto disposti a tenerla per vera, giacché Kant ha tanti seguaci. Ma si dovrebbe pure riflettere che questa comprensione non è un motivo per tenere questo sistema vero. Credo che la maggioranza nella gioia d'intendere un sistema molto astratto e oscuro, abbia creduto con ciò ch’esso fosse dimostrato.”
Quanto Feuerbach dovesse sentirsi affine a Lichtenberg, risulta soprattutto quando si confronta da quale punto di vista i due pensatori consideravano i rapporti della loro concezione del mondo con la vita pratica. Le conferenze che il Feuerbach pronunciò nell'inverno del 1848 davanti ad un gruppo di studenti sull’essenza della religione, si concludevano con queste parole: “Mi auguro solo di non aver fallito al compito che ho tracciato in una delle prime lezioni, il compito cioè di fare degli amici di Dio degli amici degli uomini, di credenti, pensatori; di oranti, lavoratori; di candidati all'al-di-là, studiosi di questo mondo; di cristiani, che secondo la loro propria confessione, sono “metà animali, metà angeli”, uomini: uomini completi”.
Chi come Feuerbach fa riposare ogni concetto del mondo sul fondamento della conoscenza della natura e dell'uomo, deve anche nel regno della morale eliminare tutti i compiti, tutte le obbligazioni che nascono da un dominio diverso dalle disposizioni naturali degli uomini, o che hanno uno scopo diverso da quello che si riferisce tutto al mondo sensibile. “Il mio diritto è la tendenza alla felicità quale me la concede la legge; il mio dovere è l'istinto di felicità degli altri che mi costringe a riconoscerlo”. “Non guardando l'al di là imparerò ciò che debbo fare, bensì osservando questo mondo. Tutta la forza ch'io spendo ad assolvere qualsiasi dovere che si riferisce al mondo di là è sottratta alle mie capacità di questo mondo cui solo sono destinato”. “Concentrazione sul mondo presente” ecco ciò che richiede Feuerbach. Possiamo leggere parole simili negli scritti del Lichtenberg. Ma proprio queste sono mescolate con parti che mostrano quanto poco un pensatore che non ha la possibilità di escogitare armoniosamente le sue idee riesca a seguire una idea fino alle sue conseguenze più estreme. Il Lichtenberg richiede sì la concentrazione sul mondo presente, ma egli introduce ancora in questa essenza considerazioni che si riferiscono ad un al di là: “Credo, che molti uomini dimenticano nella loro vocazione per il cielo, quella della terra. Penso che l'uomo sarebbe più saggio, se egli lasciasse l'educazione celestiale dove sta. Se noi siamo stati messi da un essere saggio a questo posto, ciò che non è da dubitare, facciamo del nostro meglio in questa situazione e non ci lasciamo accecare da certe rivelazioni. Ciò che l'uomo deve sapere per essere felice egli lo sa, senz’altra rivelazione che quella posta dalla natura a sua disposizione”. Confronti, come quello che si può stabilire tra il Lichtenberg e il Feuerbach, sono istruttivi per la storia della evoluzione del concetto del mondo. Ci fanno scorgere il progresso degli spiriti, permettono di misurare quanto l'intervallo di tempo che li separa abbia accentuato questo processo. Feuerbach è passato attraverso la concezione hegeliana del mondo, e da essa ha attinto il vigore per plasmare da tutti i lati il suo sistema, opposto a quello di Hegel. Egli non è più turbato dal problema kantiano, abbiamo veramente il diritto di attribuire la realtà al mondo che percepiamo o esiste questo mondo soltanto nella nostra immaginazione? Chi afferma questo ultimo termine può collocare nel mondo reale che giace al di là delle rappresentazioni, tutte le energie possibili all'uomo. Egli può, accanto all’ordine naturale del mondo, ammettere un ordine soprannaturale, come fece Kant. Chi, nel senso di Feuerbach, dichiara che il sensibile è reale, deve eliminare ogni ordine soprannaturale. Per lui non c'è imperativo categorico, nato nell’al di là, dovunque sia; per lui vi sono solo doveri che risultano dagli impulsi e dagli scopi naturali dell'essere umano.
Per foggiare una concezione del mondo tanto aliena da quella di Hegel, come fece Feuerbach ci voleva una personalità tanto diversa dallo Hegel, quanto la sua. Lo Hegel si sentiva a suo agio nel movimento della vita attuale. Dominare l’attività immediata del mondo col suo spirito filosofico era per lui un compito bello. Quando egli fu liberato dalla sua attività d’insegnante a Heidelberg per recarsi in Prussia, egli fece intendere chiaramente nel suo discorso d’addio che la prospettiva di trovare un campo d'attività che non consistesse solo nell'insegnamento, ma gli consentisse anche un'attività pratica, lo seduceva. “Sarebbe stata per lui di grande importanza la prospettiva di una possibilità, nell'età più matura, di passare dalla funzione precaria di docente di filosofia in una università, ad un'altra attività e ad altro impiego”. Chi è in una tale disposizione di pensiero, deve vivere in pace con le forme della vita pratica che la vita del suo tempo ha assunto. Egli deve giudicare ragionevoli le idee che pervadono la sua epoca. Solo da questo sentimento egli può attingere l’entusiasmo con cui lavorare alla loro costruzione. Feuerbach non provava grande simpatia per la vita del suo tempo. Preferiva la calma di un luogo appartato all'agitazione della vita moderna di allora. Egli si esprime chiaramente in proposito: “Del resto io non mi riconcilierò mai con la vita della città. Giudico buono anzi mio dovere, recarmici ogni tanto per studio, secondo le impressioni che ho già esposte; ma io devo tornare alla solitudine campestre per studiare e riposarmi in seno alla natura. Il mio dovere più urgente è di preparare le mie conferenze, secondo il desiderio dei miei ascoltatori o di preparare per la stampa le carte di mio padre”.
Dalla sua solitudine, Feuerbach credeva di potere meglio giudicare ciò che non è naturale nella forma assunta dalla vita reale, ciò che l'illusione umana vi ha mescolato, la purificazione della vita dalle illusioni, questo egli riteneva fosse il suo dovere. Perciò egli doveva starsene lontano dalla vita tuffata in queste illusioni. Egli cercava la vita vera; e non poteva trovarla, nella forma ch’essa ha preso nella civiltà contemporanea. Quanto egli fosse sincero nella sua concentrazione su di questa vita, lo prova un giudizio suo sulla rivoluzione di marzo. Essa gli appariva sterile perché nelle idee su cui era basata sopravviveva ancora la vecchia fede nell'al di là. “La rivoluzione di marzo era ancora figlia, sebbene illegittima, della fede cristiana. I fautori della costituzione credevano che il Signore non avesse a che dire: il diritto sia! la libertà, sia! per creare il diritto e la libertà; e i repubblicani credevano che bastasse volere la repubblica per chiamarla alla vita: credevano dunque alla creazione ‘ex nihilo’ di una repubblica.” Gli uni trasportavano i miracoli cosmici cristiani; gli altri i miracoli sensibili cristiani, sul terreno della politica. Sola una personalità che pensa di portare in se stessa l'armonia del mondo di cui l'uomo ha bisogno, può anche nella profonda insoddisfazione in cui il Feuerbach si trovava, di fronte alla realtà, cantare l'inno alla realtà ch’egli ha cantato. Noi lo sentiamo in parole come queste: “Nella mancanza di una prospettiva dell'al di là, io posso in questo mondo, nella valle d'afflizioni che è la politica tedesca ed europea, mantenermi in vita e sanamente, solo facendo del presente l'oggetto della mia aristofanesca. Solo una tale personalità poteva cercare nell'uomo la forza che altri vanno ad attingere da una potenza esteriore.
La nascita del pensiero aveva influito sulla concezione greca del mondo, così che l'uomo non si sentiva più immedesimato nel cosmo, come l'antica raffigurazione immaginativa glielo concedeva. Era il primo stacco di un distacco abissale tra l'uomo e il mondo. Uno stadio ulteriore fu dato con lo sviluppo della nuova mentalità scientifica. Questa evoluzione separò completamente la natura e l'anima umana. Doveva nascere da una parte una immagine della natura in cui l'uomo, secondo la sua natura spirituale e psichica non si trova, e dall’altra parte una idea dell’anima umana che non aveva collegamento colla natura. Nella natura si trovava la necessità conforme alle leggi, ma nell'ambito di questa nessun posto per ciò che si trova nell'anima umana: tendenza alla libertà, senso di una vita radicata in un mondo spirituale e che non si esauriscono nell'esistenza sensibile. Spiriti come quello di Kant, trovarono uno sbocco nella separazione assoluta delle due sfere; trovavano nell’una la conoscenza della natura, nell'altra la fede. Goethe, Schiller, Fichte, Schelling, Hegel pensavano l'idea dell'anima consapevole di sé, così ch’essa sembrava a loro radicata in una natura spirituale più alta, che domina la natura e l'anima umana. Col Feuerbach appare uno spirito, che mercé l'immagine del mondo che la nuova raffigurazione scientifica può dare, si crede obbligato a negare all'anima umana ciò che è in contrasto con l'immagine della natura. Egli può fare questo solo perché egli elimina da quest'anima umana ciò che impedisce di riconoscere in essa un membro della natura. Fichte, Schelling, Hegel presero l'anima consapevole per ciò che essa è. Feuerbach fa di essa ciò di cui egli ha bisogno per il suo concetto del mondo. Egli è l'iniziatore di una raffigurazione che si sente dominata dall'immaginazione della natura. Essa non sa conciliare i due elementi dell'immagine del mondo, l'immagine della natura, e quella dell'uomo; perciò essa trascura del tutto l'immagine dell'anima. L’idea wolffiana delle nuove creazioni porta all'immagine della natura un contributo fecondo d’impulsi. Il Feuerbach utilizza questi impulsi per creare una conoscenza dello spirito che può solo sussistere in quanto non se ne occupa. Egli determina una corrente di pensiero che rimane impotente dinanzi ad una delle esigenze più forti della vita psichica moderna, dinanzi alla consapevolezza di sé. Nel concetto suddetto del mondo questo impulso si rivela in un modo tale che non solo esso viene ammesso come inconcepibile, ma che - perché esso appaia inconcepibile - la sua vera forma viene fraintesa ed esso è trattato come un fattore della natura, cioè che non appare vero ad un osservatore disinteressato.
“Dio fu il mio primo pensiero, la ragione il secondo, l'uomo il terzo ed ultimo”. Così Feuerbach descrive la via ch’egli aveva seguita da credente e discepolo dello Hegel, e da questo stadio al suo proprio pensiero. Avrebbe potuto dire le stesse parole il pensatore che l'anno 1834 scrisse uno dei libri più efficaci del secolo. “La vita di Gesù”. Era Davide Federico Strauss (1808/'74). Feuerbach prendeva le mosse da uno studio dell'anima umana e vi trovava la tendenza a proiettare nel mondo la propria essenza e a venerarla come essenza originale e divina. Egli cercava una spiegazione psicologica della nascita del concetto di Dio. Le visuali dello Strauss miravano allo stesso scopo, ma egli non seguiva come il Feuerbach la via dello psicologo bensì quella dello storico. Ed egli non poneva al centro delle sue riflessioni il concetto di Dio in generale, nel senso universale adottato da Feuerbach, bensì la nozione cristiana dell'uomo: Dio, Gesù. Egli voleva fare scorgere come l'umanità, nel decorso della storia, fosse giunta a questa raffigurazione. Che l'essenza divina primordiale si riveli nello spirito umano, era la fede della concezione hegeliana del mondo. Anche lo Strauss condivideva questo convincimento. Ma in un individuo umano, secondo la sua opinione, l'idea divina non può realizzarsi in tutta la sua realtà. L'individuo è sempre una espressione incompleta dello spirito divino. Ciò che manca ad un essere umano perch’esso sia perfetto, lo possiede un altro. Quando si considera tutto il genere umano, vi si trovano, ripartite fra individui innumerevoli, tutte le perfezioni che sono particolari alla divinità. Il genere umano nel suo complesso è il Dio incarnato, l’Uomo-Dio. Ecco, secondo l’opinione dello Strauss, il concetto di Gesù che si fa il pensatore. Da questo punto di vista, lo Strauss si accinge alla critica della nozione cristiana dell’uomo-Dio. Ciò che il pensiero distribuisce fra tutto il genere umano, il cristianesimo lo riassume in una personalità esistita effettivamente una volta nella storia. “All’idea di un uomo-Dio contraddicono le qualità e le mansioni attribuite dalla dottrina ecclesiastica a Gesù. Nell'idea della specie umana esse invece concorrono”. Con l’appoggio di indagini accurate, delle basi storiche dei Vangeli, lo Strauss cerca di dimostrare che le raffigurazioni del Vangelo sono i risultati della fantasia religiosa. Questa avrebbe presentito oscuramente il fatto che il genere umano sia l'uomo-Dio, ma non l’avrebbe espresso in concetti chiari, bensì in una forma poetica, in un mito. La storia del figlio di Dio diventa per lo Strauss un mito in cui le idee dell'umanità furono espresse poeticamente, molto prima di essere conosciute dai pensatori nelle forme del pensiero puro. Da questo punto di vista, si spiega tutto il miracolo della storia evangelica, senza ricorrere alla spiegazione volgare, spesso invocata prima, che vedeva nei miracoli illusioni volontarie ed ingenue, praticati dal fondatore della nuova religione per rendere la sua dottrina più impressionante o inventate dagli apostoli a questo scopo. I miracoli erano la veste poetica di verità reali. Nell’immagine del Salvatore morente e resuscitato, il mito raffigura l'umanità che dai suoi interessi finiti, dalla vita quotidiana, si innalza alla conoscenza della verità e della razionalità divina. Il finito muore per rinascere come infinito.
Nel mito degli antichi popoli si può vedere la sconfitta della raffigurazione immaginativa dei tempi primitivi da cui si sviluppa la vita concettuale. Un sentimento di questo fatto sopravvive nel secolo decimonono in una personalità come quella di Strauss. Egli vuole orientarsi nel processo e nel significato della vita concettuale: egli si addentra nel rapporto della concezione del mondo col pensiero mitico nella epoca storica. Egli vuole sapere come la raffigurazione plasmatrice dei miti può ancora operare nella concezione moderna del mondo. E nello stesso tempo egli vuole radicare la coscienza umana di sé in una essenza che giaccia fuori della personalità individuale, rappresentandosi l'umanità intera come una incarnazione dell’essenza divina. Con questo egli acquista per le singole anime una base della psiche del genere umano totale, che si esplica nel divenire storico.
Lo Strauss fa opera più radicale ancora nel suo libro pubblicato negli anni 1840/41: “La dottrina cristiana, nella sua evoluzione storica e nel conflitto colla scienza moderna”. Qui si tratta per lui, di ridurre i dogmi cristiani dalla loro forma poetica alle nozioni vere dei concetti su cui essi poggiano. Egli insiste sull’incompatibilità della coscienza moderna con quella che rimane fedele alle antiche rappresentazioni immaginative e mitiche della verità. “Lasci dunque il credente che lo scienziato segua il suo cammino e viceversa; lasciamo a loro la fede, che ci lascino dunque la filosofia e se i bigotti riescono ad escluderci dalle loro chiese, considereremo questo come un guadagno. Vi sono stati fino adesso abbastanza tentativi falsi di conciliazioni; solo la separazione degli estremi, può approdare a qualche cosa. Le visuali dello Strauss avevano suscitato un'immensa agitazione negli spiriti. Con amarezza si constatava che il concetto moderno del mondo non si contentava di colpire le raffigurazioni religiose in generale, ma ch’esso, con una ricerca storica fornita di tutti i mezzi scientifici, cercava di eliminare l'inconseguenza che secondo le parole dette una volta dal Lichtenberg, “aveva consistito nel sottoporre la natura umana al giogo di un libro”. “Non si può, egli continua, immaginare qualche cosa di più abominevole e questo solo esempio prova che misera creatura sia l'uomo in concreto, voglio dire rinchiuso in questo fiasco a due gambe fatto di terra, di acqua e di sale. Se fosse possibile che una volta la ragione si erigesse un trono di despota, l'uomo che volesse confutare, seriamente, in base all'autorità di un libro, il sistema di Copernico, dovrebbe essere impiccato. Che un libro si dica proviene da Dio, non è ancora certo che esso sia da Dio; che la nostra ragione derivi da Dio è certo, si può intendere la parola Dio come si vuole. La ragione dove regna, punisce, sia con le conseguenze naturali della colpa, sia con ammonimento, se l'ammonimento può essere chiamato punizione”. Lo Strauss fu destituito dalla sua carica di docente all'università di Tubinga, in seguito alla pubblicazione della ‘Vita di Gesù’ e quando egli fu nominato professore di teologia all'università di Zurigo, i contadini vennero con vanghe a protestare contro il dissolvitore dei miti ed a esigere il suo licenziamento.
Un altro pensatore andò molto più lontano di quanto si proponeva lo Strauss nella critica dell'antico concetto del mondo, dal punto di vista del nuovo.
Fu Bruno Bauer. Troviamo ancora presso di lui l'opinione patrocinata dal Feuerbach che l'essenza dell'uomo sia l'essenza sua più nobile e che ogni essenza più alta non sia che una illusione, che l'uomo crei secondo il proprio modello e collochi se stesso al di sopra di sé, ma questa teoria assume una forma ridicola. Bruno Bauer descrive il modo in cui l'io umano giunge a crearsi un duplicato di sé in espressioni dettate, non dal bisogno di una comprensione simpatica della religione, ma dalla gioia di distruggere. Egli dice: “l'io che abbraccia tutto ebbe paura di se stesso, esso non osò concepirsi come tutto e come forza più generale che esista, cioè esso rimase spirito religioso e diventò completamente estraneo a se stesso, ponendo di fronte a sé la sua forza generale, come estranea e lavorando in timore e tremore per la propria conservazione e la propria felicità”. Bruno Bauer è una personalità che si afferma criticando ogni dato, col suo pensiero sovvertitore. Egli dalla concezione hegeliana del mondo ha ricordato la convinzione che il pensiero abbia il compito di penetrare fino all'essenza delle cose. Ma egli non è, come Hegel, disposto a lasciare al suo pensiero produrre una risultante o una costruzione concettuale. Il suo pensiero non è produttivo, è critico. Un pensiero definito, una idea positiva, gli avrebbero dato il senso di una limitazione. Egli non vuole fissare la forza critica del pensiero partendo da un concetto, come da un punto di vista determinato, come ha fatto lo Hegel. “La critica è da una parte l'ultima azione di un determinato pensiero filosofico, che si deve con questo liberare da una determinazione positiva, che restringe ancora la sua generalità, e d’altra parte è anche il presupposto senza il quale la filosofia non può innalzarsi all'ultima generalità della coscienza di sé”. Ecco la professione di fede della critica della concezione del mondo adottata da Bruno Bauer. La critica non crede alle idee, ai concetti, ma solo al pensiero. “L'uomo è solo stato scoperto adesso” dice il Bauer con trionfo. L'uomo oramai non è più legato che dal suo pensiero. Non è umano il dedicarsi a qualche cosa di sovraumano: ma lo è il rielaborare tutto nel crogiuolo del pensiero. L'uomo non deve essere il riflesso di un altro essere, ma prima di tutto, l'”uomo”, ed egli può esserlo solo attraverso il suo pensiero. L'uomo che pensa è l'uomo vero. Nulla cosa esterna, né la religione, né il diritto, né lo Stato, né la legge possono fare dell’essere umano un uomo, solo il suo pensiero. Nel Bauer appare l'impotenza del pensiero che vorrebbe raggiungere la consapevolezza di sé ma non vi riesce.
Ciò che il Feuerbach ha riconosciuto come l’essenza più alta dell'uomo, ciò che Bruno Bauer affermava essere stato scoperto dalla critica, come concetto del mondo, l'uomo considerato senza pregiudizi e senza presupposti, è il compito che si propone Max Stirner, nel suo libro apparso nel 1845 “L’Unico e la sua proprietà”. Lo Stirner esprime questo giudizio: “Con l'energia della disperazione il Feuerbach afferra il contenuto complessivo del cristianesimo, non per rigettarlo bensì per afferrarlo, per staccare dal cielo con uno sforzo supremo questa religione lungamente desiderata, rimasta sempre lontana e per tenerla sempre vicino a sé. Non è questa la stretta dell'ultima disperazione, una stretta per la vita e la morte e non è nello stesso tempo la nostalgia e il desiderio cristiano dell'al di là? L’eroe non vuole penetrare nell'al di là, ma trarre a sé l'al di là e costringerlo a diventare questo mondo”. E da questo momento non grida il mondo intero con più o meno consapevolezza che “si tratta del mondo presente, che il cielo deve venire sulla terra ed essere vissuto qui?” Alla teoria del Feurbach lo Stirner oppone una contraddizione violenta: “L’essenza più eccelsa è in ogni caso l'essenza dell'uomo, ma perché è la sua essenza, non l'uomo stesso, rimane per noi indifferente che noi vediamo questa essenza fuori dell'uomo in quanto Dio o che lo troviamo nell'uomo e la chiamiamo “essenza dell'uomo” o “essere umano”. “Non sono né Dio né l'essere umano né l'essenza più alta, né la mia essenza, e in fondo non importa che noi pensiamo l’essenza fuori di noi o in noi. In realtà noi pensiamo sempre l'essenza più alta in un doppio al di là, sia interno, sia esterno nello stesso tempo, giacché lo spirito di Cristo è secondo il nostro concetto cristiano “spirito nostro” e “vive in noi”: Esso vive nel cielo e in noi. Noi povere creature siamo la sua dimora e quando il Feuarbach distrugge la dimora celestiale, ed obbliga lo spirito a venire in noi con tutta la sua suppellettile, noi, la sua dimora terrena, siamo anche molto in disagio”.
Per quanto il singolo io umano supponga ancora una forza qualsiasi da cui esso dipende, esso vede se stesso non dal proprio punto ai vista, ma da quello di questa potenza estranea. Egli non possiede se stesso, è posseduto da questa forza. L'uomo religioso dice: “Vi è una essenza originale e divina di cui l'uomo è il riflesso”. Egli è posseduto dall'archetipo divino. Il seguace dello Hegel dice: vi è una essenza umana in ogni individuo, è un riflesso particolare di questa essenza. Ogni essere umano singolo è dunque posseduto dall'”essenza dell’umanità”. Ma in realtà, esiste solo l'uomo individuo, non il concetto generico dell’umanità, che il Feuerbach sostituisce all'essenza divina. Quando l'essere umano mette al di sopra di se stesso il “genere umano”, egli si abbandona di certo ad una illusione, come quando egli si sente dipendente da un Dio personale. Per il Feuerbach, le leggi che il Cristo vede istituite da Dio e ritiene perciò, normative, sono leggi che permangono perché corrispondono all'idea generale dell'umanità. L'uomo si giudica moralmente, sì da chiedersi: le mie azioni individuali corrispondono a ciò che conviene alla essenza generale dell’umanità? Il Feuerbach dice: se l'essenza dell'uomo è la sua essenza più alta nella pratica, il primo e il più alto comando, sarà l'amore dell’uomo per l'uomo.
“Homo homini deus est. L’etica è in sé e per sé una potenza divina”. I rapporti morali sono in sé veri rapporti religiosi. La vita è nei suoi rapporti essenziali e sostanziali di natura divina. Tutto ciò che è retto, vero, buono ha in se stesso il suo motivo di santità, nelle sue proprietà. L'amicizia è e deve essere sacra. La proprietà è sacra, il matrimonio è sacro, il bene di ogni essere umano è sacro, ma sacro in sé e per se stesso. Esistono dunque energie generali ed umane; l’etica è tale. Essa è sacra in sé e per se stessa; l'individuo deve ubbidirle. L'individuo non deve volere ciò ch’egli vuole da se stesso, ma ciò che è nel senso dell'etica sacra. Egli è posseduto dall'etica. Lo Stirner caratterizza nel modo seguente questa concezione: “Invece del Dio di tutti, cioè “l’UOMO” ed è per noi l’ideale più alto essere uomini. Giacché nessuno può essere mai pienamente ciò che implica la parola “essere umano”, l'essere umano rimane per l’individuo un al di là eccelso, un essere supremo, ancora non raggiunto, un Dio”. Una tale sublime essenza è anche il pensiero, di cui la concezione critica del mondo ha fatto un Dio. Stirner non si lascia fermare da esso. “Il critico teme di diventare dogmatico o di stabilire dogmi. Per forza, ché diventerebbe altrimenti l’antitesi di un critico, un dogmatico; egli invece di essere buono, in quanto critico, diventerebbe cattivo etc.” “Via coi dogmi” ecco il suo dogma. Pure il critico rimane sullo stesso terreno del dogmatico, sul terreno del pensiero, ma poi egli ne diverge nel rinunciare e ritenere il pensiero che gli serva di principio, nel processo di escogitazione; non gli lascia dunque acquistare stabilità. Egli fa ora, il processo del pensiero contro la credibilità, egli fa valere il progresso del pensiero, contro il pensiero statico. Nessun pensiero si salva dalla sua critica, giacché essa è il pensiero o lo spirito che pensa. “Non sono un avversario della critica, cioè non sono un dogmatico, e non mi sento leso dal dente del critico quando egli lacera un dogmatico. Se fossi un dogmatico, io stabilirei un dogma, cioè un pensiero, una idea, un principio e li porterei alla perfezione, come un sistematico, facendone la base di un sistema, cioè di un edificio concettuale. Se invece fossi un critico, nemico della dogmatica, io battaglierei contro il pensiero schiavo, difenderei il pensiero contro ciò che è pensato. Ma non sono il difensore né di un concetto né del pensiero”. Ogni pensiero nasce dall’io individuale, anche se fosse il concetto della propria essenzialità. E quando l'uomo crede di riconoscere il proprio io, vuole descriverlo secondo la sua essenzialità, egli si rende dipendente da questa essenzialità. Posso pensare ciò che voglio: appena ricorro a certi concetti, appena definisco, divento schiavo dei dati del concetto, della definizione. Lo Hegel faceva dell'io la manifestazione della ragione, lo rendeva dipendente da essa. Ma tutte queste dipendenze non potevano avere valore di fronte all'io poiché esse tutte derivano dall'io. Esse riposano dunque su di un'illusione dell'io. In realtà esso non è dipendente. Tutto ciò da cui esso deve dipendere, esso stesso deve crearlo. Esso deve prendere qualche cosa in se stesso, per metterlo al di sopra di se stesso come un fantasma. “Uomo, il tuo cervello è spiritato, tu sei matto. Tu sogni cose grandi e ti raffiguri un mondo intero di Dei che esistono per te, un regno degli spiriti cui sei chiamato, un ideale che ti attrae. Hai insomma una fissazione!” “In realtà, nessun pensiero può avvicinarsi a ciò che vive in me. Il mio pensiero può giungere a tutto, solo di fronte al mio io debbo fermarmi. Non posso pensarlo, ma sentirlo soltanto. Non sono volontà, non sono idea, come non sono il riflesso di una divinità. Tutte le altre cose le concepisco mercé il pensiero. L’io lo vivo. Non ho bisogno di definirmi, di descrivermi di più, mi sento vivo in ogni momento. Ho bisogno di descrivere solo ciò che non vivo immediatamente, ciò che è fuori di me. Mi appare un controsenso volermi concepire come pensiero, come idea, quando io mi posseggo come oggetto. Se ho di fronte a me una pietra, cerco di spiegarmi col pensiero che cosa sia questa pietra. Ciò che sono, non ho bisogno di spiegarmelo, lo vivo già.” Lo Stirner replica ad un attacco diretto contro il suo libro: “L’individuo è una parola, e per una parola si dovrebbe poter pensare qualche cosa, una parola deve avere un contenuto concettuale. Ma l'individuo è una parola senza nozione, essa non ha contenuto concettuale. Che cosa può dunque essere il suo contenuto, se non è il pensiero? Un oggetto che non può presentarsi due volte, che non può essere espresso, giacché se potesse veramente e completamente essere espresso, esso si presenterebbe per la seconda volta, sarebbe presente nella espressione. Poiché il contenuto dell’individuo non è contenuto concettuale, perciò esso è impensabile e indicibile, ma giacché è indicibile, egli è questa frase intera, e oppure nessuna frase. Solo quando non si dice nulla di te e tu sei solo nominato, sei tu riconosciuto in quanto "tu". Appena si dice di te qualche cosa, sei conosciuto come questa cosa (uomo, spirito, cristiano e così via). Il singolo non dice altro, perché esso è un mero nome, esso dice solo che tu sei tu e nient'altro, che sei un "tu" unico e tu stesso. Perciò sei senza predicati e nello stesso tempo senza destinazione, senza vocazione, senza legge”.
Già nel 1842 in uno studio sulla “Rheinische Zeitung” sul principio irreale della nostra educazione o sull'umanismo ed il realismo, lo Stirner aveva espresso l'idea che il pensiero, il sapere non può penetrare fino al nucleo della personalità. Egli considera dunque come un principio d'educazione erroneo, che in un modo unilaterale il sapere sia messo al centro dell'educazione, al posto di questo nucleo personale. “Un sapere che non ci purifica e si concentra per trascinare poi la volontà che solo mi aggrava come un avere ed una possessione, invece di essere parte di me stesso, così che l'io mobile e libero, non ingannato da un avere che trascina dietro di sé, possa percorrere il mondo, con un senso di freschezza, un sapere quindi, che non diviene personale, è una misera preparazione per la vita. Se è la tendenza dell'epoca nostra, dopo di avere conquistato la libertà di pensiero di portarla alla perfezione includendovi la libertà della volontà, per realizzare con questa il principio di una nuova epoca, lo scopo ultimo dell'educazione non può più essere il sapere, ma la volontà nata dal sapere e l’espressione parlante di ciò che essa deve raggiungere è “L’uomo personale e libero”. Come in certe altre sfere, nella sfera pedagogica la libertà non riesce ad affermarsi; la forza dell'opposizione non può esprimersi; si esige la sottomissione. Una istruzione formale e materiale viene solo ricercata, e solo scienziati escono dai serragli degli umanisti, solo “cittadini utili” escono da quelli dei realisti, ed entrambi le categorie non sono che esseri sottomessi. Il sapere deve morire per risuscitare come volontà, e crearsi quotidianamente come nuova persona. ”Nella persona del singolo può solo giacere la fonte di ciò ch’egli fa. I doveri morali non possono essere comandi che vengono imposti all’uomo da qualsiasi parte, ma scopi che egli propone a se stesso. È un'illusione quando l’uomo crede di fare qualche cosa per seguire il comando di una etica santa e generale. Egli lo fa perché la vita del suo io lo spinge a farlo. Non amo il mio prossimo, perché ubbidisco a un comando sacro dell'amore del prossimo. Devo, voglio, amarlo. Gli uomini hanno eretto in leggi al di sopra di loro, ciò che essi hanno voluto. In questo punto è facilissimo fraintendere lo Stirner. Egli non nega l'azione morale. Egli nega l’imperativo morale. Il modo in cui l'uomo agisce, quando egli capisce realmente se stesso, crea già un ordine morale del mondo. Precetti morali sono per Stirner un fantasma, una fissazione. Essi individuano qualche cosa che l’uomo raggiunge da sé, quando egli si abbandona tutto alla sua natura. I pensatori astratti faranno questa obbiezione: non vi sono delinquenti? non possono questi agire secondo l'impulso della loro natura? Questi pensatori astratti prevedono il caos se i precetti morali non sono più santi per gli uomini. Lo Stirner poteva ad essi rispondere: “non vi sono anche malattie nella natura? E quelle non sono causate da leggi eterne e ferree come la salute? Ma non si può distinguere l'ammalato da chi sta bene? Mai un uomo di senno terrà un ammalato per sano, perché la malattia e la salute sono causate da leggi naturali”.
Né lo Stirner ritiene l’immoralità per moralità, perché entrambi possono manifestarsi quando l'individuo è lasciato a se stesso. Ciò che distingue lo Stirner dai pensatori astratti, è il suo convincimento che nella vita umana, se gli individui sono abbandonati a se stessi, la moralità sarà prevalente, come nella natura prevale la salute. Egli crede alla nobiltà morale della natura umana, allo sviluppo libero dell'individuo; i pensatori astratti non gli sembrano credere a questa nobiltà; perciò egli crede ch’essi diminuiscono la natura dell'individuo facendola schiava di doveri generali, mediatori della condotta umana. Debbono avere molta malvagità e molta perversità nell'anima, questi “uomini morali”, pensa lo Stirner, per richiedere tante prescrizioni morali; essi debbono essere affatto privi di amore, per volere che l'amore, che dovrebbe nascere in loro da un impulso libero, sia a loro imposto mercé un comando. Se venti anni fa, in un libro serio, si poteva dire con rimprovero che il libro dello Stirner "L'unico" annientò lo spirito e l'umanità, il diritto e lo stato, la verità e la virtù come tanti idoli della servitù del pensiero (Treitschke), questo ci prova quanto facilmente poteva essere frainteso Stirner, per le sue dichiarazioni radicali, sebbene l'individuo umano stesse sempre dinanzi agli occhi suoi come qualche cosa di nobile, di eccelso, di unico e di libero che nemmeno il volo alto del pensiero poteva raggiungere. Durante la seconda parte del sec. XIX, Max Stirner fu presso a poco dimenticato. Siamo debitori agli sforzi di John Mackay, se oggi abbiamo un'immagine della sua vita e del suo carattere. Nel suo libro “Max Stirner, la sua vita e la sua opera” (Berlino, 1898), il Mackay ha elaborato tutto il materiale accumulato in ricerche di molti anni per caratterizzare il pensatore “più ardito e più conseguente”, secondo il suo giudizio.
Lo Stirner, come altri pensatori moderni, sta di fronte al fatto dell’io consapevole, da afferrare”. Altri cercano mezzi per concepire questo io. Ma il concetto incontra difficoltà perché fra l'immagine della natura e quella della vita dello spirito, un abisso si è aperto. Lo Stirner non si preoccupa di questo. Egli si pone di fronte al fatto dell'io consapevole ed adopera tutto quanto egli può esprimere, a mettere in luce questo fatto. Egli vuole parlare dell'io in un modo tale che ognuno consideri l’io a sé e che nessuno si sottragga a questo esame dicendo l’io è questo o quello. Lo Stirner non vuole accennare ad una idea, ad un concetto dell'Io, ma all'io stesso vivo, che trova in sé la personalità.
Il sistema dello Stirner, come al polo opposto i sistemi di Goethe, Schiller, Fichte, Schelling, Hegel è una apparizione che doveva, con una certa necessità, sorgere nell'evoluzione moderna del concetto del mondo. Il fatto dell'io consapevole si presenta allo spirito suo con cruda vividezza. Ogni creazione concettuale gli appariva nella luce in cui poteva apparire ad un pensatore, che vuole afferrare il mondo con soli concetti, il mondo mitico immaginativo. Di fronte a questo fatto spariva per lui ogni altro contenuto del mondo, in quanto questo ci mostra un rapporto con l'io consapevole. Egli isolava completamente l'io cosciente.
Che vi fossero difficoltà nel porre l’io in questo modo, lo Stirner non lo avverte nemmeno. I decenni seguenti non poterono entrare in rapporto con questa posizione isolata dell’io. Poiché questi decenni sono prima di tutto preoccupati di scoprire l'immagine della natura, sotto l'influenza della mentalità scientifica. Dopo che lo Stirner ebbe presentato un lato della coscienza moderna, il fatto dell'io consapevole, l'epoca rimosse lo sguardo da questo io e lo fissò laddove “l'io” non si trova, sull'immagine della natura.
La prima metà del secolo decimonono ha attinto le sue concezioni del mondo dall'idealismo. Se un ponte viene gettato là alle scienze naturali, come presso Schelling, Lorenzo Oken (1779-1851), Enrico Steffens (1773-1845), questo avviene dal punto di vista della concezione idealistica del mondo e nell’interesse di questa concezione. Il tempo è così poco preparato a rendere fecondi pensieri scientifici in vista di una concezione del mondo, che le visuali geniali di Giovanni Lamarck intorno all'evoluzione dagli organismi più semplici ai più perfetti, che apparvero nel 1809, rimasero ignorate e che quando Geoffroy de St. Hilaire, nel 1830, in opposizione al Cuvier, patrocinò l'idea di una parentela generale e naturale di tutte le forme organiche ci volle il genio di Goethe per intuire la portata di questa idea. I numerosi risultati della scienza naturale che anche la prima metà del secolo ci ha portati condussero nell’evoluzione della concezione del mondo a nuovi enigmi dal mondo, soprattutto quando Carlo Darwin, nel 1859, aprì alla concezione della natura nuovi orizzonti per quanto riguarda la conoscenza del mondo dei viventi.
Rudolf Steiner (1914)
 

48 - Scienze naturali e vita dello spirito (Rudolf Steiner)

Il pensiero scientifico ha avuto una profonda influenza sui concetti moderni. Il toccare le aspirazioni dello spirito, la "vita dell’anima" senza rendersi conto dei concetti e risultati della scienza, diventa cosa sempre più impossibile.
Vero è che ci sono ancora molti i quali soddisfano a queste aspirazioni impedendo alle correnti scientifiche di perturbare la loro sfera di idee; coloro però che sentono il palpito dell'ora presente non possono essere di questo numero.
I concetti scientifici accaparrano sempre più le menti e i cuori, benché meno docili e spesso incerti e scoraggiati, seguono anch’essi. Quel che più inquieta non è il numero delle menti conquistate, ma il veder che il pensiero scientifico moderno racchiude in sé una forza che fa dire all'osservatore: l'avvenire è suo.
In un'epoca nella quale le diverse classi sociali propendono sempre più verso questo modo di pensare, sentendosene attratte come da una forza magica, non è più permesso negare e dileggiare la scienza materialista. E sebbene alcuni, mantenendosi in perfetta riservatezza intellettuale, dichiarino che il tempo della piatta dottrina di forza e materia è passato da lungo tempo, ciò non riesce a mutare menomamente la cosa. Bisognerebbe piuttosto ascoltare coloro che dichiarano apertamente come appunto sulle concezioni scientifiche abbia ad essere fondata una nuova religione. È ad essi che si rivolge l'attenzione del momento, e vi è motivo di credere ch’essi l'accaparreranno sempre più. Anche colui che conosce le profonde aspirazioni dell'umanità non può fare a meno d'ascoltarle, nonostante le riconosca superficiali e meschine.
Ma c’è un'altra classe di menti che ci sollecita ancora; sono quelli che non sono ancora riusciti a metter d'accordo il cuore e il cervello; non sono capaci di liberare il ragionamento dai concetti delle scienze naturali; il peso delle prove li opprime; ma questi concetti non soddisfano le aspirazioni religiose dell'anima loro; la prospettiva che queste offrono li scoraggia. L'anima umana atta ad innalzarsi sino alle cime della Bellezza, della Verità, e della Bontà dovrà poi, in ogni singolo caso, dileguarsi nel nulla come una bolla di schiuma?
È un sentimento che pesa su molti come un incubo; e anche i concetti scientifici li opprimono. Tali persone chiudono gli occhi fin che possono su questo contrasto che sorge nell'anima loro, anzi cercano di consolarsene dicendo che l'anima umana non riuscirà mai a scrutare certi misteri. Esse pensano scientificamente fin dove giunge l'esperienza dei sensi e la logica del ragionamento, ma conservano i sentimenti religiosi che sono stati loro inculcati mantenendosi su queste cose in un'oscura nebulosità di raziocinio.
Non c'è dubbio, il pensiero scientifico è la forza più potente della vita intellettuale contemporanea, e non si può non occuparsene per quanto il modo con cui cerca di soddisfare le aspirazioni dello spirito sia superficiale e scoraggiante.
Ben triste davvero se ciò bastasse! Che sconforto sarebbe se si dovesse annuire a chi dice: “Il pensiero è una forma della forza; noi camminiamo per via della medesima forza colla quale pensiamo”.
“L'uomo è un organismo che trasmuta le diverse forme della forza in forza di pensiero, un organismo che manteniamo in azione per mezzo del così detto ‘nutrimento’ col quale produciamo ciò che chiamiamo ‘il pensiero’”. Oh il meraviglioso processo chimico che cambia una certa quantità di cibo nella divina tragedia di Amleto!” Questo si legge in un opuscolo di Roberto G. Ingersoll intitolato “Moderno crepuscolo degli dei”. Che un gruppo di pensatori approvi questo credo dettato da alcuni, poco importa; il grave è che molti si credono forzati a pensare così per la sacrosanta autorità della scienza.
Tale stato di cose sarebbe veramente sconfortante se la scienza stessa ci forzasse ad accettare quel credo proclamato dai suoi profeti più recenti. (…) Ma le esigenze delle scienze naturali sono proprio quelle di cui ci parlano i loro rappresentanti? Il loro contegno dimostra appunto il contrario; nel loro campo essi non si comportano come molti dicono e come richiedono dagli altri. Darwin e Haeckel, avrebbero potuto forse fare quelle grandi scoperte biologiche, se invece di osservare la vita e la struttura degli esseri viventi, si fossero rinchiusi in un laboratorio a far esperimenti chimici su un pezzo di tessuto preso dall'organismo di un animale?
Lyell avrebbe forse potuto descrivere l'evoluzione della crosta terrestre se, invece di far delle ricerche sugli strati della terra e ciò che contengono si fosse messo a esaminare le qualità chimiche d'innumerevoli sassi?
Si imitino dunque questi scienziati che si presentano come figure monumentali nell'evoluzione della scienza moderna. Nelle regioni superiori della vita intellettuale succederà allora quel che succede nel campo della scienza naturale. Non si pretenderà più d'aver compreso l'essenza della “divina” tragedia d'Amleto, dicendo che un meraviglioso processo chimico ha trasformato in tragedia una certa quantità di cibo. Non lo si crederà più di quanto uno scienziato potrebbe credere d'aver veramente compreso la parte che ha il calore nella evoluzione della terra, osservando nella ritorta l'effetto di questo sullo zolfo. E non dirà nemmeno di aver compreso la struttura del cervello dopo aver esaminato l'effetto di un acido su una parte della testa ma seguendo nei secoli il corso dell'evoluzione, vedrà come dagli organi di animali inferiori questo cervello si sia formato.
Il fatto è incontestabile: colui che prenda a esaminare la natura dello spirito, non può che imparare dalla scienza naturale e fare precisamente come fa questa senza farsi dettar leggi da certi suoi rappresentanti; e si segue questo metodo osservando senza pregiudizi il processo d'evoluzione dello spirito umano come lo scienziato osserva il mondo esteriore.
Proseguendo così, si giunge a un metodo d'osservazione che si distingue da quello puramente scientifico, come la geologia, si eleva al di sopra della semplice fisica e la biologia al disopra della chimica. Si raggiungono così metodi superiori che non sono quelli seguiti dalla scienza naturale, ma che ne hanno il carattere.
È soltanto con tali metodi che si riesce a penetrare veramente un'evoluzione spirituale come quella del cristianesimo o di altre forme religiose. Chi li applica incontrerà l'opposizione di chi crede pensare scientificamente; ma se ne consolerà sentendosi in armonia colla scienza universale. Un tale scrutatore della vita dello spirito dovrà superare anche l'indagine storica dei documenti. È obbligato a farlo pel senso della genesi delle cose datogli dalla storia naturale. La descrizione delle ritorte, dei vasi, delle pinzette che hanno servito alla scoperta di una legge chimica, non è di importanza per l'esposizione di detta legge; né lo stabilire le fonti storiche del cristianesimo da cui attinse l'evangelista Luca o quelle da cui è stata combinata la rivelazione di S. Giovanni ha più valore. La “storia” non può essere, in questo caso, che un'introduzione alle vere ricerche.
Lo studio delle origini storiche dei documenti non dilucida le idee contenute nei libri di Mosè, né le tradizioni dei miti greci. I concetti di cui ivi si tratta non hanno trovato in esse che una espressione esteriore.
Lo scienziato che voglia scrutare l'essere umano, non va a cercare come si sia formata la parola “uomo” nell'evoluzione della lingua. Si attiene alla cosa, non alla parola che l'esprime. Così nella vita spirituale dovremo attenerci allo spirito e non ai documenti esteriori.
Rudolf Steiner (1908)

49 - Premesse ad una “Conoscenza soprasensibile del mondo e dell’uomo” (Rudolf Steiner)

In questo saggio si vuole dare una descrizione di alcune parti del mondo soprasensibile. Chi voglia ammettere soltanto quello sensibile, riterrà tale descrizione un vacuo prodotto della fantasia. Ma chi voglia cercar le vie che conducono fuori dal mondo dei sensi, arriverà presto a comprendere che la vita umana acquista valore e significato soltanto se si penetri con lo sguardo in un altro mondo. Questa penetrazione non distoglie l'uomo, come molti temono, dalla vita “reale”. Poiché solo per tale via egli impara a star saldo e sicuro nella vita. Impara a conoscerne le cause, mentre, se le ignora, muove a tastoni, come un cieco, attraverso gli effetti. Solo dalla conoscenza del mondo soprasensibile la “realtà” sensibile acquista significato. Perciò questa conoscenza accresce, non diminuisce, la nostra capacità di vita. Può diventare un uomo realmente “pratico” soltanto chi comprenda la vita.
L'autore del presente saggio non descrive nulla di cui non possa testimoniare per esperienza propria, per quella specie di esperienza che può esser fatta in questo campo. Perciò egli esporrà unicamente cose che, in questo senso, ha sperimentate lui stesso.
Il modo come generalmente si usa leggere nei nostri tempi, non vale per questo libro. In un certo senso, ogni pagina, spesso anche pochi periodi, dovranno essere conquistati con sforzo. A questo si è teso coscientemente. Poiché solo così il libro può diventare per il lettore quel che ha da essere per lui. Chi si limiti a scorrerlo, non lo avrà affatto letto. Le verità in esso contenute devono venir sperimentate. La scienza dello spirito ha un'efficacia solo in questo senso.
Lo scritto non può essere giudicato secondo i criteri della scienza ordinaria, se il punto di vista per un tale giudizio non si desume dal libro stesso. Se però il critico adotta questo punto di vista, vedrà che questa esposizione non è mai in contrasto con i veri metodi scientifici. L'autore sa di non aver voluto, nemmeno con una sola parola, entrare in conflitto con la sua coscienziosità scientifica.
Chi voglia cercare anche per altra via le verità qui esposte, le troverà nella mia “Filosofia della libertà”. Per strade diverse i due libri tendono al medesimo fine. Alla comprensione dell’uno, l'altro non è necessario benché, naturalmente, possa riuscire utile.
Chi cerchi in questo libro le “verità ultime”, lo metterà forse da parte, insoddisfatto. Del complessivo dominio della scienza dello spirito, l’autore si è proposto di esporre, anzitutto, le verità fondamentali.
È certo insito nella natura dell'uomo chiedere subito risposta alle domande sul principio e sulla fine del mondo, sullo scopo dell'esistenza e sull'essenza di Dio. Ma chi non voglia dar parole e concetti per l'intelletto bensì vere conoscenze per la vita, sa che in un libro che contenga i primi elementi della conoscenza spirituale non gli è lecito dir cose che appartengono ai gradini superiori della saggezza. Solo dopo aver compreso questi primi elementi si è in grado di vedere come vadano poste le domande di ordine superiore. (…)
Chi ai giorni nostri pubblica un'esposizione di fatti soprasensibili, dovrebbe aver chiare due cose. Anzitutto, che la nostra epoca ha bisogno di coltivare conoscenze soprasensibili; secondariamente, che oggi la vita spirituale è piena di rappresentazioni e di sentimenti che possono far apparire a molti una simile descrizione addirittura come fantasticheria sregolata e sogno. La nostra epoca ha bisogno di conoscenze soprasensibili, poiché tutto quanto l'uomo apprende nel modo ordinario intorno al mondo e alla vita suscita in lui una quantità di domande a cui possono dar risposta solo le verità soprasensibili. Non c'è però da illudersi: quel che, nell’ambito delle attuali correnti culturali, può essere appreso intorno ai fondamenti dell'esistenza, non è, per l'anima che senta profondamente, una risposta, ma rappresenta anzi una serie di domande sui grandi enigmi del mondo e della vita. Per un certo tempo, qualcuno può aver l'impressione di possedere una soluzione degli enigmi della vita nei “risultati di fatti rigorosamente scientifici” e nelle deduzioni di qualcuno dei pensatori moderni. Se però l'anima discende fino a quelle profondità a cui deve arrivare, se comprende davvero se stessa, quel che da principio le sarà sembrato una soluzione, le apparirà soltanto come sprone alla vera domanda. Ed una risposta a tale domanda non dev'essere soltanto diretta ad appagare una curiosità umana, ma da essa dipende la calma interiore e l'armonia della vita dell'anima. La conquista di una tale risposta, non soddisfa soltanto la sete di sapere, ma rende l'uomo più valido al suo lavoro e lo porta all'altezza dei compiti della vita, mentre la mancanza di una soluzione di quel problemi lo paralizza nell’anima e, in ultimo, anche nel corpo. La conoscenza soprasensibile non è solo qualcosa per i nostri bisogni teoretici, ma lo è pure per la vera prassi della vita. Appunto per il carattere della vita spirituale moderna, la conoscenza spirituale è un campo conoscitivo indispensabile alla nostra epoca.
D’altra parte, è un fatto, che oggi molti respingono con la massima energia quello di cui più hanno bisogno. Il potere di molte opinioni fondato su “sicure esperienze scientifiche” è per taluni così grande ch’essi non possono se non considerare come pazzia il contenuto di un saggio come questo. Chi espone conoscenze soprasensibili può mettersi di fronte a queste cose senz'alcuna illusione.
Si sarà certo facilmente tentati di esigere da lui prove irrefragabili. Ma non si riflette che con tale richiesta, si cade in un errore. Poiché, certo senza rendersene conto, si esigono non le prove inerenti alle cose, ma quelle che si vogliono e si possono riconoscere. L'autore di questo libro sa ch’esso non racchiude nulla d'inammissibile per chi stia sul terreno della moderna scienza naturale. Sa pure che si può consentire con tutte le esigenze di questa scienza e appunto perciò trovar ben fondata la rappresentazione del mondo soprasensibile, quale è esposta qui. Anzi, proprio un modo di pensare strettamente scientifico dovrebbe sentirsi a suo agio in questa rappresentazione. E chi pensa così, avrà di fronte a certe discussioni un sentimento che può essere caratterizzato da queste parole profondamente vere di Goethe: “Una dottrina falsa non si può confutare perché poggia sul convincimento che il falso sia vero”. Le discussioni sono inutili di fronte a chi voglia ammettere solo quelle prove che sono conformi al suo proprio modo di pensare. Chi conosca la vera natura di ciò che è “dimostrare” si rende chiaramente conto, che l’anima umana trova la verità per altre vie che non quelle della discussione.
Quando, nell'autunno dell'anno 1813, Johann Gottlieb Fichte espose la sua “Dottrina” quale frutto maturo di una vita tutta dedita al servizio della verità disse subito in principio le seguenti parole: “Questa dottrina presuppone un senso interiore affatto nuovo, per cui si apre un nuovo mondo che, per l'uomo ordinario, non esiste”. E poi ricorse ad una similitudine per mostrare quanto la sua dottrina dovesse rimanere inafferrabile per chi volesse giudicarla con le rappresentazioni dei sensi ordinari. “Immaginatevi un mondo di ciechi nati, ai quali perciò le cose e i loro rapporti siano noti soltanto per quel che ne rivela il tatto. Andate a parlar loro dei colori e delle altre condizioni che esistono soltanto in virtù della luce e per la vista. Parlerete a vuoto, e sarà una fortuna se ve lo dicono perché allora, non tarderete a riconoscere il vostro errore e, a meno che possiate aprir loro gli occhi, smettere l'inutile discorso”.
Ora, chi parla agli uomini di quelle cose alle quali Fichte allude qui, si trova troppo spesso in una condizione analoga a quella del veggente in mezzo ai ciechi nati. Ma queste sono le cose che si riferiscono alla vera natura e alle mete supreme dell'uomo. E chi credesse necessario “smettere l'inutile discorso” dovrebbe disperare dell'umanità. Non bisogna, al contrario, dubitare nemmeno un istante della possibilità di “aprire gli occhi” a chiunque vi cooperi con la sua buona volontà.
Fondandosi su questa premessa, hanno parlato e scritto tutti coloro che hanno sentito di aver sviluppato nell’organo di percezione interiore capace di riconoscere la vera natura dell'uomo, celata ai sensi esteriori. Perciò fin dai tempi più remoti, si è sempre parlato di una “saggezza occulta”.
Chi ne abbia afferrato qualcosa, sente di possederlo con la stessa sicurezza che ha riguardo alla rappresentazione dei colori, l'uomo dotato di vista sana. Perciò questa saggezza occulta non abbisogna di “prove” per lui. Ed egli sa anche che, per chi come lui, abbia un “organo di percezione superiore” aperto, essa non può abbisognare di prove. Uomini dotati di questo senso superiore possono parlare fra loro come chi abbia visitato l'America può parlarne a chi, pur senza esserci stato, sia in grado di farsene un’idea, poiché, quando ne avesse l'occasione, vedrebbe da sé le cose descritte dall'altro.
Ma chi osserva il mondo soprasensibile non deve parlar solo a chi, come lui, indaghi nel mondo spirituale. Deve indirizzare le sue parole a tutti gli uomini. Poiché deve riferire intorno a cose che riguardano ognuno; anzi egli sa che senza la conoscenza di esse, nessuno può essere “uomo” nel vero senso della parola. E parla a tutti gli uomini, perché sa che esistono diversi gradi di comprensione per quanto egli ha da dire. Sa che anche uomini ancora lontani dal momento in cui si aprirà loro la possibilità di indagini spirituali proprie, lo possono comprendere. Il sentimento e la comprensione della verità sono infatti in ogni uomo. Ed a questa comprensione che può accendersi in ogni anima sana egli a tutta prima si volge. Sa pure che in questa comprensione è racchiusa una forza che a poco a poco deve condurre ai gradini superiori dalla conoscenza. Quel sentimento che forse da principio non vede nulla di quanto gli viene esposto è di per sé il mago che aprirà “l’occhio spirituale”. Esso germoglia nelle tenebre. L'anima non vede; ma, attraverso questo sentimento è afferrata dalla “potenza della verità”; e allora, a poco a poco, la verità, si avvicina all'anima e le apre il “senso superiore”. Per qualcuno ci vorrà più tempo, per qualcun'altro meno; chi però ha pazienza e costanza raggiunge la meta. Se non ogni cieco nato può essere operato, ogni occhio spirituale può essere aperto: è solo questione di tempo.
L’erudizione e la cultura scientifica non sono condizioni necessarie al dischiudersi di questo “senso superiore”. Esso può aprirsi tanto nell'uomo semplice quanto nel dotto. Anzi, ciò che ai nostri tempi per lo più si considera come la “sola” scienza può spesso essere piuttosto d'intralcio che di aiuto. Poiché, per sua natura, questa scienza ammette come “realtà” unicamente quel che cade sotto i sensi ordinari. E per quanto grandi siano i suoi meriti riguardo al riconoscimento di questa verità, essa crea, quando dichiara valido per ogni sapere umano quel che è necessario e salutare pel suo proprio dominio una quantità di preconcetti che precludono l'accesso alle verità superiori.
A quel ch’è detto qui, spesso si obietta che alla conoscenza umana si frappongono barriere insormontabili e che perciò, va respinto ogni sapere che non ne tenga conto. E si considera, forse, immodesto chi voglia far delle asserzioni intorno a cose che, secondo la convinzione di molti, esorbitano dal campo delle facoltà conoscitive umane. Tale obiezione trascura il fatto che la conoscenza superiore, dev’essere preceduta da uno sviluppo delle forze conoscitive umane. Ciò che, prima di questo sviluppo, sta oltre i limiti della conoscenza, rientra, dopo il risveglio di certe facoltà latenti in ogni uomo, senz'altro nel dominio della conoscenza.
C’è, però, una cosa da tener presente. Si potrebbe dire: “A che serve parlare agli uomini di cose per cui le loro forze conoscitive non sono deste e che, perciò, rimangon loro precluse?” Ma sarebbe un'osservazione erronea. Per scoprire le cose di cui si tratta qui, occorrono certe facoltà; ma se, dopo che sono state scoperte, queste cose vengono comunicate, chiunque voglia applicarvi una logica scevra di preconcetti e un sano senso della verità la può capire. In questo libro non si comunicano cose che, a chiunque lasci agire in sé un pensiero non unilaterale, non offuscato da pregiudizi, e un libero, aperto senso della verità, possono far l'impressione di rispondere in modo soddisfacente agli interrogativi della vita umana e dei fenomeni del mondo. Ci si chieda: “Se le cose qui affermate sono vere, ne risulta o no una soddisfacente spiegazione della vita?” E si troverà che la “vita” di ogni singolo uomo risponde affermativamente.
Per essere “maestro” in questi campi superiori dell'esistenza, non basta però che in un uomo si siano aperti i sensi capaci di percepirli. Anche qui occorre coscienza come per essere maestri nel campo della realtà comune. La vista superiore non fa dell'uomo un “dotto” in materia spirituale, come i sensi sani non fanno di noi dei “dotti” nel mondo della realtà sensibile. Ma poiché la realtà sottostante a quella spirituale non è, in ultima analisi, che l'uno dei due aspetti della stessa ed unica essenza fondamentale, chi è ignorante nel campo delle conoscenze sensibili, rimarrà per lo più tale anche nel campo di quelle savrasensibili. Questo fatto genera in chi, per vocazione spirituale, si sente chiamato a pronunciarsi intorno ai domini spirituali dell'esistenza, il sentimento di una responsabilità illimitata. Esso gli impone modestia e riserva. Il sentimento di questa responsabilità non dovrebbe però trattenere nessuno dall’occuparsi delle verità superiori; nemmeno chi, per le condizioni quotidiane della sua vita, non ha l’agio di dedicarsi alle scienze ordinarie. Si può, infatti, assolvere il proprio compito umano anche ignorando la botanica, la zoologia, la matematica e le altre scienze; ma non si può essere "uomini" nel pieno senso della parola senza, essersi in qualche modo accostati alle conoscenze della natura e del destino dell'uomo, rivelati dalla conoscenza sovrasensibile.
L'autore di questo libro non vuol esporre nulla che non sia per lui un fatto, come un’esperienza del mondo esteriore è un fatto per gli occhi, gli orecchi, e l'intelletto ordinario.
Si tratta di esperienze accessibili a chiunque sia deciso a seguire il “sentiero della conoscenza” descritto alla fine di questo libro. Si assume un giusto atteggiamento di fronte alle cose del mondo soprasensibile quando si premetta che un sano pensare e sentire sono in grado di comprendere tutto quanto di vere cognizioni può fluire dai mondi superiori e che, muovendo da questo intendimento e facendo di esso la propria solida base, si è compiuto un passo importante verso la visione diretta, sebbene per conseguirla occorra anche altro. Ci si sbarrano, invece, le porte della vera conoscenza superiore, se si disprezza questa via e si vuol penetrare nei mondi superiori soltanto in altro modo. La massima di voler ammettere i mondi superiori solo dopo averli veduti è di impedimento alla veggenza. La volontà di comprendere attraverso il sano pensiero quel che più tardi potrà essere veduto evoca forze importanti dell’anima, le quali appunto conducono a questa veggenza.
Le seguenti parole di Goethe contrassegnano il punto di partenza di una delle vie, che conducono a conoscere la natura dell’uomo: “Non appena si accorge degli oggetti intorno a lui, l'uomo li considera in rapporto a sé stesso; e con ragione, il fatto ch’essi gli piacciano o no, lo attraggano o lo respingano, gli giovino o gli nuocciano. Questo modo del tutto naturale di guardare e giudicare le cose sembra essere altrettanto facile quanto è necessario, eppure espone l’uomo a mille errori, che spesso lo umiliano e gli amareggiano la vita. Un compito ben più difficile si assumono quelli che, mossi da un vivace impulso di conoscenza, aspirano ad osservare gli oggetti della natura in sé e nei loro reciproci rapporti; poiché ben presto lamentano la mancanza della norma, che è loro di aiuto quando, come uomini, osservano le cose in rapporto a se stessi. Manca loro la norma del piacere e dispiacere, dell'attrazione e repulsione, dell’utile e dannoso. A tutto ciò devono interamente rinunciare; devono, quali essere indifferenti e, per così dire, divini, cercare e investigare quel che è, e non quel che piace. Così, né la bellezza né l'utilità delle piante debbono commuovere il vero botanico; egli ha da investigare la loro struttura, il loro rapporto col restante regno vegetale e, come il sole le ha fatte spuntare e le illumina tutte, così egli con sguardo equanime e tranquillo, le deve guardare e abbracciar tutte, traendo la norma delle sue cognizioni, i dati del suo giudizio non da se stesso, ma dalla cerchia delle cose osservate”.
Questo pensiero di Goethe richiama l'attenzione dell'uomo su tre cose. Anzitutto sugli oggetti dei quali gli perviene continuamente notizia pel tramite dei sensi e ch’egli tocca, odora, gusta, ode e vede. Secondariamente, sulle impressioni che gli oggetti fanno sopra di lui, sul piacere e dispiacere, il desiderio o l'avversione che gli suscitano e pei quali egli giudica gli uni simpatici e gli altri antipatici, gli uni utili e gli altri dannosi. E, in terzo luogo, sulle cognizioni ch’egli, quale “essere per così dire, divino”, acquista intorno alle cose, ai segreti della loro natura e della loro attività che si rivelano a lui.
Nella vita umana questi tre campi si distinguono nettamente. E l'uomo si avvede perciò di essere congiunto al mondo in triplice modo. Il primo è prestabilito, ed egli lo accetta come un fatto. Col secondo egli fa del mondo una cosa che lo concerne, che ha importanza per lui. Il terzo, egli lo considera come una meta verso la quale deve tendere incessantemente.
Perché il mondo appare all'uomo in questo triplice modo? La semplice osservazione può mostrarlo. Cammino sopra un prato fiorito. Attraverso i miei occhi i fiori mi rivelano i loro colori. Questo è il fatto ch'io accetto come dato. Godo dello splendore delle tinte. Così trasformo il dato in vicenda mia propria. Congiungo, attraverso i miei sentimenti, i fiori con la mia propria esistenza. Un anno dopo, torno sul medesimo prato. Ci sono altri fiori. Mi suscitano un nuovo compiacimento. La mia gioia dell'anno precedente risorgerà come ricordo. Essa è in me; l’oggetto che l'aveva destata non c'è più. Ma i fiori che vedo adesso sono della medesima specie di quelli dell'anno precedente; sono cresciuti secondo le medesime leggi. Se mi sono chiarito quelle specie, quelle leggi, io le ritrovo nei fiori di quest'anno quali le ho riconosciute in quelli dell'anno prima. E forse rifletterò: “I fiori dell’anno scorso sono scomparsi; la gioia che mi hanno data è rimasta unicamente nel mio ricordo. È congiunta solo col mio essere. Ma ciò che l'anno scorso ho riconosciuto in rapporto ai fiori e torno a riconoscere quest'anno, durerà finché ne cresceranno di simili. È qualcosa che mi si è rivelato, ma che non dipende dalla mia esistenza come, invece, ne dipende la mia gioia. I miei sentimenti di gioia restano in me; le leggi, l’essenza delle piante, rimangono fuori di me, nel mondo”.
L'uomo si congiunge continuamente in questo triplice modo con le cose del mondo. Non s'introduca a tutta prima nulla in questo fatto, ma lo si accolga semplicemente quale si offre. Ne risulta che l'uomo ha tre aspetti nella sua natura. Questo, e null'altro, vogliamo per ora indicare con la tre parole corpo, anima e spirito. Chi a queste parole unisca una qualsiasi opinione preconcetta o, peggio, qualche ipotesi, dovrà necessariamente fraintendere quanto andremo esponendo. Con la parola corpo s’intende ciò mediante cui si palesano all’uomo le cose che l'attorniano, come, nell'esempio precedente, i fiori del prato. Con la parola anima si vuole indicare ciò mediante cui egli congiunge le cose con la sua esistenza, sente in rapporto ad esse piacere e dispiacere, letizia e disgusto, gioia e dolore. Per spirito s'intende ciò che nell'uomo si rivela quando, secondo l’espressione di Goethe, egli guarda le cose quale “essere, per così dire, divino”.
In questo senso l'uomo consiste di corpo, anima e spirito.
Mediante il suo corpo egli può mettersi in rapporto momentaneo con le cose. Mediante la sua anima conserva in sé le impressioni che queste fanno su di lui; e mediante il suo spirito gli si rivela ciò che le cose custodiscono in se stesse. Solo osservando l'uomo sotto questi tre aspetti, si può sperare di arrivare a comprenderne la natura. Poiché questi tre aspetti lo mostrano imparentato in tre modi diversi col restante mondo.
Attraverso il suo corpo egli è imparentato con le cose che si offrono ai suoi sensi da fuori. Le materie del mondo esterno compongono questo suo corpo; le forze del mondo esterno agiscono anche in esso. E come, per mezzo dei suoi sensi, egli contempla le cose del mondo esterno, così può anche contemplare la propria esistenza corporea. Ma è impossibile contemplare alla stessa maniera l’esistenza dell’anima. Tutto quello che in me è processo corporeo, può essere percepito dai sensi corporei. Il mio piacere e dispiacere, la mia gioia e il dolore non possono essere percepiti né da me né da altri mediante sensi corporei. Il campo dell’anima è inaccessibile alla percezione corporea. L’esistenza corporea dell’uomo è manifesta agli occhi di tutti; quella animica, egli la porta in sé come suo proprio mondo. Attraverso lo spirito, però, il mondo esterno gli si rivela in un modo superiore. I segreti del mondo esterno si rivelano bensì nel suo intimo; ma egli esce spiritualmente fuori di se stesso e lascia la cose parlar di sé, di quel che ha importanza per esse, non per lui. L'uomo leva lo sguardo al cielo stellato: il rapimento che la sua anima prova gli appartiene; le leggi eterne stellari ch’egli afferra nel pensiero, nello spirito, non appartengono a lui, ma alle stelle.
L'uomo è in tal modo cittadino di tre mondi. Mediante il suo corpo, egli appartiene al mondo che può anche percepire col corpo; mediante la sua anima, egli si edifica il suo proprio mondo; mediante il suo spirito, gli si rivela un mondo più elevato degli altri due.
Appare evidente che, per la differenza essenziale di questi tre mondi, si potrà far luce intorno ad essi e alla parte che vi ha l'uomo solo attraverso tre modi diversi di osservazione.
Rudolf Steiner (1922)

50 – Introduzione al tema: “Pensiero umano e pensiero cosmico” (Rudolf Steiner)

Vorrei parlarvi del “rapporto dell'uomo con l'universo” da un determinato punto di vista. (…)
L’uomo sperimenta in sé ciò che noi possiamo chiamare il “pensiero”, e nel pensiero l'uomo può sentirsi come alcunché di direttamente attivo, che può esplicare la propria attività. Se noi consideriamo un qualsiasi oggetto esteriore, per es. una rosa o una pietra, e ci rappresentiamo questo oggetto esteriore, può venirci fatta, e con ragione, la seguente osservazione: “Tu non puoi mai sapere proprio, mentre te la rappresenti, quanto tu abbia veramente della pietra e della rosa. Tu vedi la rosa, il suo colore roseo esteriore, la sua forma; vedi come si spartisce in singoli petali; tu vedi la pietra con il suo colore, con i suoi vari spigoli, ma devi pur sempre dire a te stesso: può tuttavia esservi qualcosa ancora che non mi si palesa esteriormente. Tu non sai quanto nella tua rappresentazione tu abbia veramente della pietra, della rosa”.
Ma se qualcuno ha un pensiero, è egli stesso che crea questo pensiero. Si potrebbe dire: egli sta dentro ogni fibra di questo pensiero, perciò partecipa dell'attività dell'intiero pensiero. Egli sa: ciò che vi ha in questo pensiero, l’ho immesso così, io stesso nel pensiero; e ciò che io non ho pensato nel pensiero, non può difatti essere in esso. Io abbraccio tutto questo pensiero. Nessuno potrebbe sostenere che, quando mi rappresento un pensiero, possa in esso esservi dell'altro, come nel caso della rosa e della pietra, poiché io stesso ho creato il pensiero; sono presente in esso e so perciò quello che contiene.
In verità, il pensiero è quanto v’ha di più originalmente nostro. Se troviamo il rapporto del pensiero col cosmo, con l'universo, troviamo il rapporto col cosmo, con l'universo di quanto v'ha di più originalmente nostro. Il che ci assicura che quando si osserva il rapporto dell'uomo con l’universo, prendendo le mosse dal pensiero, questo punto di vista è veramente fecondo. Ora vogliamo iniziare questo esame: esso ci condurrà a importanti ed elevate considerazioni scientifico-spirituali. Ora occorrerà costruire delle fondazioni che ad alcuno di voi potranno sembrare forse alquanto astratte. (…)
Quello dunque che appunto abbiamo detto ci assicura che l'uomo, se si attiene a ciò che egli ha nel pensiero, può trovare un intimo rapporto del suo essere con l’universo, con il cosmo. Però se ci vogliamo porre da questo punto di vista, ci si presenta una difficoltà, una grande difficoltà. Intendo dire che questa grande difficoltà non concerne l’esame che ci proponiamo, ma la condizione obiettiva delle cose. Si presenta una difficoltà, in quanto è vero che si vive entro ogni fibra del pensiero e che perciò il pensiero, quando lo si ha, lo si deve conoscere più intimamente di qualsiasi altra rappresentazione; ma certo la maggior parte delle persone non ha pensieri! E a questo fatto, che la maggior parte degli uomini non ha pensieri, non si riflette ordinariamente con vera profondità. Né ci si riflette con sufficiente profondità, perché per riflettervi occorrono appunto “dei pensieri”.
Anzitutto dovremo notare, che ciò che impedisce alle persone, generalmente nella nostra vita, di avere dei pensieri si è che gli uomini - per le necessità ordinarie della vita - non hanno affatto sempre bisogno di spingersi veramente fino al pensiero, ma che, invece del "pensiero", si contentano della parola. La maggior parte di ciò che nella vita ordinaria si chiama pensare, si svolge in parole, si pensa in parole. Molto di più di quanto non si creda si pensa in parole. E molti, quando chiedono spiegazione, di questo o di quello, si accontentano che si dica loro una parola qualsiasi di cui sia loro noto il suono e che desti in essi qualche ricordo; prendono allora per spiegazione ciò che essi sentono con una tale parola e credono di avere il “pensiero”.
Veramente quello che appunto ho detto, ha condotto - in una determinata epoca, durante l'evoluzione della vita spirituale dell’uomo - a far sorgere un'opinione, condivisa ancora oggidì da molti che si chiamano “pensatori”. (…)
Altrove ho cercato di dimostrare come il "pensiero" nasca soltanto - si potrebbe dire - a un dipresso fra il sesto e l'ottavo secolo prima di Cristo. Anteriormente a quel tempo la anime umane non sperimentavano affatto ciò che nel giusto senso della parola si può chiamare pensiero. Che cosa sperimentavano prima la anime umane? Esse sperimentavano delle immagini; ogni sperimentare del mondo esteriore avveniva per immagini. Ho già detto questo spesso da diversi punti di vista. Questo sperimentare per immagini è l'ultima fase dell’antico sperimentare chiaroveggente; poi, per l'anima umana, “l’immagine” si fa “pensiero”. (...) Ho cercato poi di mostrare, come questo pensiero progredisca in Socrate, in Platone, in Aristotele; come esso assuma determinate forme, e si evolva ulteriormente nel Medioevo a quanto starò ora per esporvi.
L'evoluzione del pensiero conduce a dubitare addirittura che possano esservi nel mondo quelli che si chiamano pensieri “universali”, concetti universali: conduce al cosidetto nominalismo, alla concezione filosofica, che i concetti universali possono essere dei meri “nomi”, dunque semplici parole. Su questi pensieri universali vi era dunque, una concezione filosofica (a oggidì molti l'hanno ancora), secondo la quale tali pensieri non siano altro che parole.
Per meglio chiarire quanto per l'appunto si è detto, prendiamo un concetto facile da afferrare e perfino universale; prendiamo il concetto "triangolo" come concetto universale. Ora chi si mette dal punto di vista del nominalismo e non può staccarsi da ciò che si è andato formando a questo riguardo come “nominalismo” nell’epoca dall’XI fino al XIII secolo, dirà a un dipresso così: “Disegnami un triangolo!” Ebbene, gli disegnerò un triangolo, per es., come questo:

 

 

 

 

   “Bene” - egli dirà - questo è un triangolo del tutto speciale con tre angoli acuti, e di questi ve ne sono. Ma te ne disegnerò un altro; ed egli disegna un triangolo che ha un angolo retto e un altro ancora che ha un cosidetto angolo ottuso.

     
   

 

 

 

 

 

 Chiameremo il primo un triangolo “acutangolo”, il secondo un triangolo “rettangolo” e il terzo un triangolo “ottusangolo”.
Il nominalista aggiunge allora: sta bene, vi è un triangolo acuto, retto e ottuso. Ma tutto ciò non è il triangolo. Il triangolo universale deve contenere tutto ciò che un triangolo può contenere. Nel pensiero “universale” del triangolo deve rientrare tanto il primo quanto il secondo e il terzo triangolo. Ma un triangolo acuto non può essere al contempo retto e ottuso. Un triangolo acuto è un triangolo speciale, non è un triangolo universale; così del pari un triangolo retto o uno ottuso: un triangolo universale non vi può essere. Il triangolo “universale” è dunque una parola che comprende i triangoli speciali, e il concetto universale del triangolo non esiste. È una "parola" che abbraccia i casi singoli.
Questo ragionamento (nominalistico), può naturalmente continuare. Supponiamo che qualcuno pronunzi la parola "leone". Colui che si attiene al punto di vista del nominalismo, dice: “Nello zoo di Berlino vi è un leone, in quello di Hannover vi è pure un leone e ve ne è anche uno nel giardino zoologico di Monaco. Vi sono i singoli leoni; ma un leone universale, che abbia a che fare con i leoni di Berlino, di Hannover o di Monaco, non esiste. È una semplice parola quella che comprende i singoli leoni”. Esistono soltanto cose singole e oltre le singole cose - dice il nominalista - non vi sono che parole che abbracciano le singole cose.
Questo modo di vedere, come già si è detto, è sorto in una data epoca della storia dal pensiero e lo rappresentano ancora oggi delle menti logiche e acutissime. E chi esamina un poco la questione appunto esposta, dovrà in fondo ammettere: “si presenta qui alcunché di peculiare, per cui non posso senz'altro decidere se vi sia veramente questo 'leone universale' e il 'triangolo universale', perché non ci vedo chiaro. So ora venisse uno che mi dicesse: “Vedi, caro amico, non posso ammettere che tu mi mostri il leone di Monaco, o quello di Hannover oppure di Berlino. Se tu ritieni che vi sia il ‘leone universale’ devi condurmi in quel posto qualsiasi dove si trovano dei ‘leoni universali’; se tu però mi mostri soltanto i leoni di Monaco, di Hannover e di Berlino, non mi hai dimostrato che esistono dei 'leoni universali'… Se dunque venisse qualcuno che la pensasse in tal modo e occorresse mostrargli il leone “universale”, ci si troverebbe alquanto imbarazzati. Non è tanto facile rispondere al quesito: dove si deve condurre colui al quale si deve mostrare il leone universale”. Ora non vogliamo subito considerare ciò che ci vien dato dalla scienza dello Spirito, lo faremo in seguito. Vogliamo ora fermarci al pensiero, fermarci a quello che può venir raggiunto col pensiero e dovremo dire a noi stessi: - se vogliamo rimanere su questo terreno non riesce facile condurre in porto chi dubita del leone universale. Anzi non ci riesce affatto. “Ecco una delle difficoltà alla quale bisogna semplicemente consentire. Perché se nel campo del comune pensiero non si vuole ammettere questa difficoltà, è segno che non si apprezzano le difficoltà della conoscenza umana in generale. Fermiamoci al triangolo poiché in fondo é indifferente per la questione in generale che si arrivi a spiegarla a mezzo del triangolo, del leone o di altro.
A tutta prima sembra impossibile disegnare un triangolo “universale” che contenga tutte le proprietà, tutti i triangoli. È cosa che sembra completamente impossibile. E poiché non solo sembra impossibile, ma lo è veramente per il pensiero umano comune, ogni filosofia esteriore si trova qui proprio dinanzi a una barriera; e sarebbe suo dovere di ammettere una buona volta che, come filosofia esteriore, si trova dinanzi a una barriera. Ma questa barriera, appunto, non é che quella della stessa filosofia esteriore. Vi è tuttavia una possibilità di superare questa barriera e di questa possibilità vogliamo ora occuparci.
Immaginiamoci di disegnare il triangolo, non semplicemente nel senso di uno che dica: - Ora ti ho disegnato un triangolo, eccolo qua:

 

 

 

 


A questo si può sempre obbiettare che non è un triangolo universale. Si può cioè disegnare il triangolo altrimenti. Veramente non lo si può, ma vedremo subito quale sia il rapporto fra questo potere e non potere. Supponiamo che questo triangolo che abbiamo dinanzi a noi lo si disegni a questo modo - e che si permetta ai singoli lati di esso di muoversi a loro piacimento in ogni direzione; e che si permetta loro anzi di muoversi con velocità diverse, di guisa che i lati, p. es. assumano nel momento successivo, quest'altra posizione:

 

 

 

 

 

Insomma noi ci assumiamo un modo incomodo di rappresentarci il triangolo, per cui diciamo: - Non voglio soltanto disegnare un triangolo per poi lasciarlo stare, ma pretendo che la tua capacità di rappresentazione soddisfa determinate esigenze. Tu devi immaginarti che i lati del triangolo siano in continuo moto. Se sono in moto, dalla forma dei movimenti possono contemporaneamente scaturire un triangolo rettangolo, o un ottusangolo, o qualsiasi altro -.
Due cose si possono fare e anche esigere in questo campo. Anzitutto si può esigere la massima comodità; se qualcuno ci disegna un triangolo, tutto è finito e se ne conosce l’aspetto: ora si può riposare tranquillamente nei propri pensieri perché si ha ciò che si vuole. Si può però fare anche nell’altro modo e si può considerare il triangolo come punto di partenza, e permettere al contempo a ogni lato di volgersi con velocità diverse verso diverse direzioni. Questo caso però riesce meno comodo, poiché si devono compiere dei movimenti nei propri pensieri. Però così si ottiene realmente il pensiero universale del triangolo; mentre non lo si raggiunge se ci si ferma a un solo triangolo. Il pensiero universale "triangolo" vi è quando si tiene il pensiero in continuo movimento, quando è versatile.
I filosofi, non avendo fatto ciò che appunto ho detto, non avendo cioè messo il pensiero in moto, si trovano ora necessariamente dinanzi ad una barriera e fondano il nominalismo.
Vogliamo ora tradurre quanto abbiamo qui argomentato in un linguaggio a noi già noto. Si richiede da noi, quando vogliamo elevarci dal pensiero particolare a quello universale, che si metta il pensiero particolare in movimento di guisa che il “pensiero mosso” è il “pensiero universale”, il quale scivola da una forma all’altra. Io dico “forma”, ma a rigore si tratta che il tutto si muove e ogni singolo caso che scaturisce da questo moto è una forma in sé circoscritta. Prima non ho disegnato che singole forme: un triangolo acutangolo, uno rettangolo e uno ottusangolo. Ora disegno qualcosa - veramente non lo disegno, come ho già fatto, ma ci si può rappresentare quel che la rappresentazione deve suscitare, cioè che il pensiero universale è in movimento e crea col suo fermarsi la singole forme. “Forme” ho detto. Così vediamo che i filosofi del nominalismo, i quali necessariamente si trovano dinanzi a una barriera, si muovono in un determinato regno, nel regno degli Spiriti della Forma. Entro il regno degli spiriti della “forma” che sta intorno a noi, dominano le forme e poiché le dominano vi sono in questo regno le singole cose strettamente in sé circoscritte. Da ciò vedete che i filosofi a cui accenno, non hanno mai preso la decisione di uscire dal regno della forma, e perciò non hanno potuto nei pensieri universali avere altro che parole mere, semplici parole. Se essi uscissero dal regno delle singole cose, cioè, dalle forme, giungerebbero a un genere di rappresentazioni in continuo movimento; vale a dire che nel loro pensare acquisterebbero una realizzazione del regno degli Spiriti del Moto, della gerarchia immediatamente superiore. Ma questo non consentono i suddetti filosofi. E quando negli ultimi tempi del pensiero occidentale ve ne fu una volta uno che si decise a pensare veramente in questo senso, fu poco compreso benché sul conto di lui molto si sia parlato e fantasticato.
Cercate ciò che Goethe, ha scritto nella sua ”Metamorfosi delle piante”, quello che egli chiama la “proto-pianta”; cercate poi ciò che egli chiama il “proto-animale” e troverete che non ci si può orientare con questi concetti di “proto-pianta” e di “proto-animale” se non pensandoli in movimento. Se si accoglie questa mobilità di cui parla lo stesso Goethe, non si ottiene un concetto astratto, circoscritto nelle sue forme. Si ha invece ciò che vive nelle sue forme, ciò che procede attraverso tutta l’evoluzione del regno animale, o del regno vegetale, ciò che in questo suo processo si trasforma così come il triangolo si trasforma in acutangolo o in ottusangolo, ciò che può essere ora lupo o leone, o insetto a seconda che la mobilità sia disposta in modo da modificarsi durante il suo passaggio attraverso i singoli casi. Goethe ha dato movimento ai rigidi concetti delle forme; questa è stata la sua opera grande, centrale. Questo è quanto d’importante egli ha introdotto nello studio della natura della sua epoca.
Vedete qui da un esempio come ciò che chiamiamo la “scienza dello Spirito” sia effettivamente atto a tra gli uomini fuori da quello a cui oggi necessariamente devono stare attaccati, perfino quando sono filosofi. Poiché senza i concetti che si acquistano per mezzo dalla “scienza dello Spirito” non è affatto possibile, se si è onesti, di ammettere altro se non che i pensieri universali sono “mere parole”. Questa è la ragione per cui ho detto, che la maggior parte delle persone non ha affatto pensieri. Se ad essi si parla di pensieri, li respingono.
Quando si parla agli uomini di “pensieri”? Quando si dice, per es., che gli animali e le piante hanno delle “anime collettive”. Che si dica “pensieri universali” e “anime collettive” (vedremo in seguito il rapporto che v'ha fra questi due concetti), per il pensiero è tutt'uno. Ma l'anima collettiva non può essere compresa se non pensandola in movimento, in continuo movimento esteriore e interiore, altrimenti non si arriva all’anima collettiva”. Ma, nella generalità, gli uomini si rifiutano di far questo, perciò respingono anche l’anima collettiva, respingono dunque il pensiero universale. Ma per imparare a conoscere il mondo manifesto non occorrono pensieri: occorre soltanto il ricordo di ciò che si è veduto nel regno della forma. E lì i pensieri universali rimangono allora mere parole. E se fra i vari spiriti delle Gerarchie superiori non vi fosse anche il Genio del linguaggio, il quale forma le parole universali per i concetti universali, gli uomini stessi non lo farebbero. Gli uomini dunque traggono anzitutto proprio dal linguaggio i loro pensieri universali e oltre ai pensieri universali conservati nel linguaggio, non possiedono gran che di più.
Da questo possiamo vedere che il pensare dei veri pensieri deve pur essere qualcosa di speciale. Nel pensare dei veri pensieri v'ha da essere qualcosa di affatto peculiare. E che si tratti di qualcosa di affatto peculiare possiamo comprenderlo dalla difficoltà che gli uomini trovano a conseguire chiarezza nel campo del pensiero. Nella vita esteriore abituale, capita forse spesso per un po’ di millanteria di affermare che il pensare sia facile; ma non è facile. Perché il vero pensare esige sempre di ricevere un afflato sottilissimo, sotto un certo riguardo incosciente, dal regno degli Spiriti del moto. Se il pensare fosse così facile, non si farebbero tanti errori madornali nel campo del pensiero. Ci si tormenta ora difatti, da più di un secolo, per un pensiero che già spesso ho citato e che è stato espresso da Kant.
Kant voleva togliere di mezzo la cosidetta prova ontologica dell’esistenza di Dio. Questa prova ontologica dell’esistenza di Dio, deriva pure dall’epoca in cui sorse il nominalismo, allora quando si diceva che vi fossero soltanto parole, per i concetti universali, e che non esistesse nulla di universale che potesse corrispondere ai singoli pensieri, come i singoli pensieri corrispondono alle rappresentazioni.
Esporrò questa prova ontologica dell'esistenza di Dio come esempio del modo come si usa pensare. Essa dice a un dipresso così: - se si ammette un Dio, questo dovrà essere l'Essere più perfetto. Se egli è l'Essere più perfetto, non deve mancargli “sussistenza”, perché altrimenti vi sarebbe un essere più perfetto di lui, dotato di quelle qualità che si pensano, e per di più dotato di esistenza reale. Si deve dunque pensare l’essere più perfetto come esistente. Non si può dunque pensare a Dio se non esistente, quando lo si pensi come l’essere più perfetto. Vale a dire, dal concetto stesso si può dedurre che, secondo la prova ontologica, il Dio deve esistere. - Kant ha cercato di confutare questa prova in quanto voleva mostrare che da un "concetto" non è possibile dedurre l’esistenza di una cosa; e sul proposito ha perfino coniato quel famoso detto, a cui già spesso ho accennato: che cento talleri veri non sarebbero né più né meno di cento talleri possibili. Cioè: se un tallero ha trecento pfennige, occorre per cento talleri possibili calcolare trecento pfennige (per cento), e parimenti per cento talleri reali (...). Cento talleri possibili contengono dunque altrettanto quanto cento talleri veri; vale a dire che non vi è differenza se io penso cento talleri reali o cento talleri possibili. Dal semplice pensiero di un essere sommamente perfetto, non è consentito dedurre la esistenza del medesimo solo perché il mero pensiero di un Dio possibile avrebbe le stesse qualità del pensiero di un Dio reale.
Questo sembra molto ragionevole. E da cento anni gli uomini si tormentano sulla questione dei cento tolleri possibili e dei cento talleri reali. Pensiamo però un punto di vista che ci sia vicino: quello, cioè, della vita pratica. Può da questo punto di vista dirsi che cento talleri possibili contengano cento talleri reali? Si può dire che cento talleri reali contengono precisamente cento talleri in più di cento talleri possibili. È pur ben chiaro: da una parte il pensiero di cento talleri possibili e, dall’altra, cento talleri reali: è una bella differenza! Vi sono da quest'ultima parte per l’appunto cento talleri di più. E sono proprio i cento talleri reali che hanno importanza nei maggiori casi della vita.
Ma la questione ha un aspetto ancora più profondo. Si può cioè porre il quesito: - in che cosa consiste la differenza fra cento talleri possibili e cento talleri reali? - Ritengo che tutti ammettano che per chi può avere i cento tolleri, v'ha indubbiamente una seria differenza fra le due eventualità. Immaginatevi infatti che abbiate bisogno di cento talleri e che qualcuno vi offra la scelta fra cento talleri possibili e cento talleri reali. Se vi é veramente possibile averli, la differenza sembra avere importanza. Ma supponete invece di trovarvi nel caso di non poter realmente avere i cento talleri, allora può darsi che sia per voi assolutamente indifferente se qualcuno non vi dà cento talleri possibili o cento talleri reali. Se non vi è dato di poterli avere, cento talleri reali valgono proprio quanto cento talleri possibili.
Ma tutto ciò ha un significato. E il significato è questo: che nel modo come Kant ha parlato di Dio, era possibile parlare soltanto in un'epoca in cui, per mezzo dell'esperienza animica umana, “non si poteva più avere il Dio”. Quando Dio non era accessibile come una realtà, il concetto del Dio possibile o il concetto del Dio reale si equivalevano, così come si equivalgono cento talleri reali o cento talleri possibili quando non si possono avere. Se per l’anima non vi è via che conduca al Dio reale, non condurrà ad esso certamente neppur alcun ragionamento svolto nello stile di Kant. Da questo vedete che la questione ha tuttavia un aspetto più profondo. Ne parlo soltanto per chiarirvi per mezzo di essa che quando si tratta del "pensare" occorre spingere l'indagine alquanto più profondamente. Errori di pensiero s'insinuano infatti e si propagano attraverso le menti più illuminate e per lungo tempo non si scorge in che consiste la falla del pensiero. (…) Occorre sempre per il pensiero che si tenga conto della situazione in cui esso venne concepito.
Dalla natura del pensiero universale prima, e poi dall'esistenza di un errore di pensiero come in particolar modo quello di Kant, ho cercato di mostrarvi che le vie del pensiero non si possono esaminare così semplicemente senza un approfondimento delle cose. Mi avvicinerò ora all'argomento anche da un terzo lato.
Supponiamo che vi sia qui una montagna o una collina e accanto ad essa un pendio scosceso: da questo pendio scosceso scaturisce una sorgente; questa si precipita giù perpendicolarmente per il pendio come una vera cascata. Nelle medesime condizioni supponiamo di vedere più in alto anche una sorgente la quale tenderebbe pure a far proprio come la prima, ma non lo fa. Essa non può cioè precipitare verso il basso come una cascata, ma scorre giù tranquillamente in forma di ruscello o di un corno d’acqua. Ha l'acqua nella seconda sorgente forze diverse dalla prima? No, evidentemente. Perché la seconda sorgente agirebbe proprio come la prima se la montagna non glielo impedisse spiegando le proprie forze verso l'alto. Se non vi fossero le forze che la montagna spinge all'insù, le forze che la trattengono, la sorgente precipiterebbe giù come la prima. Due forze dunque devono essere considerate; la forza di gravità della terra, mercé la quale una delle due sorgenti precipita in basso. Questa esiste però ugualmente anche per l'altra sorgente; perché si può proprio dire che essa è lì e la si vede attrarre la sorgente verso il basso. Se qualcuno però fosse scettico, potrebbe negare questo particolare nel caso della seconda sorgente e dire: in questa non si vede niente, mentre nella prima sorgente ogni pulviscolo d'acqua, viene tratto in giù. In ogni punto della seconda sorgente occorre dunque aggiungere la forza che si frappone alla forza di gravità della terra; la forza trattenitrice della montagna. Supponiamo ora che venga qualcuno e dica: - a quanto tu mi dici della forza di gravità, credo poco; e neppure credo a quello che tu mi dici della forza trattenitrice. È forse per causa del monte che la sorgente segue quella direzione? Io non lo credo. -
A questo tale si potrebbe chiedere allora: “Che cosa credi dunque?” Ed egli risponderebbe: - Io credo che laggiù vi sia dell'acqua, che subito sopra vi sia parimenti dell'acqua, e più sopra ancora ve ne sia pure e così di seguito. Io credo che l'acqua che sta sotto venga spinta in giù da quella che sta sopra, e quest'ultima, a sua volta venga spinta in giù da quella immediatamente soprastante! Ogni strato d'acqua spinge sempre giù quella che gli sta sotto!
Questa è una differenza importante. Il primo uomo ritiene che la forza di gravità tiri giù le masse d'acqua; il secondo invece dice che vi sono tanti strati d'acqua e che quelli superiori spingono giù quelli sottostanti, di guisa che sopra ogni strato di acqua scorre giù quello immediatamente superiore.
Sarebbe ben sciocco, non è vero, un uomo che parlasse di un simile sistema a “spinte”. Ma ammettiamo che non si tratti di un ruscello o di un corso d'acqua, ma della storia dell'umanità e che un uomo come quello suddescritto dicesse: “L’unica cosa che credo è che viviamo ora nel ventesimo secolo in cui si sono svolti certi dati avvenimenti; questi sono stati determinati da altri simili dell’ultimo terzo del secolo decimonono; questi, alla loro volta, sono determinati da quelli del secondo terzo del secolo decimonono e questi ultimi da quelli del primo terzo di quel secolo.” Questa si chiama “storia pragmatista”, in cui si parla sempre nel senso di “cause ed effetti”, cosicché dagli eventi precedenti si spiegano quelli che susseguono. Come qualcuno può negare la forza di gravità e dire che i diversi strati di acqua si spingono a vicenda, così succede pure quando qualcuno coltiva la storia in senso pragmatico e spiega le condizioni del secolo decimonono come una conseguenza della rivoluzione francese.
Noi certamente diciamo: - No, vi sono anche altre forze oltre quelle che spingono dietro, le quali ultime del resto non agiscono nemmeno nel senso che si crede; perché proprio come le forze del fiume non “spingono” da dietro, così neppure gli eventi che stanno dietro spingono nella storia dell’umanità. Vengono sempre nuove influenze dal mondo spirituale (così come nella sorgente l'azione della forza di gravità è costante), e si incrociano con altre forze come la forza di gravità nel fiume si incrocia con la forza trattenitrice della montagna. Se non ci fosse che una forza sola vedresti la storia prendere un corso completamente diverso. Ma in essa tu non vedi le singole forze che vi agiscono, non vedi ciò che è stato descritto come conseguenza delle evoluzioni di Saturno, del Sole e della Luna nell'evoluzione della Terra. E non vedi ciò che succede continuamente con le anime umane, che traversano il mondo spirituale e tornano quaggiù. Tutto questo, tu semplicemente lo neghi.-
Ma un'interpretazione della storia che si comporta come se ci si presentasse con la concezioni or ora caratterizzate noi l'abbiamo, e non è neppure particolarmente rara! Nel secolo decimonono è stata anzi considerata straordinariamente geniale. Che cosa però potremmo dire al riguardo dal punto di vista ora acquisito? Se qualcuno pensasse del torrente come pensa della storia, penserebbe una vera sciocchezza. Quale è la ragione per la quale egli pensa siffatta sciocchezza anche in ordine alla “storia”? Questa sola, che egli non se ne avvede! E la storia è tanto complicata che viene esposta quasi dappertutto come “storia pragmatica”, ma non ci se ne accorge.
Da questo vediamo che indubbiamente la scienza dello spirito, che deve conseguire dei principi sani per la comprensione della vita, trova da fare nei più diversi campi della vita; che effettivamente vi è una certa necessità d'imparare anzitutto a pensare, di conoscere prima di tutto le leggi e gli impulsi interiori del pensare. Potranno altrimenti succedere i casi più grotteschi. Così, per es., v’ha oggi qualcuno che inciampica, intoppa, zoppica nel problema “pensiero e linguaggio”: è il famoso glossografo Fritz Mauthner, il quale ha scritto anche un grande vocabolario filosofico. Il grosso volume del Mauthner sulla “Critica del linguaggio” è già ora alla sua terza edizione; è dunque diventato un libro celebre per i nostri contemporanei. In questo libro v’ha molto di geniale, ma vi sono anche cose tremende. Vi si può trovare, per es., uno strano errore di pensiero (e ci si imbatte quasi ogni 5 righe in un errore di quel genere): il buon Mauthner mette in dubbio l'utilità della logica perché per lui "pensare" altro non è che “parlare”, e allora non v’ha senso di coltivare la logica, basta la grammatica. Inoltre egli dice: “Poiché dunque non vi può legittimamente essere una logica, i logici sono stati degli imbecilli”. E poi dice: “Nella vita ordinaria dalle "conclusioni" nascono i "giudizi", è dai giudizi che nascono poi le rappresentazioni. Così fanno gli uomini! A che serve dunque una logica se gli uomini stessi dicono che essi fanno nascere i giudizi dalle conclusioni, e dai giudizi le rappresentazioni? Questo è altrettanto geniale come se si dicesse: “a che giova la botanica? L’anno scorso e l'anno prima le piante hanno pur continuato a crescere!” Ma questa è logica che si trova presso colui che bandisce la logica. Ed è comprensibile che egli la bandisca. Si trovano ancora ben altre stramberie in questo strano libro, che in fatto di rapporto fra pensiero e parola non porta a chiarezza, bensì a confusione.
Ho detto che occorrevano delle fondazioni per rilievi che dovranno indubbiamente condurci alle vette della contemplazione spirituale. Delle fondazioni come quelle che oggi sono state proposte potranno a taluno sembrare piuttosto astratte, ci riusciranno però utili.
E ritengo di aver cercato di rendere la cosa tanto facile da aver reso trasparente ciò che ho detto. Vorrei soprattutto far rilevare che per mezzo di tali semplici osservazioni si può già acquistare un'idea di dove giaccia il limite fra il regno degli Spiriti della forma e il regno degli Spiriti del moto. La possibilità tuttavia di conseguire tale idea dipende intimamente dal fatto di poter consentire dei pensieri “universali”, o di poter consentire soltanto rappresentazioni o concetti di cose singole; dico semplicemente: poter consentire.
Rudolf Steiner (1914)

51 - Della questione sociale (1919) (Rudolf Steiner)

Non è egli vero che il moderno movimento operaio si manifesta dalla catastrofe della guerra mondiale con tali fatti che dimostrano come fossero insufficienti le idee per le quali per lunghi decenni si credette di capire che cosa vive nella volontà proletaria? A farci questa domanda ci muove ciò che dalle esigenze del proletariato, finora compresse, e da tutto ciò che vi si connette, viene ora spinto alla superficie della vita. Le forze che le comprimevano sono ora in parte, già annientate, e soltanto chi ignora come siano indelebili certi impulsi della natura umana può pensare di conservare la condizione imposta da quelle forze agli stimoli sociali di una gran parte dell'umanità.
Riguardo a questi impulsi sociali si abbandonavano alle più grandi illusioni alcuni personaggi, ai quali la posizione sociale permetteva di influire, con la parola e col consiglio - arrestandone o favorendone l'azione - sulle forze della vita europea che nel 1914 spinsero alla catastrofe della guerra. Potevano credere che una vittoria del loro paese avrebbe calmato gli attacchi sociali. Ora dovrebbero riconoscere che si deve alla loro condotta, se gli impeti sociali si sono manifestati in tutta la loro efficienza. Si può dire anzi che la presente catastrofe dell’umanità, apparsa come quell'avvenimento storico per cui quegli impeti ricevettero tutta la loro forza propulsiva. Quei personaggi e le classi dirigenti, dovettero uniformare continuamente, negli ultimi avventurosi anni, la loro condotta a ciò che si agitava nella vita degli ambienti socialisti. Avrebbero agito, spesso e volentieri, diversamente, se non si fossero curati di quella tendenza che ora, nei suoi effetti, continua nella forma che hanno preso gli odierni avvenimenti.
Ed ora che è entrato nella fase decisiva ciò che per anni si è preparato nella evoluzione della vita dell'umanità; ora è tragicamente fatale che ai fatti compiuti non corrispondano le idee che sorsero nel divenire di tali fatti.
Può perciò sembrare ben giustificato il porre la questione nei seguenti termini: Che cosa vuole veramente il movimento proletario moderno? Corrisponde cotesto suo volere a ciò che comunemente si è pensato? È il vero aspetto della questione sociale quello che si manifesta nel pensiero dei molti che su tale questione hanno riflettuto? O è invece necessario seguire una direttiva di pensiero del tutto diversa? A tale questione non si potrà accostarsi con imparzialità, se non si è stati posti dalle vicende della vita, in condizione di vivere la vita spirituale del proletariato moderno o, meglio, di quella parte del proletariato che ha concorso maggiormente a determinare l'inizio dell'odierno movimento operaio.
Si è parlato molto dello sviluppo della tecnica moderna e del moderno capitalismo; del come questo sviluppo ha dato origine al proletariato attuale, anche del come esso è pervenuto alle presenti esigenze con lo svolgersi della nuova vita economica. In tutto ciò che si è detto su questi argomenti c'è molto di esatto. Che non si è pervenuti però a qualcosa di decisivo può intenderlo soltanto chi non si lascia ipnotizzare dalla massima che soltanto “le circostanze esteriori danno all’uomo l’impronta della sua vita”, ma è capace di farsi un'idea spregiudicata degli impulsi che operano nell'intimo profondo dell'anima.
È un fatto incontestabile che le esigenze del proletariato si sono sviluppate di pari passo con la tecnica moderna e col moderno capitalismo. Ma il riconoscere questo fatto non dà ancora alcun decisivo chiarimento su ciò che vive in quelle esigenze, particolarmente come impulso puramente umano. E finché non si penetra nella vita di questo impulso, non si può pervenire al vero aspetto della “questione sociale”.
Un’espressione che ricorre spesso nel mondo proletario, può fare una significativa impressione in chi è capace di penetrare nelle latenti e profonde forze della volontà umana. Voglio dire questa: “il proletariato moderno ha acquistato la coscienza di classe”. Esso non segue più in certo modo, istintivamente, inconsciamente le classi a lui estranee. Sa di appartenere ad una classe speciale e vuol far valere il rapporto di questa sua classe con le altre nella vita pubblica, in un modo corrispondente ai suoi interessi. Per chi ha la capacità di intendere le sottocorrenti dell’anima, l'espressione “coscienza di classe” - come la usa il moderno proletariato - sarà rivelatrice di fatti essenziali della concezione della vita sociale di quelle classi lavoratrici che si trovano prese nella vita della tecnica moderna e del moderno capitalismo.
Egli ha da porre mente, innanzi tutto, al modo con cui le dottrine scientifiche relative alla vita economica e ai rapporti col destino umano abbiano, a guisa di fulmine, colpita l'anima proletaria infiammandola. Si troverà di fronte a un fatto su cui molti di quelli che si limitano a pensare sul proletariato, ma non con esso, avventano giudizi del tutto confusi, e per conseguenza dannosi, data la gravità degli odierni avvenimenti. Con l'opinione che al proletariato “incolto”, abbia dato di volta il cervello per colpa del marxismo e dello svolgimento che a questo dettero gli scrittori del movimento operaio, e da quanto si sente dire spesso in argomento non si arriva alla comprensione, oggi necessaria, in questo campo del momento storico mondiale. Giacché quando si esprime una tale opinione, si dimostra, soltanto che non si vuole prendere in considerazione il lato essenziale del movimento sociale odierno. E questo lato essenziale è che la coscienza proletaria di classe è tutta riempita di concetti che hanno assunto il loro carattere dallo sviluppo della scienza odierna. (...) Queste cose possono sembrare prive d’importanza a chi si ritiene un “uomo pratico”. Ma chi vuol farsi un’idea veramente feconda del moderno movimento operaio, deve rivolgere a queste cose tutta la sua attenzione. Poiché in ciò che oggi esigono i proletari socialisti - moderni e rivoluzionari - non vive già la vita economica trasformata in impulso umano, così come pensano alcuni, ma la scienza dell’economia, dalla quale è stata afferrata la coscienza proletaria. Ciò risulta tanto chiaramente dalla letteratura scientifica del movimento proletario e da quella divulgata dal giornalismo che il negarlo significa chiudere gli occhi davanti alla realtà dei fatti. Ed è un fatto terminante lo stato attuale della società, questo, che il moderno proletariato fissa il contenuto della propria coscienza di classe in concetti d'indole scientifica.
Tutte le discussioni sulla nuova vita economica, sul secolo delle macchine, sul capitalismo, possono, sì, illuminare sulle basi effettive del moderno movimento operaio, ma ciò che chiarisce in modo preciso il presente stato sociale non deriva immediatamente dal fatto che l'operaio è stato applicato alle macchine e attratto perciò nell'orbita della vita capitalistica, bensì dalla circostanza che egli si è formato pensieri ben determinati sulla sua “coscienza di classe” in rapporto alle macchine e in dipendenza dell'ordine economico capitalistico. (…) Chi vuol comprendere il movimento proletario, deve conoscere prima di tutto come p e n s a il proletariato. Giacché il movimento operaio, dalle sue più ragionevoli tendenze alla riforma fino a quelle distruttive, non è conseguenza di forze “extra-umane”, di “impulsi economici”; ma è prodotto da “uomini”, dalle loro rappresentazioni e dai loro sforzi di volontà. (…) Dal momento che né le macchine né il capitalismo non potevano offrire al proletario (in quanto uomo) nulla che valesse a riempirgli l’anima di un contenuto degno dell'uomo, quel movimento ha ricercato le sue origini di pensiero nelle nuove direttive della scienza. Nel medioevo un tale contenuto era offerto dal lavoratore dal suo stesso mestiere manuale. Nella maniera con cui questi si sentiva umanamente legato al suo stesso lavoro, si trovava qualche cosa che, dinanzi alla sua coscienza, faceva apparire la vita - entro l'intera società umana - degna di essere vissuta. Gli era dato di riguardare il suo lavoro in guisa da poter credere realmente di avverare per suo mezzo ciò che egli voleva essere come “uomo”. Nell'ordinamento della vita capitalistica, l'uomo fu indotto a rivolgersi su se medesimo, sul proprio essere interiore, in cerca di una base su cui fondare un’opinione cosciente di che cosa si è come uomo. Per formarsi un siffatto concetto, nulla gli veniva dalla tecnica e dal capitalismo. Così è accaduto che la coscienza proletaria, avendo perduto ogni contatto umano con la immediatezza della vita, si è orientato verso il pensiero scientifico. Ma ciò avvenne quando le classi dirigenti si sforzavano di acquistare un modo di pensiero scientifico che non aveva più neppure esso la forza propulsiva spirituale necessaria a condurre la coscienza umana ad un contenuto per ogni parte soddisfacente dei suoi bisogni. (…)
Comunque si voglia giudicare del rapporto tra gli impulsi religiosi (e ciò che vi si connette) e il pensiero scientifico moderno, se si considera senza preconcetti, l'evoluzione storica, si dovrà convenire che l’ideazione scientifica si è sviluppata da quella religiosa. Le vecchie concezioni del mondo però, che si basavano sopra sostrati religiosi, non hanno potuto comunicare il loro impulso sostenitore dell'anima alla nuova forma scientifica del pensiero. Esse rimasero estranee a questa e continuarono a vivere con un contenuto di coscienza a cui non poterono rivolgersi le anime del proletariato. Per le classi dirigenti quel contenuto di coscienza poté avere ancora un certo valore. In un modo o in un altro, esso si connetteva con ciò che umanamente le legava con la loro posizione sociale. Esse non cercarono dunque un nuovo contenuto di coscienza, perché la tradizione della vita stessa permetteva loro di conservare il vecchio. Il proletariato moderno fu avulso da tutte le vecchie concezioni della vita. La sua vita è stata posta su di una base del tutto nuova. Per esso, col distacco delle vecchie basi, venne meno al tempo stesso anche la possibilità di attingere alle vecchie sorgenti spirituali che permanevano nel campo da cui si era allontanato. Con la tecnica moderna e col moderno capitalismo si sviluppò simultaneamente - in quanto si possa parlare di simultaneità riguardo alle grandi correnti storiche del mondo - il carattere della coscienza moderna. A questa si rivolse con fiducia, con fede, il moderno proletariato e vi cercò il nuovo contenuto di coscienza di cui sentiva bisogno. Ma di fronte a questo carattere scientifico il proletariato si trovava in ben altro rapporto da quello delle classi dirigenti. Queste non sentivano il bisogno di fare delle loro concezioni scientifiche il sostegno della propria anima. Sebbene esse potessero comprendere, con tale maniera di pensare, che nell'ordine naturale vi è una connessione diretta dall'animale più basso fino all'uomo, pur tuttavia questa concezione rimaneva per esse allo stato di nozione teorica, senza generare l'impulso a prendere la vita, anche nei riguardi del sentimento, nel modo interamente corrispondente a siffatta persuasione. (...) Alcuni delle classi dirigenti si sentono “emancipati”, affrancati dalla religione. Certo nelle loro rappresentazioni vive la convinzione scientifica; nei loro sentimenti però pulsano, a loro insaputa, i residui di una fede tradizionale di vita. (…)
Le classi dominanti non riconoscono di essere la causa di quel sentimento della vita che presentemente nel proletariato muove loro incontro preparato alla lotta. Eppure ne sono state esse la cagione per il fatto che della loro vita spirituale hanno saputo trasmettere in eredità al proletariato solo qualche cosa che gli deve dare l'impressione di semplice “ideologia”. (...)
Le classi borghesi incontrano oggi tanta difficoltà a penetrare nell'anima del proletario, riescono così poco a capire come nell’intelligenza non ancora adusata del proletario, può trovare accesso una ideazione che tanto esiga dal pensiero quale è quella di Carlo Marx. (...) Un movimento con intenti pratici, un puro movimento delle più comuni esigenze della vita umana, non si è mai trovato così - quasi esclusivamente su di una base ideativa - come accade dell'attuale movimento proletario. Si può dire anzi che tra le agitazioni congeneri sia questa la prima che si è collocata puramente su di una base scientifica. (...) Non si può comprendere il concetto proletario della vita e la sua realizzazione mediante le azioni dei suoi rappresentanti, se non ravvisando questo fatto in tutta la sua portata per entro lo sviluppo della nuova umanità. (…)
Al proletario moderno, per il suo modo di pensare, orientato scientificamente, non solo la stessa scienza ma anche l'arte, la religione, la morale e il diritto, appaiono ormai elementi della umana ideologia. In questi elementi della vita spirituale, esso non scorge nulla di reale che irrompa nella sua esistenza e valga ad aggiungere nulla alla vita materiale. (...) Seppure quegli elementi tornino ad agire in questa vita materiale, quando per via indiretta penetrano nel concetto della vita e negli impulsi della volontà, tuttavia originariamente non sono che immagini ideologiche che si innalzano da questa vita. Non possono di per sé offrire nulla che valga a superare le difficoltà sociali. Soltanto per entro i fatti materiali può nascere qualcosa che mena allo scopo.
La vita dello spirito è passata dalle classi dirigenti alla popolazione proletaria, sotto forma che la distrugge per la sua coscienza, quando si tratta di arrivare alle forze che dovrebbero portare alla soluzione dei conflitti sociali. Se dovessero permanere ancora queste condizioni, si dovrebbe veder condannata all’impotenza la vita spirituale dell’umanità, di fronte alle esigenze sociali del presente e dell’avvenire. E di questa impotenza, è in realtà persuasa una gran parte del moderno proletariato. Una tale persuasione si sente esprimere nelle stesse confessioni marxiste. Si dice: la vita economica moderna ha sviluppato dalle sue vecchie forme quelle attuali del capitalismo; questo sviluppo, che ha posto il proletario in una posizione insopportabile di fronte al capitale, andrà ancora più avanti. Ucciderà il capitalismo mediante le forze stesse che in esso operano e da questa morte del capitalismo si avrà la liberazione del proletariato. (…) Il proletariato ha bisogno di una vita spirituale da cui emani una forza che dia all’anima il sentimento della sua dignità umana. Giacché quando egli fu attratto nell’orbita economica del capitalismo dei nuovi tempi, fu indirizzato ad una tale vita spirituale coi più intimi bisogni dell’anima. Invece quella vita spirituale che gli fu trasmessa dalle classi dirigenti, come ideologia, vuotò l'anima sua.
Ciò che imprime la forza direttiva al movimento sociale presente è il fatto che nelle esigenze del proletariato moderno opera l'aspirazione ad una connessione con la vita dello spirito, diversa da quella che può dargli l'attuale ordinamento sociale. (…) Dalla giusta comprensione di questo fatto, dipende la visione di una via che sola può far uscire dalla confusione delle presenti condizioni sociali dell'umanità. Ora, l'accesso a questa via è stato precluso dall'ordinamento sociale che è risultato, sotto l'influenza delle classi dirigenti, dalla nuova forma economica.
Si dovrà acquistare la forza per aprirne l'accesso. (...)
Si tratta ora di questo che, in ultima analisi, il moderno ordinamento economico capitalistico non vede nel suo ambito, che delle merci e la loro valorizzazione nell'organismo economico. E in seno all'organismo capitalistico è divenuta merce anche una cosa rispetto alla quale il proletariato sente che non può essere merce. Quando si arrivi a conoscere con quanta forza un tale sentimento opera, come uno dei fondamentali impulsi di tutto quanto il moderno movimento sociale proletario, si comprenderà che negli istinti, nei sentimenti subcoscienti del proletariato c’è un’avversione a che la sua energia di lavoro debba essere venduta al padrone nel modo stesso che si vendono le merci sul mercato. Esso sente orrore a che sul mercato della mano d'opera, la sua energia di lavoro rappresenti la medesima parte delle merci sul mercato a seconda della domanda e dell'offerta. Quando si arriverà a conoscere quale importanza abbia questa avversione per l'energia del lavoro fatta merce, nel movimento sociale moderno; quando, senza preconcetti, si volgerà lo sguardo a considerare che ciò che qui opera non è ancora proclamato (…) allora, al primo impulso - cioè alla vita spirituale sentita come ideologia - si troverà da aggiungere il secondo impulso il quale, bisogna dirlo, rende oggi la questione sociale imperiosa, anzi scottante. (...)
Il capitalismo è divenuto la forza che ancora imprime il carattere di merce ad una parte dell'essere umano: all'energia di lavoro. (...)
La questione del lavoro non si presenterà nel suo vero aspetto, finché non si comprenderà che nella vita economica la produzione, lo scambio e il consumo delle merci, soggiacciono a leggi che corrispondono ad interessi il cui dominio non deve essere esteso alla energia umana di lavoro.
Rudolf Steiner
 

52 - Brano de “La mia vita” di Rudolf Steiner (Rudolf Steiner)

E in questo stato d’animo venni anche a conoscere per la prima volta le opere di Nietzsche. Il primo libro che lessi fu "Al di là del bene e del male". Anche questo studio mi attrasse e nello stesso tempo mi respinse.
Mi riuscì difficile spiegarmi Nietzsche: amavo il suo stile, amavo il suo ardimento; ma non mi piaceva il modo com’egli trattava i problemi più profondi senza elevarsi a un grado di esperienza spirituale, pel quale la sua anima potesse immergersi in essi coscientemente. Sentivo tuttavia che molte delle cose ch’egli dice mi erano immensamente famigliari. Mi sentivo vicino a lui nelle sue lotte e sentivo anche di dover trovare un'espressione a questo senso d'affinità.
Nietzsche era per me una delle più tragiche figure contemporanee; e la sua tragedia mi pareva risultare necessariamente, per le anime capaci d'approfondimento interiore, dal carattere della struttura spirituale dell’epoca delle scienze naturali. In questi sentimenti trascorsi gli ultimi anni a Vienna.
Prima che si chiudesse questo primo periodo della mia vita, ebbi l’occasione di visitare Budapest e la Transilvania, del quale ho parlato e che per anni mi era rimasto congiunto con rara fedeltà, mi aveva fatto conoscere parecchi dei suoi compatrioti residenti a Vienna. Perciò, oltre alle altre mie relazioni sociali, già molto estese, frequentavo ora anche diversa gente della Transilvania, fra cui i coniugi Breitenstein che mi divennero allora e mi sono rimasti amici cordiali. I miei rapporti con queste persone mi diedero l’occasione d'un viaggio a Budapest. Grande fu l'impressione che ricevetti dalla capitale ungherese il cui carattere è così fondamentalmente diverso da quello di Vienna. Si attraversa, venendo da Vienna, un paesaggio incantevole; è un viaggio brillante, tra gente piena di temperamento e di vivacità musicale. Guardando dal finestrino del treno si ha l'impressione che la natura stessa si colorisca d’una speciale nota poetica e che gli abitanti, senza prestar molta attenzione alla poesia della natura, ch’è loro abituale, si abbandonino ai giochi d'una loro musica del cuore, spesso profondamente intima. E quando si mette il piede a Budapest, ecco tutto un mondo che si rivela, un mondo che può essere contemplato col più vivo interesse, ma non mai interamente compreso dai visitatori appartenenti ad altri popoli europei; come uno sfondo scuro, sul quale risplenda una scintillante luminosità di colori. Quando mi trovai davanti al monumento di Franz Deak, l'essenza di questo mondo mi balzò allo sguardo come concentrata in un’unica figura, il creatore di quell'Ungheria che durò dal 1867 al 1918. Ha una testa in cui vive una volontà rude e superba, una volontà che dà di piglio risolutamente alle cose e arriva al suo risultato senza astuzie, con impeto elementare, senza riguardo a nulla. Sentii quanto fosse soggettivamente vera, per ogni ungherese autentico quella frase che spesso avevo sentito ripetere: “Fuori dell’Ungheria non c'è vita; e se c’é non è vita”.
Da bambino, vivendo sul confine occidentale dell’Ungheria, avevo potuto constatare come i Tedeschi dovessero sentire l’urto contro questa rude volontà superba. Ora nel cuore stesso dell’Ungheria, imparai a conoscere come questa volontà, conduca il magiaro ad un isolamento umano; isolamento che con una certa ingenuità egli riveste d’uno splendore a lui naturale e che, se pur si mostra volentieri all’occhio segreto della Natura, non sopporta facilmente l'occhio aperto degli uomini.
Sei mesi dopo questa visita, gli amici della Transilvania organizzarono per me una conferenza a Hermannstadt. Era l'epoca natalizia. Attraversai le vaste pianure, nel cui centro giace Arad; le nostalgiche poesie di Lenau mi risuonavano in cuore mentre lasciavo spaziare lo sguardo su quelle amplissime distese, su quelle vastità dove l'occhio non incontra limiti. Dovetti pernottare in un paesuccio di confine fra l'Ungheria e la Transilvania e passai metà della notte seduto in un'osteria. Oltre a me, c'era solo un gruppo di giocatori di carte, riunito attorno a una tavola: gente di ogni nazionalità, com'era possibile trovarne allora nell'Ungheria e nella Transilvania. E già dopo una mezz'ora di gioco, la veemenza, la passione con la quale quegli uomini giocavano, traboccava e si espandeva in nuvolaglie animiche, che si elevavano al di sopra della tavola, si combattevano come demoni ed avvolgevano e inghiottivano infine completamente gli uomini. Quali differenze di passionalità si rivelano lì nelle diverse nazioni!
Arrivai a Hermannstadt il giorno di Natale e venni introdotto nella colonia sassone di Transilvania che viveva lì fra i Rumeni e i Magiari. Nobile stirpe la quale, nella decadenza che non voleva ammettere, si sforzava a rimanere valorosa: spirito tedesco esiliato in oriente, quasi a ricordo della sua vita di secoli addietro e deciso a mantener fedeltà alla propria origine; e però, in quest’atteggiamento, rivelava un tratto di allontanamento dalla vita, e lo manifestava in un’allegria fittizia inculcata dall’educazione. Trascorsi belle giornate tra i pastori tedeschi della Chiesa evangelica, i maestri delle scuole tedesche ed altri Tedeschi della Transilvania. E il cuore mi si riscaldava in mezzo a quegli uomini che, nella loro sollecitazione per lo spirito della stirpe e nella cura che ad esso dedicavano, sviluppavano una cultura del cuore la quale, a sua volta, parlava in primo luogo al cuore.
Quest'intimo calore mi ardeva nell'anima durante una gita in slitta, con gli amici vecchi e nuovi, tutti avvolti in pesanti pellicce, con un freddo da lupi, sulla neve crepitante, verso il sud, verso i Carpazi; da lontano, una muraglia di monti coperti di nere foreste; da vicino, una selvaggia e raccapricciante regione montuosa frastagliata da orridi e precipizi.
Contro di tutte le mie esperienze era il mio amico che non si stancava di escogitare nuovi mezzi per farmi conoscere più a fondo l'elemento sassone della Transilvania. Egli trascorreva ancora sempre parte del suo tempo a Vienna, parte a Hermannstadt; aveva allora fondato una rivista settimanale allo scopo di promuovere la cultura sassone nella Transilvania; impresa fatta esclusivamente di idealismo, senza un milligrammo di spirito pratico, alla quale però collaboravano quasi tutti i rappresentanti della cultura sassone in Transilvania. Cessò di esistere poche settimane dopo la sua fondazione.
Simili esperienze, come quella di questi viaggi, mi sono state offerte dal destino; e mi diedero l'occasione di educare lo sguardo per il mondo esterno la cui visione non mi è stata facile, mentre nell’elemento spirituale vivevo, per cosi dire, spontaneamente.
Con l'anima piena di ricordi nostalgici feci il mio viaggio di ritorno a Vienna. Qualche tempo dopo mi capitò nelle mani un libro: “Rembrandt educatore”, della cui “ricchezza di contenuto spirituale” tutti parlavano allora. Lo si considerava come l’avvento d'uno spirito nuovo. A questo sintomo, dovetti rendermi conto di quanto, con la costituzione della mia anima io fossi solo nella vita spirituale dell’epoca. La mia impressione, di fronte a questo libro che tutti esaltavano era la seguente: come se qualcuno avesse passato per mesi e mesi le sue serate al tavolino di un caffè ben frequentato, ascoltando le “spiritose” sentenze degli assidui, e le avesse poi annotate in forma aforistica; e infine, compiuto questo "lavoro preliminare", avesse riuniti tutti i foglietti contenenti tali annotazioni, li avesse mescolati ben bene, tirati fuori, e attaccato l'uno all'altro, facendone un libro. Questa critica è naturalmente esagerata. Ma la mia concezione della vita mi portava appunto a respingere l'opera che invece era ammirata come un capolavoro dallo “spirito dell’epoca”; per me quel libro rimaneva, alla superficie di pensieri che, pur spacciandosi per spirituali, non scendevano però, nemmeno in un'unica frase, a congiungersi con le vere profondità dell’anima umana. Mi addolorava che i miei contemporanei vedessero in un tale libro l’espressione d'una profonda personalità, mentre io dovevo ritenere che quel diguazzar di pensieri nelle acque basse dello spirito illanguidisse nelle anime ciò ch’era in loro di umanamente profondo.
A quattordici anni avevo dovuto cominciare a dar lezioni private e per altri quindici, fino all’inizio del secondo periodo della mia vita, che si svolse a Weimar, il destino mi aveva mantenuto in quell'attività. Con lo sbocciare di molte anime nel corso della loro infanzia e della loro gioventù si è collegato col mio proprio sviluppo e ho potuto osservare quanto sia differente nei due sessi l’ingresso nella vita perché, oltre all'istruzione di ragazzi e di adolescenti, mi fu affidata anche quella di alcune giovinette. E persino la madre del giovane di cui, dato il suo stato patologico, avevo assunto interamente l'educazione, fu per un certo tempo mia allieva nella geometria; e sia a lei sia a sua sorella tenni più tardi anche lezioni di estetica.
In questa famiglia dimorai per parecchi anni come in una casa mia, pur dedicandomi anche altrove ai miei compiti d'insegnante e di precettore. L’amicizia che mi univa alla madre del ragazzo, mi portava a prender parte a tutte le gioie e a tutte le pene della famiglia. In questa donna avevo dinanzi a me un'anima di singolare bellezza; ella viveva in piena dedizione allo sviluppo del destino dei suoi quattro ragazzi; in lei si poteva studiare l'amor materno in grande stile; era bello e interessante occuparci insieme di problemi pedagogici. Aveva una buona disposizione musicale e vivo entusiasmo per quest’arte e, finché furono piccoli, fu lei che si occupò, almeno in parte, degli esercizi musicali dei ragazzi. Con me s'intratteneva sui più svariati problemi della vita addentrandosi in essi con viva comprensione e interesse profondo; seguiva anche con la medesima attenzione i miei lavori scientifici ed altri. Era un tempo in cui sentivo profondo il bisogno di parlar con lei su ogni cosa che mi stesse a cuore. Quando le raccontavo le mie esperienze spirituali, ella mi ascoltava con un'attitudine singolare: il suo intelletto aveva simpatia per esse, eppure manteneva un lieve tono di riserva; l’anima invece le accoglieva pienamente. Il suo atteggiamento di fronte all'essere umano si manteneva naturalistico: nel suo pensiero ella metteva sempre in rapporto la struttura morale dell’anima con lo stato più o meno sano della costituzione fisica. In un certo suo modo istintivo, ella pensava, “medicalmente” sull'essere umano; persino con una speciale nota naturalistica. Era interessantissimo intrattenersi con lei su quest’argomento. Insieme a ciò aveva di fronte alla vita esterna l'attitudine d'una donna che compie col più scrupoloso senso del dovere quanto le viene affidato, mentre però nell'intimo lo considera in gran parte esorbitante dalla propria sfera. Sotto molti rapporti, riteneva il proprio destino come un peso; ma non esigeva nulla dalla vita, la prendeva così come si presentava, fuorché quando si trattava dei figli. Tutto quanto riguardava questi ultimi, lo sentiva, invece con la più intensa emozione dell’anima.
A tutto ciò: vita animica d'una donna, la sua così bella dedizione ai figli, vita di famiglia, entro una vasta cerchia di parenti e di conoscenti, io partecipavo vivamente. La situazione non era però esente da difficoltà. La famiglia era israelita, assolutamente libera nelle sue concezioni da ogni limitazione di confessione o di razza; ma nel padre, al quale ero molto attaccato, c'era una certa suscettibilità di fronte ad ogni osservazione che un non ebreo facesse sugli Ebrei; suscettibilità provocata dall’antisemitismo, allora in ripresa.
Se non che, in quel tempo, prendendo io parte viva alla lotta che i Tedeschi avevano da sostenere in Austria per la loro esistenza nazionale, fui condotto anche a occuparmi della situazione, storica e sociale del giudaismo, specie quando uscì l’”Homunculus” di Hamerling. Gran parte della stampa giornalistica prese occasione da quest'opera per caratterizzare quale antisemita, questo poeta eminentemente tedesco; gli stessi nazionalisti tedeschi antisemiti lo pretesero come uno di loro. Tutto ciò mi toccava assai poco; ma, in un articolo ch’io scrissi sull’”Homunculus”, mi espressi, o così mi sembrava, in modo del tutto oggettivo sulla situazione del Giudaismo. L’uomo, nella cui casa io vivevo e con cui ero in rapporti di vera amicizia, lo prese come una speciale forma di antisemitismo. La sua amicizia per me non venne minimamente alterata; però l'articolo gli arrecò un profondo dolore. Lo vedo ancora davanti a me, appena ebbe letto l'articolo, sconvolto dalla pena più intensa: “Non è possibile interpretare in senso amichevole ciò che Lei ha scritto qui sugli ebrei, - mi disse - eppure non è tanto questo che mi ferisce, quanto il fatto che, dati l’intimo rapporto che ha con noi e coi nostri amici, soltanto con noi può aver fatto le esperienze che l’hanno indotta a scrivere così”.
S'ingannava: ché il mio giudizio procedeva esclusivamente dalla visione complessiva storico-spirituale; nulla di personale vi era fluito. Ma egli non poteva vederlo. Alle mie dichiarazioni rispose soltanto: “No, l'uomo che educa i miei figli non è - a giudicare da questo articolo - un amico degli ebrei. E non fu possibile distoglierlo da questa convinzione. Però non pensò nemmeno per un attimo che il mio rapporto con la famiglia dovesse minimamente mutare; questo per lui era una necessità. Ancora meno potevo io considerare questo fatto come il motivo d'un cambiamento perché l’educazione di suo figlio era per me un compito assegnatomi dal destino. In tutti e due però rimase nella coscienza il senso che qualcosa di tragico si fosse venuto a frapporre nei nostri rapporti.
Ad aggravare la situazione si aggiunse un altro fatto. In seguito alle lotte nazionali di quel tempo, molti dei miei amici avevano assunto un colore antisemitico nella loro visione del Giudaismo e non vedevano quindi con simpatia la mia posizione in una casa israelita. D'altra parte il capo di casa vedeva nei miei rapporti amichevoli con tali persone una conferma dell'impressione ricevuta dal mio articolo.
Apparteneva alla parentela della famiglia, di cui facevo intimamente parte, il compositore della “Croce d'oro”, Ignatz Bruell, fine personalità alla quale volevo un gran bene. Viveva quasi perduto in se stesso, lontano dalle cose del mondo. Il suo interesse per la musica non era però esclusivo, ma si rivolgeva a molti altri lati della vita spirituale; egli poteva dedicarsi a questi suoi interessi solo perché era un “favorito dalla sorte” e viveva, si può dire, sullo sfondo d'una vita di famiglia che allontanava da lui ogni cura dell'esistenza quotidiana permettendo che la sua attività creativa si svolgesse in un ambiente di agiatezza.
Cosi egli si sviluppò penetrando non nella vita, ma solo nella musica. Non occorre qui classificare il valore o meno della sua produzione musicale, ma era incantevole incontrarlo per strada e vederlo risvegliarsi dal suo mondo di suoni nel momento in cui gli si rivolgeva la parola. Persino i bottoni del suo panciotto non erano quasi mai abbottonati nell'occhiello giusto; egli luceva nello sguardo una soavità meditativa, il passo non era del tutto sicuro, ma pieno d'espressione. Conversando con lui si poteva parlare di molte cose per le quali manifestava una comprensione fine e delicata; ma si poteva scorgere in lui come il contenuto d'ogni discorso s'insinuasse subito nel regno della musica.
Nella famiglia in cui vivevo, conobbi anche l'insigne medico Dr. Breuer che, insieme col Dr. Freud, partecipò - per cosi dire - alla nascita della psicanalisi. Egli però collaborò soltanto agli inizi di questa concezione e non fu più d'accordo con lo sviluppo datole in seguito dal Dr. Freud. Il Dr. Breuer era per me una personalità piena di attrattiva di cui ammiravo molto il contegno nel campo professionale; ma anche in altri campi egli era uno spirito eclettico. Parlava di Shakespeare in modo che se ne potevano ricevere vigorosi impulsi: era interessante ascoltarlo anche quando parlava di Ibsen, o della “Sonata a Kreutzer” di Tolstoi, dal suo punto di vista genuinamente medico. Quando trattava simili argomenti con la mia amica, la madre dei giovinetti che educavo, assistevo spesso col più vivo interesse alla conversazione. In quel tempo la psicanalisi non era ancora nata; ma i problemi che tendevano in quella direzione erano già nell’aria. I fenomeni ipnotici avevano dato una colorazione speciale al pensiero della medicina. La mia amica era legata d’amicizia al Dr. Breuer fin dalla gioventù; e a me si presentava qui un fatto che mi ha dato molto da riflettere: questa donna pensava in un certo senso, ancor più “medicalmente” dell'insigne medico stesso. Trattandosi una volta d’un morfinomane, curato dal Dr. Breuer, ella mi disse: “Pensi che cosa ha fatto il Dr. Breuer! Si è fatto dare da quel morfinomane la parola d’onore che non avrebbe più preso morfina. Credeva con ciò d'arrivare a qualche risultato, e rimase indignato quando il paziente gli mancò di parola: indignato al punto da esclamare: - Come posso curare una persona che non tiene la parola data? - È incredibile, essa aggiunse, che un medico così eccellente possa essere tanto ingenuo! Come si può volere guarire attraverso una promessa, una cosa radicata così profondamente nella natura?”
Non importa qui che la signora avesse ragione o no. Le vedute del medico sulla terapia suggestiva possono aver cooperato al suo tentativo di cura. Ma non si può negare che tali parole della mia amica testimonino della straordinaria energia con la quale ella parlava allora in modo così singolarmente consono allo spirito che viveva nella scuola viennese di medicina, appunto al tempo in cui quella scuola fioriva.
Era davvero, nel suo genere, una donna superiore e sta come una figura importante nella mia vita. Ora è morta da lungo tempo. Fra le cose che mi resero penoso il distacco da Vienna ci fu anche il fatto di dovermi separare da lei. Se guardo indietro alla prima parte della mia vita, cercando di caratterizzarla come da fuori, si afferma in me questa sensazione: il destino mi aveva guidato in modo che, raggiunti i trent'anni, non mi vedevo ancora legato da nessuna “professione” esterna. Nemmeno nell'Archivio di Goethe e Schiller a Weimar entrai come impiegato fisso, ma quale libero collaboratore all’edizione goethiana che l’Archivio pubblicava per incarico della Granduchessa Sofia. Nel resoconto stampato dal direttore dell’Archivio, nel 12° volume degli Annuari goethiani è scritto, infatti: “Dall'autunno del 1890 si è aggiunto, ai collaboratori fissi, il Dr. Rudolf Steiner, da Vienna. Ad eccezione della parte osteologica, gli è stato assegnato tutto il campo della “Morfologia”, circa cinque o sei volumi della “seconda sezione” ai quali affluisce dal lascito dei manoscritti, un materiale d'alta importanza.
Rudolf Steiner (1924)

53 - Altro stralcio da un’”Autobiografia” (Collingwood)

Fino all'età di tredici anni vissi in casa e mio padre curò egli stesso la mia istruzione. Le lezioni occupavano soltanto due o tre ore ogni mattina; per il resto egli mi lasciava in libertà, aiutandomi talvolta in quello che sceglievo di fare, ma più spesso lasciando che me la cavassi da solo.
Fu opera sua che io incominciassi lo studio del latino a quattro anni e del greco a sei; ma fu opera mia l’incominciare, circa allo stesso tempo, a leggere tutto quello che potevo trovare, specialmente di geologia, di astronomia e di fisica; a riconoscere le rocce e le stelle, ed a capire il funzionamento delle pompe, delle serrature e di altri strumenti meccanici che si trovavano per la casa.
Fu mio padre a darmi lezioni di storia antica e moderna, illustrandola su carte geografiche in rilievo fatte con carta macerata, ottenuta facendo bollire dei giornali in un tegame; ma la mia prima lezione su ciò che ora considero il mio campo specifico, la storia del pensiero, fu la scoperta, nella casa di un amico che stava a poche miglia lontano, di un libro sgualcito del Seicento, privo di copertina e di frontespizio, e pieno di strane dottrine sulla meteorologia, la geologia ed il moto dei pianeti. Doveva essere un compendio dei "Principia" di Cartesio, a quel che mi è dato giudicare dal ricordo di ciò che diceva sui vortici; avevo circa nove anni quando lo trovai e già ne sapevo abbastanza sulle corrispondenti teorie moderne per valutare il contrasto che offriva.
Esso mi mise a parte del segreto dal quale i libri moderni mi avevano fino allora escluso, e cioè che le scienze naturali hanno una loro storia e che le dottrine che esse insegnano in ogni campo e in ogni periodo, sono state raggiunte non da qualche scopritore che colga la verità dopo secoli di errori, ma dalla graduale modificazione di dottrine fino a quel momento tenute per vere; e che esse stesse saranno modificate in un giorno futuro, a meno che il pensiero non si arresti. Non dirò che tutto questo mi sia parso chiaro a quell'acerba età ma dalla lettura di questo libro acquistai almeno la consapevolezza che la scienza è un organismo che nel corso della sua storia si modifica più o meno in continuità in ogni sua parte, piuttosto che un magazzino di verità conquistate una dopo l'altra. Negli stessi anni osservavo sempre il lavoro di mio padre, di mia madre e degli altri pittori di professione che frequentavano la nostra casa, e mi provavo sempre ad imitarli; così imparai a pensare un quadro non come un prodotto finito, esposto all'ammirazione dei conoscitori, ma come il documento visibile del punto raggiunto nel tentativo di risolvere un problema pittorico. Imparai quello che alcuni critici e scrittori di estetica non sanno mai, neppure alla fine della loro vita: e cioè che nessuna opera d'arte è mai finita (…). Si cessa di lavorare a un dipinto o a un manoscritto non perché essi siano finiti, ma perché è giunto il giorno della consegna o perché l'editore ne richiede insistentemente una copia, o perché “sono stufo di lavorarci” o “non so proprio che cosa ci si possa fare di più”. Trovavo in me stesso minore attitudine alla pittura che alla letteratura; fin da piccolo scrivevo continuamente, in versi e in prosa, liriche e frammenti di epica, novelle avventurose e romanzesche, descrizioni di paesi immaginari, assurdi trattati scientifici e archeologici. Un'abitudine prolifica a questo riguardo era incoraggiata, anzi richiesta, dalla consuetudine familiare di produrre una rivista mensile manoscritta, che si faceva poi circolare tra parenti e amici.
Mia madre conosceva bene il pianoforte ed era solita suonare per un’ora ogni mattina prima di colazione; qualche volta, anche di sera, davanti a un pubblico formato da fanciulli del vicinato seduti per le scale al buio. In questo modo venni a conoscere tutte le sonate di Beethoven e quasi tutto Chopin, perché questi erano i suoi compositori favoriti, benché non fossero anche i miei. In quanto a me non sono mai stato capace di suonare bene il pianoforte.
Mio padre aveva molti libri e mi permetteva di leggerli liberamente. Tra gli altri aveva conservato i libri di studi classici, di storia antica e di filosofia che aveva usato ad Oxford. Di regola questi li lasciavo stare, ma un giorno, quando ebbi otto anni, fui attratto dalla curiosità a tirar giù un piccolo libro nero sul cui dorso stava scritto: “Kant's Theory of Ethics”. Era la traduzione di Abbot del "Grundlegung zur Metaphysik der Sitten”; e come lo cominciai a leggere, mi incastrai tra la libreria e il tavolo, e fui preso da una strana successione di emozioni. Da principio fu un’intensa eccitazione. Sentivo che si dicevano cose della più alta importanza, e su questioni di urgenza imprescindibile; cose che ad ogni costo dovevo capire. Ma a questo punto con ondata di indignazione, mi accorsi che non potevo capire. Cosa umiliante a confessare, quello era un libro le cui parole erano inglesi e i cui periodi grammaticalmente tornavano: ma il significato di essi mi sfuggiva. Quindi, terza ed ultima, venne la strana sensazione che il contenuto di quel libro, anche se non lo potevo capire, era in qualche modo affar mio, una questione mia personale o, meglio, qualcosa che mi sarebbe personalmente appartenuto in futuro. Non si trattava della puerile intenzione di “diventare un guidatore di locomotive quando sarò grande” perché non c'era desiderio in ciò: io non volevo, in nessun senso della parola, esser padrone dell'etica kantiana quando fossi stato abbastanza adulto, ma sentivo come se si fosse alzato un velo, rivelandomi il mio destino. Ecco che dopo di ciò fui preso dall'impressione di essere investito di un compito la cui natura non potevo definire se non dicendo: io devo pensare. Ciò a cui dovevo pensare non lo sapevo; e quando ubbidendo a questo imperativo, mi facevo muto e mi astraevo dalla compagnia o cercavo la solitudine per pensare senza essere interrotto, non avrei potuto dire, e tuttora non lo potrei, che cosa fosse quello a cui realmente pensavo.
Non c'erano particolari problemi che mi ponessi né c’erano specifici argomenti cui dirigessi la mente: c’era soltanto un’informe agitazione mentale senza un fine preciso, come se stessi lottando contro una nebbia. So adesso che questo è ciò che sempre mi capita quando sono ai primi stadi nella elaborazione di un problema. Finché il problema non si è avviato decisamente alla soluzione, non so che cosa sia: tutto quello di cui ho coscienza è questa vaga irrequietezza mentale, questa sensazione di essere preoccupato da qualche cosa che non conosco. Capisco adesso che i problemi del lavoro della mia vita stavano prendendo nel profondo di me stesso la loro prima forma embrionale. Ma tutti quelli che mi osservavano debbono aver pensato, come infatti fecero i miei parenti, che io mi fossi abituato all'ozio, perdendo quella vivacità, e quella prontezza di mente che erano state così evidenti nella mia prima fanciullezza.
La mia unica difesa contro questa opinione - dato che non sapevo che cosa mi stesse succedendo, e perciò non avrei potuto spiegarlo - era il coprire questi attacchi di astrazione con qualche attività fisica, gingillandomi per quel tanto che mi permettesse di non distrarre l'attenzione dal mio travaglio interiore.
Ero un ragazzo ingegnoso, capace di fare un mucchio di cose: veloce nel camminare, nell'andare in bicicletta o nel canottaggio, ed espertissimo nel manovrare una barca a vela. Così, quando mi prendevano questi attacchi, mi mettevo a fare qualche bazzecola, come un reggimento di omini di carta, o a vagare senza meta nei boschi o per i monti, o a veleggiare tutto il giorno in una calma assoluta. Era penoso esser preso in giro perché giocavo con omini di carta; ma l'alternativa, a tutto questo, lo spiegare cioè perché lo facessi, era impossibile. Non sono sicuro se fosse questa mia progressiva tendenza a non fare niente a far decidere mio padre di mandarmi a scuola. Comunque egli era troppo povero per pagarne lui stesso le spese, ed esse (e più tardi anche quelle di Oxford) furono sostenute dalla generosità di un ricco amico. Così a tredici anni fui messo ad una scuola preparatoria al fine di concorrere ad una borsa di studio, e conobbi la dura ‘routine’ colla quale i ragazzi della classe media inglese si guadagnano la vita con concorsi, cominciando ad una età in cui ai loro coetanei della classe lavoratrice è ancora proibito per legge, di scendere sul mercato del lavoro. L’amico di mio padre, ne sono sicuro, avrebbe pagato per me con la stessa benevolenza tanto duecento sterline all’anno quanto una; ma per me almeno era un punto d'onore vincere le borse di studio, se non altro per giustificare la spesa di tanti soldi per me; e anche se tale spesa non fosse stata giustificata, lo specialismo, che è uno dei principali vizi dell'educazione inglese non mi avrebbe risparmiato. Lo spettro di una sciocca disputa secentesca, abita ancora le nostre aule, infettando maestri e scolari con la pazza idea che gli studi devono essere o “classici” o “moderni”. Io ero adatto a specializzarmi in greco e latino, quanto in storia e lingue moderne, (parlavo e leggevo il francese e il tedesco con la stessa facilità dell'inglese), o le scienze naturali, e nulla avrebbe potuto offrire alla mia mente il nutrimento adatto, se non lo studio di tutte e tre le cose; ma l’insegnamento di mio padre mi aveva impartito una buona dose di latino e greco in più di quella che la maggioranza dei ragazzi della mia età avesse ricevuto e poiché dovevo specializzarmi in qualcosa, mi specializzai in questo e divenni uno studente “classico”.
Oltre al “rapprochement” tra filosofia e storia, stavo anche lavorando ad un “rapprochement” tra teoria e pratica. I miei primi sforzi in questa direzione, furono tentativi di obbedire a ciò che sentivo come una vocazione a resistere alla corruzione morale propagata dal dogma "realista" che cioè la filosofia morale non faccia altro che studiare, con uno spirito puramente teoretico, un campo che quella ricerca lascerebbe inalterato.
L’opposto di questo dogma mi sembrava non solo una verità, ma una verità che, e per la sua integrità e per la sua efficacia, come agente morale nel senso più largo del termine, dovrebbe essere familiare ad ogni essere umano: cioè, che nella sua qualità di agente morale, politico, economico, egli non viva in un mondo di “crudi fatti”, a cui i pensieri non facciano né caldo né freddo, ma in un mondo di pensieri; che se si cambiano le “teorie” morali, politiche ed economiche generalmente, accettate dalla società in cui egli vive, si cambia il carattere del suo mondo; e che se si mutano le sue “teorie”, si muta il suo rapporto con quel mondo; così che in entrambi i casi si cambia il suo modo d'agire.
Il tentativo "realista" di negare ciò poteva senza dubbio esser difeso con qualche ragione plausibile finché era possibile fare un taglio netto tra pensiero filosofico e pensiero storico. Si poteva ammettere che il modo in cui un uomo agisce, in quanto egli è un agente morale, politico, economico, non è indipendente dal suo modo di pensare sulla situazione in cui si trova. Se la conoscenza circa i fatti della propria situazione si chiama conoscenza storica, la conoscenza storica è necessaria all'azione. Ma si potrebbe ancora obiettare che il pensiero filosofico, che avrebbe a che fare con “universali” all'infuori del tempo, non sia necessario. Argomenti di questa specie, non valeva più la pena di confutarli sapendo ormai come sapevo, che il "realismo" era completamente fuori strada sulla natura della storia, e che di conseguenza ogni argomento "realista" basato sulla distinzione tra storia e filosofia, - o tra fatti e teorie, o tra “l’individuale” (che alcuni realisti mal chiamavano “il particolare”) e “l’universale” – deve considerasi sospetto. Subito dopo la guerra, perciò, incominciai a riconsiderare nei loro particolari tutti i punti ed i problemi della filosofia morale, includendo sotto questo titolo tanto la teoria dell'economia che quella della politica e quella della morale in senso stretto, alla luce dei principi che già a quel tempo informavano tutto il mio lavoro.
In primo luogo sottoposi quei punti e quei problemi a ciò che io chiamavo un trattamento storico, insistendo sul fatto che ognuno di essi aveva la sua storia, ed era incomprensibile senza avere una qualche conoscenza di quella storia. In secondo luogo tentai di trattarli con un altro procedimento che chiamai analitico. La mia idea era che una stessa azione (che come azione pura e semplice era un'azione “morale”) era anche un'azione “politica”, in quanto azione relativa ad una norma e nello stesso tempo un'azione “economica” in quanto mezzo per un fine. I problemi della teoria morale, nel più largo senso della parola 'morale', potevano così dividersi nel modo seguente: a) problemi della teoria morale in senso stretto, cioè problemi che trattano dell'azione in quanto tale; b) problemi della teoria politica, cioè i problemi che trattano dell'azione in quanto formazione, obbedienza o trasgressione di norme; c) problemi della teoria economica, o problemi che hanno per oggetto l'azione in quanto produttrice o non produttrice di beni al di là di sé stessa.
Non c’erano, ritenevo, azioni soltanto morali né soltanto politiche; ogni azione era morale, politica ed economica. Ma sebbene le azioni non dovessero dividersi in tre classi separate - le morali, le politiche e le economiche - queste tre caratteristiche, la loro moralità, la loro politicità e la loro economicità, dovevano essere distinte, e non confuse come lo sono, per es. nell’utilitarismo che dà ragione dell'economicità, quando professa di dar ragione della moralità.
Queste erano le direttive in base alle quali svolsi il problema, nelle mie lezioni del 1919. Continuai a far lezione su questo argomento per quasi tutto il resto della mia permanenza nel Pembroke College, rivedendolo continuamente. Lo schema che ho appena descritto rappresenta, ovviamente, uno stadio del mio pensiero in cui il “rapprochement” tra storia e filosofia era ancora molto incompleto. Qualunque lettore che abbia compreso i capitoli precedenti di questo libro può comprendere da sé come le modificai col passar del tempo.
Il “rapprochement” tra teoria e pratica era parimenti incompleto. Non le pensavo più come reciprocamente indipendenti; vedevo che la relazione tra loro era di intima e reciproca dipendenza, il pensiero dipendendo da ciò che colui che pensa ha imparato dall'esperienza nell’azione, l'azione dipendendo da ciò che egli pensava di sé e del mondo; sapevo molto bene, anche, che il pensiero scientifico, storico e filosofico dipendeva tanto dalle qualità “morali” come da quelle “intellettuali”, e che le difficoltà “morali” dovevano essere superate non dalla sola forza “morale”, ma dal pensare con chiarezza.
Questo era però soltanto un “rapprochement” teoretico di teoria e pratica, non “rapprochement” pratico: io conducevo ancora la mia vita di tutti i giorni, come se pensassi che il compito di quella vita fosse teoretico e non pratico. Non vedevo che la mia tentata ricostruzione della filosofia morale sarebbe rimasta incompleta finché le mie abitudini si fossero basate sulla banale distinzione tra pensatori e uomini d’azione.
Questa divisione, come molte cose che oggi noi consideriamo naturali, era una sopravvivenza del Medioevo. Io vivevo e lavoravo in una università, e una università è una istituzione basata su idee medioevali, la cui vita e la cui opera sono ancora impacciate dalla medievale interpretazione della distinzione greca fra vita contemplativa e vita pratica come campi riservati a due classi di specialisti.
Posso vedere adesso, che avevo tre diverse posizioni verso questa sopravvivenza. C'era un primo R.G. Collingwood che sapeva teoricamente che la divisione era falsa, e che la “teoria” e la “pratica”, essendo interdipendenti, dovevano entrambe essere ugualmente frustrate, se segregate nelle specifiche funzioni di classi diverse.
C'era un secondo R.G. Collingwood che nelle abitudini della sua vita ordinaria si comportava come se essa fosse stata concreta, vivendo egli come un pensatore di professione per il quale i cancelli del college erano il simbolo del suo essere appartato degli affari della vita pratica. Le mie abitudini e la mia filosofia erano così in conflitto: vivevo come se non credessi nella mia stessa filosofia, e filosofavo come se non fossi stato il pensatore di professione che ero di fatto. Mia moglie soleva dirmelo; ed io solevo seccarmene alquanto.
Ma al disotto di questo conflitto c'era un terzo R.G. Collingwood per il quale la toga del pensatore di professione era un travestimento di volta in volta comico e odioso nella sua incongruenza. Questo terzo R.G. C. era un uomo d'azione, o piuttosto era un qualcosa in cui la differenza tra pensatore e uomo d'azione scompariva. Egli non mi lasciava mai solo molto a lungo. Si rigirava nel sonno ed il tessuto della mia vita abituale incominciava a incrinarsi. Sognava, ed i suoi sogni si cristallizzavano nella mia filosofia. Quando non voleva giacersene quieto e lasciarmi giocare a fare il professore, solevo pacificarlo mettendo da parte le mie associazioni accademiche, e tornando dalle mie parti a tenere conferenze alla società antiquaria locale. Può sembrare una strana forma di “sfogo” per un uomo d'azione compresso ma aveva molto effetto. L'entusiasmo verso gli studi storici e verso di me quale loro guida in quegli studi, che io non mancavo mai di suscitare in coloro che mi ascoltavano, non era diverso in sostanza dall'entusiasmo che un oratore suscita per la sua persona e la sua politica. E qualche volta questo terzo R.G. C. si svegliava, balzando su: per esempio un giorno, poco dopo il principio d'agosto 1914, quando una folla di minatori del Northumberland, piena di fervore patriottico, vide quel che essa immaginò fosse una spia tedesca nel “vecchio campo romano” su per la collina ed agì in modo conforme.
Il terzo R.G. C. soleva alzarsi e ravvivarsi con voce sonnolenta, tutte le volte che incominciavo a leggere Marx. Non fui mai affatto convinto né dalla metafisica di Marx, né dalla sua teoria economica: ma l'uomo era un combattente, e un grande combattente; e non soltanto un combattente, ma un combattente filosofo. La sua filosofia poteva non essere convincente, ma per chi non era tale? Qualsiasi filosofia - lo sapevo - sarebbe, non solo non convincente ma insensata per uno che traviasse il problema ch’essa intende risolvere. Quella di Marx intendeva risolvere un problema “pratico”: il compito, come egli stesso diceva, era di “rendere migliore il mondo”. La filosofia di Marx sarebbe perciò apparsa di necessità senza senso, eccetto che per uno che, non dirò condividesse il suo desiderio di rendere migliore il mondo per mezzo della filosofia, ma almeno considerasse tale desiderio come ragionevole. Secondo i miei principi di critica filosofica era inevitabile che la filosofia di Marx dovesse sembrare senza senso a filosofi con i guanti come i “neorealisti”, con la loro netta divisione tra teoria e pratica, o per i “liberali” quali John Stuart Mill, che sostenevano che si dovrebbe lasciar pensare alla genteciò che vuole, perché quel che essa pensa non ha in fondo importanza. Al fine di criticare una filosofia senza guanti come quella di Carlo Marx, si deve essere filosofo senza guanti almeno per quel tanto che permetta di considerare legittimo il filosofare senza guanti.
Il primo ed il terzo R.G. C., erano d’accordo nel volere una filosofia senza guanti. Essi non volevano una filosofia che fosse un giocattolo scientifico garantito come divertente per i filosofi di professione, sicuri dietro i cancelli del loro “college”. Essi volevano una filosofia che fosse un’arma. Fin qui io ero con Marx. Forse tutto quello che ostava sulla via di un più stretto accordo era il secondo R.G. C. il pensatore accademico o di professione.
La mia posizione verso la politica è sempre stata quella che in Inghilterra è chiamata democratica, e sul continente, liberale. Mi consideravo come una unità in un sistema politico in cui ogni cittadino che possedesse il diritto di voto aveva il diritto di votare per un rappresentante del Parlamento. Pensavo che il governo del mio paese, grazie ad un diritto di voto molto esteso, a una libera stampa e a un diritto di libera parola universalmente riconosciuto, fosse tale da rendere impossibile che una considerevole parte del paese potesse essere oppressa dall’azione del governo o che le sue rimostranze dovessero essere soffocate, anche se non ci si poteva trovare rimedio. Pensavo che il sistema democratico non era soltanto una forma di governo, ma una scuola di esperienza politica, estesa a tutta la nazione e pensavo che nessun governo autoritario, per quanto forte, potesse essere tanto forte come quello che poggiava su di una opinione pubblica politicamente educata.
Come forma di governo pensavo che la sua essenza stesse nel fatto che essa era un vivaio in cui le direttive politiche erano portate a maturazione alla luce del sole, non un ufficio postale che le distribuisce belle e fatte ad un paese passivamente ricettivo.
Questi li consideravo meriti grandissimi: più grandi di quelli di ogni altro sistema politico fino allora escogitato, e degno di essere difeso a tutti i costi contro coloro i quali, volendo ingannare il cittadino ed imporre delle direttive belle e fatte, preparate da qualche cricca senza responsabilità, slealmente lo accusavano di essere “impacciante” e “inefficiente”. Sapevo naturalmente che aveva denunciato questo sistema come una frode avente la funzione di gettare una sembianza di legalità sull'oppressione dei lavoratori da parte dei capitalisti, ma sebbene sapesse che tale oppressione esisteva ed era in larga misura legalizzata, pensavo che fosse compito di un governo democratico lo sradicarla.
Non pensavo che la nostra costituzione fosse priva di errori. Ma la scoperta e la correzione di questi errori era compito dei governi, non dei singoli elettori. Perché il sistema si correggeva da sé, essendo capace mediante la legislazione, di emendare i propri errori.
Esso era anche tale da alimentarsi da sé. I membri del Parlamento erano scelti dagli elettori nella loro stessa cerchia: i gradi più alti del sistema erano occupati da persone prese tra i membri del Parlamento; e così, finché i singoli elettori compivano i loro doveri politici, tenendosi adeguatamente informati sulle questioni pubbliche e votando secondo quanto in ogni data occasione giudicavano fosse il bene della nazione nel suo complesso, c'era poco pericolo che i suoi rappresentanti fossero insufficientemente informati, o insufficientemente dotati di spirito pubblico per fare con onore il loro lavoro. E, grazie al voto di maggioranza, non importava molto se alcuni, in qualsiasi momento, non fossero informati o fossero sviati. Finché la maggioranza era abbastanza bene informata e sufficientemente dotata di spirito pubblico per quel che essa aveva da fare, gli sciocchi ed i disonesti sarebbero stati battuti ai voti.
L'intero sistema comunque si sarebbe sfasciato, se una maggioranza dell’elettorato fosse divenuta o male informata sulle questioni pubbliche, o corrotta nel suo atteggiamento verso di esse; cioè capace di adottare nei loro confronti una politica diretta non al bene della nazione come un tutto, ma al bene della propria classe e del proprio ceto, o dei suoi stessi componenti.
Per quanto riguarda il primo periodo mi accorsi di un cambiamento in peggio durante gli anni dal 1890 al 1900. I giornali dell'età vittoriana si facevano un dovere, consideravano anzi il loro primo dovere, di dare ai loro lettori una piena e accurata informazione sulle cose di pubblico interesse. Poi venne il “Daily Mail”, il primo grande giornale inglese per il quale la parola “notizia” perdette il suo vecchio significato di fatti che il lettore doveva sapere se voleva votare intelligentemente ed acquistò il nuovo significato di fatti, o fantasia, che potrebbero rendergliene divertente la lettura. Leggendo un tale giornale il lettore non imparava più a votare. Imparava a non votare; perché gli si insegnava a pensare le “notizie” non come la situazione in cui egli doveva agire, ma come un puro spettacolo per i momenti d'ozio.
Per quanto riguarda il secondo periodo, mi accorsi piuttosto tardi di influenze corruttrici. La sistemazione del Sud Africa del ministero Campbell-Bannerman fu una bella dimostrazione dei principi in cui credevo, ed una prova che non avevo torto a considerare i principi della politica inglese. La legislazione sociale del suo successore, il primo ministro Asquith, fu tale che non potevo fare altro che approvarla. Ma il modo con cui essa venne propagandata promettendo agli elettori “nove soldi in cambio di quattro”, era la negazione di quei principi. Lloyd George divenne per me una caratteristica, secondo solo al Daily Mail, della corruzione dell'elettorato. Durante il primo quarto di questo secolo, ciascuna di queste influenze corruttrici ebbe un enorme sviluppo.
Dopo la guerra il sistema democratico era minacciato da due potenti rivali. C’erano due elementi in questo sistema, ognuno dei quali era figlio del proprio rivale. Su di una base lockiana di proprietà privata la tradizione democratica aveva eretto un sistema di istituzioni rappresentative designate a promuovere il bene della nazione nella sua totalità. Ma esisteva, sulla carta da che Marx la formulò, ed in termini di realtà politica dalla rivoluzione russa, un sistema avente lo stesso fine, ma un diverso punto di partenza. I socialisti (uso il termine nel senso di “socialismo marxista”), erano d'accordo con la tradizione democratica nel mirare al miglioramento sociale ed economico di tutto il popolo, ma proponevano di raggiungere questo fine attraverso la proprietà pubblica dei “mezzi di produzione”. Poi vennero il fascismo in Italia, ed il nazionalsocialismo in Germania, che erano d'accordo con la tradizione democratica nel fare della proprietà privata il loro primo principio ma, allo scopo di conservarla, essi non soltanto abbandonarono le istituzioni politiche del governo democratico, ma anche il fine del miglioramento sociale ed economico a cui quelle Istituzioni erano dirette.
La vera rottura tra la tradizione democratica ed i socialisti non era su un principio politico, ma su un principio di fatto. Nessuno, penso, negherebbe che la società europea moderna sia divisa tra persone le cui energie sono incentrate nel possedere beni, e persone le cui energie sono incentrate nel produrne.
Chiamiamoli capitalisti e lavoratori rispettivamente. Tutti i capitalisti producono delle cose, e tutti i lavoratori ne posseggono; ma questo non annulla la distinzione. Se ciò che è vitale per un uomo è il suo possesso di certe cose, mentre il suo impegnarsi in certe attività è relativamente poco importante, per molto che egli faccia è un capitalista. Se avviene il contrario, per molto che possieda, egli è lavoratore.
Fra queste due “classi” nella società europea moderna, i socialisti ritenevano che esistesse una “guerra di classe” e che le istituzioni parlamentari non superassero questa guerra, ma la dissimulassero soltanto. La tradizione democratica sosteneva che le istituzioni parlamentari agivano in modo tale da dissipare ogni tendenza alla guerra di classe per mezzo della libertà di parola e della libera discussione. Il fascismo su questo punto era d'accordo col socialismo: sebbene i suoi portavoce, perseguendo la loro evidente politica di inganno, lo negassero. Ma mentre il socialismo sperava di porre fine alla lotta di classe con una vittoria dei lavoratori che avrebbe portato all’abolizione delle differenze di classe, il fascismo aspirava di perpetuarla con una vittoria capitalista che avrebbe portato alla permanente soggezione dei lavoratori. Il nazionalsocialismo è soltanto la varietà locale tedesca del fascismo.
Il fascismo potrebbe meglio definirsi come un socialismo capitalista: un ordinamento in cui il sistema socialista sia stato rovesciato, al fine di connetterlo con un altro primo motore, cioè col desiderio dei capitalisti di rimanere tali. Allo scopo di soddisfare questo desiderio essi erano felici di farsi ricattare dal governo fascista al di là di ogni tassazione e controllo che mai fosse stato escogitato da governo parlamentare. Nel socialismo il movente primo era il desiderio del benessere sociale ed economico dell’intera nazione. Paragonati ad esso, lo scopo e la forza del fascismo non erano rispettabili, e dovevano essere mascherati. Essi erano perciò celati sotto una coltre di odio e di gelosia internazionale.
Di fatto il fascismo non era compatibile con l’odio internazionale. Non si basava sull'idea di nazione, ma su quello di classe e se fosso stato onesto, esso avrebbe risposto al “Manifesto dei comunisti” con il grido: “Capitalisti di tutto il mondo unitevi!”
Ma il fascismo non era capace di onestà. Essenzialmente un tentativo di combattere il socialismo con le sue stesse armi, esso fu sempre incoerente con se stesso. Ci fu un tempo un noto e intelligente filosofo che fu convertito al fascismo. Come filosofo quella fu la sua fine. Nessuno poteva abbracciare un credo così fondamentalmente sballato e rimaner capace di pensare chiaramente. I grandi esponenti del fascismo sono degli specialisti nel destare le passioni della massa; i suoi appartenenti minori, degli opportunisti e dei maneggioni.
Sapendo tutto questo e pensando che, nonostante qualche influenza corruttrice, la vera tradizione democratica esisteva ancora nel mio paese, respinsi il socialismo perché il sistema parlamentare funzionava ancora abbastanza bene nell'assolvere la sua funzione di antisettico contro la guerra di classe; respinsi il fascismo come una incoerente caricatura delle peggiori caratteristiche del socialismo e rimasi fedele alla tradizione democratica.
“Fu l’ulcera spagnola” - disse Napoleone – “a distruggermi”. Avevo viaggiato per gran parte della Spagna nel 1930 e nel l931, e nel secondo anno avevo visto in atto un po’ dovunque dei movimenti rivoluzionari. Essi erano condotti nel modo più ordinato. I miei amici ed io non vedemmo mai un solo atto di violenza, né mai ne sentimmo parlare od avemmo la prova che tali atti fossero avvenuti. In una città osservammo quello che noi prendemmo per una festa religiosa, in cui dei fanciulli vestiti di bianco cantavano, mentre gli adulti stavano a guardare con interesse e rispetto, e perfettamente calmi. Più tardi, in una osteria dove la radio ritrasmetteva il vespro dalla cattedrale di Canterbury, chiedemmo a quelli che ci erano vicini di che festa si trattasse: “Festa? - risposero - era la rivoluzione!”
I nostri amici solevano scrivere dall'Inghilterra esprimendo timori per la nostra incolumità in mezzo alle atrocità dalle quali - così i giornali dicevano loro – era accompagnata la rivoluzione; alla mercé dei “comunisti” sitibondi di sangue nella loro guerra contro la religione. Ma non c’erano atrocità né si vedeva o si sentiva parlare di “comunisti”. Erano soltanto uomini di mentalità democratica, al lavoro per stabilire un governo parlamentare; nessuna guerra contro la religione, ma soltanto una decisa eliminazione della potenza politica di capoccia ecclesiastici e militari, mentre la Chiesa stessa, come si poteva vedere in ogni città, continuava indisturbata le sue funzioni religiose, senza che il clero o gli edifici addetti al culto fossero minimamente toccati.
Allora pensai che era proprio comico che i giornali inglesi fossero così male informati su ciò che accadeva in Spagna. Non mi passò per la testa che fosse possibile un'altra spiegazione. Non so quale sia quella giusta: o era una mera coincidenza che questa epidemia di ignoranza preparasse la via alla politica con la quale, più tardi, la maggior parte della stampa inglese (agendo, non si può fare a meno di sospettarlo, su istruzione del governo) deliberatamente ingannò i suoi lettori sul carattere della repubblica spagnola; o altrimenti quella politica era già in atto, e quelle istruzioni presumibilmente erano già date nel 1931.
Alcuni anni più tardi cominciò la guerra civile spagnola. Era una ribellione dei papaveri militari deposti contro il regime democratico che li aveva soppiantati: la ribellione dell'esercito di una nazione contro il popolo di una nazione ed il suo governo legalmente costituito; legalmente costituito, cioè, secondo le idee inglesi. Ogni inglese che avesse un po’ di fede nella tradizione politica britannica, conoscendo la verità, avrebbe voluto aiutare il governo spagnolo contro i ribelli. E si richiedeva un aiuto molto piccolo: soltanto una situazione militare di parità. Se il governo avesse soltanto potuto improvvisare ed equipaggiare un esercito, il destino dei ribelli sarebbe stato segnato.
Il governo “nazionale” britannico impedì che questo avvenisse. Esso adottò ed impose a certe altre nazioni una politica di “non intervento”, ciò che voleva dire, proibire l’introduzione in Spagna di uomini che combattessero, e di munizioni con cui combattere. Ora, se in un certo paese l'esercito è in rivolta contro un governo disarmato che sta tentando di armarsi a propria difesa, non ci vuole una grande perspicacia per vedere che un embargo contro l'importazione di armi in quel paese è un atto di aiuto ai ribelli. In Inghilterra la gente vedeva che il suo governo, sotto la maschera del “non intervento” stava intervenendo, e molto energicamente, al fianco dei ribelli; così, per tenerla tranquilla, ebbe inizio una campagna di stampa che ripeteva le solite storie sul “comunismo” e sulle “atrocità” della cui falsità alcuni anni prima io stesso potevo essere testimone. Ebbe successo. Persone che credono nella tradizione politica inglese non amano i comunisti e non approvano le atrocità. La simpatia per il governo spagnolo appassì sensibilmente. Non c'è dubbio - si diceva - che é soltanto il nostro imbroglio del “non intervento” a rendere possibile ai ribelli di far progressi contro il governo; ma si voleva veramente la vittoria del governo? Ognuno sapeva che il capo dei ribelli era un fantoccio dei dittatori italiano e tedesco e che questi, quali fossero le loro dichiarazioni di “non intervento”, gli fornivano costantemente uomini e munizioni. Ognuno sapeva che facendo così essi avevano alterato la situazione strategica dal Mediterraneo, peggiorandola molto dal punto di vista britannico. Ma se qualcuno faceva illusioni a questo argomento il governo “nazionale” inglese rispondeva: “Fidatevi di noi, sappiamo quel che facciamo. Vi abbiamo dato la pace”. Questo, ancora una volta, ebbe successo. L'elettorato era pronto a passar sopra quasi ad ogni cosa, purché si evitasse la guerra. Ma non diede alcuna prova, né allora né poi, che essa fosse stata evitata. Non venne data alcuna prova che uno od entrambi i dittatori imponessero al governo britannico, di adottare la politica del “non intervento” con minacce di guerra. Non si diede alcuna prova che al loro notorio rifiuto a mantener fede a quella politica siano state contrapposte minacce della stessa natura. Non si diede alcuna prova che il governo britannico avrebbe messo in pericolo la pace col solo astenersi da quelle azioni con cui, legalmente o illegalmente, esso proibiva ai suoi cittadini di arruolarsi al servizio del governo spagnolo.
Non si diede alcuna prova di tutto ciò; ed erano cose che certamente nessuno avrebbe creduto a quel tempo, e nessuno crederà mai, senza prove a prove conclusive che le dimostrino. Ma così densa era l'atmosfera di sotterfugio in cui il governo “nazionale” da molti anni avvolgeva la sua politica (a cominciare dalle vuote spacconate di Ramsey MacDonald che sembrava dir molto e non disse mai nulla affatto; e continuando con i metodi dell’”uomo di fiducia” di Baldwin, che parlava quasi esclusivamente per dire quale uomo onesto egli fosse e quale completa fiducia tutti potessero quindi accordargli), che nessuno si aspettava che i portavoce del governo neppure le dicessero queste cose, altro che darne le prove! Non si disse nulla in modo chiaro, ma molto fu lasciato capire.
Ma sebbene non si sia detto nulla, si fece molto. Mancando qualsiasi enunciazione esplicita della sua politica da parte del governo “nazionale”, mi trovai costretto a dedurne la politica dall’evidenza delle sue azioni. Questo non era difficile. Per chi fosse abituato ad interpretare delle testimonianze storiche, le cui azioni non ammettevano che una sola spiegazione. Esso voleva la vittoria dei ribelli e intendeva celare questo fatto all’elettorato. Sapeva che i ribelli non potevano vincere senza grave danno agli interessi britannici, ed esso sacrificò quegli interessi.
Perché gli uomini al governo erano così solleciti per la vittoria dei ribelli? Non a causa della “minaccia comunista”, poiché sebbene il mio vecchio amico, il Daily Mail, sviscerato sostenitore del governo “nazionale”, ed ora come sempre strenuo lavoratore nella causa della corruzione dell’opinione pubblica, di solito facesse riferimento al governo spagnolo come “rosso”, cioè comunista, il governo sapeva altrettanto bene del Daily Mail che la Spagna repubblicana non era uno Stato comunista, ma una democrazia parlamentate e che il gabinetto Negrin, ad es. conteneva un solo comunista dopo che il suo partito aveva aderito alla generale dichiarazione di lealtà ai principi democratici. La guerra civile spagnola fu una lotta tra dittatura fascista e democrazia parlamentare. Il governo britannico, nonostante tutte le sue finte, si era dichiarato partigiano della dittatura fascista.
Al principio del 1938, quando tutto ciò mi divenne chiaro, non formulai alcuna opinione su questo: fino a che punto, cioè, i singoli membri di quel governo sapessero quello che stavano facendo. Il fascismo, lo ripeto, è una cosa confusa e contraddittoria. Trovai facile credere, che non c’era bisogno che la politica del governo “nazionale” - di soggiacere codardamente alle potenze fasciste e di rifiutarsi di dire al paese ciò che faceva - sgorgasse da una chiara comprensione dei propri fini, unita a quella della sua detestabilità agli occhi della nazione, e risultante in una cosciente decisione di ingannare il paese. Poteva sorgere da stanchezza di volontà e debolezza di intelletto, combinato con certe segrete ammirazioni e non certe non esaminate timidezze, con un manchevole senso di responsabilità e con una debole e talvolta inoperante stima della verità. Se qualcuno nel 1937, e persino nei primi mesi del 1938, memore della risposta salace del Dr. Johnson al barcaiolo del Tamigi, avesse detto al primo ministro: “Signore, il vostro governo, con la scusa di non essere in grado di difendere gli interessi nazionali, sta conducendo una rivoluzione fascista!” oso dire che il primo ministro avrebbe negato l’accusa con tutta la sincerità che aveva.
Gli avvenimenti del 1938 non mi dissero nulla sul governo “nazionale”, che io già non sapessi. Cominciai l’anno aspettandomi due avvenimenti: un urto aperto tra il primo ministro ed i principi del governo parlamentare, ed un più flagrante ripetere della formula spagnola in qualche altro posto: aggressione da parte di uno Stato fascista fatta riuscire dall'appoggio del governo britannico sotto la mascheratura di una paura della guerra artificialmente prodotta nel popolo inglese da quello stesso governo.
La mia prima previsione si attuò al principio della estate, quando in aperta sfida alle regole delle prerogative parlamentari, da parte dei membri del gabinetto si fece un concertato tentativo di sopprimere la critica parlamentare sulla ormai notoria inefficienza a portare a termine il programma di riarmo con minacce di persecuzione in base all’Official Secrets Act contro il membro del parlamento che aveva osato muovere critiche, Duncan Sandys.
La cosa fu con discrezione messa a tacere dai giornali governativi: ma chiunque avesse accesso ai fatti sapeva che ciò significava guerra tra un gabinetto fascista e la costituzione parlamentare del paese che esso governava.
La mia seconda previsione si avverò durante la crisi cecoslovacca in settembre, quando il primo ministro britannico si recò in volo successivamente a Berchtesgaden, Bad Godesberg e Monaco, ogni volta tornando con in tasca gli ordini del dittatore tedesco per obbedire ai quali egli cambiò la politica del paese alle spalle del parlamento e persino del gabinetto.
Per me quindi il tradimento alla Cecoslovacchia fu soltanto il terzo episodio di quella stessa politica con cui il governo “nazionale” aveva tradito l'Abissinia e la Spagna, e m’interessava meno il fatto in se stesso, quanto i metodi con cui era ottenuta la paura della guerra, ben architettata su grande scala nel paese, lanciata ufficialmente dalla simultanea distribuzione di maschere antigas, dall'angosciosa trasmissione radio del primo ministro, due giorni prima del suo viaggio aereo a Monaco e dalla scena isterica in parlamento, architettata con cura nella notte seguente. Queste cose si inserivano nella ormai stabilita tradizione dei metodi dittatoriali fascisti: con la differenza che, mentre i dittatori italiano e tedesco dominavano le folle facendo appello alla sete di gloria e all'espansione nazionale, il primo ministro inglese faceva lo stesso giocando sul puro e semplice terrore.
Riuscì nel suo intento. Nel momento in cui scrivo, l’Inghilterra non ha ancora ufficialmente detto addio alle sue istituzioni parlamentari: ha soltanto permesso che esse divenissero inoperanti. Non ha rinunziato alla sua fede nella libertà politica, ha soltanto buttato via ciò in cui essa ancora professa di credere. Non ha liquidato il suo impero, ha soltanto consegnato il controllo delle comunicazioni di quell’impero ad una potenza gelosa ed arida. Non ha cessato di aver voce negli affari europei, ha soltanto usato la sua voce per accrescere le pretese di un'altra potenza ancora più gelosa e più avida.
Questo non è stato fatto per volontà della nazione o di una parte considerevole di essa, ma perché il paese è stato giocato.
Per richiamare ciò che ho detto più indietro, le forze che sono state al lavoro per quasi mezzo secolo a corrompere la mente della nazione, producendo in essa a poco a poco una remissività a trascurare quelle piene, pronte ed accurate informazioni su cose di pubblica importanza che sono il nutrimento indispensabile di una società democratica ed una disabitudine a prendere delle decisioni su tali cose con quello spirito sociale che è la linfa vitale di una società democratica, hanno allevato una generazione di uomini e donne inglesi destinati ad essere le sciocche vittime di un politico che con tanto successo ha fatto appello “alle loro passioni”, con promesse di privato guadagno (il guadagno della sicurezza personale dagli orrori della guerra), che essi gli hanno permesso di sacrificare gli interessi del paese, di buttar via il suo prestigio e di oscurare il suo nome di fronte al mondo per permettergli di guardare dalle fotografie con i ben noti occhi ipnotici del dittatore.
Non è il compito di questa autobiografia il chiedersi con quanta completezza il paese sia stato di fatto ingannato, o per quanto tempo il presente grado di inganno durerà.
Non sto scrivendo una relazione dei recenti avvenimenti inglesi: sto descrivendo il modo in cui quegli eventi mi toccarono e ruppero la mia situazione di distaccato pensatore di professione. So adesso che i piccoli filosofi della mia giovinezza, per tutte quelle loro professioni di distacco “puramente scientifico” dalle cose pratiche, erano i propagandisti del futuro fascismo. So che il fascismo significa fine del pensiero chiaro e trionfo dell’irrazionalismo. So di esser stato per tutta la vita impegnato, senza averne coscienza, in una lotta politica, combattendo contro queste cose nell’oscurità. D’ora innanzi combatterò alla luce del sole.
Robin George Collingwood (1889-1943)

Sul marxismo

54 – Del “Manifesto” (Antonio Labriola)

… La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di certo, per circostanze del tempo in cui apparve la prima volta, calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica né la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche e nuova profezie e apocalissi. (…)
Qui, nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a se stessa per dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola - che a mio avviso esprime tutto e in breve - morfologica. (…)
Quando il Manifesto dichiarava, che tutta la storia fosse finora consistita nelle lotte di classe, e che in queste fu la ragione di tutte le rivoluzioni, come anche il motivo dei regressi, esso faceva due cose ad un tempo. Dava al comunismo gli elementi di una nuova dottrina, e ai comunisti il filo conduttore per ravvisare nelle intricate vicende della vita politica, le condizioni del sottostante movimento economico.
Nei cinquanta anni corsi da allora in qua, la previsione generica di una nuova era storica è diventata pei socialisti l’arte minuta dell’intendere caso per caso quel che si convenga e sia dovere di fare; perché quell’era nuova è per se stessa in continua formazione. Il comunismo è diventato un’arte, perché i proletari sono diventati, o sono avviati a diventare, un partito politico. Lo spirito rivoluzionario si plasma tuttodì nella organizzazione proletaria. L'auspicata congiunzione dei comunisti e dei proletari è oramai un fatto. Questi cinquant’anni furono la prova sempre crescente delle forze produttive contro le forme della produzione.
Fuori di questa lezione intuitiva delle cose, noi non abbiamo da offrire altra risposta, noi utopisti a quelli che parlano ancora di turbamenti meteorici che, secondo l'opinione loro, torneranno tutti alla calma di questa insuperata ed insuperabile epoca di civiltà. E tale lezione basta.
A undici anni di distanza dalla pubblicazione del Manifesto, Marx racchiudeva in chiara e trasparente formula i principi direttivi della interpretazione materialistica della storia; e ciò nella prefazione di un libro, che è il prodromo del “Capitale”. Ecco riprodotto il brano:
“Il primo lavoro da me intrapreso, per risolvere i dubbi che mi assediavano, fu quello di una revisione critica della “Filosofia del diritto” di Hegel; del qual lavoro apparve la prefazione nei “Deutsch-Französische Jahrbücher” pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca mise capo in questo risultato: che i rapporti giuridici e le forme politiche dello Stato non possono intendersi né per se stessi né per mezzo del così detto sviluppo generale dello spirito umano; ma anzi hanno radice nei rapporti materiali della vita, il cui complesso Hegel raccoglieva sotto il nome di società civile, secondo l'uso dei francesi ed inglesi del secolo decimottavo; e che inoltre l'anatomia della società civile è da ricercare nell'economia politica. Le ricerche intorno a questa, dopo averle incominciate a Parigi, io le continuai a Bruxelles, dove ero emigrato per l'ordine di sfratto avuto dal Signor Guizot. Il risultato generale che ne ebbi e che, una volta ottenuto, mi valse come di filo conduttore dei miei studi, può essere formulato come segue:
- Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano fra loro in rapporti determinati, necessari ed indipendenti dal loro arbitrio, cioè in rapporti di produzione, i quali corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L'insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale, sulla quale si eleva una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza. A un determinato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione (cioè coi rapporti della proprietà, il che è l'equivalente giuridico di tale espressione), dentro dei quali esse forze per l'innanzi s’erano mosse. Questi rapporti della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro impedimenti. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Col cangiare del fondamento economico si rivoluziona e precipita, più o meno rapidamente, la soprastante colossale soprastruzione. Nella considerazione di tali sommovimenti bisogna sempre distinguer bene tra la rivoluzione materiale, che può essere naturalisticamente constatata per rispetto alle condizioni economiche della produzione, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche nelle quali gli uomini acquistano coscienza del conflitto, e in cui nome lo compiono. Come non può darsi giudizio di quello che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso, così del pari non può valutarsi una determinata epoca rivoluzionaria, dalla sua coscienza; anzi questa coscienza stessa deve essere spiegata per mezzo delle contraddizioni della vita materiale, cioè per mezzo del conflitto che sussiste tra forze sociali produttive e rapporti sociali della produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi rapporti di produzione non subentrano se prima le condizioni materiali di loro esistenza non siano state covate nel seno della società che è in essere. Perciò l'umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere; perché considerare le cose dappresso, si vede che i problemi non sorgono, se non quando le condizioni materiali per la loro soluzione ci son già, e si trovano per lo meno in atto di sviluppo. A guardar la cosa a grandi tratti, le forme di produzione asiatica, antica, feudale e moderno-borghese possono considerarsi come epoche progressive della formazione economica della società. I rapporti borghesi della produzione sono l'ultima forma antagonistica del processo sociale della produzione (antagonistica non nel senso dell'antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che sorge dalle condizioni sociali della vita degli individui); ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese mettono già in essere le condizioni materiali per la risoluzione di tale antagonismo. Con tale formazione di società cessa perciò la preistoria del genere umano”.
Quando Marx così scriveva, da parecchi anni già egli era uscito dall’arena politica, e non vi rientrò se non più tardi, ai tempi della Internazionale. La reazione aveva battuto in Italia, in Austria, in Ungheria, in Germania la rivoluzione, o patriottica, o liberale, o democratica. La borghesia, dal canto suo, aveva battuto in pari tempo i proletari in Francia e in Inghilterra. Le condizioni indispensabili allo sviluppo del movimento democratico e proletario vennero d'un tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s'era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di resistenza e di insurrezione popolare contro la reazione, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di Colonia. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx e Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di professione, e si ritrassero dall'azione prossima. La crisi era passata. Una lunga pausa sopraggiungeva. Ne era indizio la lenta sparizione del movimento cartista, ossia del movimento proletario del paese che è la colonna vertebrale del sistema capitalistico. La storia aveva per il momento dato torto alla illusione dei rivoluzionari.
Prima di dedicarsi quasi esclusivamente alla prolungata incubazione degli elementi già da lui trovati dalla critica dell'economia politica, Marx illustrò in vari scritti di storia del periodo rivoluzionario, del 1848-50, e specie le lotte di classe in Francia, documentando così, che se la rivoluzione, nelle forme che essa aveva per il momento assunte, era fallita, non rimaneva perciò solo smentita la teoria rivoluzionaria della storia. La traccia, appena indicata nel Manifesto veniva già a metter capo nella esposizione piena. (…) Ma in questi fatti particolari c’è una significazione più lata, e di maggior peso per noi. Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma la sommosse.
È sì, tutt'una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della connessione che esso ha o può e deve avere con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non è più insomma un seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione e, soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà.
Il movimento proletario è venuto crescendo in modo colossale in questi ultimi trent'anni. Attraverso a molte difficoltà e con molte vicende di passi indietro e di passi in avanti, esso ha via via assunto forme politiche, con metodi a grado a grado escogitati e lentamente provati. I comunisti non hanno evocato tutto ciò con l'azione magica della dottrina, sparsa e comunicata con la virtù persuasiva dalla parola e dallo scritto. Fin dal principio seppero di essere l'estrema ala sinistra del movimento proletario; ma, a misura che questo si sviluppava e specificava, era necessità e dovere ad un tempo per loro, di secondare, nei programmi e nell'azione pratica dei partiti le varie contingenze dello sviluppo economico, e della conseguente attuazione politica.
In questi cinquant'anni dalla pubblicazione del Manifesto in qua, le specificazioni e le complicazioni del movimento proletario son divenute tali e tante, che non è oramai mente che tutte le abbracci, e penetri, e intenda, e spieghi nelle loro vere cause e relazioni. L’Internazionale unitaria durata nel periodo di tempo del l864-73, assolto che ebbe l’ufficio suo, che fu quello del pareggiamento preliminare nelle generali tendenze e nelle idee comuni e indispensabili a tutto il proletariato, dovette sparire; né altri penserà, o potrà mai pensare, di rifar nulla che le assomigli.
Due cause, fra le altre, hanno fortemente contribuito a questa vasta specificazione e complicazione del movimento proletario. La borghesia ha sentito in molti paesi il bisogno di limitare, a propria difesa, molti degli abusi che seguirono alla prima e subitanea introduzione del sistema industriale; e di qui nacque la legislazione operaia, o come altri pomposamente dice, sociale. La stessa borghesia o a propria difesa, o sotto la pressione delle circostanze, ha dovuto in molti paesi allargare, le generiche condizioni della libertà, e specie estendere il diritto di suffragio. Per queste due circostanze, che ha tratto il proletariato entro la cerchia della vita politica di tutti i giorni, la sua capacità di movimento è grandemente cresciuta; e l’agilità e pieghevolezza maggiore, di cui esso ora è fornito gli permettono di contendere con la borghesia nell’arena dei comizi e nelle aule parlamentari. E come dal processo delle cose viene il processo delle idee, così a questo multiforme sviluppo pratico del proletariato, che è tanto vario di forme e d'intrecci che nessuno può più vederselo innanzi agli occhi e ripensarlo tutto, ha corrisposto un graduale sviluppo delle dottrine del comunismo critico nell'intendere la storia e nell'intendere la vita presente, fino alla minuta descrizione delle più piccole parti dell’economia: esso, insomma, è diventato una scienza, se tal nome vuol essere inteso con la debita discrezione. (...)
Qualunque concessione la borghesia faccia nell’ordine economico, fino alla massima riduzione delle ore di lavoro, rimane sempre vero il fatto, che la necessità dello sfruttamento, su cui poggia tutto l'ordine sociale presente, ha limiti insormontabili, oltre dei quali il capitale come privato istrumento di produzione non ha più la sua ragion d'essere. Se una determinata concessione può oggi sedare una immediata forma di inquietezza nel proletariato, la concessione stessa non può a meno di destare il desiderio di altre e nuove, e sempre crescenti. Il bisogno della legislazione operaia, nato in Inghilterra in anticipazione del movimento cartista e sviluppatosi poi con esso, ottenne i suoi primi successi nel periodo di tempo immediatamente posteriore alla caduta del Cartismo stesso. I principi e le ragioni di tale movimento furono, nell'intrinseco delle cause e degli effetti, studiati criticamente da Marx nel “Capitale” e poi passarono attraverso la “Internazionale” nel programma dei partiti socialisti. Ed ecco che da ultimo tutto cotesto processo, concentrandosi nella domanda delle otto ore, è diventato nella festa del I maggio una rassegna internazionale del proletariato, e un modo di raccoglier gli indici dei progressi di esso. D'altra parte, la giostra politica cui il proletariato s'avvezza, ne democratizza le abitudini, anzi ne fa una vera democrazia; la quale a lungo andare non potrà più adagiarsi nella presente forma politica che, come organo della società dello sfruttamento, è una gerarchia burocratica, una burocrazia giudicante, una associazione di mutuo soccorso fra i capitalisti, ed è il militarismo a difesa dei dazi protettori, della rendita perpetua del debito pubblico, della rendita della terra, e così via dell’interesse del capitale in ogni altra sua forma. I due fatti, adunque, che hanno apparenza, secondo l’opinione dei furenti e degli ipercritici, di sviare in infinito le previsioni del comunismo, si convertono invece in nuovi mezzi e condizioni che quelle previsioni confermano. Gli apparenti deviatori della rivoluzione si convertono, insomma, in suoi moventi. (…)
Né il Manifesto volle esser altro e di meglio, se non il primo filo conduttore di una scienza e di una pratica, che la sua esperienza e gli anni poteano e doveano sviluppare. Ciò che esso reca intorno al generale andamento del moto proletario concerne, dirò così, il solo schema e il solo ritmo. In ciò si riflette, senza dubbio, la impressione che produceva allora su i comunisti la esperienza dei due movimenti, che appunto cadevano sott'occhi; quello di Francia, cioè, e soprattutto il Cartismo, a breve andare fu colto da paralisi per la non accaduta manifestazione insurrezionale del 1848. Ma in tale schema non è nulla d'idealizzato, che poi si converta in tassativa tattica di guerra; come più volte era di fatti accaduto, che i rivoluzionari riducessero in anticipato catechismo ciò che non può essere se non un semplice portato dello sviluppo delle cose.
Quello schema è diventato poi più vasto e più complesso, grazie all'allargarsi del sistema borghese, che tanta più parte di mondo ha investito e comprende. Il ritmo del movimento è diventato più vario e più lento, appunto perché la massa operaia è entrata su la scena, come vero e proprio partito politico; il che, cambiando i modi e le scadenze dell'azione, ne cambia le movenze.
Come, innanzi al perfezionamento delle armi e degli altri mezzi di difesa, la tattica delle sommosse è apparsa inopportuna; come la complicazione dello stato moderno fa apparire insufficiente la improvvisata occupazione di un Hotel de Ville, per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva: così dal canto suo la massa proletaria non istà più alla parola d'ordine di pochi capi, né regola le sue mosse su le prescrizioni di capitani che possono, se mai, su le rovine di un governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso genere. La massa proletaria, là dove essa si è svolta politicamente, ha fatto e fa la sua propria educazione democratica. Cioè elegge e discute i suoi rappresentanti e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte che quelli per anticipazione di studio o di scienza abbiano intuito o presagito; e sa già, o comincia almeno ad intendere, secondo i vari paesi, che la conquista del potere politico non deve né può esser fatta da altri in nome suo, sia pure da gruppi coraggiosi antesignani, e che soprattutto quella conquista non può riuscire con un colpo di mano. Essa, la massa proletaria, insomma, o sa o s’avvia ad intendere, che la dittatura del proletariato, la quale dovrà preparare la socializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni ma deve essere e sarà il risultato dei proletari stessi che siano, già in sé, e per lungo esercizio una organizzazione politica.
Lo sviluppo e l'estensione del sistema borghese furono rapidi e colossali in questi cinquant'anni. Oramai esso corrode la vecchia e santa Russia e crea, non che nell'America e nell'Australia, e nell’India, ma perfino nel Giappone, nuovi centri di produzione moderna, complicando le condizioni della concorrenza, e gli intrecci del mercato mondiale. Gli effetti delle mutazioni politiche, o non mancarono, o non si faranno lungamente aspettare. Egualmente rapidi e colossali furono i progressi del proletariato. La sua educazione politica segna ogni giorno un nuovo passo verso la conquista del potere politico. La ribellione delle forze produttive contro la forma della produzione, ossia la lotta del lavoro vivo contro il lavoro accumulato, si fa ogni giorno più palese. Il sistema borghese è oramai su le difese, e rivela lo stato e la posizione sua in questa singolare contraddizione che, cioè, il pacifico mondo della industria è diventato un immane accampamento, entro del quale vegeta il militarismo. L'epoca dell'industria pacifica è diventata, per l'ironia delle cose, l'epoca del continuo ritrovamento di nuovi e più potenti mezzi di guerra e di distruzione.
Il socialismo s'è imposto. Perfino i semisocialisti, perfino i ciarlatani che ingombrano di sé la stampa e le assemblee dei nostri partiti, non sempre senza imbarazzo nostro, sono un omaggio che le vanità e le ambizioni di ogni maniera rendono a modo loro alla nuova potenza che sorge all'orizzonte.
Malgrado il divieto anticipato del socialismo scientifico, che è dato a tutti di intendere, pullulano e si moltiplicano ogni istante i farmacisti della “questione sociale”, che han tutti qualcosa di particolare da suggerire o da proporre, per curare od eliminare questo e quel malanno sociale; nazionalizzazione del suolo, monopolio dei grani da parte dello Stato, statizzazione delle ipoteche, municipalizzazione dei mezzi di trasporto, finanza democratica, sciopero generale; e così via, da non finirla mai!
Ma la “democrazia sociale” elimina tutte coteste fantasie, perché l'istinto della propria situazione induce i proletari, appena si addestrino nell'arena politica, ad intendere il socialismo in modo integrale. A intendere, cioè, che ad una cosa sola essi devono soprattutto mirare: all'abolizione del salariato; che una sola forma di società è quella che rende possibile, e anzi necessaria, la eliminazione delle classi; e cioè l'associazione che non produce merci; e che tal forma di società non è più lo “Stato”, anzi è il suo opposto, ossia il reggimento tecnico e pedagogico della convivenza umana, il “self-governement” del lavoro. Non più giacobini, né quelli eroicamente giganti del 1793 né quelli in caricatura del 1848! (...)
Dopo tale scorsa nel campo del socialismo contemporaneo, si torna volentieri col pensiero e con l'animo al ricordo di quei primi precursori nostri di cinquanta anni fa, i quali documentarono nel Manifesto la presa di possesso di un posto avanzato sulla via del progresso. Né ciò è da intendere segnatamente ed esclusivamente per rispetto ai soli teorici della schiera; cioè per Marx ed Engels.
L’uno e l'altro avrebbero esercitato in ogni caso e sempre, o dalla cattedra, o dalla tribuna, o con gli scritti, una non piccola influenza su la politica e su la scienza, tale e tanta era in loro la potenza e la originalità dell’ingegno e la estensione delle conoscenze, quando anche non si fossero i battuti mai sul cammino della vita nella “Lega dei Comunisti”.
Ma intendo dire di quegli uomini, che nel gergo vano e orgoglioso della letteratura borghese sarebbero detti oscuri, - di quel calzolaio Bauer, di quei sarti Lessner ed Eccarius, di quell'orologiaio Moll, di quel Lochner, o come altro si chiamino quei che primi iniziarono consapevolmente il nostro movimento. Sta come indice della loro apparizione il motto: “Proletari di tutto il mondo, unitevi”. Sta come risultato dell'opera loro: “Il passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza”. La sopravvivenza dell’istinto loro e del loro primitivo impulso nell’opera nostra dell’oggi, è il titolo indimenticabile, che quei precursori si acquistarono alla gratitudine di tutti i socialisti. (...)
Antonio Labriola - 1895 (1843-1904)

55 - Del materialismo storico (Antonio Labriola)

In questo genere di considerazioni, come in tanti altri, ma in questo più che ogni altro, è di non piccolo impedimento, anzi torna di fastidioso impaccio, quel vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterari della cultura, che di solito dicesi “verbalismo”. Si insinua e si espande in ogni campo di conoscenza cotesto mal vezzo; ma nelle trattazioni che si riferiscono al così detto mondo morale, ossia al complesso storico-sociale, cade assai di sovente che il culto e l'impero delle parole riescano a corrodervi e a spegnervi il senso vivo e reale delle cose.
Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati istrumenti, l'applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per metter la mente in una metodica relazione con le cose e con le variazioni loro, come è il caso delle scienze naturali propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni e gli interessi e i pregiudizi di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l'abuso letterario dei mezzi tradizionali della rappresentazione del pensiero, e poi la “scolastica” non mai vinta e anzi sempre rinascente, o fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire astratti e convenzionali.
Di tali difficoltà bisogna che innanzi tutto si renda conto chi mette fuori in pubblico la espressione, o formula, di “concezione materialistica” della storia. A molti è parso, pare e parrà sia ovvio e comodo il ritrarne il senso dalla semplice analisi delle parole che la compongono, anziché dal contesto di una esposizione, o dallo studio genetico del come la dottrina si è prodotta, o dalla polemica con la quale i sostenitori suoi ribattono le obiezioni degli avversari.
Il verbalismo tende sempre a rinchiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l'intricato ad immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza che sia cosa agevole il vedersi sott'occhi il multiforme e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o, a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi, perché non vede che denominazioni.
Se si dà poi il caso, che il verbalismo trovi sostegno in tali o tali altre supposizioni teoretiche, come sarebbe questa, che materia voglia dire un qualche cosa che sta di sotto o di contro ad un’altra cosa più alta, o più nobile che vien chiamata lo spirito; o se si dà il caso che esso confonda con l’abito letterario di contrapporre la parola materialismo, intesa in senso dispregiativo, a tutto ciò che compendiosamente chiamasi idealismo, cioè all’insieme d’ogni inclinazione e d’ogni atto antiegoistico: e allora sì che siamo spacciati. Ed ecco che si sente a dire: qui in questa dottrina si tenta di spiegare tutto l’uomo col solo calcolo degli interessi materiali, negando qualsiasi valore ed ogni interesse ideale.
A far nascere di tali confusioni non è valso poco la inesperienza, la incapacità e la frettolosità di certi propugnatori e propagatori di questa dottrina; i quali, per la premura di spiegare agli altri ciò che essi medesimi non intendevano a pieno, mentre la dottrina stessa non è se non agli inizi suoi ed ha ancora bisogno di molto sviluppo, si son data l'aria di applicarla, pur che sia, al primo caso o fatto storico che loro capitasse fra le mani, e l’han quasi ridotta in briciole, esponendola alla facile critica, ed al dileggio degli orecchianti di novità scientifiche e di altrettali sfaccendati.
Per quanto è lecito qui, in queste prime pagine, di respingere solo preliminarmente cotesti pregiudizi e di redarguire le intenzioni e le tendenze che li sorreggono, occorre di ricordare: - che il senso di questa dottrina, va innanzitutto desunto dalla posizione che essa assume ed occupa di fronte a quelle contro le quali si è effettivamente levata, e segnatamente di fronte alle ideologie di ogni maniera; - che la riprova del suo valore consiste esclusivamente nella spiegazione più conveniente e congrua del succedersi delle vicende umane, che da essa stessa deriva - che questa dottrina non implica una preferenza soggettiva ad una certa qualità e somma d'interessi umani, contrapposta ad altri interessi per lezione d’arbitrio, ma enuncia soltanto la obiettiva coordinazione e subordinazione di tutti gli interessi nello sviluppo di ogni società, ed enuncia ciò per via di quel processo genetico il quale consiste nell’andare dalla condizioni ai condizionati, dagli elementi della formazione alla cosa formata.
Almanacchino pure i verbalisti, a posta loro, sul valore dalla parola materia, in quanto è segno o ricordo di metafisica escogitazione, o in quanto è espressione dell’ultimo sostrato ipotetico della esperienza naturalistica, noi non siamo nel campo della fisica, della chimica o della biologia; ma cerchiamo soltanto le condizioni esplicite del vivere umano in quanto esso non è più semplicemente, animale. Non si tratta già di indurre o di dedurre nulla dai dati della biologia; ma, anzi, di riconoscere innanzi ad ogni altra cosa le peculiarità del vivere umano, che si forma e si sviluppa per il succedersi e perfezionarsi delle attività dell'uomo stesso, in date e variabili condizioni; e di trovare i rapporti di coordinazione e di subordinazione dei bisogni che sono il sostrato del volere, e dell'operare. Non è una intenzione che si cerchi di scoprire, non è una valutazione di pregio che si voglia enunciare; ma è la sola necessità di fatto che si vuol mettere in evidenza. E come gli uomini, non per elezione, ma perché non potrebbero altrimenti, soddisfano prima certi bisogni elementari e poi da questi ne sviluppano degli altri, raffinandosi; e, a soddisfare i bisogni quali si siano, trovano ed usano certi mezzi ed istrumenti, e si consociano in certi determinati modi, il materialismo della interpretazione storica non è se non un tentativo di rifare nella mente, con metodo, la genesi e la complicazione del vivere umano sviluppatosi attraverso i secoli. La novità di tale dottrina non è difforme da quella di tutte le altre dottrine che, dopo molte peripezie entro i campi della fantasia, son giunte da ultimo, assai faticosamente ad afferrare la prosa della realtà ed a fermarsi in essa. (…)
Le idee non cascano dal cielo; né noi riceviamo il ben di dio in sogno.
La mutazione nei modi del pensiero, che da ultimo ha prodotta la dottrina storica, della quale si fa qui l'esame e la esposizione preliminare, s'è venuta svolgendo, prima con lentezza e poscia con cresciuta rapidità, appunto in questo periodo del divenire umano, in cui si avverarono le grandi rivoluzioni politico-economiche ossia in quest'epoca, che guardata nelle sue forme politiche dicesi liberale, ma che guardata nel suo fondo - per effetto del dominio del capitale su la massa proletaria - è l’epoca della produzione anarchica. La mutazione nelle idee, fino alla creazione di nuovi metodi di concezione, è venuta, passo passo riflettendo l’esperienza di una nuova vita. Come questa, nelle rivoluzioni degli ultimi due secoli, si è andata via via spogliando degli involucri mitici, mistici e religiosi, a misura, che è venuta acquistando la coscienza pratica e precisa delle sue condizioni immediate e dirette, così il pensiero - che questa vita riassume e teorizza – s’è alla sua volta spogliato dei presupposti teologici e metafisici per racchiudersi, infine, in questa prosaica, esigenza: nella interpretazione della storia occorre restringersi alla coordinazione obiettiva delle condizioni determinanti e degli effetti determinati. La concezione materialistica segna il culmine di questo nuovo indirizzo nel ritrovamento delle leggi storico-sociali; in quanto non è un caso particolare di una generica sociologia, o di una generica filosofia dello stato di diritto e della storia, ma è il risolvente di tutti i dubbi e di tutte le incertezze che accompagnano le altre forme di filosofare su le cose umane, ed è l'inizio della interpretazione integrale di queste. (...)
Perché, in verità, i precursori effettivi della nuova dottrina furono i fatti della storia moderna, che è diventata così perspicua e rivelatrice di se stessa, da che si operò in Inghilterra la grande rivoluzione industriale della fine del secolo scorso e in Francia avvenne quella gran dilacerazione sociale che tutti sanno; le quali cose, “mutatis mutandis” si sono poi andate riproducendo, in varia combinazione e in forme più miti, in tutto il mondo civile. E che altro è, in fondo, il pensiero se non il cosciente e sistematico completamento dell'esperienza; e che è questa, se non il riflesso e la elaborazione mentale delle cose e dei processi che nascono e si svolgono o fuori della volontà nostra, o per opera della nostra attività; e che altro è il genio se non la individuata e conseguente ed acuita forma di quel pensiero, che per suggestione della esperienza sorge in molti uomini della medesima epoca, ma nella più parte di loro rimane frammentario, incompleto, incerto, oscillante e parziale?
Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell'attività umana, si formano in date circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l'azione di determinati bisogni e per reiterati tentativi di dare a questa soddisfazione, e col ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono come gli istrumenti della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali ed hanno la loro tecnica: il pensiero è anch’esso una forza di lavoro. Spostare quelle e questo, ossia le idee e il pensiero, dalle condizioni e dall’ambito del loro proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il significato.
Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori, ma come una nuova conquista del pensiero per la inevitabile suggestione di un nuovo mondo che si sta già generando, ossia la rivoluzione proletaria, questo fu l'assunto del mio primo saggio. Il che è quanto dire, che una nuova situazione storica si è completata del suo congruo strumento mentale.
Ora, immaginare che cotesta produzione intellettuale potesse avverarsi in ogni tempo e luogo, gli è come assumere a regola delle proprie ricerche l'assurdo. Trasferire le idee a capriccio, dal terreno e dalle condizioni storiche in cui sono nate, in qualunque altro terreno, ciò è come prendere a base del ragionamento il semplice irrazionale.
La nostra dottrina suppone lo sviluppo ampio, chiaro, cosciente ed incalzante della tecnica moderna; e con questa la società che produce le merci negli antagonismi della concorrenza, la società che suppone come sua condizione iniziale e come mezzo indispensabile al suo perpetuarsi, l'accumulazione capitalistica nella forma della proprietà privata, la società che produce e riproduce di continuo i proletari, e a reggersi ha bisogno di rivoluzionare incessantemente i suoi strumenti, compreso lo stato e gli ingranaggi giuridici di questo.
Questa società che, per leggi stesse del suo movimento, ha messa a nudo la sua propria anatomia, produce di contraccolpo la concezione materialistica. Essa, come ha prodotto nel socialismo la sua negazione positiva, così ha generato nella nuova dottrina storica la sua negazione ideale. Se la storia è il prodotto, non arbitrario, ma necessario e normale degli uomini in quanto si sviluppano, e si sviluppano in quanto socialmente sperimentano, ed esperimentano in quanto perfezionano e raffinano il lavoro, ed accumulano e serbano i prodotti e risultati di questo, la fase di sviluppo in cui noi ora viviamo non può essere l’ultima e definitiva, e i contrasti a questa intimi e inerenti sono le forze produttive di nuove condizioni. Ed ecco come il periodo delle grandi rivoluzioni economiche e politiche di questi due ultimi secoli ha maturato nelle menti questi due concetti: l’immanenza e costanza del processo nei fatti storici e la dottrina materialistica che in fondo è la teoria obiettiva delle rivoluzioni sociali. (...)
Innanzi a questo genere di realistiche considerazioni, cadono tutte le ideologie fondate su la missione etica dello Stato, o sopra qualunque altra frase simile.
Lo Stato è per così dire, messo al suo posto e rimane come inquadrato nei contorni del divenire sociale, in quanto forma che è effetto di altre condizioni e che a sua volta, poi che esiste, reagisce naturalmente sul resto.
E qui spunta un'altra questione.
Cotesta forma sarà superata mai? - ossia, ci può essere una società senza Stato – ovvero, ci può essere una società senza classi? – e, se giova di spiegarsi meglio ci sarà mai una forma di produzione comunistica, con tale spartizione di lavoro e di uffici che non possa dar luogo allo sviluppo delle disuguaglianze, da cui si genera il dominio dell’uomo su l’uomo?
Nella risposta affermativa a coteste domande consiste la somma del socialismo scientifico; in quanto esso enuncia l'avvento della produzione comunistica, non come postulato di critica, né come meta di una volontaria elezione, ma come il risultato dell'immanente processo della storia.
Come è risaputo, la premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione capitalistica.
Questa socializza di continuo il modo di produrre e avvince sempre di più il lavoro vivo e regolamentato alle condizioni obiettive della tecnica, concentra di giorno in giorno sempre più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi che come azionisti e negoziatori di azioni si trovano sempre più assenti dal lavoro immediato, la cui direzione passa all’intelligenza.
Col crescere della coscienza di tale situazione nei proletari, cui l'insegnamento della solidarietà viene dalle condizioni stesse della loro reggimentazione, e col decrescere della capacità nei detentori di capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà ad un punto in cui, di un modo o dell'altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e profitto privato, la produzione passerà all'associazione collettiva, ossia sarà comunistica. Così cesseranno tutte le disuguaglianze che non siano quelle naturali del sesso, dell’età, del temperamento e della capacità; cesseranno, cioè, tutte le disuguaglianze che hanno attinenza alle classi economiche e, anzi, da queste sono generate: e sparite le classi verrà meno la possibilità dello Stato, come dominio dell’uomo su l’uomo. Il governo tecnico e pedagogico dell'intelligenza sarebbe l'unico ordine della società.
Per cotal via il socialismo scientifico, per ora idealmente almeno, ha superato lo Stato; e superandolo lo ha inteso a fondo, così sul suo modo di origine, come nelle ragioni di sua naturale sparizione. E lo ha inteso appunto perché non gli si leva contro in modo unilaterale e soggettivo, come fecero il più volte in altri tempi cinici, stoici, ed epicurei d'ogni maniera e poi settari religiosi e cenobiti visionari e utopisti da conventicola e, da ultimo, anarchisti d'ogni tinta e colore.
Anzi, più che levarglisi da sé contro, il socialismo scientifico ha mirato a mostrare come lo Stato si sollevi di continuo da sé contro se stesso, creando nei mezzi di cui non può fare a meno (p. es.: colossale finanza, militarismo, suffragio universale, estensione della cultura, e così via), le condizioni della sua propria rovina.
La società che lo ha prodotto lo riassorbirà: ossia, come la società, in quanto forma di produzione, eliminerà le antitesi di capitale e lavoro; così, con la sparizione dei proletari e cessando le condizioni che rendono possibile il proletariato, sparirà ogni dipendenza dell’uomo dall’uomo, in qualunque forma di gerarchia.
I termini entro i quali s’aggira la genesi e lo sviluppo dello Stato, dal suo punto iniziale di apparizione entro una determinata comunità, in cui cominciò la differenziazione economica fino a questo momento in cui la sua sparizione principia a designarsi nella mente, ce lo rendono oramai comprensibile.
E per tale comprensibilità, che lo riduce a necessario complemento di determinate forme economiche, la presunzione di considerarlo qual fattore autonomo della storia, rimane eliminata per sempre.
Antonio Labriola - 1896
 

56 - Dai “Principi del comunismo” (1847 ?) (Friedrich Engels)

… 20) Quali saranno le conseguenze della eliminazione finale della proprietà privata?
Anzitutto, per il fatto che la società sottrae dalle mani dei capitalisti privati l'uso di tutte le forze produttive e di tutti i mezzi di scambio come pure lo scambio e la distribuzione dei prodotti, e li amministra secondo un piano risultante dai mezzi che si hanno a disposizione e dai bisogni della società intera, vengono eliminate le cattive conseguenze che oggi sono ancora connesse all'esercizio della grande industria. Le crisi scompaiono; la produzione estesa, che per l'ordinamento attuale della società è sovrapproduzione e causa tanto potente di miseria, non potrà, dopo la rivoluzione raggiungere neppure la sufficienza, e dovrà essere ancora molto più estesa. Invece di essere apportatrice di miseria, la sovrapproduzione garantirà, ben più che il fabbisogno immediato della società, la soddisfazione dei bisogni di tutti, e genererà nuovi bisogni e insieme i mezzi per soddisfarli. Essa sarà condizione e occasione di nuovi progressi, ed attuerà questi progressi senza che perciò - come è accaduto ogni volta fino ad ora - l'ordinamento della società, sia messo in scompiglio. La grande industria, liberata dalla pressione della proprietà privata, si svilupperà in dimensioni di fronte alle quali il suo perfezionamento attuale apparirà meschino quanto appare la manifattura nei confronti della grande industria dei nostri giorni. Questo sviluppo dell'industria metterà a disposizione della società, una massa di prodotti sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti.
Così anche l’agricoltura alla quale pure la pressione della proprietà privata e del parcellamento impedisce di appropriarsi i miglioramenti già compiuti e gli sviluppi scientifici, prenderà uno slancio assolutamente nuovo, e metterà a disposizione della società una quantità di prodotti del tutto sufficiente.
A questo modo la società darà prodotti sufficienti perché si possa organizzare la distribuzione in modo che siano soddisfatti i bisogni di tutti i suoi membri. Così diventa superflua, la divisione della società in differenti classi contrapposte le une alle altre. E non solo superflua, ma addirittura incompatibile con il nuovo ordinamento sociale. L'esistenza delle classi ha origine nella divisione del lavoro, e nella nuova società la divisione del lavoro del tipo che s'è avuta, finora, scomparirà totalmente.
Poiché per portare la produzione industriale ed agricola, all’altezza suesposta, non bastano da soli gli ausili meccanici e chimici; debbono essere sviluppate in misura corrispondente anche le capacità degli uomini che fanno funzionare quegli ausili. Come i contadini e gli operai manifatturieri del secolo passato hanno mutato tutto il loro tipo di vita e sono diventati essi stessi uomini del tutto nuovi quando furono trascinati nella grande industria, così l'esercizio comune della produzione da parte dell'intera società, e il conseguente sviluppo nuovo della produzione, abbisognerà di uomini del tutto nuovi e li genererà anche.
L’esercizio comune della produzione non può essere attuato da uomini come quelli di oggi, ognuno dei quali è subordinato a un unico ramo della produzione, incatenato ad esso, da esso sfruttato, ognuno dei quali ha sviluppato una sola delle sue attitudini a spese di tutte le altre e conosce soltanto un ramo di un ramo della produzione complessiva. Già l'industria attuale ha sempre minor uso per tali uomini. L’industria esercitata in comune e secondo un piano da tutta la società presuppone assolutamente uomini le cui attitudini siano sviluppate in tutti i sensi e che siano in grado di abbracciare tutto il sistema della produzione. La divisione del lavoro già ora minata dalle macchine, la quale fa di uno un contadino, dell'altro un calzolaio, d'un terzo un operaio di fabbrica, d'un quarto uno speculatore in borsa, scomparirà dunque del tutto.
L'educazione potrà far seguire ai giovani rapidamente l’intero sistema della produzione, li metterà in grado di passare a turno da uno all’altro ramo della produzione, a seconda dei motivi offerti dai bisogni della società o dalle loro proprie inclinazioni.
Toglierà ai giovani il carattere unilaterale impresso ad ogni individuo dall'attuale divisione del lavoro. A questo modo la società organizzata comunisticamente offrirà ai suoi membri l'occasione di applicare in tutti i sensi le loro attitudini sviluppate in tutti i sensi. Ma con ciò scompaiono necessariamente anche le differenti classi. Cosicché da una parte la società organizzata comunisticamente è incompatibile con l'esistenza delle classi, e dall’altra parte l'instaurazione di questa società offre essa stessa i mezzi per abolire queste differenze tra le classi.
Risulta da ciò che scomparirà anche l’antagonismo fra città e campagna. L'esercizio dell’agricoltura e dell'industria per opera degli stessi uomini, invece che per opera di due classi differenti, è condizione necessaria dell'associazione comunista già per cause del tutto materiali.
La dispersione della popolazione dedita all'agricoltura nelle campagne, accanto al conglomeramento della popolazione industriale nelle grandi città, è una situazione che corrisponde solo a uno stadio ancora poco sviluppato dell’agricoltura e dell’industria, un ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo che è già ora molto sensibile.
L'associazione generale dei membri della società per lo sfruttamento comune e pianificato delle forze produttive, l'estensione della produzione a un grado tale che essa soddisferà i bisogni di tutti, la cessazione di una situazione nella quale i bisogni dell’uno vengono soddisfatti a spese dell'altro, la distruzione completa delle classi e dei loro antagonismi, lo sviluppo universale della capacità di tutti i membri della società mediante l’eliminazione della divisione del lavoro esistente finora, mediante l'educazione industriale, mediante l’alternarsi delle attività, mediante la partecipazione di tutti ai godimenti prodotti da tutti, mediante la fusione di città e campagna - ecco i risultati principali dell'abolizione della proprietà privata.
21) Che influenza eserciterà l'ordinamento comunistico sulla famiglia? L'ordinamento comunista della società farà del rapporto fra i due sessi un semplice rapporto privato che riguarderà solo le persone che vi partecipano, e nel quale la società non ha da ingerirsi. Potrà farlo perché elimina la proprietà privata ed educa in comune i bambini, distruggendo così le due fondamenta del matrimonio come si è avuto finora: la dipendenza della donna dall'uomo e dei figli dai genitori dovuta alla proprietà privata.
Qui sta anche la risposta alle strida dei filistei moralisti contro la comunanza “comunista” delle donne. La comunanza delle donne è una situazione legata totalmente alla società borghese e che oggigiorno esiste in pieno nella prostituzione, ma la prostituzione, poggia sulla proprietà privata e cade con essa.
Dunque, l'organizzazione comunista, anziché introdurre la comunanza delle donne, la abolisce invece.
Friedrich Engels (1820-l895)

57 - Per la storia della “Lega dei Comunisti” (Friedrich Engels)

Con la condanna dei comunisti di Colonia nel 1852 cala il sipario sul primo periodo del movimento autonomo degli operai tedeschi. Oggi questo periodo è quasi dimenticato. Eppure esso durò dal 1836 al 1852, grazie alla diffusione all'estero degli operai tedeschi si sviluppò in quasi tutti i paesi civili. E non è tutto. In realtà l’odierno movimento operaio internazionale è una continuazione diretta di quello tedesco di allora, che fu il primo movimento operaio internazionale in generale e da cui uscirono molti degli uomini che ebbero una parte direttiva, nell'Associazione Internazionale degli operai. I principali teorici che la Lega dei Comunisti aveva scritto sulla sua bandiera nel “Manifesto comunista” del 1847/48, formano oggi il più forte legame internazionale di tutto il movimento proletario d'Europa e d’America. (…)
Dell’associazione segreta democratica repubblicana dei Proscritti fondata a Parigi nel 1834 da profughi tedeschi si separarono nel 1836 gli elementi estremi, per lo più proletari, e fondarono la nuova Lega dei Giusti, anch’essa segreta. L'associazione madre, in cui rimasero solo gli elementi più neghittosi (...), presto si addormentò completamente. Quando la polizia nel 1840 riuscì a scoprirne alcune sezioni in Germania essa era quasi ridotta a un’ombra. La nuova Lega invece si sviluppò con relativa rapidità. Originariamente essa era la propaggine tedesca del comunismo operaio francese, legato a reminiscenze babuvistiche, che si sviluppò in quello stesso tempo a Parigi; la comunanza dei beni veniva reclamata come conseguenza necessaria dell’eguaglianza. Gli scopi erano gli stessi delle società segrete esistenti allora a Parigi. Si trattava di un’associazione per metà di propaganda, per metà di cospirazione, e si considerava pur sempre Parigi come punto centrale dell'azione rivoluzionaria, benché non si escludesse la preparazione di eventuali colpi di mano in Germania.
Ma siccome Parigi restava il campo di battaglia decisivo, la Lega non era in realtà molto più che la diramazione tedesca delle società segrete francesi, specialmente della “Societé des saisons” diretta da Blanqui e Barbès, con la quale esisteva un'intima connessione. I francesi insorsero il 12 maggio 1839; le sezioni della Lega marciarono con loro e quindi furono coinvolte nella comune disfatta.
Dei tedeschi furono arrestati, tra gli altri, Karl Schapper e Heinrich Bauer; il governo di Luigi Filippo si accontentò di espellerli dopo una prigionia piuttosto lunga. Entrambi si recarono a Londra. Schapper, nato a Weilburg nel Nassau, mentre era studente di scienze forestali a Giessen nel 1832 era stato affiliato alla congiura di Georg Büchner; il 3 aprile 1833 aveva partecipato all’attacco al posto di polizia di Francoforte; riparato all’estero si unì alla spedizione di Mazzini in Savoia nel 1834.
Di statura gigantesca, risoluto ed energico, sempre pronto a mettere a repentaglio l'esistenza del pacifico borghese e la vita, egli era il modello del rivoluzionario di professione che ebbe una certa funzione tra il 1830 e il 1840. Pur non avendo una grande elasticità mentale, non era però accessibile a migliori concezioni teoriche, come è sufficiente dimostrare la sua evoluzione da “demagogo” a comunista, e tanto più tenacemente rimaneva attaccato alle cose una volta apprese. Appunto per questo la sua passione rivoluzionaria era spesso in contrasto con la sua ragione; ma in seguito egli comprendeva sempre il suo errore e lo riconosceva apertamente. Era veramente un uomo e quanto egli ha fatto per la fondazione del movimento operaio tedesco non sarà dimenticato.
Heinrich Bauer era un calzolaio della Franconia; un ometto vivace, sveglio, spiritoso nel cui piccolo corpo si nascondevano però molta furberia e risolutezza. Con l’arrivo di Bauer a Londra, dove Schapper - che a Parigi aveva fatto il compositore tipografico - cercava di tirare avanti dando lezioni di lingua, i due riannodarono le fila strappate della Lega e fecero di Londra il centro di essa. Ad essa si unì, se pur non lo aveva già fatto prima a Parigi, Joseph Moll, orologiaio di Colonia, un ercole di media statura: quante volte egli e Schapper difesero gloriosamente l’entrata di una sala contro l’attacco di centinaia di avversari! un uomo che, per lo meno uguale ai suoi due compagni per energia e risolutezza, li superava però entrambi, intellettualmente. Non solo era un diplomatico nato, come lo provarono i successi delle sue numerose missioni; era anche più facilmente accessibile alle concezioni teoriche. Li conobbi tutti e tre a Londra, nel 1843. Erano i primi rivoluzionari proletari che vedevo; e per quanto allora le nostre vedute divergessero nei particolari - perché al loro angusto comunismo egualitario io contrapponevo una buona dose di altrettanto angusta altezzosità filosofica - non dimenticherò mai la grande impressione che fecero su di ma questi tre uomini veri, nel momento in cui io incominciavo soltanto a voler diventare un uomo.
A Londra, come in minor misura nella Svizzera, la libertà di associazione e di riunione tornò loro utile. Già il 7 febbraio 1840 venne apertamente fondata la pubblica “Associazione educativa operaia tedesca”, che ancor oggi esiste. Questa associazione servì alla Lega come base per l'arruolamento di nuovi membri e poiché, come sempre, i comunisti erano i soci più attivi e più intelligenti, fu ovvio che la direzione dell’Associazione fosse completamente nelle mani della Lega. La Lega ebbe presto a Londra molte comunità o, come si chiamavano ancora a quel tempo, “fucine”. La stessa, ovvia tattica fu seguita in Svizzera e altrove. Dove si potevano fondare associazioni operaie, esse venivano utilizzate allo stesso modo. Dove le leggi lo proibivano, si entrava nelle società corali, nelle società ginnastiche, e così via. I collegamenti venivano per lo più mantenuti a mezzo di continui viaggi dei membri, i quali, in caso di bisogno, fungevano ancora da emissari. Sotto questi due aspetti la Lega fu potentemente aiutata dalla saggezza dei governi, i quali con l’espulsione trasformavano in un emissario ogni operaio indesiderabile, e nove su dieci si trattava di un membro della Lega.
La diffusione della Lega ricostituita, fu notevole. Particolarmente nella Svizzera, Weitling, August Becker (uomo di grande intelligenza, ma che si perdette, come molti tedeschi, per mancanza di consistenza interiore), e altri avevano formato una forte organizzazione, più o meno tendente al sistema comunista di Weitling. Non è qui il luogo di criticare il comunismo di Weitling. Per quanto riguarda però la sua importanza come primo movimento teorico autonomo del proletariato tedesco, ancor oggi sottoscrivo le parole di Marx nel Vorwärts parigino del 1844:
“Dove potrebbe la borghesia tedesca, compresi i suoi filosofi e i suoi esegeti, mostrare - in rapporto all’emancipazione della borghesia, alla emancipazione politica – un’opera simile alle ‘garanzie dell’armonia e della libertà’, di Weitlig? Se si confronta l'arida e meschina mediocrità della letteratura politica tedesca con questo grandioso e brillante esordio degli operai tedeschi, se si confrontano queste gigantesche scarpe da bambino del proletariato con le minuscole ciabatte politiche fruste della borghesia, si è costretti a prevedere che questa cenerentola diventerà un atleta”.
Questo atleta sta ora davanti a noi, benché non abbia ancora raggiunto tutto il suo sviluppo.
Anche in Germania per necessità di cose esistevano molte sezioni di carattere precario; ma quelle che sorgevano erano più numerose di quelle che scomparivano. Solo dopo sette anni, alla fine del 1846, la polizia scoprì a Berlino (Mentel) e a Magdeburgo (Beck) tracce della Lega, senza essere in grado di seguirle ulteriormente.
A Parigi Weitling, che vi si trovava ancora nel 1840, prima di passare in Svizzera, aveva ugualmente riunito di nuovo gli elementi dispersi.
Il nucleo della Lega era formato dai sarti. Sarti tedeschi ve ne erano dappertutto, in Svizzera, a Londra, a Parigi. In quest'ultima città, la lingua tedesca era dominante nel ramo della sartoria, a tal punto che io conobbi nel 1846 a Parigi un sarto norvegese, venuto in Francia direttamente da Drontheim per via mare, il quale in diciotto mesi non aveva imparato quasi nemmeno una parola di francese, ma aveva imparato a perfezione il tedesco. Delle comunità parigine della Lega del 1847 due erano composte in prevalenza di sarti, una di stipettai.
Da quando il centro di gravità era stato spostato da Parigi a Londra, un altro elemento venne a prendere rilievo: la Lega, da tedesca, divenne a poco a poco internazionale. Nell’Associazione operaia si trovavano, oltre a tedeschi e svizzeri, anche membri di tutte quelle nazionalità a cui la lingua tedesca serviva principalmente come mezzo per intendersi con gli stranieri, in particolare dunque scandinavi, olandesi, ungheresi, cechi, slavi del sud, e anche russi e alsaziani. Nel 1847 tra gli altri frequentava regolarmente le riunioni un granatiere inglese della guardia in uniforme. L'Associazione si chiamò presto “Associazione educativa operaia comunista”, e sulle tessere dei soci era scritto il motto: “Tutti gli uomini sono fratelli” per lo meno in venti lingue, anche se qua e là non senza errori. Come l’associazione pubblica, anche la Lega segreta assunse presto un carattere più internazionale; sulle prime, però, solo in un senso limitato, praticamente per la diversa nazionalità dei suoi membri, teoricamente per comprensione che ogni rivoluzione, per essere vittoriosa, doveva essere europea. Non si andava più in là, ma la base era posta.
Coi rivoluzionari francesi si manteneva uno stretto collegamento a mezzo dei profughi londinesi, compagni di lotta del 12 maggio 1839. Lo stesso coi polacchi più radicali. L’emigrazione ufficiale polacca, al pari di Mazzini, era naturalmente più nemica che alleata. I cartisti inglesi, a causa del carattere specificamente inglese del loro movimento, venivano lasciati in disparte come non rivoluzionari. Solo più tardi, per mezzo mio, i dirigenti londinesi della Lega entrarono in rapporto con essi.
Con lo sviluppo degli avvenimenti il carattere della Lega era cambiato anche sotto altri aspetti. Benché si continuasse ancora - e allora con pieno diritto - a considerare Parigi come la città madre della rivoluzione, ci si era però emancipati dalla dipendenza dai congiurati parigini. La Lega, estendendosi, era divenuta più consapevole delle proprie forze. Si aveva la sensazione di radicarsi sempre più nella classe operaia tedesca, e che questi operai tedeschi fossero storicamente chiamati a essere gli antesignani degli operai del settentrione e dell'oriente europeo. Si aveva in Weitling un teorico comunista che poteva arditamente porre a fianco dei suoi concorrenti francesi di allora. Finalmente, l’esperienza del 12 maggio insegnava che di tentativi di colpi di mano per il momento non era il caso di parlarne. E per quanto si continuasse a interpretare ogni avvenimento come inizio dell'imminente tempesta, se in sostanza si mantenevano in vigore i vecchi statuti semicospirativi, ciò era più che altro una conseguenza della vecchia testardaggine rivoluzionaria, che già incominciava a entrare in conflitto con una comprensione più giusta che si andava affermando.
Invece la dottrina sociale della Lega, per quanto indeterminata, conteneva un errore molto grave, derivante, del resto, dagli stessi rapporti sociali. I membri, nella misura in cui erano operai, erano in realtà quasi esclusivamente artigiani. L'uomo che li sfruttava era egli stesso anche nelle grandi metropoli, soltanto un piccolo maestro artigiano. Perfino nella sartoria lo sfruttamento su grande scala, quella che oggi si chiama industria dell'abbigliamento, basata sulla trasformazione della sartoria artigiana in industria a domicilio per conto di un grande capitalista, era allora agli inizi anche a Londra. Da un lato lo sfruttatore di questi artigiani era un piccolo maestro, d'altro lato essi stessi, speravano di diventare alla fine dei piccoli maestri artigiani. Inoltre gli artigiani tedeschi di quel tempo erano ancora affetti da una quantità di idee corporative tradizionali. Torna certamente a loro sommo onore il fatto che - mentre non erano nemmeno ancora dei proletari nel senso vero e proprio della parola, ma soltanto un’appendice della piccola borghesia in via di diventare proletariato moderno e non ancora in conflitto diretto con la borghesia, cioè col grande capitale - questi artigiani fossero in grado di anticipare istintivamente la loro evoluzione futura e di costituirsi in partito del proletariato, anche se non ancora con piena coscienza. Ma era anche inevitabile che i vecchi pregiudizi artigianeschi fossero loro d’inciampo ad ogni istante, ogni volta che si trattava di criticare la società moderna nei particolari, cioè di analizzare fatti economici. E io non credo ci fosse in tutta la Lega un solo membro che avesse mai letto un libro di economia. Ciò importava poco: l’”eguaglianza”, la “fratellanza”, la “giustizia”, aiutavano per il momento a scalare qualsiasi vetta teorica.
Frattanto si era formato accanto al comunismo della lega e di Weitling un secondo comunismo, essenzialmente diverso. Vivendo a Manchester io avevo per così dire toccato con mano che i fatti economici, che sino allora la storiografia aveva disdegnati e tenuti in nessun conto sono, per lo meno nel mondo moderno, una forza storica decisiva; che essi formano la base delle origini degli attuali contrasti di classe; che questi contrasti di classe a loro volta, nei paesi dove grazie alla grande industria si sono pienamente sviluppati, e quindi specialmente in Inghilterra, formano la base della formazione dei partiti politici, delle lotte dei partiti e quindi di tutta la storia politica. Marx non soltanto era giunto alla stessa concezione, ma l’aveva già anche generalizzata nei “Deutsch-Französische Jahrbücher” (1844), nel senso che non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato, che dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei rapporti economici e del loro sviluppo, e non vice versa. Quando nell'estate del 1844 feci visita a Marx a Parigi risultò che concordavamo in tutti i campi della teoria, e da allora data il nostro lavoro comune. Quando ci trovammo a Bruxelles nella primavera del 1845, Marx dalle premesse suddette aveva già pienamente elaborata nelle sue linee fondamentali la sua concezione materialistica della storia, e allora ci accingemmo a sviluppare nei particolari e nelle direzioni più diverse questa nostra nuova concezione.
Ma questa scoperta, che rivoluzionava la scienza storica e che, come si vede è essenzialmente opera di Marx e di cui non posso attribuirmi che una parte minima, era di una importanza immediata per il movimento operaio di quel tempo. Il comunismo dei francesi e dei tedeschi, il cartismo degli inglesi, non apparivano più come qualcosa di casuale, che avrebbe potuto anche non esistere. Questi movimenti apparivano ora come un movimento della moderna classe operaia oppressa, il proletariato, come forme più o meno sviluppate della lotta storicamente necessaria di questa classe contro la classe dominante, la borghesia; come forme della lotta di classe, ma diverse da tutte le precedenti lotte di classe per il fatto che oggi la classe oppressa, il proletariato, non può compiere la propria emancipazione senza emancipare in pari tempo tutta le società dalla divisione in classi e quindi dalle lotte di classe. E comunismo non voleva quindi più dire escogitazione a mezzo della fantasia, della società ideale più perfetta possibile, ma comprensione della natura, delle condizioni e dei conseguenti fini generali della lotta condotta dal proletariato.
Non pensavamo però affatto di sussurrare i nuovi risultati scientifici in grossi volumi esclusivamente al mondo dei “dotti”. Al contrario. Entrambi eravamo già profondamente impegnati nel movimento politico, avevamo qualche seguito nel mondo intellettuale, specialmente della Germania occidentale, e ampi contatti col proletariato organizzato. Eravamo obbligati a dare una giustificazione scientifica della nostra concezione; ma altrettanto importante era per noi conquistare alle nostre idee il proletariato europeo, e prima di tutto il proletariato tedesco. Non appena chiarite a noi stessi le nostre idee ci ponemmo al lavoro. Fondammo a Bruxelles un’”Associazione operaia tedesca” e ci impadronimmo della “Deutsche Brüsseler Zeitung” in cui avemmo un organo sino alla rivoluzione di febbraio. Con la parte rivoluzionaria dei cartisti inglesi eravamo in contatto attraverso Julian Harney, direttore dell'organo centrale del movimento, “The Northern Star”, di cui ero collaboratore. Eravamo pure in una specie di blocco coi democratici di Bruxelles (Marx era vicepresidente dell’Associazione democratica) e così coi socialdemocratici francesi della “Réforme”, alla quale fornivo informazioni sul movimento inglese e tedesco. In una parola, i nostri collegamenti con le organizzazioni radicali e proletarie e con gli organi di stampa, erano del tutto conformi ai nostri desideri.
I nostri rapporti con la Lega dei Giusti erano i seguenti. L'esistenza della Lega ci era naturalmente nota; nel 1843 Schapper mi aveva offerto di entrarvi, ma io naturalmente allora non ne avevo voluto sapere. Però non soltanto eravamo rimasti in corrispondenza continua con gli elementi londinesi, ma in contatto anche più stretto col Dr. Ewerbeck, attuale dirigente della comunità parigina. Senza immischiarci negli affari interni della Lega, eravamo però informati di tutto ciò che vi accadeva di importante. D’altra parte esercitavamo una influenza orale, scritta e attraverso la stampa sulle concezioni teoriche dei più importanti membri della Lega. A questo scopo ci servirono anche le diverse circolari litografate, che mandavamo ai nostri amici e corrispondenti nel mondo in occasione di avvenimenti riguardanti le cose interne del partito comunista che si stava formando. In queste circolari si trattava talora della Lega stessa. Così, per esempio, un giovane studente della Westfalia, Hermann Kriege, recatosi in America, si era spacciato per emissario della Lega, si era associato con lo squilibrato Harro Harring per sollevare l'America meridionale dai propri cardini a mezzo della Lega, e aveva fondato un giornale in cui predicava a nome della Lega un comunismo basato sull’“amore” sentimentaloide e svenevole. Lo attaccammo duramente in una circolare che non mancò di avere la sua influenza. Kriege sparì dalla scena della Lega.
Più tardi venne a Bruxelles Weitling. Ma egli non era più il giovane ingenuo garzone sarto che, meravigliato delle proprie doti, cerca di rendersi ragione del modo come potrebbe presentarsi una società comunista. Egli era il grand’uomo perseguitato dagli invidiosi per la sua superiorità, che voleva dappertutto rivali, nemici nascosti e trappole; il profeta cacciato di paese in paese, che aveva in tasca la ricetta bella e pronta per realizzare il cielo in terra, e si immaginava che ognuno volesse rubargliela. A Londra era già venuto in contrasto con i membri della Lega, e anche a Bruxelles, dove Marx e sua moglie lo trattarono con pazienza quasi sovrumana, non poté andar d’accordo con nessuno. Perciò parti poco dopo per l'America, per tentarvi il mestiere del profeta.
Tutte queste circostanze contribuirono alla rivoluzione che si compì inavvertitamente nella Lega e specialmente tra i suoi dirigenti londinesi. La insufficienza della concezione avuta sino allora del comunismo, tanto del semplice comunismo elitario francese quanto di quello di Weitling, diventò loro sempre più chiara. Il ricondurre il comunismo al cristianesimo primitivo, come aveva fatto Weitling - per quanto nel suo “Vangelo di un povero peccatore” possano trovarsi singoli passi geniali - aveva fatto sì che in Svizzera il movimento cadesse nelle mani, prima di pazzi come Albrecht, poi di profeti imbroglioni e truffatori come Kuhlmann. Il “vero socialismo” diffuso da alcuni letterati, una traduzione in cattivo tedesco hegheliano di espressioni socialiste francesi e l'umanitarismo sentimentale, che Kriege e la lettura degli scritti relativi avevano introdotto nella Lega, dovevano presto nauseare per la loro bavosa impotenza i vecchi rivoluzionari della Lega stessa. Di fronte all'inconsistenza delle teorie sino allora diffuse, di fronte alle aberrazioni pratiche che ne derivavano, si comprendeva sempre più a Londra che Marx e io e le nostre nuove teorie avevamo ragione. Questa, convinzione venne senza dubbio favorita dal fatto che ora tra i dirigenti londinesi si trovavano due uomini notevolmente superiori agli altri per la loro capacità di conoscenza teorica: il miniaturista Karl Pfänder di Heilbronn e il sarto Georg Eccarius della Turingia.
Infine, nella primavera del 1847, Moll si recò da Marx a Bruxelles e subito dopo venne da me a Parigi per invitarci con insistenza, a nome dei suoi compagni, ad entrare nella Lega. Essi, ci disse, erano altrettanto convinti della giustezza delle nostre idee in generale quanto della necessità di liberare la Lega dalle vecchie tradizioni e forme cospirative. Se acconsentivamo ad entrare ci sarebbe stata data la possibilità di esporre in un congresso della Lega il nostro comunismo critico in un manifesto che poi sarebbe stato pubblicato come manifesto della Lega stessa; egualmente avremmo potuto contribuire da parte nostra a sostituire alla organizzazione invecchiata della Lega una nuova organizzazione più corrispondente ai tempi e lo scopo.
Non dubitavamo che in seno alla classe operaia tedesca fosse necessaria una organizzazione, magari solo a scopo di propaganda, e che questa organizzazione per non essere puramente locale, dovesse di necessità mantenersi segreta, anche fuori della Germania. Ma una simile organizzazione esisteva già, era la Lega. Ciò che noi avevamo criticato fino allora nella Lega veniva ora abbandonato come sbagliato dai suoi rappresentanti stessi, e noi medesimi eravamo chiamati a collaborare alla sua riorganizzazione. Potevamo rifiutarci? No, certamente. Entrammo quindi nella Lega. Marx formò a Bruxelles una comunità della Lega, coi nostri amici più stretti, mentre io frequentavo le tre comunità parigine.
Nell’estate del 1847 ebbe luogo a Londra il primo congresso della Lega, nel quale W. Wolff rappresentava le comunità di Bruxelles ed io quelle di Parigi. In questo congresso ci si occupò anzitutto della riorganizzazione della Lega. Ciò che ancora rimaneva dei vecchi nomi mistici del periodo cospirativo venne soppresso. La Lega si organizzò in comunità, circoli, circoli dirigenti, organi centrali e congresso e da allora venne chiamata Lega dei Comunisti.
“Lo scopo della Lega è l’abbattimento della borghesia, il dominio del proletariato, la liquidazione della vecchia società borghese basata su contrasti di classe, la fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata”.
Così diceva il primo articolo degli statuti. L'organizzazione stessa era assolutamente democratica, con dirigenti eletti sempre rimovibili, il che bastava per sbarrare il passo a tutte le manie di cospirazione, cui è necessaria la dittatura, e a trasformare la Lega - almeno nei tempi pacifici ordinari - in una semplice organizzazione di propaganda. E si procedette in modo così democratico che questi nuovi statuti vennero posti in discussione nelle comunità, quindi esaminati ancora una volta nel secondo congresso e approvati da esso definitivamente l’8 dicembre 1847. Essi sono pubblicati in Wermuth e Stieber, I, pag. 239, appendice X.
Il secondo congresso ebbe luogo alla fine di novembre e inizio di dicembre dello stesso anno. Ad esso fu presente anche Marx, che difese in lunghe discussioni (il congresso durò almeno dieci giorni) la nuova teoria. Tutte le divergenze e tutti i dubbi vennero infine eliminati; i nuovi principi vennero approvati all’unanimità, e Marx ed io fummo incaricati di redigere il manifesto. Lo facemmo immediatamente, e poche settimane prima della rivoluzione di febbraio, il manifesto fu spedito a Londra per la stampa. Da allora esso ha fatto il giro del mondo, è stato tradotto in quasi tutte le lingue e serve anche ora di guida al movimento proletario nei più diversi paesi. Al posto del vecchio motto della Lega “Tutti gli uomini sono fratelli”, subentrò il nuovo grido di battaglia: “Proletari di tutto il mondo, unitevi” che proclamava apertamente il carattere internazionale della lotta. Diciassette anni più tardi esso risuonò per tutto il mondo come grido di lotta dell’Associazione Internazionale degli operai e oggi il proletariato battagliero di tutti i paesi lo ha scritto sulla propria bandiera.
Scoppiò la rivoluzione di febbraio. Immediatamente il Comitato centrale di Londra trasmise i suoi poteri al circolo dirigente di Bruxelles. Ma questa decisione sopraggiunse in un momento in cui a Bruxelles regnava di fatto lo stato di assedio e specialmente i tedeschi non potevano più riunirsi da nessuna parte. Noi eravamo appunto tutti in procinto di partire per Parigi, quindi il nuovo Comitato Centrale decise di sciogliersi subito, di trasmettere tutti i poteri a Marx e di autorizzarlo a costituire immediatamente a Parigi un nuovo Comitato Centrale. Le cinque persone che avevano preso questa decisione (3 marzo 1848) si erano appena separate quando la polizia fece irruzione in casa di Marx, lo arrestò e lo obbligò a partire il giorno seguente per la Francia, che era il paese dove egli voleva per l’appunto recarsi.
Ci ritrovammo presto tutti insieme a Parigi. Ivi venne composto anche il documento seguente che fu firmato dai membri del nuovo Comitato Centrale e diffuso in tutta la Germania, e dal quale anche oggi molti possono imparare qualche cosa.

Rivendicazioni del partito comunista in Germania
Tutta la Germania è proclamata repubblica una e indivisibile.
I rappresentanti del popolo saranno stipendiati, affinché anche l’operaio possa sedere nel parlamento del popolo tedesco.
Armamento generale del popolo.
Le terre dei principi e le altre terre feudali, tutte le miniere, le cave, ecc. vengono trasformate in proprietà dello Stato. In queste terre verrà organizzata la coltivazione su grande scala e con i mezzi scientifici più moderni nell’interesse della collettività.
Le ipoteche sui beni dei contadini vengono dichiarate proprietà dello Stato; gli interessi per queste ipoteche verranno pagate dai contadini allo Stato.
Nelle regioni dove vige la conduzione d’affitto, il canone d’affitto o i tributi agricoli verranno pagati allo Stato come imposte.
Tutti i mezzi di trasporto: ferrovie, canali, battelli a vapore, strade, poste, ecc. sono presi in mano dallo Stato. Essi vengono trasformati in proprietà dello Stato e posti a disposizione della classe non abbiente.
Limitazione del diritto di eredità.
Introduzione di imposte fortemente progressive e abolizione delle imposte di consumo.
Istituzione di fabbriche nazionali. Lo Stato garantisce a tutti i lavoratori la loro esistenza e provvede agli inabili al lavoro.
Istruzione popolare generale e gratuita.
È nell'interesse del proletariato tedesco, della piccola borghesia e dei piccoli contadini di adoprarsi con tutta l’energia per ottenere la realizzazione delle misure sopra indicate. Soltanto con la realizzazione di esse, infatti, i milioni di uomini che oggi vengono sfruttati in Germania da una piccola minoranza (e che si cercherà di mantenere ulteriormente oppressi), potranno ottenere i loro diritti e quel potere che compete loro, quali produttori di tutte le ricchezze.
Il Comitato: K. Marx, K. Schapper, H. Bauer, F. Engels, J. Moll, W. Wolff.

A Parigi regnava allora la mania delle legioni rivoluzionarie. Spagnoli, italiani, belgi, olandesi, polacchi, tedeschi si raccoglievano in schiere destinate a liberar le loro patrie rispettive. La legione tedesca era diretta da Herwegh, Bornstedt e Bornstein. Poiché subito dopo la rivoluzione tutti gli operai stranieri non erano soltanto disoccupati, ma anche trattati male dalla popolazione, queste legioni trovarono numerose reclute. Il nuovo governo vide in esse un mezzo per liberarsi degli operai stranieri e concesse loro l’”étape du soldat”, cioè quartieri e soldo di mancia nella misura di cinquanta centesimi al giorno sino alla frontiera, dove poi il ministro degli esteri, il pretore Lamartine, sempre commosso fino alle lacrime, trovava il modo di consegnarli a tradimento ai loro rispettivi governi.
Ci opponemmo nel modo più deciso a questi trastulli rivoluzionari, mentre la Germania era in preda al fermento, organizzare un’invasione che avrebbe dovuto importare la rivoluzione con la violenza dal di fuori significava porre un intralcio allo sviluppo della rivoluzione nella Germania stessa, rafforzare i governi, e quanto ai legionari, consegnarli senza difesa (di ciò era mallevadore Lamartine), alle truppe tedesche. Quando poi la rivoluzione ebbe vinto a Vienna e a Berlino, la legione più non aveva nessuno scopo, ma poiché il gioco era incominciato, si volle giocarlo sino all’ultimo.
Noi fondammo un circolo comunista tedesco, in cui consigliavamo gli operai di tenersi lontani dalla legione e di ritornare invece in patria individualmente, per agirvi in favore del movimento. Il nostro vecchio amico Flocon, membro del governo provvisorio, ottenne per gli operai inviati da noi le stesse facilitazioni di viaggio che si davano ai legionari. In questo modo provvedemmo a far ritornare in Germania tre o quattrocento operai, in grande maggioranza membri della Lega.
Come facilmente si poteva prevedere, di fronte all'irrompente movimento delle masse popolari la Lega risultò essere una leva troppo debole. Tre quarti dei membri della Lega che prima abitavano all’estero, ritornando in patria avevano cambiato il luogo della propria residenza; le comunità a cui avevano appartenuto prima erano quindi per lo più disciolte, ogni contatto con la Lega era andato per essi perduto. Una parte dei più ambiziosi non cercò nemmeno di ristabilirlo, ma ognuno di essi incominciò a creare nella propria località un piccolo movimento separato per conto proprio. E, infine, le condizioni di ogni staterello, di ogni provincia, di ogni città erano così diverse, che la Lega non sarebbe stata in grado di dare altro che direttive del tutto generali. Ma queste era molto più facile diffonderle con la stampa. In una parola, dal momento in cui cessarono le pause che avevano reso necessario che la Lega fosse segreta, anche la Lega segreta cessò di avere come tale un’importanza qualunque. Ma ciò meno di tutti gli altri poteva sorprendere coloro che poco tempo prima si erano sforzati di togliere alla Lega segreta l’ultimo resto del suo carattere cospirativo.
Si ebbe però ora la prova che la Lega era stata un’eccellente scuola di attività rivoluzionaria. Sul Reno, dove la “Neue Rheinische Zeitung” offriva un solido centro nel Nassau, nella Assia renana, ecc., dappertutto i membri della Lega, erano a capo del movimento democratico estremo. Lo stesso ad Amburgo. Nella Germania meridionale lo impediva il predominio della democrazia, piccolo borghese. A Breslavia Wilhelm Wolff svolse la sua attività con grande successo fino all’estate del 1848; egli ottenne anche un mandato della Slesia come sostituto deputato al parlamento di Francoforte. A Berlino, infine, il compositore tipografo Stephan Born, che era stato membro attivo della Lega a Bruxelles e a Parigi, fondò una Fratellanza operaia che ebbe discreta diffusione ed esistette sino al 1850. Born, giovane di molto talento, ma che aveva troppa fretta di diventare un astro politico, “fraternizzava” con gli elementi più disparati pur di raccogliere gente intorno a sé, e non era per niente l’uomo che potesse portare l’unità, nelle opposte tendenze, la luce nel caos. Perciò nelle pubblicazioni ufficiali della sua associazione le vedute propagate nel “Manifesto comunista” si intrecciano e si confondono con reminiscenze e aspirazioni corporative, avanzi di Louis Blanc e di Proudhon, idee protezionistiche, ecc.; in breve, egli voleva essere tutto per tutti. Specialmente ci si occupò di organizzare scioperi, associazioni di mestiere, cooperative di produzione, dimenticando che si trattava anzitutto di conquistarsi con vittorie politiche il terreno sul quale soltanto cose simili potevano avere una esistenza durevole. Quando poi le vittorie della reazione fecero sentire ai dirigenti della Fratellanza la necessità di entrare in modo diretto nella lotta rivoluzionaria, essi vennero naturalmente lasciati in asso dalla massa disorientata che avevano raccolto attorno a sé. Born partecipò all’insurrezione di Dresda del maggio 1849 e ne scampò felicemente. Ma la Fratellanza operaia, di fronte al grande movimento politico del proletariato, aveva mantenuto la posizione di una società a parte, la quale aveva per lo più una esistenza fittizia e una funzione tanto subordinata, che la reazione trovò necessario sopprimerla solo nel 1850 e sopprimere le sue successive incarnazioni solo diversi anni dopo. Born, il cui vero nome è Buttermilch, non diventò un astro della politica, ma un piccolo professore svizzero, che non traduce più Marx in linguaggio corporativo, ma il mite Renan nel suo proprio tedesco dolciastro.
Col 13 giugno 1849 a Parigi - con la disfatta delle insurrezioni tedesche di maggio e coll’abbattimento della rivoluzione ungherese da parte dei russi - si chiuse un grande periodo della rivoluzione del 1848. Ma la vittoria della reazione era ben lungi dall’esser definitiva. S'imponeva una nuova organizzazione delle forze rivoluzionarie disperse, e quindi anche della Lega. La situazione impediva nuovamente, come prima del 1848, ogni organizzazione pubblica del proletariato; bisognava dunque, organizzarsi di nuovo segretamente.
Nell'autunno 1849 la maggior parte dei membri dei precedenti comitati centrali e congressi si ritrovarono assieme a Londra. Mancava ormai soltanto Schapper detenuto a Wiesbaden, ma che giunse egli pure dopo la sua assoluzione nella primavera del 1850; e Moll, che dopo una serie di missioni e di viaggi di agitazione dei più pericolosi - negli ultimi tempi aveva reclutato nella provincia renana fra l’esercito prussiano dei cannonieri a cavallo per l’artiglieria del Palatinato - era entrato nella compagnia operaia di Besançon del corpo di Willich ed era stato ucciso da una fucilata alla testa nella battaglia sulla Murg, davanti al ponte di Rotenfels. Invece entrò nella Lega Willich. Willich era uno di quei comunisti sentimentali, così numerosi nella Germania occidentale dopo il 1845, e quindi già per questo avversario istintivo, inconsapevole del nostro indirizzo critico. Ma egli era qualcosa di più, era un perfetto profeta, convinto della sua missione personale come predestinato liberatore del proletariato tedesco, e come tale pretendente diretto alla dittatura politica non meno che alla dittatura militare. Al comunismo a base di cristianesimo primitivo predicato precedentemente da Weitling si accompagnò dunque una specie di Islam comunistico. Ma la propaganda di questa nuova religione rimane limitata in un primo tempo alle caserme di profughi sottoposte al comando di Willich.
La Lega venne quindi riorganizzata, venne emanato l’indirizzo del marzo 1850 (…) e Heinrich Bauer venne inviato come emissario in Germania. L’indirizzo redatto da Marx e da me ha ancor oggi interesse, perché la democrazia piccolo-borghese è ancora oggi il partito che nel prossimo sconvolgimento europeo, quasi imminente (i periodi di tempo che dividono l’una dall’altra le rivoluzioni europee: 1815, 1830, 1848-52, 1870 si succedono nel nostro secolo ad intervalli dai quindici ai diciotto anni), dovrà certamente andare al potere in Germania per salvare la società dagli operai comunisti. Molto di quel che vi è detto si adatta perciò anche ad oggi. La missione di Heinrich Bauer fu coronata da un successo completo. Il piccolo e allegro calzolaio era un diplomatico nato. Egli richiamò all’organizzazione attiva i vecchi membri della Lega, in parte diventati inattivi, in parte operanti per conto proprio, e tra l’altro anche gli attuali dirigenti della Fratellanza operaia. La Lega incominciò ad avere nelle associazioni operaie, contadine e ginnastiche una funzione dirigente in misura molto più grande che nel 1848, cosicché già il successivo indirizzo trimestrale del giugno 1850 alle comunità poteva rilevare che lo studente Schurz di Bonn (futuro ex ministro in America), il quale aveva fatto un viaggio in Germania per conto della democrazia piccolo-borghese, “aveva già trovato tutte le forze utilizzabili nelle mani della Lega”. La Lega era indiscutibilmente l’unica organizzazione rivoluzionaria che avesse in Germania qualche importanza.
Ma lo scopo cui doveva servire questa organizzazione dipendeva essenzialmente dal fatto che si realizzassero le prospettive di un nuovo periodo ascendente della rivoluzione. E la cosa divenne sempre più inverosimile, anzi impossibile, nel corso del 1850. La crisi industriale del l847, che aveva preparato la rivoluzione del 1848, era superata. Si era aperto un periodo di nuova inaudita prosperità industriale. Per chi aveva occhi per vedere e ne faceva uso doveva essere chiaro che l’ondata rivoluzionaria del 1848 si veniva a poco a poco esaurendo.
“Data questa prosperità generale, in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano così rigogliosamente, nei limiti in cui in generale lo consentano i rapporti borghesi, non si può pensare a una vera rivoluzione. Una tale rivoluzione è possibile soltanto nei periodi in cui questi due fattori: le forze produttive moderne e le forze di produzione borghesi, vengono fra loro in contraddizione. Le diverse baruffe a cui si abbandonano e in cui si compromettono reciprocamente le singole frazioni del partito dell’ordine sul continente, ben lungi dall'offrire occasione a nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base della situazione è momentaneamente così sicura, e (ciò che la reazione non sa), così borghese. Su di essa tutti i tentativi della reazione di frenare la evoluzione borghese si spezzeranno tanto sicuramente, quanto tutta l'indignazione morale e tutti i proclami infiammati dei democratici”.
Così scrivevamo Marx ed io nella “Rassegna politica da maggio a ottobre 1850” della “Neue Rheinische Zeitung” rivista, fascicolo V e VI, 1850.
Questo freddo apprezzamento della situazione era però per molti un’eresia, in un tempo in cui Ledru-Rollin, Louis Blanc, Mazzini, Kossuth e, tra i minori luminari tedeschi, Ruga, Kinkel, Gögg e tutti gli altri, comunque si chiamassero, si univano a Londra a mucchi per formarvi dei governi provvisori dell’avvenire, non solo per i loro rispettivi paesi, ma anche per tutta l’Europa; e in cui non si trattava più che di raccogliere in America il denaro necessario sotto la forma di prestito rivoluzionario per realizzare in un attimo la rivoluzione europea, e con essa, naturalmente, le diverse repubbliche. Che un uomo come Willich cadesse in questa corrente, e che anche Schapper si lasciasse trarre in inganno grazie al suo vecchio impeto rivoluzionario, che la maggioranza degli operai di Londra, per lo più profughi essi stessi, li seguisse nel campo dei facitori di rivoluzioni democratico-borghesi, chi se ne può meravigliare? Infine, l’atteggiamento prudente che noi consigliavamo era contrario al gusto di questa gente; bisognava unirsi a questi facitori di rivoluzioni, e noi ci rifiutammo nel modo più deciso. Si venne alla scissione; e il resto si può leggere nelle “Rivelazioni”. Poi sopravvenne l’arresto ad Amburgo prima di Nothjung, poi di Haupt, che tradì, rivelando i nomi dei membri del comitato Centrale di Colonia, e avrebbe dovuto apparire al processo come testimone principale. I suoi parenti, non vollero però sottostare a questa vergogna e lo fecero partire per Rio de Janeiro, dove in seguito si dette al commercio e in riconoscimento dei suoi servizi divenne prima console prussiano e poi console generale tedesco. Adesso è di nuovo in Europa.
Per migliore intelligenza di quanto segue ho qui la lista degli accusati di Colonia: 1. P.G. Röser, operaio sigaraio; 2. Heinrich Bürgers, morto più tardi deputato Progressista al Landtag; 3. Peter Nothjung, sarto, morto pochi anni fa, fotografo a Breslavia; 4.
W. I. Reiff; 5. Dr. Hermann Becker, oggi primo borgomastro di Colonia e membro della Camera dei Signori; 6. Dr. Roland Daniels, medico, morto pochi anni dopo il processo di tisi contratta in carcere; 7. Karl Otto, chimico; 8. Dr. Abraham Jacoby, ora medico a New York; 9. Dr, I. I. Klein, ora medico e consigliare comunale di Colonia; 10. Ferdinand Freligrath, che però allora si trovava già a Londra; 11. I. L. Ehrhard, commesso; 12. Fiedrich Lessner, sarto, ora a Londra. Di questi, dopo il pubblico dibattito svoltosi davanti ai giurati dal 4 ottobre al 12 novembre 1852, vennero condannati per tentato alto tradimento: Röser, Bürgers e Nothjung a sei anni di fortezza, Reiff, Otto e Becker a cinque anni della stessa pena, Lessner a tre anni. Daniels, Klein, Jacoby ed Ehrhard vennero assolti.
Col processo di Colonia si chiude questo primo periodo del movimento operaio comunista tedesco. Subito dopo la condanna sciogliemmo la nostra Lega; alcuni mesi dopo anche la Lega dissidente di Willich-Schapper passò a godere l’eterno riposo.
(in nota: Schapper morì a Londra nel 1870. Willich prese parte alla guerra civile americana e vi si distinse. Nella battaglia di Murfreesboro, Tennesee, era generale di brigata e ricevette una palla nel petto; guarì e morì circa dieci anni or sono in America. Delle altre persone di cui si parla sopra, voglio ancora ricordare che Heinrich Bauer è scomparso in Australia e che Weitling ed Ewerbeck morirono in America).

Una generazione separa quel tempo dal tempo nostro. Allora la Germania era un paese di artigianato e di industria domestica basata sul lavoro manuale; ora è un grande paese industriale in cui continua a svolgersi un processo di rivoluzione dell’industria. Allora bisognava andare a cercare ad uno ad uno gli operai che comprendessero la loro situazione come operai e il loro antagonismo storico-economico col capitale, poiché questo antagonismo stesso era appena al suo sorgere. Oggi si deve sottomettere tutto il proletariato tedesco a una legge eccezionale, soltanto per rallentare di un poco il processo del suo sviluppo verso la piena coscienza della propria situazione di classe oppressa. Allora i pochi che erano pervenuti al riconoscimento della funzione storica del proletariato dovevano unirsi in segreto, adunarsi clandestinamente in comunità da tre a venti uomini. Oggi il proletariato tedesco non ha più bisogno di nessuna organizzazione ufficiale, né pubblica né segreta. Il semplice legame, che si comprende da sé, tra compagni di classe della stessa opinione è sufficiente, senza tutti gli statuti, le istanze dirigenti, le decisioni e tutte le altre forme immaginabili, per scuotere tutto il Reich tedesco. Bismarck è arbitro dell’Europa, ma al di fuori delle frontiere della Germania; all’interno di esse diventa sempre più minacciosa quell’atletica figura del proletariato tedesco che Marx aveva già previsto nel 1844: il gigante per il quale l’edificio del Reich, fatto sulla misura del filisteo, diventa già troppo angusto, e la cui potente statura e le cui larghe spalle stanno crescendo a tal segno che solo levandosi in piedi egli farà a pezzi tutto l’edificio della Costituzione del Reich. E anche di più. Il movimento internazionale del proletariato europeo e americano è diventato adesso così forte che non solo la sua prima forma ristretta - la Lega segreta - ma perfino la sua seconda forma infinitamente più larga - la pubblica Associazione Internazionale degli operai - è diventata per esso un inciampo; e che il semplice sentimento di solidarietà, basato sulla convinzione dell’identità della situazione di classe, è sufficiente per creare, e tenere assieme tra gli operai di tutti i paesi e di tutte le lingue uno stesso grande partito del proletariato. Le dottrine che furono quelle della Lega dal 1847 al 1852 e che allora potevano essere trattate dai saggi filistei con una scrollata di spalle, come fantasticherie di teste esaltate e teorie segrete di pochi settari dispersi, hanno ora innumerevoli seguaci in tutti i paesi civili del mondo, tra i condannati delle miniere siberiane e tra i cercatori d’oro della California; e il creatore di quelle dottrine, l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo, Karl Marx era, quando morì, il consigliere sempre ricercato e sempre pronto del proletariato dei due mondi.
Londra, 8 ottobre 1885
Friedrich Engels
 

58 - Una lettera di Antonio Labriola a Friedrich Engels (Antonio Labriola)

Napoli, 31 luglio 1891 - (Riviera di Chiaia, 180)

Egregio Signore,
se le mie lettere la impegnassero ad alcuna risposta, io mi guarderei bene dal mandargliele. Non ardisco di toglierla ai suoi seri e gravi lavori, per solo diletto di corrispondenza: e del terzo volume del “Capitale” abbiamo tutti bisogno. Ma faccia conto di leggerle come relazioni, che tengono luogo dei giornali socialisti, i quali in Italia non mancano, o non sono degni di essere presi sul serio. Alla vigilia del Congresso di Bruxelles le riassumo un po’ la situazione.
Degli arrestati per i fatti del I Maggio a Roma, un centinaio all’incirca furono giudicati a precipizio dal giudice di città (pretore), e furono condannati a piccole pene di carcere o di multa.
Poi venne un processo serio, di cinquantuno imputati di resistenza a mano armata alla forza pubblica. Furono ad arte sottratti al giudizio dei giurati e rimandati al tribunale penale, che li condannò tutti meno sei l’altro venerdì, in mezzo ad un iscrivibile tumulto dell'aula e delle vie adiacenti.
Trattavasi fatta eccezione di due studenti di Università e di uno studente di liceo, di gente ignota in tutti i circoli politici di Roma, di gente arrestata a caso su la piazza, o dopo. Processo indecente, di puri indizi, di semplici testimonianze di agenti di pubblica sicurezza, e queste e quelli anche contraddittori e inconcludenti. Furono pronunciate delle pene gravissime, in una sentenza, che non era da magistrati, ma da poliziotti: circa cento anni di carcere!
D’uno dei condannati (ebbe due anni e mezzo di reclusione) risultava soltanto che lanciando un sasso aveva rotto un lampione. Letta la sentenza, il presidente del Tribunale dovette scappare dall’aula, per il tumulto che ne seguì.
Quella sentenza non fu che un atto di meditata repressione. Tutti sanno a Roma che quei cinquantuno non furono né i promotori né gli autori principali della sommossa. È risaputo anche, che molti e molti operai se ne tornarono alle loro case tranquillamente, feriti o ammaccati. Gli è anche fuori di dubbio che in un tumulto durato dalle 4 e mezza alle 8 di sera, fra la piazza e le vie adiacenti, la cosa non sarebbe andata così liscia, se gli operai avessero usato altro che delle pietre raccolte a caso, e se i soldati non avessero tirato in aria.
Si trattava di avere nelle mani dei capri espiatori; si trattava di compiere un atto di terrore bianco. A ciò l’opinione pubblica era stata preparata dalla stampa vilissima e, più che vile, ignorante. Nella piccola testa dei nostri giornalisti i fatti del I Maggio hanno assunto le proporzioni di un grande avvenimento storico, e il carattere di una grave minaccia rivoluzionaria. La stampa in questo momento è quasi tutta nelle mani del bicipite governo (Rudinì, di destra pura, e Nicotera di sinistra ed ex radicale).
Gli stessi radicali si sono condotti indecentemente. I loro rappresentanti di estrema sinistra fecero il pugilato alla camera per salvare Nicotera, cioè la caricatura di Crispi; il Nicotera che offendendo il “diritto comune”, proibì tutti i comizi contro la triplice alleanza, e che dopo aver trattato con anarchici, con socialisti, con repubblicani perché il I maggio riuscisse “a suo onore e gloria”, fu così sfacciato da dire in parlamento “che aveva portato tanta gente su di una piazza per metterla in trappola”. E tre quinti dei deputati applaudirono.
In questa condizione dello spirito pubblico, gli è naturale che polizia e magistratura non abbiano alcun freno. Il giorno dello Statuto furono premiati con la medaglia del merito civile, gli agenti della sicurezza pubblica, e gli ufficiali dei carabinieri che diressero la repressione del I Maggio. La corona per la guerra civile: oh, siamo in Russia? Arrossirei per il mio paese, se non avessi scritto già da molti anni - e non mi hanno ancora lapidato - che i miei coetanei sono come gli Italiani del cinquecento, ma soltanto imporciti e incanagliti, con meno ingegno, senza cultura e senza quattrini.
Alla sentenza di Roma corrispondono a capello quelle pronunciate nelle parti d’Italia, che furono da per tutto violente e feroci, e specialmente a Firenze, a Parma e a Gubbio. Oramai i giudicati e i giudicabili ascendono a migliaia come se fossimo del 1849-50!
Poi verrà a Roma il processo grande di cospirazione anarchica che, in mancanza di leggi speciali, si assimila a cospirazione di malfattori. In questo processo è lo studente Koerner. Sarà discusso forse in ottobre. È ancora al periodo istruttorio, ed io fui interrogato come testimone appena ieri l’altro.
L’imbastitura del processo è la seguente: Congresso di Capolago del gennaio, in cui fu decisa l’organizzazione dei gruppi rivoluzionari: viaggio di Cipriani a Roma, dopo aver girato tutta l’Italia e sua presenza nella capitale durante la preparazione del I Maggio; viaggio clandestino di Malatesta per l’Italia; venuta del famoso Palla da Parigi (che tale è il nome del preteso Venerio Landi); esistenza di gruppi anarchici in tutta Italia, e loro deliberazioni segrete (?!); corrispondenze trovate di convegno in Roma; discorsi eccitanti durante il comizio; disegno fatto la notte innanzi di rientrare in città in modo rivoluzionario.
Al processo di Roma si connettono altri processi che si fanno qui, a Messina, a Catania ecc., e ci si riconnetteva anche l’arresto di Malatesta in Svizzera, di cui fu chiesta l’estradizione e non ottenuta. Il Malatesta aveva alle costole quella famosa spia del Terzaghi, di cui si ricorderà le gesta nella sezione torinese della Internazionale del 1872. I carcerati di qui li han tenuti per un pezzo al Castello del Carmine, al di sotto del livello dal mare! Tutta l’imbastitura del processo di Roma potrebbe essere smontata da abili avvocati, i quali potrebbero anzi convertire il dibattimento in un atto di accusa contro il governo e contro la polizia e specie contro il passato del Crispi. Ma questi abili avvocati difficilmente li troveranno e forse saranno come quelli dell’altro processo, che furono 32, ma fatta eccezione del Lollini, del Mazza e del Fratti, erano tutti sbarbatelli, presuntuoselli e in gran parte di idee conservative, e chiamati d'ufficio essendo poveri gli imputati.
Le dirò di volo alcuni fatti tristissimi, perché gettano tanta luce su le misere acque in cui ci muoviamo in Italia.
Le risoluzioni del Congresso di Capolago furono propalate fino all’ultima sillaba nei giornali liberali e conservatori, durante tutto il gennaio: e il governo non si mosse. Anzi è notorio che il Sig. C., andato al congresso come delegato, fu pagato da due giornali conservatori di Roma, perché mandasse delle corrispondenze, che poi furono la fonte di tutte le informazioni. Il Sig. C. fu sempre sospettato di spia, ed ora è tra gli imputati. Continuava la commedia crispina, di sfruttare le passioni di ciascun partito e di ciascun gruppo contro gli altri. Cipriani girò sì tutta l’Italia, ma appena giunto a Forlì dichiarò in una pubblica lettera, che egli era stato ingannato e che in Italia, non c’era per ora speranza di rivoluzione. Lo stesso linguaggio ha tenuto da per tutto o che parlasse o che scrivesse, mentre il governo mandava comunicati ai giornali per dire che Cipriani preparava la rivoluzione. La “trappola”, di cui parlò Nicotera è dunque una schietta, per quanto indubbia verità. L’”inganno” di cui accennava Cipriani veniva di certo da un tale che in pubblico è anarchico, ma che a tempo perso è negoziatore di affari ed agente elettorale. È cosa notoria che molti predicatori d’astensionismo son poi negoziatori di voti o in senso positivo o in senso negativo.
Cipriani intervenne a Roma a molte riunioni schiettamente operaie, e non vi prese parola e non vi votò mai: ma ecco che la questura mandava comunicati ai giornali che quella era stata una riunione di anarchici!
A Roma si erano formati dei gruppi rivoluzionari, ma si riunivano in osterie ed in altri luoghi pubblici. Presto si trovarono ai fianchi degli agenti provocatori e delle spie che avevano il mandato di spingere ad atti o ridicoli o delittuosi. Tutto ciò fu messo in chiaro molti giorni prima del I Maggio, specie per opera del Koerner e ci fu come una specie di giurì con la confessione di uno dei principali intriganti, il signor M., giornalista, che messo al muro dichiarò di ricevere 200 lire al mese per tale nobile mestiere. Il I Maggio e l’arresto di tante centinaia di persone, e il terrore che n’è seguito, hanno reso inutile quelle inchieste che io seguo da lontano. Risoluto a trarne la materia di un grande scandalo, ora che l’insidia ha avuto il suo effetto completo non è il caso più di parlarne. Ci vorrebbe un bell’opuscolo umoristico intitolato così: “La trappola dell’on. Nicotera spiegata al popolo”. Ma i fatti assodati furono i seguenti: più volte i predicatori dell’astensionismo erano stati pagati, e ciò a danno dei candidati antigovernativi; gli agenti provocatori spinsero gli anarchici a guastare il movimento dei disoccupati che pigliava un piede serio e seriamente minaccioso: quando tre anarchici andarono a minacciare il Nicotera nel suo gabinetto, non fecero che recitare il discorso fatto loro imparare a mente da un certo N.N. che aveva anche incarico di far venire a Roma il Malatesta per consegnarlo alla polizia; un certo B., negoziava con la questura per il rinvio dei disoccupati! Ci furono persino consigli dati a disgraziati, a matti, a esaltati di furti, di ricatti e d’incendi.
È il caso proprio che io esclami: dove è andata a finire la mia povera filosofia! Perché molti di questi malfattori li ho visti e li ho sentiti e li ho studiati con santa pazienza. E dicevo spesso a quel povero Koerner, che voleva evangelizzare, che per vivere in Italia dovesse prima imparare a mente il “Fiesco”, di Schiller e leggersi tutte le sere la storiella di Gaudy, lo “Schneidergesell”.
Dopo il I Maggio le insidie durarono, ed io mi son visto la casa guardata dalla polizia per due mesi. Si fiutava l’anarchico da per tutto, continuava sempre la ricerca delle false bombe e dei pretesi documenti, e a furia d’intrighi e per opera specialmente del sig. G. durarono gli arresti ancora un mese.
Ora credo che si cominci a provare imbarazzo di questo colossale processo e già il pubblico comincia a fiutare le colpe del governo. Io farò quanto è in me perché il pubblico dibattimento pigli tale piega, da scoprire il dietroscena che le ho accennato di volo.
Immagini che noie, che fastidi, che angustie, io abbia avuto in questo tempo, ed a quante insinuazioni e velate accuse io sia stato fatto segno. Ma su tutto ciò io passerei sopra, se le cose accadute fossero ammaestramento e consiglio a far meglio. Purtroppo non hanno prodotto che spavento e delusione.
La massa degli operai è rimasta nella persuasione che governo, che repubblicani, che anarchici, che tutti li abbiamo ingannati. Il manipolo dei mazziniani, che si era messo a capitanare il I Maggio a Roma, s’è poi fatto indietro in santa pace. A Roma non è stato mai più possibile di tenere una sola riunione di operai.
A Milano ci doveva essere il 29 di giugno una riunione di delegati di società operaie per scegliere i rappresentanti da inviare a Bruxelles. Ma poi per mancanza di adesione la cosa fu dovuta differire al 14 luglio, e poi finalmente al 2 agosto. Dopo domani, dunque, la riunione, che la magniloquenza italiana chiama congresso, avrà luogo. Temo che si tratti dei soliti avvocati e patrocinatori, ai quali mette conto di agitare il proletariato e di servirsene, purché quello si rassegni a rimanere inerme e disorganizzato. Così scrissi ieri l’altro francamente al guantaio Croce di Milano, che m’invitava: “maturino ma non inventino il partito operaio”.
Ma tra le cose indecenti che le ho narrato, è stata indecentissima poi la condotta dei legalitari, ossia della “frazione dei socialisti”, che piglia cotesto nome. Hanno considerato la disgrazia di Roma come la vittoria per loro. In massima si astennero dal venire alla Camera fino al l0 giugno, e il Costa, che c’era, si tacque durante la discussione dell’l e 2 e 3 maggio. Dacché fu amnistiato s’è chiuso nella sua Imola, e dice che la sua “qualità di Sindaco e di presidente della Congregazione di Carità gli impone l’obbligo di dimostrare che i socialisti sono maturi per il governo dello Stato” (sic). Il Prampolini fece di più, perché nella sua “Giustizia” di Reggio Emilia, attaccò nominativamente i pretesi promotori dei disordini di Roma. Degli altri deputati socialisti non parlo, perché son pure nullità: e il Colajanni non vuol essere del branco.
In questa misera condizione di cose mentre il nome di socialista apparisce ormai in Italia come equivalente o di matto o di affarista; e specie apparisce tale al grossolano buon senso dei napoletani (se fossi romagnolo direi la mia Napoli) che hanno a memoria le gesta antiche dei Gambuzzi, dei Caporusso, etc. ed hanno sott’occhi le gesta presenti del sig. D’A., proprietario della “Montagna”, sedicente socialista, ma in fatti agente di emigrazione nel Brasile a 2.000 lire il mese.
Tutto questo non è principio di nuova vita, ma l’estremo limite della corruzione borghese, italianamente allegra e sciamannata.
Il povero Koerner mi mandò dalle prigioni l’unito biglietto, che reca un saluto degli studenti carcerati a Roma, al Congresso di Bruxelles. Desiderava che io lo mandassi al Bebel, tradotto in tedesco. Ma io non conosco il Bebel, e prego perciò lei di voler soddisfare questo onesto desiderio del mio buono e bravo Koerner.
Se le cose del I Maggio fossero andate bene a Roma, io avevo l’idea di andare a Bruxelles, per pigliare un po’ l’aria del mondo che vive, e per fare delle conoscenze. Sarei corso fino a Londra per vederla. Ma ora non ho né qualità né modo di andarci da privato a tutte mie spese. Non mi rimarrebbe che di andarci da corrispondente di qualche giornale: cosa del resto, un po’ ripugnante per me.
Questa lettera è troppo lunga e gliene chiedo scusa. Né è proprio di bello stile, sono parole buttate lì da chi ha fretta.
Mi sdebito tardivamente da lei, ringraziandola dei due opuscoli del Marx, da lei non solo rinfrescati, ma rifatti e completati.
Il povero Martignetti ha perduto l’impiego di Bergamo e ne sono straziato, ma non so cosa fargli. A Roma, ove mi trovo in cattivo momento, mi fece tanta compassione!
Mi creda con affetto e stima
Suo A. Labriola

59 - Una seconda lettera di Labriola a Engels (Antonio Labriola)

Roma, 14 marzo 1894 - (Corso v. E., 251)
Caro Engels,
domani 15 - è un mese preciso - rimando per pacco ferroviario assicurato la “Heilige Familie” sana e salva, come giunse. Sono stato ammalato di una forte influenza con molti giorni di febbre. Ciò nonostante ho estratto, ricopiando e traducendo, tutto quello che mi occorre.
Mi rincresce di staccarmi dal libro. Ho bisogno di possederlo. Mi permetto di darvi un consiglio. Fatene fare una riproduzione anastatica, come si è fatto per lo “Evangelium des armen Sünders” del Weitling. Così si taglierebbe corto su le difficoltà di una nuova edizione; la quale suppone, o una estesa prefazione, o un lungo commentario, cosa indispensabile anche per tedeschi della nuova generazione, con la riproduzione anastatica, “qui potest capere capiat”.
Ho letto, capito e gustato tutto. Capire potranno molti, ma gustare come me ora pochi. A Napoli, privatamente dal 1840-60, e poi pubblicamente all’Università dal 1860-75, ci fu la rinascenza dell’hegelismo. Il bravo Tari (del resto un uomo geniale) deduceva gli strumenti musicali e la cupola di S. Pietro, e costruiva i romanzi di Balzac. Il gran divulgatore Vera ha lasciato molti libri e molti scolari. Soprattutto ora il mio quasi coetaneo Mariano, che insegna ancora a Napoli dell’hegelismo di estrema destra. Lo Spaventa (ottimo fra tutti, e taccio gli altri) scrisse di dialettica in modo squisito, scovrì di nuovo Bruno e Campanella, delineò la parte utile e utilizzabile di Vico, e trovò da sé (nel 1864) la connessione fra Hegel e Darwin.
Sono nato in tale ambiente. A 19 anni scrissi una invettiva contro Zeller per il ritorno a Kant (prolusione di Heidelberg). Tutta la letteratura hegeliana e posthegeliana ci era familiare. Ora quei libri sono finiti, o nelle botteghe degli antiquari o sulle bancarelle. Studiai Feuerbach nel 1866-69, e poi la scuola di Tubinga: “ich habe, leider, auch Theologie studiert” (ho studiato, purtroppo, anche teologia - nel Faust di Goethe). Tutto ciò è finito perché questo nostro paese è come un pozzo della storia. Ora domina il “demi-mond” positivistico.
Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo aver passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Völkerpsychologie di Steinthal ed altro.
Dunque nel leggere la “Heilige Familie” mi son trovato assai facilmente nella situazione psicologica di voi che la scrivevate. Sono lieto di scrivere queste parole nel dichiarare che non esisteva, ma che fingeva di esistere.
Vi prego di leggere con un po’ di pazienza il qui unito brano della “Critica sociale”, pubblicato col permesso dei superiori, e sotto l’inevitabile egida della Germania. Il Governo non sa più come continuare nelle persecuzioni, perché non trova più gli operai che, secondo la “Critica” si sono “nascosti”! E poi si tratterebbe di fare un partito di soli socialisti senza operai, insomma uno stracotto ragout di sola cipolla, un verso di sole cesure, un bakunismo senza Bakunin! Leggere ed ammirare!! O si creano tanti falsi martiri? Vedete voi la “Leipziger Volkszeitung”?
Vostro A. Labriola

60 - Sull’alienazione: 1. Sulla produzione della coscienza (Karl Marx, Friedrich Engels)

Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui - con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale.
Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma in storia universale.
Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare capacità, di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini).
La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee.
Questa concezione può a sua volta essere formulata in maniera speculativo-idealistica, ossia fantasticamente, come “auto produzione della specie” (la “società come soggetto”) e quindi la serie susseguentesi di individui che stanno in connessione può essere immaginata, come un singolo individuo che compie il mistero di produrre se stesso.
Appare qui che gli individui, certo, si fanno l'un l’altro, fisicamente e spiritualmente, ma non fanno se stessi ne nel non-senso di Bruno Bauer né nel senso di Max Stirner (“L’Unico”), dell’uomo “fatto”.
Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull'altro).
Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale. (…)
Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella “autoscienza” come “spirito dello spirito”, ma che in esse, ad ogni grado si trova il risultato materiale in una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura, e degli individui tra loro; che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione ma dall’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.
Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme, di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come “sostanza” ed “essenza del’uomo”, di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata dal fatto che questi filosofi si ribellano ad essa.
Queste condizioni di vita preesistenti in cui le varie generazioni vengono a trovarsi, decidono anche se la scossa rivoluzionaria periodicamente ricorrente nella storia sarà o no abbastanza forte per rovesciare la base di tutto ciò che è costituito, e qualora non vi siano questi elementi materiali per un rivolgimento totale, cioè da una parte le forze produttive esistenti, dall’altra la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni della società fino allora esistente, ma contro la stessa “produzione della vita” come è stata fino a quel momento, l’”attività totale” su cui questa si fondava, allora è del tutto indifferente – per lo sviluppo pratico - se l’idea di questo rivolgimento sia già stata espressa mille volte: come dimostra la storia del comunismo.
Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure la ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. (…)
Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò si è creato l’antagonismo fra natura e storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa.
Se un’epoca, per es., immagina di essere determinata da motivi puramente “politici” o “religiosi”, benché “religione” e “politica” siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione. L’”immagine”, la “rappresentazione” che questi determinati uomini si fanno della loro prassi reale, viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che domina e determina la prassi di questi uomini. (...)
La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua - in circostanze del tutto cambiate – l’attività che ha ereditato; dall'altra, modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente (di assegnare, per es., alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese); per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una “persona accanto ad altre persone”, mentre ciò che viene designato come “destinazione”, “scopo”, “germe”, “idea” della storia anteriore, altro non è che un'astrazione della storia posteriore, un'astrazione della influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. (…)
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante.
La classe che dispone dei mezzi di produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale.
Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali presi come idee; sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio.
Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l'altro dominano anche come pensanti, come produttori d’idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo: è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell'epoca.
Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come “legge eterna”. La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali nell’elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi.
All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante, abbiano un potere distinto dal potere di questa classe.
L'esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l'esistenza di una classe rivoluzionaria, sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre.
Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo, in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc.
Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità.
Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per aggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alla propria idea la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole forme razionali e universalmente valide.
La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro, per il fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell'intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante.
Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora legato all'interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare?
La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante.
Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al disopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi.
Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanta maggiore asprezza e profondità.
Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio.
Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classe in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o l’universale come dominante.
Una volta che tutte le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee l’”idea”, ecc. come ciò che domina nella storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come “autodeterminazioni” del concetto che si sviluppa nella storia.
Allora è anche naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto dell’uomo, dall’uomo come viene rappresentato, dall’essenza dell’uomo, dall’uomo. È ciò che ha fatto la filosofia speculativa.
Hegel arriva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, “di avere considerato soltanto il processo del concetto e di avere esposto nella storia la “vera teodicea”. Si può quindi ritornare ai produttori “del concetto”, ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da Hegel.
Quindi tutto il gioco di abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti efforts:
1) si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche, sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia.
2) Si deve mettere un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come “autodeterminazioni del concetto” (la cosa è possibile perché fra queste idee, attraverso la loro base empirica, esiste realmente un nesso e perché esse, concepite come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero.
3) Per eliminare l’aspetto mistico di questo “concetto autodeterminantesi”, lo si trasforma in una persona – “l’aurocoscienza” – oppure, per apparire perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano “il concetto” nella storia, i “pensatori”, i “filosofi”, gli ideologi, i quali ancora una volta, sono concepiti come i fabbricanti della storia, come il “consesso dei guardiani”, come i dominatori.
Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo.
Mentre nella vita ordinaria qualsiasi bottegaio sa distinguere benissimo fra ciò che ciascuno pretende di essere e ciò che realmente è, la nostra storiografia non è ancora arrivata a questa ovvia conoscenza. Essa crede sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa.
Questo metodo storiografico che domina soprattutto in Germania, e specie perché vi ha dominato, va spiegato movendo dalla sua connessione con l’illusione degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la quale illusione è semplicissimamente appagata dalla loro posizione pratica nella vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro.
Karl Marx e Friedrich Engels

61 – Sull’alienazione: 2. Il lavoro estraniato (Karl Marx, Friedrich Engels)

Noi siamo partiti dai presupposti dell'economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leggi. Abbiamo preso in considerazione la proprietà privata, la distinzione tra lavoro, capitale e terra, ed anche tra salario, profitto del capitale e rendita fondiaria, come pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto del valore di scambio, ecc.
Partendo dalla stessa economia politica, e valendoci delle sue stesse parole abbiamo mostrato che l’operaio decade a merce, alla più misera delle merci, che la miseria dell’operaio sta in rapporto inverso con la potenza e la quantità della sua produzione, che il risultato necessario della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la più temibile ricostituzione del monopolio, che infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, così come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà.
L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata.
Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi.
Essa non comprende queste leggi, cioè non riflette in qual modo esse derivino dall’essenza della proprietà privata.
L'economia politica non ci dà nessuna spiegazione sul fondamento della divisione di capitale e lavoro, di capitale e terra.
Se, per esempio, determina il rapporto del salario col profitto del capitale l’interesse del capitalista vale per essa come la ragione suprema; cioè essa presuppone ciò che deve spiegare, parimenti interviene dappertutto la concorrenza.
Ma questa viene spiegata in base a circostanze esterne.
L’economia politica non c’insegna nulla altro che l’espressione di uno svolgimento necessario.
Abbiamo visto, come lo stesso scambio le appiana come un fatto accidentale. Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità del denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza.
Proprio perché l’economia politica non comprende la connessione del movimento storico, si è potuto di nuovo contrapporre, ad esempio, la dottrina della concorrenza a quella del monopolio, la dottrina della libertà di commercio a quella della corporazione, la dottrina della divisione del possesso fondiario a quella della grande proprietà fondiaria; e infatti concorrenza, libertà di commercio, divisione del possesso fondiario sono state svolte e comprese soltanto come conseguenze casuali, volontarie, violente del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale, e non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali.
Quindi ora noi dobbiamo comprendere la connessione essenziale che corre tra la proprietà privata, l’avidità di denaro, la distinzione tra lavoro, capitale e proprietà fondiaria, tra scambio e concorrenza, ecc. La connessione di tutto questo processo di estraniazione col sistema monetario.
Non trasferiamoci, come fa l’economista quando vuol dare una spiegazione, in uno stato originario fantastico. Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa che rinviare il problema in una lontananza grigia e nebulosa.
Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due fatti per es. tra la divisione del lavoro e lo scambio.
Allo stesso modo la teologia spiega l’origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma di storia, ciò che deve spiegare.
Noi partiamo da un fatto dell'economia politica, da un fatto presente. L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione.
L’operaio diventa una merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose.
Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
Questo fatto non esprime ulteriormente null’altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro.
La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa oggettivazione del lavoro appare nello stadio della economia privata come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.
La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l’operaio si presenta come perdita dell’oggetto in siffatta guisa che l’operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche per il lavoro.
Già il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi, soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L'appropriazione dell’oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l’operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale.
Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene in proprio.
Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell’oggetto, ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto.
Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto meno è egli stesso. L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa, un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendentemente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza, per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.
Ed ora consideriamo più da vicino l’oggettivazione, la produzione dell’operaio, e in essa l’estraniazione, la perdita dell’oggetto, del suo prodotto.
L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.
Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti su cui applicarsi; così essa, d'altra parte, fornisce pure i mezzi di sussistenza in senso più stretto, cioè i mezzi di sostentamento fisico dello stesso operaio.
Quindi quanto più l’operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, la natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione: prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè un mezzo per il suo sostentamento fisico.
In questa duplice direzione, dunque, l’operaio diventa uno schiavo dell’oggetto, in primo luogo perché egli riceve un oggetto da lavorare, cioè riceve un lavoro; in secondo luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché deve esistere come operaio, e in secondo luogo perché deve esistere come soggetto fisico.
Il colmo di questo asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico solo più in quanto è operaio ed è operaio soltanto più in quanto è operaio ed è operaio soltanto più in quanto è soggetto fisico.
(Secondo le leggi dell’economia politica, l’estraniazione dell’operaio nel suo oggetto si esprime nel fatto che quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più egli s’imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura).
L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato tra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l'operaio idiotaggine e cretinismo.
Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l’operaio e gli oggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e con la stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. Considereremo quest’altro aspetto più oltre.
Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro? La domanda che ci poniamo verte intorno al rapporto dell’operaio con la produzione.
Sinora abbiamo considerato l’estraniazione, l’alienazione dell'operaio da un solo lato, cioè abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l'estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche nell’atto della produzione, entro la stessa attività produttiva.
Come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso nell’atto della produzione? Il prodotto non è altro che il resumé dell’attività, della produzione.
Quindi se il prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva, alienazione dell’attività, l’attività dell’alienazione. Nell’estraniazione dell'oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l'alienazione che si opera nella stessa attività del lavoro.
E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro?
Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito.
Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei.
La sua estraneità, si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per l’operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma di un altro. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma ad un altro. (...)
Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora abitar una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diventa animale.
Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell’astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell’attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali.
Abbiamo considerato l’atto dell’estraniazione dell'attività pratica dell’uomo, cioè il lavoro da due lati. 1) Il rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro considerato come oggetto estraneo e oppressivo.
Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile, con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo ostile. 2) Il rapporto del lavoro con l’atto della produzione entro il lavoro.
Questo rapporto è il rapporto dell’operaio con la sua propria attività estranea che non gli appartiene, l’attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l’energia fisica e spirituale propria dell’operaio, la sua vita personale – e infatti che (altro) è la vita se non attività - come un’attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gli appartiene.
L’estraniazione di sé come prima, l’estraniazione della cosa.
Ora dobbiamo ancora ricavare dalle due determinazioni sin qui descritte una terza determinazione del lavoro estraniato.
L’uomo è un essere generico (che appartiene a un “genus”), non solo perché del genere, tanto del proprio quanto di quello delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso il genere presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero.
La vita del genere, tanto nell’uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l’animale) vive della natura inorganica, e quanto più universale è l’uomo dell’animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce, ecc. come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell’arte - si tratta della natura inorganica spirituale, dei mezzi spirituali di sussistenza, che egli non ha che da apprestare per goderne e assimilarli - così costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell’umana attività.
L’uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di nutrimento o di riscaldamento, di abbigliamento o di abitazione, ecc. L'universalità dell’uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell’uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia 2) perché è la materia, l’oggetto, lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante progresso per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura.
Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo 1) la natura e 2) l’uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estraneo all'uomo il genere; fa della vita del genere un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita del genere e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua estrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata.
Infatti il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva, è la vita del genere. È la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una “specie”, sta il suo carattere specifico; e l'attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita.
L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa. L’uomo fa, della sua attività vitale l'oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell'uomo distingue l'uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere della specie.
O meglio egli è un essere cosciente, cioè è la sua propria vita, è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere generico. Soltanto perciò la sua attività è un’attività libera. Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l’uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza.
La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica dotata di coscienza, cioè di un essere che si comporta verso il genere come verso il suo proprio essere o verso se stesso come verso il suo essere generico. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno la api, i castori, le formiche, ecc.
Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impegno del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l'animale riproduce l’intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce, anche secondo le leggi della bellezza.
Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra quindi realmente come un essere generico. Questa produzione è la sua vita come essere generico. Mediante essa la natura appare come la sua opera e la sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere generico, in quanto egli si raddoppia, non soltanto nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato. E quindi in quanto il lavoro estraniato strappa all’uomo l’oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie, la sua oggettività reale specifica e muta il suo primato dinanzi agli animali nello svantaggio consistente nel fatto che il suo corpo inorganico, la natura, gli viene sottratta.
Parimenti in quanto il lavoro estraniato degrada a mezzo l’attività autonoma, l’attività libera, fa della vita dell’uomo come essere generico un mezzo della sua esistenza fisica.
Per opera dell’alienazione, la coscienza, che l’uomo ha del suo genere, si trasforma quindi in ciò che la sua vita generica diventa per lui un mezzo.
Il lavoro alienato fa dunque: 3) dell’essere dell’uomo, come essere generico, tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all’uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. 4) Una conseguenza immediata del fatto che l’uomo è reso estraneo al prodotto, è l’estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l’uomo si contrappone a se stesso, l’altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell’uomo con l’altro uomo, ed altresì col lavoro e con l’oggetto del lavoro dell’altro uomo.
In generale, la proposizione che all’uomo è reso estraneo il suo essere generico, significa che un uomo è reso estraneo all’altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è reso estraneo all'essere dell’uomo.
L’estraniazione dell’uomo, in generale ogni rapporto in cui l’uomo è con se stesso, è attuato, e si esprime soltanto nel rapporto in cui l’uomo è con l’altro uomo.
Dunque nel rapporto del lavoro estraniato ogni uomo considera gli altri secondo il criterio e il rapporto in cui egli stesso si trova come lavoratore.
Abbiamo preso le mosse da un fatto dell’economia politica, dall’estraniazione dell’operaio e della sua produzione. Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato.
 Abbiamo analizzato questo concetto e quindi abbiamo analizzato semplicemente un fatto dell’economia politica.
Ora, proseguendo, vediamo come il concetto del lavoro estraniato, alienato, debba esprimersi e rappresentarsi nella realtà.
Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene?
Se un’attività che è mia non appartiene a me, ed è un’attività altrui, un’attività coatta a chi mai appartiene?
Ad un essere diverso da me.
Ma chi è questo essere?
Son forse gli dei? Certamente, in antico non soltanto la produzione principale, come quella dei templi, in Egitto, in India, nel Messico, appare eseguita al servizio degli dei, ma agli dei appartiene anche lo spirito prodotto, soltanto che gli dei non furono mai essi stessi i padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se quanto più col proprio lavoro l’uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell’industria, l'uomo dovesse per amore di queste forze, rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto.
L’essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l’uomo.
Se il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dei, non la natura ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al disopra dell’uomo.
Si ripensi ancora alla tesi sopra esposta, che il rapporto dell’uomo con se stesso è per lui un rapporto oggettivo e reale soltanto attraverso il rapporto che egli ha con gli altri uomini.
Se quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente, e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività, come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un'attività, che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo.
Ogni auto estraniazione dell’uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro. Perciò l’auto estraniazione religiosa appare necessariamente nel rapporto del laico col prete, oppure - trattandosi qui del mondo intellettuale - con un mediatore, ecc.
Nel mondo reale pratico l’auto estraniazione può presentarsi soltanto nel rapporto reale pratico con gli altri uomini. Il mezzo con cui avviene l’estraniazione, è esso stesso un mezzo pratico. Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi non soltanto il suo rapporto con l’oggetto e con l’atto della produzione come rapporto con uomini estranei e ostili; ma costituisce pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini.
Come l’uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, così pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. Come egli rende a sé estranea la propria attività, così rende propria all’estraneo l’attività che non gli è propria.
Abbiamo sinora considerato il rapporto soltanto dal lato dell’operaio e lo considereremo più tardi anche dal lato del non operaio.
Dunque, col lavoro estraniato, alienato, l’operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. Il rapporto dell’operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità, che si stabilisce tra l’operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall'altro.
La proprietà privata si ricava quindi mediante l’analisi del concetto del lavoro alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell’uomo estraniato.
Certamente abbiamo acquisito il concetto di lavoro alienato (di vita alienata), traendolo dall’economia politica, come risultato del movimento della proprietà, privata. Ma con un’analisi di questo concetto, si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dei non sono la causa, ma l’effetto dell’umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in un’azione reciproca.
Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione.
Questo svolgimento getta immediatamente luce su diverse contraddizioni sinora non risolte: 1) l'economia politica, prende le mosse dal lavoro inteso come l’anima propria della produzione, eppure non dà al lavoro nulla mentre dà alla proprietà privata tutto.
Da questa contraddizione Proudhon ha concluso in favore del lavoro contro la proprietà privata. Ma noi invece ci rendiamo conto che questa apparente contraddizione è la contraddizione del lavoro estraniato con se stesso, e che l'economia politica non ha fatto altro che esporre le leggi del lavoro estraniato.
Quindi riconosciamo pure che salario e proprietà privata sono la stessa cosa, poiché il salario, nella misura in cui il prodotto, l’oggetto del lavoro, retribuisce il lavoro stesso, non è che una conseguenza necessaria dell’estraniazione del lavoro; e infatti nel salario anche il lavoro non appare come fine a se stesso, ma è in servizio della retribuzione, Vedremo ciò minutamente più tardi; ora tiriamo ancora soltanto alcune poche conseguenze.
Un violento aumento del salario (prescindendo da tutte le altre difficoltà, prescindendo dal fatto che essendo un’anomalia si potrebbe anche mantenere soltanto con la violenza) non sarebbe altro che una migliore rimunerazione degli schiavi e non eleverebbe né all’operaio né al lavoro la loro funzione umana e la loro dignità.
Appunto l’uguaglianza dei salari quale è richiesta da Proudhon, non fa che trasformare il rapporto dell’operaio d’oggi col suo lavoro in un rapporto di tutti gli uomini col salario. La società viene quindi concepita come un astratto capitalista.
Il salario è una conseguenza immediata del lavoro estraniato, e il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l’uno deve quindi cadere anche l’altro.
Dal rapporto del lavoro estraniato con la proprietà privata segue inoltre che l’emancipazione della società dalla proprietà privata ecc., dalla schiavitù si esprime nella forma politica della emancipazione degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa emancipazione, ma perché in questa emancipazione è contenuta l’emancipazione universale dell’uomo; la quale è ivi contenuta perché nel rapporto dell’operaio con la produzione è incluso tutto intero l'asservimento dell’uomo, e tutti i rapporti di servaggio altro non sono che modificazioni e conseguenze del primo rapporto.
Avendo trovato mediante l’analisi del concetto della proprietà privata partendo dal concetto del lavoro estraniato, alienato, ora possiamo col sussidio di questi due fattori sviluppare tutte le categorie dell’economia politica, e ritroveremo in ogni categoria come, ad es., lo scambio, la concorrenza, il capitale, il denaro, solo una espressione determinata e sviluppata di questi primi concetti fondamentali.
Ma prima di prendere in considerazione questa struttura, cerchiamo di svolgere due temi:
Determinare l’essenza universale della proprietà privata, quale si è venuta deducendo in quanto risultato del lavoro estraniato, nel suo rapporto con la proprietà veramente umana e sociale;
Abbiamo accolto come un fatto l’estraniazione del lavoro, la sua alienazione, e abbiamo analizzato questo fatto. Ora domandiamo: come arriva l’uomo a alienare, ad estraniare il proprio lavoro?
Come questa estraniazione è fondata sull’essenza, dello svolgimento dell’uomo? Per la risoluzione di questo tema, abbiamo già ottenuto molto, avendo trasformato il problema dell’origine della proprietà privata nel problema del rapporto del lavoro alienato con lo sviluppo storico dell’umanità.
E infatti, quando si parla della proprietà privata, si crede di aver a che fare con una cosa fuori dell’uomo. Quando si parla del lavoro, si ha a che fare immediatamente con l'uomo stesso. Questa nuova impostazione del problema contiene già la sua soluzione.
L’essenza generale della proprietà privata è il suo rapporto con la proprietà veramente umana.
Il lavoro alienato si è risolto per noi in due elementi che si condizionano a vicenda, o meglio che sono soltanto due diverse espressioni di un identico rapporto.
L’appropriazione si presenta come estraniazione, come alienazione, e l'alienazione come appropriazione, la condizione di straniero come la vera cittadinanza.
Abbiamo considerato un aspetto, il lavoro alienato in rapporto con l’operaio stesso, cioè il rapporto del lavoro alienato con se stesso.
Quale prodotto, quale risultato necessario di questo rapporto abbiamo trovato il rapporto di proprietà del non operaio nei confronti dell’operaio e del lavoro.
La proprietà privata, intesa come l’espressione materiale, riassuntiva del lavoro alienato, abbraccia entrambi i rapporti, tanto il rapporto dell’operaio col lavoro e col prodotto del suo lavoro e col non-operaio, quanto il rapporto del non-operaio con l’operaio e col prodotto del suo lavoro.
Avendo ormai visto che in relazione dell’operaio, che si appropria la natura col lavoro, l’appropriazione si presenta come estraniazione, l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere estraneo, di un uomo estraneo, prendiamo ora in considerazione il rapporto che corre tra questo uomo estraneo al lavoro e all’operaio, il lavoro e il suo oggetto.
Primamente è da osservare che tutto ciò che nell’operaio appare come attività di alienazione, di estraniazione, appare nel non-operaio come stato di alienazione, di estraniazione.
In secondo luogo, che il comportamento pratico reale dell’operaio nella produzione e nei confronti del prodotto (come stato d'animo) appare nel non-operaio che gli sta di fronte come comportamento teorico.
In terzo luogo.
Il non-operaio fa contro l'operaio tutto ciò che l’operaio fa contro se stesso, ma non fa contro se stesso quello che egli fa contro l'operaio.
Prendiamo a considerare più da vicino questi tre rapporti.
Karl Marx - 1844

62 - Della guerra di indipendenza in Italia (Karl Marx)

Secondo le ultime notizie giunte dall’Italia, la disfatta subita dai piemontesi a Novara, non è affatto così decisiva come hanno riferito i dispacci telegrafici inviati a Parigi.
I piemontesi sono battuti, tagliati da Torino e gettati nelle montagne. Questo è tutto.
Se il Piemonte fosse una repubblica, se il governo di Torino fosse un governo rivoluzionario ed avesse il coraggio di ricorrere ai mezzi rivoluzionari, nulla sarebbe perduto. Ma l’indipendenza italiana sta per essere perduta, non in seguito all’invincibilità delle armi austriache, ma per la viltà del potere regio piemontese.
Perché gli austriaci hanno vinto? Perché, in seguito al tradimento di Ramorino, due divisioni dell’esercito piemontese sono state separate dalle altre tre e queste tre divisioni, rimaste isolate, sono state battute dalla violenza numerica austriaca. Ora esse sono state respinte ai piedi delle valli Valdesi.
I piemontesi hanno commesso un errore enorme fin dall’inizio, contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una guerra ordinaria, borghese, “onesta”. Un popolo che vuole conquistarsi l'indipendenza non deve limitarsi ai mezzi di guerra ordinari. L’insurrezione in massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia dappertutto, sono gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo può vincerne uno più grande con i quali un esercito più debole può far fronte ad un esercito più forte e meglio organizzato.
Gli spagnoli lo hanno dimostrato nel 1807-12. Gli ungheresi lo dimostrano ora.
Chrzanowski è stato battuto presso Novara e tagliato da Torino. Radetzky era a nove miglia da Torino. Per una monarchia come quella piemontese, anche se costituzionale, la campagna con questo è decisa e si domanda la pace a Radetzky. Ma in una repubblica ciò non avrebbe deciso nulla. Se l’inevitabile viltà della monarchia, la quale non ha mai avuto il coraggio di ricorrere ai mezzi rivoluzionari estremi, non l’avesse fatta astenere da questi mezzi, la sconfitta di Chrzanowski avrebbe potuto diventare una fortuna per l’Italia.
Se il Piemonte fosse una repubblica, che non deve nessun riguardo alle tradizioni monarchiche, avrebbe la via aperta per finire la campagna in tutt’altro modo.
Chrzanowski è stato respinto verso Biella e Borgomanero. Là, dove le Alpi svizzere sbarrano ogni ulteriore ritirata, e le due o tre anguste valli fluviali rendono impossibile la dispersione delle truppe, sarebbe facile concentrare l’esercito e, con un’ardita marcia, rendere infruttuosa la vittoria di Radetzky.
Se i capi dell’esercito piemontese avessero posseduto il coraggio rivoluzionario, se essi avessero saputo che a Torino sedeva un governo rivoluzionario risoluto fino all'estremo, il loro modo di agire sarebbe stato semplicissimo.
Dopo la battaglia di Novara sul Lago Maggiore vi erano 30-40 mila uomini di truppe piemontesi. Questi corpi, concentrati in due giorni, avrebbero potuto gettarsi in Lombardia, dove vi erano non più di 12.000 austriaci, occupare Milano, Brescia, Cremona; organizzare l’insurrezione generale, battere separatamente i singoli corpi austriaci che sarebbero giunti dal Veneto, e far così saltare in aria tutta la base d’operazioni di Radetzky.
Radetzky, invece di marciare contro Torino avrebbe dovuto voltare subito indietro e ritirarsi in Lombardia, seguito dalla leva in massa dei piemontesi che sarebbe stata appoggiata, naturalmente, dall’insurrezione lombarda.
Questa guerra veramente nazionale, una guerra come quella che condussero i lombardi nel marzo 1848, quando Radetzky fu cacciato al di là dell’Oglio e del Mincio, questa guerra avrebbe fatto sorgere tutta l'Italia alla lotta ed infuso nei toscani e nei romani ben altre energie.
Mentre Radetzky si trovava ancora fra il Po ed il Ticino, riflettendo se doveva andare avanti o tornare indietro, i piemontesi e i lombardi avrebbero potuto marciare fino a Venezia, liberarla dall’assedio, disturbare o indebolire il feldmaresciallo austriaco con un’infinità di operazioni dei guerriglieri, attirare dalla loro parte Lamarmora, far giungere le truppe romane, spezzettare le truppe di Radetzky ed infine batterlo. La Lombardia, che attendeva soltanto l’arrivo dei piemontesi è insorta “senza attenderli”. Solo le cittadelle austriache frenavano le città lombarde: 10 mila piemontesi erano già in Lombardia, bastava che ne avanzassero ancora 20 o 30 mila e la ritirata di Radetzky sarebbe stata impossibile.
Ma la rivolta delle masse, l’insurrezione generale del popolo sono mezzi che il potere regio ha paura d’impiegare. Sono mezzi che soltanto la repubblica impiega, lo prova il 1789. Sono mezzi la cui applicazione presuppone il terrore rivoluziona rio; e quando mai c'è stato un monarca che si sia deciso per questi mezzi?
Quello che ha rovinato gli italiani non sono le sconfitte di Novara e di Vigevano, sono la viltà e la moderazione alle quali la monarchia li ha costretti. La perdita della battaglia di Novara costituiva un pregiudizio puramente strategico; essi erano tagliati da Torino mentre gli austriaci avevano la via aperta verso questa città. Questo svantaggio sarebbe stato del tutto insignificante se la battaglia perduta fosse stata seguita da una guerra veramente rivoluzionaria, se i resti dell’esercito italiano si fossero subito proclamati il nocciolo del sollevamento generale delle masse, se l’”onesta” guerra strategica degli eserciti si fosse trasformata in una guerra di popolo come quella condotta dai francesi nel 1793.
Ma, naturalmente, la monarchia non si arrischierà mai ad una guerra rivoluzionaria, a un sollevamento delle masse, al terrore rivoluzionario. Piuttosto di allearsi con il popolo, essa preferirà concludere la pace con il suo peggiore nemico purché le sia pari di origine.
Carlo Alberto, sia o no un traditore, basta la sua corona, la monarchia, a rovinare l’Italia.
Ma Carlo Alberto è un traditore. Su tutti i giornali francesi corre la notizia di un grande complotto controrivoluzionario europeo di tutte le grandi potenze e del piano di campagna della controrivoluzione la quale mira all’oppressione definitiva di tutti i popoli europei. La Russia e l’Inghilterra, la Prussia e l’Austria, la Francia e la Sardegna hanno firmato questa nuova Santa Alleanza.
Carlo Alberto aveva l’ordine di cominciare la guerra contro l’Austria, di farsi battere dando così agli austriaci la possibilità di ristabilire la “calma” in Piemonte, a Firenze e a Roma e di far concedere dappertutto delle costituzioni da stato d’assedio. In cambio Carlo Alberto doveva ricevere Parma e Piacenza, i russi l’incarico di “pacificare” l’Ungheria, la Francia sarebbe diventata un impero e così sarebbe stata ristabilita la pace in Europa. Secondo i giornali francesi questo è il grande piano della controrivoluzione e questo piano spiega il tradimento di Ramorino e la sconfitta degli italiani.
Ma la vittoria di Radetzky ha assestato un nuovo colpo alla monarchia. La battaglia di Novara e la successiva paralisi dei piemontesi dimostrano che nel caso estremo in cui un popolo ha bisogno della massima tensione delle sue forze per salvarsi, nulla gli è di maggior ostacolo della monarchia. Se l’Italia non vuole perire per mano della monarchia, in Italia deve anzitutto perire la monarchia.
Karl Marx (1849)

63 - Da “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania” (Karl Marx)

...Ma l’insurrezione è un’arte, come la guerra e le altre arti. Essa è soggetta a norme d’azione determinate le quali, quando vengono trascurate, portano alla rovina del partito che le trascura. Queste norme d’azione, che derivano logicamente dalla natura dei partiti e dalle circostanze con cui si ha da fare nel caso determinato, sono così semplici e chiare che la breve esperienza del 1848 le ha rese abbastanza note al popolo tedesco.
Prima di tutto, non si deve mai giocare con l’insurrezione, se non si è decisi ad accettare tutte le conseguenze del proprio gioco. L’insurrezione è un’equazione con grandezze molto indeterminate, il cui valore può cambiare ogni giorno; le forze che si oppongono a voi hanno tutti i vantaggi dell’organizzazione, della disciplina e dell’autorità tradizionale; se non opponete loro delle grandi forze, siete battuti e rovinati.
In secondo luogo, una volta incominciata l’insurrezione, si deve agire con la più grande decisione, passare all’offensiva. La difensiva è la morte di ogni insurrezione armata; se rimane sulla difensiva, l’insurrezione è sconfitta prima di misurarsi col nemico. Bisogna sorprendere gli avversari mentre le loro forze sono disperse e avere dei nuovi successi, sia pure piccoli, ma ogni giorno; bisogna conservare l'ascendente morale datovi dalla prima sollevazione vittoriosa; raccogliere così attorno a voi quegli elementi vacillanti, che seguono sempre la spinta più forte e si schierano sempre dalla parte che ha dei successi; dovete costringere il nemico a ritirarsi prima che abbia potuto riunire le sue forze contro di voi; insomma, seguire le parole di Danton, il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto: “de l’audace, de l’audace, encore de l’audace!”
Che cosa doveva fare dunque l’Assemblea nazionale di Francoforte, se voleva sfuggire alla rovina sicura che la minacciava? Prima, di tutto, doveva rendersi conto chiaramente della situazione e convincersi che non vi era altra alternativa che sottomettersi senza condizioni ai governi, oppure far propria, senza riserve e senza esitazione, la causa dell’insurrezione armata. Secondo: riconoscere pubblicamente come legittime tutte le insurrezioni che già erano scoppiate, a chiamare il popolo a prendere dappertutto le armi in difesa della rappresentanza nazionale, mettendo fuori legge i principi, i ministri e tutti coloro che osassero opporsi al popolo sovrano rappresentato dai suoi deputati. Terzo: deporre immediatamente il reggente imperiale tedesco; creare un potere esecutivo forte, attivo, senza timori; chiamare le truppe insorte a Francoforte, per darle una protezione immediata, offrendo così in pari tempo un pretesto legale all'estensione dell’insurrezione; organizzare in un solo corpo compatto tutte le forze a sua disposizione e, in una parola, approfittare rapidamente e senza esitazione di tutti i mezzi a sua disposizione per rafforzare la propria posizione e indebolire quella degli avversari.
I virtuosi democratici dell'Assemblea di Francoforte fecero esattamente il contrario di tutto ciò. Non contenti di lasciare che le cose prendessero il corso che volevano, questi illustri signori arrivarono fino a soffocare con la loro opposizione tutti i movimenti insurrezionali che si stavano preparando. Così fece, per esempio, il signor Carlo Vogt a Norimberga. Lasciarono che le insurrezioni della Sassonia, della Prussia Renana e della Vestfalia venissero riprese senza che fosse dato loro altro aiuto che una protesta postuma, sentimentale, contro la violenza brutale del governo prussiano. Mantennero un contatto diplomatico segreto con gli insorti della Germania meridionale, ma non dettero mai loro l’appoggio di un riconoscimento aperto. Sapevano che il reggente dell’impero parteggiava per i governi e ciò nonostante chiesero a lui - che non se ne dette per inteso - di opporsi agli intrighi di questi governi. I ministri dell’impero, vecchi conservatori, in ogni seduta, si facevano beffe di questa impotente Assemblea ed essa lo tollerava. E quando Guglielmo Wolff - deputato della Slesia - (e uno dei redattori della “Neue Rheinische Zeitung”), chiese loro di dichiarare fuori legge il reggente dell’impero il quale, come egli giustamente dichiarò, non era altro che il primo e principale traditore dell’impero, venne accolto con grida di sdegno unanime e “virtuoso”, da questi democratici rivoluzionari! In breve, essi continuarono a chiacchierare, protestare, lanciare dei proclami, fare delle dichiarazioni, ma non ebbero mai né il coraggio né la capacità di agire; e ciò mentre le truppe ostili dei governi avanzavano sempre più e il loro proprio organo esecutivo, il reggente dell’impero, stava complottando con zelo, insieme coi principi tedeschi, la loro rapida perdizione. Così perdette questa spregevole Assemblea anche l’ultimo residuo di prestigio; gli insorti che si erano sollevati per difenderla cessarono sempre più di occuparsene, e quando finalmente terminò vergognosamente la sua esistenza, essa morì senza che nessuno prestasse attenzione alla sua fine ingloriosa.
Karl Marx (1850)
 

64 - Una lettera della moglie di Carlo Marx (Jenny Marx)

“...così entrò in casa Marx la più nera miseria. Essa si palesa in modo commovente in una lettera diretta dalla signora Marx a Weydemeyer. La riportiamo integralmente perché oltre al suo valore biografico e letterario, rispecchia la figura di quella rara donna, cui le sofferenze più tormentose non infransero la fierezza dell'animo, né valsero a turbare la limpida serenità”. - Franz Mehring

20 maggio 1850
Caro signor Weydemeyer,
è trascorso quasi un anno da quando ebbi da lei e dalla sua cara moglie un’accoglienza tanto amichevole, da quando in casa sua mi trovai tanto bene, come a casa mia, e in tutto questo frattempo non ho dato alcun segno di vita. Tacqui quando sua moglie mi scrisse tanto gentilmente, rimasi muta quando ricevemmo la notizia della nascita del vostro bambino. Questo silenzio spesso opprimeva me stessa, ma quasi sempre non riuscivo a scrivere e anche oggi lo scrivere mi è molto penoso.
Ma le circostanze mi costringono a prendere in mano la penna. La prego di inviarci quanto prima le somme ricavate o quelle che ancora si ricavano dalla rivista (si tratta della “Neue Rheinische Zeitung”, edita da Marx e, pubblicata dal marzo al novembre 1850 – nota nostra). Ne abbiamo molto, molto bisogno. Non si può certo dire che noi abbiamo mai fatto gran chiasso attorno ai sacrifici che da anni sopportiamo; ben poco o quasi mai abbiamo infastidito il pubblico con le nostre questioni personali.
Mio marito è assai sensibile in queste cose e, piuttosto di prestarsi a questue democratiche come usano i grandi uomini rappresentativi, sacrifica anche l’ultima risorsa. Ma poteva ben aspettarsi dai suoi amici, specie a Colonia, un interessamento attivo ed energico per la sua rivista. Poteva aspettarsi questo interessamento soprattutto là dove i suoi sacrifici per la “Neue Rheinische Zeitung” erano noti. L’azienda fu invece portata alla completa rovina da una gestione negletta e disordinata, e non è dato sapere se il danno maggiore sia venuto dagli indugi del libraio o dei gerenti e dei conoscenti di Colonia, oppure dal comportamento della democrazia in generale.
Mio marito è rimasto qui quasi schiacciato dalle più meschine preoccupazioni della vita quotidiana e ciò in modo così nauseante che, per sostenerlo in queste lotte di ogni giorno, ci volle tutta la limpida, serena, cosciente fermezza del suo carattere. Lei sa, caro signor Weydemeyer, quali sacrifici mio marito abbia fatto per il giornale; per esso spese migliaia in contanti e, spinto dalle belle parole dei gentiluomini democratici, assunse la proprietà del giornale quando già esistevano poche prospettive di successo per salvare l’onore politico del giornale e l’onore civile dei conoscenti di Colonia, si assunse tutti gli oneri, sacrificò la sua macchina da stampa, sacrificò ogni introito e, anzi, partendo, prese a prestito trecento talleri per pagare l’affitto del nuovo locale e gli stipendi arretrati del redattore, ecc. Ed era stato cacciato con la forza. Lei sa che non abbiamo serbato per noi nulla di nulla; io andai a Francoforte per impegnare la mia argenteria, l’ultima cosa che ci restava, feci vendere i miei mobili a Colonia. Quando incominciò l’infelice periodo della controrivoluzione, mio marito andò a Parigi, io lo seguii con i mie i tre bambini. Appena ambientati a Parigi scacciati di nuovo; nemmeno a me e ai miei bambini fu concesso di soggiornare ulteriormente. Lo seguii di nuovo, oltre mare, il mese dopo nasce il nostro quarto bambino. Lei dovrebbe conoscere Londra e le condizioni locali per rendersi conto cosa significhino tre bambini e la nascita di un quarto. Solo di affitto dovevamo pagare 42 talleri al mese. Riuscimmo a coprire tutte queste spese con i mezzi che ci eravamo procurati. Ma le nostre piccole risorse si esaurirono quando uscì la rivista. Nonostante gli accordi il denaro non giunse, e poi giunse di volta in volta, in piccole somme, in modo da farci trovare nelle più tremende situazioni.
Le descriverò una sola giornata di quella vita, così come si svolgeva e lei si renderà conto che forse pochi profughi sono passati attraverso simili peripezie. Siccome qui le balie sono troppo care, decisi di allattare io stessa il mio bambino nonostante continui, tremendi dolori al petto e alla schiena. Ma, il povero angioletto assorbiva assieme al mio latte, tante preoccupazioni e intimi crucci che era continuamente malaticcio e soffriva giorno e notte di acuti dolori. Da quando è al mondo non ha ancora dormito tutta una notte, tutt’al più due o tre ore. Ultimamente sopravvennero pure violente convulsioni così che il bambino è stato continuamente sospeso tra la morte e una vita di sofferenze. Durante questi spasimi succhiava con tale forza, che il mio petto si piagava e sanguinava, e spesso il sangue, colava nella sua boccuccia tremante. Un giorno, mentre ero in queste condizioni, apparve d’un tratto la nostra padrona di casa cui avevamo pagato più di 250 talleri e con la quale ci eravamo accordati per contratto di pagare le somme ulteriori non a lei ma al suo padrone di casa, il quale per l’addietro le aveva fatto fare il pignoramento. Ora essa non riconosceva il contratto ed esigeva cinque lire sterline di cui le saremmo stati debitori, e poiché al momento non le avevamo, entrarono in casa due pignoratori e misero sotto sequestro tutto il mio piccolo avere: letti, biancheria, vestiti, tutto, perfino la culla del mio misero bambino ed i migliori giocattoli delle bambine che assistevano piangendo dirottamente. Minacciarono di prendere tutto entro due ore. Io giacevo in terra con i bambini tremanti di freddo, con il mio petto dolorante. Schramm, un amico nostro corre in città in cerca di aiuto: prende una vettura, i cavalli imbizzariscono, egli salta a terra e ce lo portano sanguinante a casa, dove stavo piangendo con miei poveri bambini tremanti.
Il giorno dopo dovemmo lasciare la casa, faceva freddo, un tempo fosco e piovoso, mio marito va in cerca di un’abitazione, nessuno vuole prenderci appena si parla di quattro bambini. Finalmente un amico ci aiuta, paghiamo e io vendo in fretta tutti i miei letti per pagare il farmacista, fornaio, macellaio, lattaio che messi in allarme dallo scandalo del sequestro, d’un tratto mi assalgono con i loro conti. I letti venduti vengono portati davanti alla porta, caricati su di un carretto. Ma che succede? Si era fatto tardi, il sole era tramontato, la legge inglese non lo permette, il padrone di casa si fa avanti con due gendarmi sostenendo che poteva esserci della roba sua, che noi volevamo fuggire in un paese straniero. In meno di cinque minuti più di due o trecento persone erano davanti la nostra porta, tutta la plebaglia di Chelsea. I letti ritornano in casa. Soltanto la mattina seguente, dopo la levata del sole, è permesso consegnarli al compratore. Messi in condizione di pagare fino all’ultimo centesimo con la vendita di tutta la nostra roba, mi trasferii con i miei piccoli tesori nelle due stanzette che attualmente occupiamo nell’albergo tedesco, (1, Leicester street - Leicester Square) dove trovammo per 5 sterline e mezza alla settimana un’accoglienza umana.
Perdoni, caro amico, se le ho descritto in modo così ampio e prolisso sia pure una sola giornata della nostra vita di qui; è immodesto, lo so, ma questa sera il mio cuore si è riversato nelle mie mani tremanti e sentivo di dovere una volta tanto sfogare il mio cuore con uno dei nostri più vecchi, migliori, più fedeli amici. Non creda che queste meschine sofferenze mi abbiano piegata, so troppo bene che la mostra lotta non è una lotta isolata e che personalmente mi è toccata la sorte di essere fortunata e favorita ben più di altri poiché è al mio fianco anche il mio caro marito, il sostegno della mia vita. Ma ciò che veramente annienta il mio animo e fa sanguinare il mio cuore è il fatto che mio marito è costretto a subire tanta meschinità, mentre un’inezia sarebbe bastata per sollevarlo e che colui che volentieri e con gioia aiutò tanti altri, rimase senza aiuto. Ma non creda, caro signor Weidermeyer che avanziamo pretese verso chicchessia. L’unica cosa che mio marito poteva esigere da coloro che più di una volta ebbero da lui idee, sollievo e appoggio era che accudissero alla sua rivista con maggiore energia commerciale, con maggiore interessamento. Ardisco sostenerlo con fierezza. Almeno quel poco gli si doveva. Nessuno, credo, ne sarebbe rimasto gabbato. Questo mi addolora. Mio marito però la pensa diversamente. Mai e poi mai, nemmeno nelle più terribili circostanze, gli vennero meno la certezza nell’avvenire e la piena serenità dello spirito, ed egli era sempre intimamente contento quando mi vedeva serena e quando i nostri deliziosi bambini circondavano e accarezzavano la loro cara mamma. Egli non sa, caro signor Weidermeyer che io le ho scritto tanto ampiamente sulle nostre condizioni; non faccia dunque alcun uso di queste righe. Egli sa soltanto che a nome suo le ho rivolto la preghiera di sollecitare, più che possibile la riscossione e l’invio del denaro.
Addio, caro amico! Saluti di tutto cuore la sua cara moglie da parte mia, e dia un bacio al suo angioletto da parte di una madre che tante lagrime ha versato sul suo bambino. I nostri tre figlioli maggiori crescono magnificamente nonostante tutto. Le ragazze sono graziose, fiorenti, serene e di buon umore e il grosso maschietto un portento di allegria e inesauribile nelle più buffe trovate. Quel piccolo folletto canta tutto il giorno con enfasi grandiosa, e con voce tonante, e quando intona col suo vocione le parole della “Marseillaise” di Freiligrath: “Vieni o giugno e portaci imprese, nuove imprese ambisce il nostro cuor”, tutta la casa rimbomba. Forse la storia universale riserva a questo mese, come ai suoi due sfortunati predecessori, il compito di dare inizio alla lotta titanica in cui tutti ci stringeremo di nuovo la mano. Addio!
Jenny Marx

65 - Sulla tomba di Marx (Friedrich Engels)

Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti e al nostro ritorno lo abbiamo trovato, tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.
Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte, rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica! Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.
Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana e cioè il fatto elementare, finora nascosto sotto l'orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto, mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, di arte, di religione, ecc.; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immediati di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base sulla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte ed anche le idee religiose degli uomini e partendo dalla quale esse devono venir spiegate e non inversamente come si era fatto finora.
Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.
Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire tutta una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui Marx ha svolto le sue ricerche - e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale - in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche egli ha fatto delle scoperte originali.
Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell'elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcello Deprez.
Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.
La prima “Rheinische Zeitung” nel 1842, il “Vorwärts” di Parigi nel 1844, la “Deutsche Brüsseler Zeitung” nel 1847, la “Neue Rheinische Zeitung” nel 1850, la “New York Tribune” dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande “Associazione Internazionale degli operai”, ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe essere fiero anche se non avesse fatto niente altro.
Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato dal suo tempo. I governi assoluti e repubblicani, lo espulsero; i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.
Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!
Friedrich Engels
(Discorso pronunciato al cimitero di Highgate, Londra, il 17 marzo 1883)

66 – I destini storici della dottrina di Carlo Marx (Nicolaj Lenin)

Il punto essenziale della dottrina di Karl Marx è l’interpretazione della funzione storica mondiale del proletariato come creatore della società socialista. Ha il corso degli avvenimenti nel mondo intero confermato questa dottrina, dopo che essa venne annunciata da Marx?
Marx la formulò per la prima volta nel 1844. Il “Manifesto comunista” di Marx ed Engels, pubblicato nel 1848, ne dà già un’esposizione completa e sistematica, rimasta, fino ad oggi, la migliore. Da allora, la storia universale si divide manifestamente in tre periodi principali:
dalla rivoluzione del 1848 alla Comune di Parigi (1871);
dalla comune di Parigi alla rivoluzione russa (1905);
dalla rivoluzione russa ai nostri giorni.
Diamo uno sguardo ai destini della dottrina di Marx in ciascuno di questi tre periodi.
I) All’inizio del primo periodo, la dottrina di Marx non predomina affatto. Essa non rappresenta che una delle frazioni o correnti straordinariamente numerose del socialismo. Predominano, invece, quelle forme di socialismo che, in sostanza, sono apparentate al nostro populismo (russo): incomprensione della base materialistica del movimento storico, incapacità di discernere la funzione e l'importanza di ciascuna delle classi della società capitalistica, dissimulazione della natura borghese delle riforme democratiche con frasi pseudosocialiste sul “popolo”, la “giustizia”, il “diritto”, ecc.
La rivoluzione del 1848 assesta un colpo mortale a tutte queste forme rumorose, variopinte, chiassose del socialismo premarxista. In tutti i paesi, la rivoluzione ci mostra le diverse classi della società all’opera. Il massacro degli operai parigini consumato dalla borghesia repubblicana, nelle giornate del giugno 1848, attesta in modo definitivo la natura socialista del solo proletariato. La borghesia liberale teme l’indipendenza di questa classe, cento volte più di qualsiasi reazione. Il liberalismo vile striscia dinanzi alla reazione. I contadini si accontentano dell’abolizione delle vestigia feudali e si schierano a fianco dell’ordine, di rado esitando tra la democrazia operaia, e il liberalismo borghese. Tutte le dottrine che parlano di un socialismo non classista, di una politica non classista, dimostrano di essere frottole vane.
La Comune di Parigi (1871) porta a compimento questo sviluppo delle trasformazioni borghesi; la repubblica, cioè la forma di organizzazione statale nella quale i rapporti di classe si manifestano nel modo meno velato, deve il suo consolidamento soltanto all’eroismo del proletariato.
Di tutti gli altri paesi di Europa, uno sviluppo più confuso e meno completo conduce alla stessa società borghese. Alla fine del primo periodo (1848-1871), periodo di burrasche e di rivoluzioni, il socialismo premarxista muore. Nascono i partiti proletari indipendenti: la Iª Internazionale (1864-1872) e la socialdemocrazia tedesca.
II) Il secondo periodo (1872-1904) si distingue dal primo per il suo carattere “pacifico”, per l’assenza di rivoluzioni. L'Occidente ha terminato le rivoluzioni borghesi. L’Oriente non è ancora maturo per esse.
   L'Occidente entra nella fase della preparazione “pacifica” dell’epoca delle trasformazioni future. Dappertutto si formano dei partiti socialisti, proletari per la loro base, che imparano a servirsi del parlamentarismo borghese, a creare la loro stampa quotidiana, le loro istituzioni di organizzazione, i loro sindacati, le loro cooperative. La dottrina di Marx riporta una completa vittoria e si diffonde in estensione. Lentamente, ma inflessibilmente continua il processo di selezione e di raggruppamento delle forze del proletariato, di preparazione, alle battaglie future.
La dialettica della storia è tale, che la vittoria del marxismo teorico costringe i suoi nemici a travestirsi da marxisti. Il liberalismo, interiormente putrefatto, tenta di rivivere nella veste dell’opportunismo socialista. Esso interpreta il periodo della preparazione delle forze per le grandi battaglie come una rinuncia a queste battaglie. Esso intende il miglioramento della condizioni della lotta degli schiavi contro la schiavitù del salario nel senso di una vendita per qualche quattrino, da parte degli schiavi, dei loro diritti alla libertà. Esso predica vilmente “la pace sociale” (ossia la pace con lo schiavismo), la rinuncia alla lotta di classe, e così via. L’opportunismo trova moltissimi fautori tra i deputati socialisti al parlamento, i vari funzionari del movimento operaio e gli intellettuali “simpatizzanti”.
III) Gli opportunisti non erano ancora riusciti a glorificare la “pace sociale” e l’assenza di necessità di burrasche nella “democrazia” che una nuova fonte delle più grandi tempeste mondiali si apriva in Asia. La rivoluzione russa (del 1905) era seguita dalle rivoluzioni turca, persiana e cinese. Oggi (1913) noi attraversiamo precisamente l’epoca di queste tempeste e della loro “ripercussione” in Europa. Qualunque sia la sorte della grande repubblica cinese, contro la quale oggi aguzzano i denti le diverse iene “civili”, nessuna forza al mondo riuscirà a ristabilire il vecchio servaggio in Asia, né spazzerà dalla faccia della terra il democratismo eroico delle masse popolari dei paesi asiatici e semiasiatici.
Taluni, che non tenevano nel dovuto conto le condizioni di preparazione e di sviluppo della lotta delle masse, sono caduti nella disperazione e nell’anarchismo, vedendo lungamente differita la lotta decisiva contro il capitalismo in Europa. Noi vediamo oggi come questa disperazione anarchica sia miope e pusillanime.
Non disperazione, ma coraggio bisogna attingere dal fatto che 800 milioni di asiatici sono trascinati nella lotta per gli stessi ideali europei.
Le rivoluzioni dell'Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di carattere e la stessa viltà del liberalismo, la stessa straordinaria importanza dell'indipendenza delle masse democratiche, la stessa demarcazione netta tra il proletariato e qualsiasi borghesia. Dopo l'esperienza dell’Europa e dell'Asia, chi parla di una politica non classista e di un socialismo non classista merita semplicemente di essere esposto in una gabbia insieme a un canguro australiano.
Dopo l’Asia si è messa in movimento l’Europa, ma non alla maniera asiatica. Il periodo “pacifico” del 1872-1904 appartiene a un passato scomparso per sempre. Il carovita e il giogo dei trust provocano un inasprimento inaudito della lotta economica, che scuote financo gli operai inglesi, i più corrotti dal liberalismo. Una crisi politica matura sotto i nostri occhi nella stessa Germania, nella “cittadella” della borghesia e dei grandi proprietari fondiari. Gli armamenti folli e la politica dell’imperialismo danno all’Europa moderna una “pace sociale” che assomiglia piuttosto a un barile di dinamite. E la decomposizione di tutti i partiti borghesi e la maturazione del proletariato proseguono intanto ininterrottamente.
Ciascuno dei tre grandi periodi della storia universale posteriori all’apparizione del marxismo, ha portato al marxismo nuove conferme e nuovi trionfi. Ma il prossimo periodo storico apporterà al marxismo, dottrina del proletariato, un trionfo ancora più grande.
Nicolaj Lenin - 1913 (1870-1924)

67 - Rappresentazione borghese volgare della dittatura e come Marx concepiva quest’ultima (Nicolaj Lenin)

Mehring racconta nelle note di cui corredò la sua edizione degli articoli di Marx pubblicati nel 1848 nella “Nuova gazzetta renana” che le pubblicazioni borghesi facevano tra l’altro la seguente accusa a questo giornale: la “Nuova gazzetta renana”, avrebbe rivendicato l’istituzione immediata della dittatura, come unico mezzo per realizzare la democrazia. Dal punto di vista borghese volgare la nozione di dittatura e la nozione di democrazia si escludono l’un l’altra. Non comprendendo la teoria della lotta di classe, assuefatto a vedere sulla scena della lotta politica le meschine baruffe dei diversi gruppi e “coteries” della borghesia, il borghese per dittatura intende l'assenza di ogni libertà e di ogni garanzia democratica, l’arbitrio generalizzato, l’abuso generalizzato del potere negli interessi personali del dittatore. In fondo, è proprio questa concezione borghese volgare che trapela nel nostro Martynov, allorché, per terminare la sua “nuova campagna” nella nuova “Iskra”, egli spiega la predilezione (...) per la parola d’ordine della dittatura col fatto che Lenin “desidera ardentemente tentare la sua sorte”, per spiegare a Martynov la differenza che esiste tra la nozione di dittatura di una classe e quella di dittatura di un individuo, tra i compiti della dittatura democratica e quelli della dittatura socialista, non sarà inutile soffermarci sulle opinioni della “Nuova gazzetta renana”.
“Ogni organizzazione provvisoria dello Stato - scrive la “Nuova gazzetta”, il 14 settembre 1848 - dopo la rivoluzione esige la dittatura, e una dittatura energica. Noi abbiamo sin dall'inizio rimproverato a Camphausen (presidente del Consiglio dei ministri dopo il 18 marzo 1848), di non agire in modo dittatoriale, di non spezzare ed estirpare immediatamente i resti delle vecchie istituzioni. E mentre il signor Camphausen si cullava nelle illusioni costituzionali, il partito vinto (ossia quello della reazione) rafforzava le sue posizioni nella burocrazia e nell’esercito e qua e là si arrischiava persino a riprendere di nuovo apertamente la lotta”.
In queste parole - come disse giustamente Mehring - è riassunto in poche tesi ciò che è stato sviluppato con ricchezza di particolari dalla “Nuova gazzetta renana”, in lunghi articoli sul ministero Camphausen. Che cosa ci dicono queste parole di Marx? Che il governo rivoluzionario provvisorio deve agire dittatorialmente (tesi che, nel sacro orrore per le parole d’ordine di dittatura l”Iskra” non ha mai potuto comprendere), che il compito di questa dittatura è di distruggere i resti delle vecchie istituzioni (...). Infine e in terzo luogo da queste parole risulta che Marx sferzava i democratici borghesi per le loro “illusioni costituzionali” nell'epoca della rivoluzione e della guerra civile aperta. Il vero senso di queste parole risulta con maggior rilievo dall’articolo della “Nuova gazzetta renana”, del 6 giugno 1848.
“L'Assemblea costituente popolare - scriveva Marx - deve essere innanzi tutto una assemblea attiva, rivoluzionariamente attiva. E l'Assemblea di Francoforte si occupa di esercizi scolastici di parlamentarismo e lascia al governo la cura di agire. Ammettiamo che questo dotto concilio riesca, dopo matura riflessione, ad elaborare il miglior ordine del giorno e la migliore costituzione. A che varrà il migliore ordine del giorno e la migliore costituzione, se nel frattempo i governi tedeschi avranno già messo all’ordine del giorno la baionetta?”
Ecco il senso della parola d’ordine: “dittatura”. Si può vedere da ciò quale sarebbe stato l'atteggiamento di Marx verso le risoluzioni che chiamano vittoria decisiva “la decisione di organizzare l'Assemblea costituente”, o invitano “a rimanere il partito di estrema opposizione rivoluzionaria”!
I grandi problemi della vita dei popoli vengono risolti esclusivamente con la forza. Le classi più reazionarie sono abitualmente le prime a far ricorso alla forza, alla guerra civile, a “mettere all’ordine del giorno la baionetta”, come ha fatto e continua a fare sistematicamente, inflessibilmente, sempre e dappertutto l’autocrazia russa sin dal 9 gennaio. E dal momento che una tale situazione si è creata, dal momento che la baionetta figura realmente in testa all’ordine del giorno politico e che l’insurrezione si è dimostrata necessaria e urgente, le illusioni costituzionali e gli esercizi scolastici di parlamentarismo non servono più che a nascondere il tradimento della borghesia verso la rivoluzione, a nascondere il modo con cui la borghesia “si allontana” dalla rivoluzione. La classe effettivamente rivoluzionaria deve allora enunciare precisamente la parola d'ordine della dittatura.
A proposito dei compiti di questa dittatura, Marx scriveva, sempre sulla “Nuova gazzetta renana”:
“L’Assemblea nazionale avrebbe dovuto agire dittatorialmente contro le velleità reazionarie dei governi invecchiati; e allora si sarebbe conquistata nell’opinione popolare una forza tale contro la quale tutte le baionette si sarebbero spezzate... Questa Assemblea, al contrario, stanca il popolo tedesco con dei discorsi noiosi, invece di trascinarlo al suo seguito o di esserne trascinata”. L’Assemblea nazionale avrebbe dovuto, secondo Marx, “eliminare dal regime che esiste effettivamente in Germania tutto ciò che è contrario al principio della sovranità del popolo”, e quindi “consolidare il terreno rivoluzionario sul quale essa poggia e premunire contro tutti gli attacchi la sovranità del popolo conquistata dalla rivoluzione”.
Per conseguenza, i compiti che Marx assegnava nel 1848 al governo rivoluzionario o alla dittatura, si riducevano in sostanza innanzi tutto alla rivoluzione democratica: difesa contro la controrivoluzione ed eliminazione effettiva di tutto ciò che è contrario alla sovranità del popolo. Ciò è appunto la dittatura democratica rivoluzionaria e null'altro.
Proseguiamo. Quali sono le classi che, secondo Marx, potevano e dovevano realizzare questo compito (realizzare fino in fondo il principio della sovranità del popolo e respingere gli attacchi della controrivoluzione)? Marx parla del “popolo”. Ma noi sappiamo che egli combatté sempre implacabilmente contro le illusioni piccolo-borghesi sulla unità del popolo, sull’assenza della lotta di classe in seno al popolo. Impiegando la parola “popolo”, Marx non velava con questo termine la distinzione fra le classi, ma riuniva in questo termine elementi determinati, capaci di condurre a termine la rivoluzione.
Dopo la vittoria del proletariato berlinese del 18 marzo - scriveva la “Nuova gazzetta renana” i risultati della rivoluzione si sono rivelati duplici:
“Da una parte l’armamento del popolo, la libertà di associazione, la sovranità del popolo effettivamente conquistata; dall’altra, il mantenimento della monarchia e il ministero Camphausen-Hansemann, un governo cioè di rappresentanti della grande borghesia. La rivoluzione ha avuto così risultati di due sorte che dovevano inevitabilmente finire con una rottura. Il popolo ha vinto; esso ha conquistato delle libertà di carattere decisamente democratico, ma il dominio effettivo non è passato nelle sue mani, ma nelle mani della grande borghesia. Insomma, la rivoluzione non è stata condotta a termine. Il popolo ha lasciato ai rappresentanti della grande borghesia la cura di fornire il ministero e questi rappresentanti della grande borghesia hanno subito rivelato i loro intenti, proponendo un’alleanza alla vecchia nobiltà prussiana e alla burocrazia. Arnim, Kanitz e Schwerin sono entrati nel ministero.
Per paura del popolo, vale a dire del proletariato e della borghesia democratica, la grande borghesia, sin dall’inizio antirivoluzionario, ha concluso con la reazione un’alleanza difensiva e offensiva!
Così non soltanto la “decisione di organizzare l'Assemblea costituente” non è ancora sufficiente per la vittoria decisiva della rivoluzione, ma non lo è neppure la sua convocazione effettiva! Anche dopo una vittoria parziale nella lotta armata (vittoria degli operai berlinesi sulla truppa, il 18 marzo 1848), è possibile una rivoluzione “incompleta”, “non portata a termine”. Da che cosa dipende dunque la possibilità di condurre a termine la rivoluzione? Da questo: in quali mani passa il dominio effettivo, in quelle dei Petrunkevic e dei Rodicev, vale a dire dei Camphausen e degli Hansemann, oppure nelle mani del popolo, vale a dire degli operai e della borghesia democratica. Nel primo caso la borghesia avrà il potere, e il proletariato la “libertà di criticare”, la libertà di “rimanere il partito di estrema opposizione rivoluzionaria”. Subito dopo la vittoria, la borghesia concluderà una alleanza con la reazione (ciò che avverrebbe inevitabilmente anche in Russia se, ad es., gli operai pietroburghesi riportassero solo una vittoria parziale nella battaglia di strada contro la truppe e lasciassero ai signori Petrunkevic e consoci la cura di formare il nuovo governo). Nel secondo caso, la dittatura democratica rivoluzionaria, vale a dire la vittoria completa della rivoluzione, sarebbe possibile.
Rimane a determinare con maggiore precisione ciò che Marx intendeva propriamente per “borghesia democratica” (demokratische Bürgerschaft), che egli chiamava, insieme con gli operai, “popolo”, contrapponendola alla grande borghesia.
Il seguente brano dell’articolo della “Nuova gazzetta renana” del 29 luglio 1848, dà una chiara risposta a questa domanda:
“…La rivoluzione tedesca del 1848 non è che una parodia della rivoluzione francese del 1785.
Il 4 agosto 1789, tre settimane dopo la presa della Bastiglia, il popolo francese in una sola giornata, ebbe ragione di tutti gli obblighi feudali.
L’11 luglio del 1848, quattro mesi dopo le barricate di marzo, gli obblighi feudali hanno avuto ragione del popolo tedesco. (...)
La borghesia francese del 1789 non abbandonò nemmeno per un istante i suoi alleati, i contadini. Essa sapeva che la base del suo dominio era l’abolizione del feudalesimo nei villaggi e il sorgere di una classe libera di contadini proprietari (Grundbesitzenden).
La borghesia tedesca dal 1848 tradisce senza alcuno scrupolo i contadini, i suoi alleati più naturali, che sono carne della sua carne, e senza i quali è impotente di fronte alla nobiltà.
Il mantenimento dei diritti feudali, la loro consacrazione sotto l’apparenza (illusoria) di un riscatto: tale è il risultato della rivoluzione tedesca del 1848. La montagna ha partorito un topo!
Brano molto istruttivo, che ci dà quattro tesi importanti: 1) La rivoluzione tedesca incompiuta differisce dalla Rivoluzione francese portata a termine in ciò: che la borghesia tradì non solamente la democrazia in generale, ma anche i contadini in particolare. 2) La realizzazione completa di una rivoluzione democratica ha per base la creazione di una classe libera di contadini. 3) Creare questa classe, significa abolire gli obblighi feudali, distruggere il feudalesimo; ma con ciò non è ancora affatto la rivoluzione socialista. 4) I contadini sono gli alleati più naturali della borghesia, e appunto della borghesia democratica la quale, senza di essi, è “impotente” di fronte alla reazione.
Tutte queste tesi, modificate conformemente alle nostre particolarità nazionali concrete, sostituendo il servaggio al feudalesimo, possono essere applicate per intero alla Russia del l905.
Non vi è dubbio che gli insegnamenti tratti dall’esperienza tedesca, illustrata da Marx, non possono condurci a nessun’altra parola d’ordine di vittoria decisiva della rivoluzione che non sia quella di dittatura democratica, rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. Non v’è dubbio che le principali parti costituenti il “popolo”, che Marx contrapponeva nel 1848 alla reazione che resisteva ed alla perfida borghesia, sono il proletariato e i contadini.
N. Lenin (1905)

68 - Il crollo della seconda Internazionale (Zinoviev e Lenin)

I socialisti di tutti i paesi dichiararono liberamente a Basilea nel 1912 di considerare la futura guerra europea come opera delittuosa e reazionaria di tutti i governi e affermarono altresì doversi affrettare il crollo del capitalismo e la rivoluzione contro di esso. Scoppiata la guerra, la maggioranza dei partiti socialisti ha seguito, in luogo d’una tattica rivoluzionaria, una tattica reazionaria, schierandosi a lato dei rispettivi governi e delle rispettive borghesie.
Questo tradimento al socialismo significa il crollo della seconda Internazionale (1889-1914) e noi dobbiamo renderci conto delle cause di un simile crollo, delle origini del social-patriottismo e di ciò da cui proviene la sua forza.
In tutta la storia della seconda internazionale si è avuta, in tutti i paesi socialisti, la lotta fra gli elementi rivoluzionari e quelli opportunistici. In una quantità di paesi ne è conseguita una scissione (Olanda, Inghilterra, Italia, Bulgaria).
Nessun marxista ha messo in dubbio che l’opportunismo rappresenti la politica borghese nel movimento dei lavoratori, che risponda agli interessi della piccola borghesia, che significhi l’unione di una ristretta cerchia dell’aristocrazia dei lavoratori con la loro borghesia, unione che si volge contro gli interessi della massa dei lavoratori oppressi.
Le condizioni obiettive dei tempi, alla fine del sec. XIX hanno rafforzato in modo particolare l’opportunismo con la trasformazione della legalità borghese in una genuflessione dinanzi ad essa, con la creazione di una piccola cerchia della burocrazia e aristocrazia dei lavoratori, con l’entrata nelle file del socialismo di moltissimi elementi della piccola borghesia.
La guerra ha accelerato l’evoluzione (o involuzione?) trasformando l’opportunismo in social-patriottismo, e il legame segreto dell’opportunismo con la borghesia in un legame palese. Da per tutto le autorità militari hanno posto lo stato di guerra, che incatena la classe lavoratrice, mentre in pari tempo gli antichi capi sono, nella grande maggioranza, passati nel campo della borghesia. La base economica dell’opportunismo e del socialpatriottismo è la medesima: gli interessi d'una piccola cerchia di lavoratori privilegiati e piccolo borghesi, i quali difendono i loro privilegi, il loro diritto alle briciole della mensa della loro borghesia, il loro diritto a una parte di quei profitti dei borghesi che si traggono dal saccheggio imperialistico.
Il concetto politico del social-patriottismo e dell'opportunismo è il medesimo: collaborazione di classe in luogo di lotta di classi, diniego di mezzi di lotta rivoluzionaria e sottomissione al proprio governo nella sua difficile posizione, in luogo di sfruttamento di questa ai fini rivoluzionari. (...)
La solidarietà con l’opportunismo è ora una completa ipocrisia di cui dà l’esempio il socialismo tedesco. In tutte le circostanze importanti (come fu il 4 agosto 1914) ecco gli opportunisti col loro voto, frutto dei loro molteplici rapporti con la borghesia. (…)
La guerra ha indubbiamente causato la più grave crisi e acuito le passioni delle masse popolari. Il carattere reazionario di questa guerra, la spudorata menzogna della borghesia di tutti i paesi, che nasconde i suoi fini briganteschi sotto il manto della ideologia nazionale, tutto ciò determinerà immancabilmente - sul terreno della situazione obiettiva rivoluzionaria - consensi rivoluzionari fra le masse. Il nostro dovere è di rendere coscienti tali consensi, approfondirli e dar loro consistenza.
Un simile compito verrà giustamente espletato solo mediante la “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile” e ogni vittoriosa lotta di classe durante la guerra, ogni tattica seriamente svolta dalle “azioni collettive”, porta inevitabilmente a questo. Non si può sapere se il grande movimento rivoluzionario verrà prima o dopo la seconda guerra delle grandi potenze, se scoppierà durante la guerra o dopo di essa, ma in ogni caso è nostro dovere imprescindibile agire in questo senso sistematicamente e con fermezza.
Il manifesto di Basilea si richiama esplicitamente all’esempio della Comune di Parigi, all’esempio cioè della trasformazione della guerra dei governi in guerra civile. Mezzo secolo fa il proletariato era troppo debole, i presupposti obiettivi del socialismo non erano ancora maturi, non si poteva pensare a un’unione dei moti rivoluzionari di tutti i paesi belligeranti; l'entusiasmo di una parte dei lavoratori parigini per l’ideologia nazionale (la tradizione del 1792) era la loro debolezza rivoluzionaria, già indicata a sua volta da Marx, e una delle cause della caduta della Comune.
Mezzo secolo dopo le condizioni, che avevano allora indebolito la rivoluzione, sono mutate e oggi sarebbe imperdonabile se un socialista volesse negare la forza dello spirito comunardo parigino.
Giornali borghesi di tutti i paesi in guerra hanno riportato esempi di fraternizzazione fra soldati di nazioni nemiche perfino nelle trincee. Divieti draconiani, emanati in proposito dai comandi di guerra (Germania, Inghilterra), hanno dimostrato come si governi e alla borghesia non sfuggisse il significato di simili episodi. Se oggi, nel pieno trionfo dell’opportunismo, nei circoli dirigenti dei partiti socialisti dell’Europa occidentale, malgrado la dedizione di tutta la stampa socialista e di tutte le autorità della seconda Internazionale al social-patriottismo, sono stati possibili tali episodi di fraternizzazione, ciò dimostra quanto si potrebbe oggi abbreviare l’attuale criminosa guerra reazionaria e asservitrice, organizzando un movimento rivoluzionario internazionale, solo che i socialisti di sinistra di tutti i paesi belligeranti si adoperassero sistematicamente in questo senso. (...)
I sostenitori della vittoria del proprio governo nella guerra attuale, come pure i propugnatori della tesi “né vittoria né sconfitta”, si trovano allo stesso livello dei social-patrioti.
La classe rivoluzionaria non può mai non desiderare la sconfitta del proprio governo; essa non può non scorgere la relazione esistente fra l’insuccesso bellico del governo e l’agevolazione ad abbatterlo. Solo un borghese, che viva nella fede che la guerra ordita dai governi terminerà inevitabilmente come guerra dei governi e desideri anche ciò, trova ridicola e pazzesca l’idea che i socialisti di tutti i paesi in guerra debbano desiderare la sconfitta di tutti i propri governi. Al contrario, anche un simile fatto si accorderebbe benissimo col pensiero segreto di ogni lavoratore evoluto e cosciente e lo metterebbe subito sulla giusta via della nostra azione, intesa alla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile.
Il mezzo più comune di inganno della borghesia in questa guerra è il mascheramento dei suoi fini briganteschi con l’ideologia della “liberazione dei popoli”. Gli inglesi promettono di liberare i belgi, i tedeschi promettono di liberare i polacchi, e cosi via. In realtà questa è, come abbiamo visto, una guerra fra gli oppressori della maggior parte dei popoli della terra per la conservazione e lo accrescimento di questa oppressione.
I socialisti non possono conseguire il loro grande fine senza combattere contro questa oppressione di popoli. Essi devono perciò esigere incondizionatamente che i partiti socialisti dei paesi oppressori, (specialmente delle cosiddette grandi potenze), riconoscano e difendano il diritto di autodecisione dei popoli “oppressi”, e lo riconoscano e difendano nel senso politico della parola, cioè come diritto all’indipendenza politica. Il socialista d’un popolo appartenente a un grande Stato o a uno Stato coloniale, che non difende un simile diritto, è uno sciovinista.
L'imperialismo rappresenta l'epoca dell’oppressione progressiva di tutto il mondo sotto il tallone delle “grandi potenze”, e perciò la lotta per la rivoluzione internazionale socialista è impossibile senza il riconoscimento dei diritti all’autodecisione dei popoli.
“Non può esser libero quel popolo che opprime altri popoli” (Marx ed Engels). Non può esser socialista quel proletariato che ammette il menomo atto di violenza della sua nazione contro altre nazioni.
Zinoviev e Lenin (1915)

69 - L'epoca rivoluzionaria (Lev Trotzky)

... I metodi di opposizione nazionale parlamentare restano non solo obiettivamente senza efficacia, ma perdono addirittura, per le classi lavoratrici, ogni forza di attrazione subiettiva in considerazione del fatto che dietro le spalle dei parlamentari l'imperialismo a mano armata pone il salario e perfino l’esistenza stessa dei lavoratori in sempre maggior dipendenza dai suoi successi sul mercato mondiale. Che il passaggio del proletariato dall'opportunismo alla rivoluzione potesse compiersi per mezzo di tentativi di agitazione, ma solo per mezzo di rivolgimenti storici, era più che chiaro ad ogni socialista ben pensante. Ma che il corso delle vicende storiche avrebbe fatto precedere a questo inevitabile mutamento di tattica un simile catastrofico crollo della Internazionale, questo non lo prevedeva nessuno. La storia opera con titanica inesorabilità. Che cosa importa ad essa della Cattedrale di Reims e che cosa le importa, di qualche centinaio o migliaio di nomi politici e che cosa le importa della vita o della morte di centinaia di migliaia o di milioni di individui? Troppo tempo è rimasto il proletariato negli asili d’infanzia, assai più tempo di quel che non abbiano pensato i grandi patrocinatori. La storia ha preso in mano la scopa, ha spazzato via l’Internazionale degli epigoni e ha buttato pesantemente milioni di uomini sul campo di battaglia, dove vengono tolte loro, col sangue, le ultime illusioni.
Spaventoso esperimento! Dal suo risultato dipende forse la sorte della cultura europea! (...)
La guerra attuale dimostra come la Germania, che ha compiuto i maggiori passi sulla via del capitalismo, sia capace di spiegare la più grande forza militare. In pari tempo questa guerra mostra, nei riguardi di tutti i paesi in essa coinvolti, quale colossale energia specializzata spieghi il proletariato nella sua attività bellica. Non si tratta qui dell’eroismo passivo di gregge delle masse campagnole, animate da rassegnazione fatalistica o da superstizione religiosa: qui si tratta dello spirito di sacrificio individuale che, provvedendo da un'intima convinzione, si pone sotto la bandiera d’un’idea. L'idea sotto la cui bandiera trovasi oggi il proletariato armato è l’idea del nazionalismo guerrafondaio, del nemico mortale dei veri interessi del proletariato. Le classi dominanti si sono rivelate abbastanza potenti per imporre le proprie idee al proletariato e il proletariato ha coscientemente posta la propria intelligenza, la propria passione e il proprio spirito di sacrificio al servizio della causa dei suoi nemici di classe.
In questo modo vien suggellata la spaventosa disfatta del socialismo. Ma con essa vengono a schiudersi anche tutte le passibilità d’una definitiva vittoria.
È fuor di dubbio che una classe, che è capace di dimostrare tanta fermezza e tanto spirito di sacrificio in una guerra da essa riconosciuta come giusta, si mostrerà ancor meglio capace di spiegare tale sua qualità allorché l'ulteriore svolgersi degli avvenimenti la porrà di fronte a compiti veramente degni della sua missione storica.
L’epoca del risveglio, delle rivelazioni e dell’organizzazione del proletariato ha palesato in esso inaudite fonti di energia rivoluzionaria, che non hanno trovato alcuna estrinsecazione adeguata nella lotta quotidiana. Il socialismo ha chiamato in campo non soltanto le categorie superiori del proletariato, ma ha anche stimolato la sua energia rivoluzionaria dando necessariamente alla sua tattica il carattere della perseveranza (“strategia dell’esaurimento”). Il pertinace e reazionario carattere di quest’epoca non ha permesso al socialismo di affidare al proletariato compiti tali da richiedere tutto il suo spirito di sacrificio.
Simili esigenze vengono ora vantate sul proletariato dall’imperialismo. In tal modo questo ha raggiunto il suo scopo mettendo il proletariato in posizione di “difesa nazionale”, il che doveva significare pei lavoratori difesa di ciò che essi avevano creato con le proprie mani; non soltanto dunque delle colossali ricchezze della nazione, ma anche delle loro proprie organizzazioni di classe, delle loro casse, della loro stampa, in breve, di tutto ciò che erano riusciti a ottenere attraverso faticose, instancabili lotte decennali.
L'imperialismo ha strappato violentemente la società dallo stato di instabile equilibrio, ha abbattuto gli argini che il socialismo aveva creato contro la corrente di energia rivoluzionaria del proletariato ed ha incanalato questa corrente nel suo letto. Un simile inaudito esperimento storico, che ha spezzato con un sol colpo la schiena dell’Internazionale socialista, nasconde pertanto in sé il pericolo mortale per la stessa società borghese. Il martello viene strappato di mano al lavoratore e trasformato in arma. Il lavoratore, avvinto dal meccanismo dell’economia capitalistica, viene repentinamente tolto dal suo ambiente e gli viene insegnato a considerare i fini della comunità come più alti perfino della felicità domestica e della vita.
Con l’arma in mano ch’esso si è preparata, il lavoratore viene messo in tal posizione che la sorte politica dello Stato viene a dipendere da lui. Quelli che in tempi normali l’opprimevano e lo disprezzavano, ora l’adulano e lo strisciano. Nello stesso tempo egli viene a trovarsi nel più stretto contatto con quei medesimi cannoni che formano una delle più importanti parti costitutive delle costituzioni. Egli oltrepassa i confini, prende parte a requisizioni violente, con la sua cooperazione passano le città da una mano all’altra. Avvengono trasformazioni che la generazione attuale non ha mai veduto. (…)
Non è dunque chiaro, che tutte queste circostanze debbano produrre una profonda trasformazione nella psiche dei lavoratori guarendo radicalmente il proletariato dall’ipnosi della legalità in cui s’è manifestata l’epoca della stagnazione politica?
Le classi abbienti debbono presto convincersene con terrore. Il proletariato passato a traverso la scuola della guerra, comincerà al primo serio ostacolo che gli si frapporrà nel proprio paese, a usare il linguaggio della forza: “Necessità non conosce legge!” griderà esso a colui che cercherà di trattenerlo in base alle disposizioni della legislazione borghese. (...)
“Cessazione immediata della guerra!” è la formula con cui il socialismo può nuovamente raccogliere le sparpagliate fila tanto dei singoli partiti nazionali quanto di tutta l’Internazionale. La sua volontà di pace il proletariato non può farla dipendere dalle esigenze strategiche degli stati maggiori, ma deve invece contrapporre con ogni energia a queste esigenze la sua volontà di pace. Quella che i governi in guerra chiamano lotta per l’auto-conservazione nazionale, non è, al contrario, che annientamento nazionale reciproco. La vera autodifesa nazionale consiste ora nella lotta per la pace.
Una simile lotta non significa per noi soltanto lotta per la preservazione dei beni materiali e culturali dell’umanità, ma significa in prima linea la lotta per la conservazione dell'energia rivoluzionaria del proletariato. (…)
L’agitazione per la pace deve compiersi contemporaneamente da per tutto; con tutti i mezzi di cui dispone ora il socialismo, con quelli di cui può impadronirsi con la buona volontà, non solo esso strapperà i lavoratori all’ipnosi del nazionalismo ma compirà anche un’intima operazione di epurazione salvatrice nei circoli agli attuali partiti ufficiali del proletariato. I revisionisti nazionali ed i social-patrioti in seno alla seconda Internazionale, i quali esercitano l'influenza storicamente conquistata dal socialismo sulle masse lavoratrici per fini nazionalistici-militaristici, devono venir respinti nel campo dei nemici di classe del proletariato da un’agitazione rivoluzionaria implacabile per la pace. (...)
La guerra suscita i più spaventosi rivolgimenti contro se stessa, ogni giorno di guerra che passa porterà nuove e sempre nuove masse sotto la nostra bandiera, se essa sarà la bandiera d'una pace onorevole e della democrazia. Nel compimento della pace il socialismo rivoluzionario isolerà certamente la reazione bellica in Europa, e spingerà il proletariato a passare all’offensiva. (…)
I principali riformisti che speravano di risolvere la “questione sociale” coi trattati di tariffa, con le unioni di consumo e con la collaborazione parlamentare del socialismo coi partiti borghesi, tutti costoro pongono adesso le loro speranze nella vittoria delle armi “nazionali”! Aspettano che le classi abbienti vengano spontaneamente incontro ai bisogni del proletariato che ha dato prova del suo patriottismo.
Una simile speranza sarebbe semplicemente idiota se un’altra speranza, assai meno idealistica, non si celasse dietro di essa: la speranza, cioè, che la vittoria delle armi abbia a creare un’assai più vasta base di arricchimento imperialistico per la borghesia, a spese della borghesia di altri paesi e permetterle di ripartire col proletariato nazionale una parte del proprio bottino a spese del proletariato degli altri paesi. Il riformismo socialista si è effettivamente trasformato in un imperialismo socialista!
Dinanzi ai nostri occhi svanisce completamente la speranza d’un pacifico progresso del benessere proletario. I riformisti sono stati costretti a cercare la via d’uscita dal ginepraio politico, contro la loro dottrina, nella forza; ma non nella forza dei popoli contro le classi dominanti, bensì nella forza militare delle classi dominanti contro altri popoli.
La borghesia tedesca, dopo il 1848, ha rinunciato a risolvere i suoi problemi col metodo della rivoluzione e ha lasciato ai feudatari il compito di risolvere le questioni borghesi coi metodi della guerra. L’evoluzione sociale ha posto il proletariato dinanzi al problema della rivoluzione. Evitando la rivoluzione, i riformisti sono stati costretti a ripetere lo storico affondamento della borghesia liberale: hanno abbandonato alle loro classi dominanti, cioè agli stessi feudatari, la cura di risolvere la questione proletaria coi metodi della guerra.
Ma qui termina l’analogia. La formazione di Stati nazionali ha nel fatto risolto per un lungo periodo di tempo la questione borghese e la lunga serie di guerre coloniali dopo il 1871 ha compiuto questa rivoluzione ampliando il campo d’azione per lo sviluppo delle forze capitalistiche. Il periodo delle guerre coloniali degli Stati nazionali ha portato all'attuale guerra fra Stati nazionali per le colonie!
A questo proposito c'è un fatto di capitale importanza: il risveglio capitalistico perfino delle colonie, risveglio cui l'attuale guerra dovrà dare un potente impulso. Qualunque sia per essere l’esito di questa guerra, la base imperialistica del capitalismo europeo non si amplierà, ma si restringerà invece. La guerra non risolve neppure la questione dei lavoratori su fondamenti imperialistici: al contrario, essa acuisce queste questioni ponendo il mondo capitalistico dinanzi all’alternativa: o guerra in permanenza o rivoluzione.
Se la guerra ha colpito sul capo la seconda Internazionale, le sue conseguenze colpiranno sul capo la borghesia di tutto il mondo. Noi, socialisti rivoluzionari, non vogliano la guerra. Ma non la temiamo neppure. Il fatto che la guerra ha distrutto l’Internazionale - che era già stata liquidata dalla storia - non è certo tale da farci disperare.
 L’epoca rivoluzionaria creerà nuove forme organiche dalle inesauribili fonti del socialismo proletario, le quali esprimeranno la grandezza dei nuovi compiti. A tale impresa accingiamoci subito fra il folle clamore dei cannoni, lo schianto della cattedrale che crolla e l’urlo patriottico degli sciacalli capitalistici. Conservi in questa infernale musica di morte ben chiaro il nostro pensiero, intatto il nostro punto di vista e sentiamo di essere l’unica forza creativa dell’avvenire! Molti sono già ora con noi, assai più di quel che non possa sembrare. Domani saremo assai più numerosi che oggi. Dopodomani accorreranno sotto la nostra bandiera milioni e milioni di uomini che anche oggi, sessantotto anni dopo l’apparizione del “Manifesto” comunista, null’altro hanno da perdere che le proprie catene!
Leone D. Trotzky (1916) (1879-1940)

70 – L’Esercito rosso (Lev Trotzky)

Compagni!
La dottrina comunista o socialista si è proposta come uno dei suoi più importanti compiti il raggiungimento - in questo reo e vecchio mondo – d’un tale stato di cose che gli uomini debbano cessare dall’avventarsi l’uno contro l’altro, uno degli obiettivi del comunismo o socialismo è la creazione d’un ordinamento tale da rendere, per la prima volta, l’uomo degno del suo nome. Noi siamo abituati a udire che la parola uomo suona orgoglio. Ma in verità, se gettiamo uno sguardo su questi quasi quattr’anni di sanguinosa carneficina, si potrebbe ben esclamare: “L’uomo! Ciò suona vergogna! vergogna!”
Orbene, creare una tal forma, un tale ordinamento sociale, in cui non si abbia alcuna reciproca sopraffazione di popoli, è questo il semplice e chiaro compito che ci pone dinanzi la dottrina del comunismo. Ciò nonostante, voi vedete, o compagni, come il partito comunista, al quale io appartengo, il partito cioè che ha nominato l'attuale assemblea, il partito dei comunisti bolscevichi, faccia appello all’esercito rosso, invitandolo ad organizzarsi e ad armarsi. In ciò sembrerebbe, a prima vista, di scorgere una profonda contraddizione.
Da una parte noi propugniamo la creazione di rapporti sociali tali che a nessun uomo sia lecito di togliere ad un altro il più prezioso dei beni: la vita; ed è questo il più alto compito, uno dei più importanti del nostro partito, del partito mondiale internazionale dei lavoratori. Dall’altra parte invece noi vi chiamiamo nell’esercito rosso e vi diciamo: “Armatevi, unitevi, imparate a sparare, e imparatelo così bene e con tanto impegno, che nessun colpo vi abbia a fallire! …”
A prima, vista dunque sembra questa una contraddizione; si sente qualche cosa che contrasta con l’atteggiamento vagheggiato. E vi sono stati effettivamente comunisti che han seguito altra via, si son valsi di altri mezzi e, anzi che rivolgersi agli oppressi con le parole infiammanti: “Unitevi! Armatevi!”, si sono rivolti agli oppressori, agli sfruttatori, ai potenti con parole di persuasione, dicendo loro: “Disarmatevi! cessate di opprimere!”
Parlavano di lupi e pretendevano di togliere loro i denti! Così predicavano, basandosi su errati concetti, gli utopisti, cioè i socialisti comunisti ingenui. I loro sforzi erano indubbiamente nobili in sommo grado; ricordano il grande utopista Leone Tolstoi il quale, propugnando l’avvento di un migliore assetto del mondo, credeva che si sarebbe potuto pervenirvi con un rinnovamento intimo degli oppressori. Ma invece le mire degli oppressori, i loro sentimenti, i loro istinti seguitano a trasmettersi di generazione in generazione: essi succhiano col latte materno la loro tendenza al potere, all’oppressione e al dominio e credono che tutte le altre masse, le masse dei lavoratori siano create proprio apposta per servire di base e sostegno al prepotere del loro piccolo gruppo, di quel ceto, cioè, di privilegiati che viene al mondo, per così dire, con gli sproni ai piedi per montare a cavallo sul collo del popolo lavoratore.
Compagni! eccoci alle radici della questione. Noi propugniamo la creazione dell’ordinamento comunista, in cui nessun odio di classe contro le altre deve esistere; ché nessuna classe deve prevalere: nessun odio deve esistere fra popolo e popolo perché i popoli, vivendo tutti sulla medesima terra, devono avere tutti comuni occupazioni e intenti.
Ma, mentre noi auspichiamo un simile assetto mondiale, diciamo ai lavoratori: “Finché questo non è raggiunto, pensate che siete voi la sola potenza capace di realizzarlo”. E pensate bene - e noi in Russia lo sappiamo anche troppo per esperienza! - che le classi internazionali dominanti non cederanno su questo campo un solo palmo di terreno senza combattere; esse si aggrapperanno ai loro privilegi, ai loro beni, al loro potere coi denti e con le unghie, fino all’ultimo alito, e semineranno discordia, malumori, disordine, caos, scompiglio fra la folla dei lavoratori al solo fine di poter conservare il loro potere. Noi, in Russia, abbiamo compiuto soltanto il primo passo, abbattendo il dominio politico della classe borghese e instaurando quello della classe lavoratrice. La borghesia non ha più alcuna forza presso di noi, il potere è tutto dei lavoratori. Dire che esso è cattivo equivale a dire che la classe lavoratrice è mal conscia di quel che le incombe. Essa ha tutto il potere che le occorre, e ne ha quindi tutta la responsabilità. Il potere costituito a Pietrogrado, a Mosca e in altre città può - in quanto esso è conferito dai lavoratori - essere in qualsiasi momento da essi stessi ritolto, potendo essi convocare il Congresso panrusso dei Consigli (Soviet); essi possono, quando vogliono, rieleggere i Consigli, il Comitato esecutivo centrale, il Consiglio dei commissari del popolo. È questa la potenza della classe degli operai e dei contadini, dei poveri contadini; è questa la base su cui noi poggiamo!
Ci si dice: “Perché non cercate di conseguire questo potere mediante il suffragio elettorale universale, uguale, diretto e segreto, con la formazione di un'Assemblea costituente?”
È vero, noi parteggiamo per essa. Noi fummo sempre del parere che l’Assemblea costituente fosse di gran lunga migliore del regime zaristico, di gran lunga migliore dell’autocrazia dell’impero di Plehwe, dei briganti di Stolypin, della nobiltà; l’Assemblea costituente è indubbiamente di gran lunga migliore di tutto ciò.
Ma che cosa è l’Assemblea costituente, che cos’è il suffragio universale? È un referendum di tutta la popolazione, una richiesta fatta a tutti di esprimere la propria volontà. Tutti nel paese vengono interrogati: i lavoratori e gli oppressi, gli oppressori e i loro servi del ceto intellettuale che sono avvinti anima e corpo alla borghesia, servendo ai suoi fini. A ciascuno si domandi, col sistema del suffragio universale: “Che cosa volete? Ditelo per mezzo del voto”. E se, nel marzo o aprile dell’anno scorso, Kerenski avesse convocato l’Assemblea costituente, questo sarebbe stato indubbiamente un passo avanti. Lo Zar era abbattuto, la burocrazia rovesciata; il potere non era ancora nelle mani dei lavoratori, ma in quelle di Guckov, Milukov e simili. Se allora, per mezzo dell'Assemblea costituente, si fosse chiesto al paese: "Che cosa volete voi, o uomini della Russia?” si sarebbe avuta una risposta nettamente in antitesi con quella che avrebbero desiderata la borghesia e i suoi servi che erano al potere. Poiché la rivoluzione consiste appunto nella ribellione delle classi oppresse contro gli oppressori.
Che cosa è una rivoluzione? Evidentemente per Krestovnikov e per Riabuscinski essa consiste nell’abbattere lo Zar e nel sostituire vecchi ministri con nuovi; ecco tutto! Ma l'essenza della rivoluzione non è in ciò; essa bensì risveglia e solleva le masse operaie sfruttate e maltrattate che trascorrono i loro giorni senza un raggio di luce, senza un attimo di respiro, come bestie da soma; la rivoluzione le ridesta e fa loro vedere come esse altro non siano in questo loro stato, che bestie e schiave di altre classi. Eccola la rivoluzione, vedete! Essa non si contenta di abbattere lo Zar, di mutare un paio di ministri. Se si accontentasse di questo, non sarebbe una rivoluzione: sarebbe, per così dire l’aborto d’una rivoluzione. Questa è una falsa origine storica, la vera, la sana origine storica si ritrova quando la classe lavoratrice, sollevandosi, prende nelle sue mani tutto il potere del paese e si accinge a creare un nuovo ordinamento, in cui non vi sia più alcun sfruttamento di una classe sull’altra; in cui tutti i mezzi di produzione, tutte le ricchezze del paese si trovino a disposizione e sotto il controllo dei lavoratori. La classe lavoratrice è allora come un signore in un buon regime economico: il signore, il proprietario sa quanto terreno ha, quanta semente, quanto bestiame, quale è il suo inventario economico, qual pezzo di terra deve fino a un dato momento seminare; egli sa tutto questo, tutto è ben regolato e messo a profitto.
Ma questo è il regime economico di un singolo. Gli altri, che vivono accanto a lui hanno anch’essi la loro economia nella reciproca cooperazione. Ebbene, noi vogliamo che la classe lavoratrice sia come un signora nei riguardi della propria terra, sicché essa sappia, quanto terreno ha, di quante ricchezze naturali, di quanto rame, di quanto carbone, di quante macchine, di quanta materia greggia, di quante forze di lavoro, di quanto grano dispone; noi vogliamo che tutto ciò sia messo in valore, affinché, essendo tutto ben nato, il lavoro possa essere razionalmente distribuito. Il proprietario deve essere un buon padrone che sia al tempo stesso padrone e lavoratore. E l’economia comunista, vedete, altro non è che una società di compagni.
Dicono che questa sia un’utopia. Affermano i nostri nemici che tutto ciò non potrà mai avverarsi. Così parlano coloro cui tutto questo non conviene, o coloro che han venduto la propria anima alla classe dominante. Per essi l’ideale è irraggiungibile. Ma io, o compagni, vi dico che, se gli uomini non sono capaci di realizzarle allora tutto il genere umano non varrebbe davvero un centesimo: gli uomini resterebbero sempre bestie da soma, peggiori anzi di qualunque bestia, perché le bestie non conoscono divisioni di classe, e fra esse non accade, che un bue, per esempio, acquisti predominio su un altro, o un cavallo su un altro.
Noi, invece, abbiamo sempre sostenuto che, se dobbiamo abbattere un simile organismo di classi, dobbiamo farlo per salire sempre più in alto; contro questa divisione di classi noi dobbiamo combattere; e, se non riusciremo in questa prova, cui ci siamo accinti ora che abbiamo in mano il potere, se si dovesse dimostrare che non siamo preparati, che non siamo capaci di assolvere il nostro compito; allora, sì, tutte la nostre speranze, tutte le nostre aspettative, i nostri piani, la nostra scienza, l’arte, tutto ciò che interessa l’uomo, tutti gli ideali nel cui nome egli combatte, non sarebbero che menzogne, e l’intero genere umano non sarebbe altro che un gran letamaio quale esso appare dall’attuale carneficina, che dura da quattro anni, in cui gli uomini si ammazzano l’un l’altro a decine di migliaia, a milioni, col solo e unico risultato di lasciare ogni cosa al punto di prima.
Anche per questo noi diciamo ai nostri nemici che ci criticano: noi sappiamo benissimo che non siamo ancora al termine della nostra opera, che abbiamo ancora del cammino da percorrere pel quale occorrono ancora molto lavoro e molti sforzi. Ma una cosa noi abbiamo compiuto: la preparazione. Se è necessario costruire un nuovo edificio, tutto deve rifarsi da capo.
Noi abbiamo tolto il potere alla borghesia e ci accingiamo all’impresa. Abbiamo cominciato col tener saldamente in mano il potere e dichiariamo a tutti i nostri nemici che questo potere non dovrà giammai cadere di mano alla classe lavoratrice.
Si parla, dunque, dell'Assemblea costituente. Torno su questo importante argomento. Che cosa è essenzialmente il suffragio universale, diretto, uguale e segreto? Che cosa è un semplice referendum, un appello alle urne? Se tentassimo l’esperimento, che cosa succederebbe? Una parte dei cittadini voterebbe in un dato senso, un’altra in un altro. Ma qualche cosa bisogna fare. E poiché qualche cosa bisogna fare, è chiaro che le due parti si troverebbero in conflitto operando ciascuna per fini opposti. L’Assemblea costituente può servire sì per un referendum dei diversi voleri, ma per l’opera creatrice della rivoluzione, no. Del resto il referendum noi lo abbiamo compiuto anche senza l'Assemblea costituente. Miliukov prima e Kerenski poi lasciarono passare i mesi uno dopo l’altro senza convocare l'Assemblea costituente. E che cosa sarebbe essa stata se anche si fosse fatto rivivere il suo cadavere, ammesso che esistesse al mondo un medicamento o una magia qualsiasi capace di tanto?
Ammettiamolo pure. L’Assemblea costituente è convocata. Che vuol dire ciò? Vuol dire che da un lato, alla sinistra, sederebbero i rappresentanti delle classi lavoratrici e direbbero: “Noi vogliamo che il potere serva alfine al dominio della classe lavoratrice e all'abolizione di qualsiasi oppressione e rapina”. Dalla parte opposta, sederebbero i rappresentanti della borghesia, i quali vorrebbero che il potere tornasse come prima alla classe borghese. Essi parlerebbero con bel garbo e cautela, senza dire apertamente classi borghesi, ma classi colte, pur significando sostanzialmente la stessa cosa. Nel mezzo starebbero quegli uomini politici che oscillano costantemente fra la destra e la sinistra, i rappresentanti dei menscevichi e dei “socialisti rivoluzionari” di destra. Essi direbbero: “Il potere deve essere ripartito equamente fra l'una e l'altra parte”.
Ma, o compagni, il potere non è una pagnotta che si possa tagliare in due o quattro parti, a piacere. Il potere è uno strumento, col quale una determinata classe afferma il proprio dominio. Un tale strumento o serve alla classe lavoratrice, o serve contro di essa. Finché vi sono due nemici - la borghesia e il proletariato - col miserrimo ceto dei contadini e finché questi due nemici si combattono reciprocamente, non possono evidentemente adoperarsi entrambi con le medesime armi. Non è ammissibile che un fucile o un cannone serva contemporaneamente a due eserciti in conflitto fra loro. Così anche il potere statale è una determinata organizzazione che può servire o alla classe lavoratrice contro la borghesia o, viceversa, alla borghesia contro la classe lavoratrice. I “centristi”, che domandano se il potere non si possa in qualche modo dividere in due, non sono che dei ciarlatani, che pretendono di aver in tasca la ricetta per far sì che il potere statale - il cannone - possa servire contemporaneamente ai lavoratori e alla borghesia. La storia, o compagni, non ci dà esempio di simili magiche ricette e se anche ce ne proponesse una, la politica di Tseretelli e di Cernov noi ben sappiamo che il loro cannone non sparerebbe che in una direzione: contro la classe lavoratrice e noi non abbiamo alcun desiderio né alcuna inclinazione a tornare in un simile stato.
Compagni, noi dichiariamo al nostro partito comunista, al Governo dei Consigli, che noi fummo attivamente per l'Assemblea costituente allorché questa, rappresentava un passo innanzi sotto lo zarismo; noi parteggiammo allora per un referendum ma dopo che il popolo ebbe rovesciato lo Zar, allora noi dicemmo: “Ora voi dovete portare a compimento l’impresa; è necessario che il potere sia assunto da quella classe che è chiamata a ricostruire la Russia su nuove basi: alla classe dei lavoratori”. E, ciò dicendo, non ci siamo né vi abbiamo in alcun modo ingannati.
Noi affermammo che infinite erano le difficoltà nel nostro cammino, colossali gli ostacoli, tremenda l’opposizione della classe borghese, e non solo da parte della borghesia russa, che per se stessa è debole, ma anche da parte della borghesia internazionale, poiché la borghesia russa altro non è che una diramazione delle classi borghesi di tutti i paesi. Queste si muovono, sì, guerra fra loro, si urtano a vicenda, ma in sostanza sono compatte nella questione fondamentale: la difesa della proprietà e di tutti i privilegi che ad essa si connettono. Vi ricorderete senza dubbio come fu fra noi, fino a poco tempo fa, prima della rivoluzione, infiniti fossero i partiti nella classe borghese, fra i possidenti della grande e piccola borghesia. C’erano i cento neri di destra, i nazionalisti, gli ottobristi, i progressisti di sinistra, i cadetti, ecc.: un vero e proprio sciame di partiti. Donde venivano? Precisamente da diversi gruppi di possidenti. Gli uni rappresentavano gli interessi dei grandi possidenti, gli altri quelli dei medi e dei piccoli; alcuni gli interessi dei capitalisti bancari, altri gli interessi dei capitalisti industriali, altri ancora gli interessi degli intellettuali laureati, professori, medici, avvocati, ingegneri, ecc. In sostanza, dunque, anche la stessa borghesia, le stesse classi abbienti si dividono in gruppi, in sezioni, in partiti. Ma non appena la nostra rivoluzione ha fatto sorgere in piedi i lavoratori, tutta la borghesia si è trovata compatta, i partiti sono tutti scomparsi, altro non restando che il partito dei cadetti, in cui si raggruppavano tutte le classi abbienti in lotta per la difesa della proprietà contro le classi operaie.
Lo stesso, o compagni, avviene anche nella borghesia internazionale. Essa scatena guerre orrende e sanguinose, ma appena la classe rivoluzionaria, la classe proletaria alza la testa minacciando le basi del capitalismo, subito cominciano i borghesi a sostenersi l’un l’altro in tutti i paesi, per formare un campo comune contro il progrediente spaventoso “spettro” della rivoluzione socialista e per questo vedete, noi consacriamo le nostre energie alla formazione dell’ordinamento comunista, in cui non vi saranno più lotte fra popolo e popolo. Ma finché a questo non saremo arrivati, dobbiamo tenerci pronti ad affrontare le più aspre difficoltà, a sostenere le più grandi battaglie, così all'interno del nostro paese come ai suoi confini; poiché quanto più sarà esteso, quanto più sarà forte il movimento rivoluzionario, tanto più la borghesia di tutti i paesi stringerà le sue file. L'Europa sarà posta a ferro e fuoco dalla guerra civile e la borghesia russa appoggiandosi alla borghesia europea e a quella di tutto il mondo, compirà più di uno sforzo contro di noi, per questo noi sosteniamo sì che siamo in cammino verso la pace, ma verso una pace che non sarà raggiunta se non attraverso battaglie cruente delle masse lavoratrici contro gli oppressori, gli sfruttatori, gli imperialisti di tutti i paesi.
Questa via noi seguiremo sino alla fine!...
Di tutto ciò o compagni, dobbiamo ben renderci conto. Certo chi pensa che già tutto abbiamo raggiunto, dimostra di non comprendere esattamente gli insegnamenti della storia. La storia non è una madre premurosa e tenera, che protegge la classe dei lavoratori: è una cattiva matrigna, che insegna loro, con l’esperienza del sangue, il modo di innalzarsi e conseguire i propri fini.
È questa la disgrazia dei lavoratori. Io dico spesso, e ripeto nei comizi ai compagni che essi hanno corta memoria. Essi si sentono facilmente portati alla conciliazione, troppo facilmente dimenticano. Appena scorgono un barlume di miglioramento, appena ottengono qualche cosa, subito sembra loro che il più sia fatto e si sentono disposti alla generosità, si sentono disposti ad arrestare la loro opera e cessare la lotta; e intanto le classi abbienti non interrompono la loro campagna e contrappongono salda resistenza agli attacchi delle masse operaie. Una passività da parte nostra, una scissione, un’incertezza vuol dire per noi esporre il nostro lato debole ai colpi della classe abbiente, vuol dire che domani o dopodomani, in un nuovo assalto, saremo sconfitti.
La classe dei lavoratori ha bisogno di vigorosa tempre, fermezza inesorabile e convinzione profonda che senza combattere a ogni passo pel miglioramento del proprio destino, senza questa lotta instancabile, sono impossibili la salvezza e la liberazione.
Nelle file del partito comunista, noi chiamiamo, o compagni, anzitutto i lavoratori e in seconda linea tutti gli amici sinceri e fidati della nostra classe. Ma chi, o compagni, cela dubbi o incertezze nell’animo, resti lontano dalle nostre file. Per noi vale più un solo seguace fidato che dieci indecisi, poiché nello svolgimento della lotta questi trascinerebbero seco qualcuno dei nostri; se invece i compagni sicuri, uniti tutti in una sola schiera, muovono alla battaglia contro il nemico, essi trascinano anche gli incerti e i reticenti. Per questo noi vogliamo nelle file del nostro partito soltanto coloro che abbiano ben compreso come la nostra lotta contro gli oppressori di tutti i paesi sia inesorabile. Qui non c’è posto per i “centristi” che si interpongano fra l’una e l’altra parte per proporre accordi. Nessuno deve ascoltare costoro. La borghesia non cederà mai spontaneamente il suo potere. Bisogna da parte nostra resistere e combattere, bisogna che noi ci sentiamo pronti alla battaglia fino alla fine!...
È questo il compito essenziale del partito comunista che appare attualmente come il partito direttivo nei Consigli, organi del potere. Esso si propone di riuscire a far sì che ogni suo addetto, ogni lavoratore sia spiritualmente temprato a dire a se stesso: “Nella lotta che attualmente si svolge evidentemente anch’io forse soccomberò. Ma che cosa è, in confronto d’una vita da schiavi senza un raggio di luce, sotto il tallone degli oppressori, la morte gloriosa d’un combattente che lascia la sua bandiera a nuove generazioni, morendo con la consapevolezza di non sacrificare la vita per gli interessi dei re o degli zar, per gli interessi degli oppressori, bensì per quelli della propria classe? Dobbiamo insegnare ai nostri compagni a vivere fino all’ultimo anelito e a morire per gli interessi della classe lavoratrice, con la fede nell’animo. Ecco, vedete, a che cosa voi siete chiamati.
Noi ben sappiamo contro quali ostacoli e difficoltà urtiamo nella nostra politica. La nostra rivoluzione è una conseguenza diretta della guerra, ma la guerra è una conseguenza del capitalismo e noi, fin da lungo tempo prima della guerra, avevamo già presagito come il colossale incremento degli armamenti e la lotta fra le borghesie dei vari paesi pei profitti e pei mercati avrebbero dovuto terminare con una spaventosa catastrofe.
La borghesia tedesca addossa la colpa alla borghesia inglese questa a quella tedesca, e così tutti si scaricano reciprocamente le responsabilità della sanguinosa guerra, proprio come fanno i pagliacci coi loro giochi nel circo. Noi avevamo presentito l’inevitabilità della guerra, inevitabilità derivante non dalla volontà d’uno o due re e ministri, ma da tutto l’insieme dell’ordinamento capitalistico. Questa guerra è un esempio per l'intero sistema borghese, economico e morale. E per questo, vedete, noi dicevamo al principio del conflitto che esso avrebbe suscitato un terribile movimento rivoluzionario fra le masse lavoratrici di tutti i paesi.
Mi è toccato, durante la guerra, di attraversare molti Stati. Dapprima fui costretto a lasciare l’Austria per non esservi fatto prigioniero, poi fui in Svizzera, paese che trovandosi fra la Germania, l’Austria e la Francia costituisce il punto d’incrocio delle vie di questi tre Stati in conflitto. Poi dovetti trascorrere un paio d’anni circa in Francia e finalmente, allorché gli Stati Uniti d’America entrarono nel conflitto, mi recai colà. Dappertutto ho osservato la medesima cosa, in un primo momento la guerra stordisce le masse lavoratrici, le confonde, le tenta, ma poi le sconvolge, le spinge alla protesta, alla ribellione contro la guerra, contro l’ordinamento che porta ad essa, contro i dominatori.
Perché mai la guerra eccita dapprima lo stimolo patriottico fra le masse lavoratrici? Per questo: perché, malgrado che esistono i partiti socialisti-comunisti esistono ancora dappertutto, milioni di attivi lavoratori che non conoscono alcuna vita spirituale. E qui è proprio la nostra principale disgrazia: nell’esservi ancora milioni di simili lavoratori che vivono automaticamente, automaticamente lavorano, mangiano e dormono, pur avendo appena appena quanto basta per mangiare e dormire lavorando perciò sopra le forze; costoro non pensano ad altro regime di vita che quello. La loro mentalità è così delineata: il loro cervello non sa pensare ad altro, la loro intelligenza, il loro pensiero, la loro coscienza dormono nella maggior parte del tempo e una volta ogni tanto, nei giorni di festa, bevono un po’ di grappa!
No, o compagni, tutto ciò non è affatto ridicolo. È questo il tragico destino di molti e molti milioni di lavoratori, tormentati, condannati a una simile vita dal sistema capitalistico; che sia maledetto dal momento che danna i lavoratori a una così mostruosa vita!
Ma viene la guerra. Il popolo è mobilitato, esce sulle vie, indossa la divisa, militare. Gli vien detto “Noi marciamo contro il nemico; vinceremo e allora tutto cambierà”. E così nascono le speranze. Gli uomini abbandonano l’aratro e il tornio. In tempo di pace non avrebbero certo pensato a niente, come bestie da soma; ma ora si propone loro un nuovo compito; essi si vedono d’attorno centinaia di migliaia di soldati, tutti sono eccitati, la musica militare suona, si promettono grandi vittorie e gli uomini sperano che qualche mutamento verrà davvero, qualche cosa di meglio succederà, dato che niente di peggio potrebbe più immaginarsi.
Essi credono che la guerra sia una guerra di liberazione, che porterà delle novità. Anche per questo abbiamo osservato come in tutti i paesi, sul principio, senza eccezione, nel primo periodo della guerra si ha sempre uno slancio di patriottismo. La borghesia si sente più forte perché dice: “Tutto il popolo è con me!”; sotto la bandiera della borghesia marciano i bravi lavoratori dei campi e delle città. Tutto sembra fondersi in un solo sentimento nazionale. Ma poi la guerra compie la sua intima opera; esaurisce la terra, lascia il popolo senza tetto, arricchisce qualche gruppo di masnadieri, speculatori, fornitori militari, conferisce gradi e onori a diplomatici e generali, e le masse lavoratrici si impoveriscono sempre più; e le mogli, le madri, le operaie, si trovano ogni giorno dinanzi all’arduo problema, che si fa sempre più stringente, del come riempire la pentola per sfamare i bambini. E tutto questo provoca fra le masse operaie una colossale rivoluzione.
Dapprima dunque la guerra desta e lusinga false speranze, ma poi, una volta destatele, le fa crollare, sì che la classe lavoratrice si risente e comincia a domandarsi da che cosa derivi tutto ciò e che cosa significhi. Ma la borghesia non è stupida - non si può negarlo - essa ha già preveduto, fin dal principio della guerra, il pericolo e perciò ha sempre contenuto, finché le è stato possibile, la rivoluzione, con l'aiuto dei suoi zelanti generali.
Così avvenne in Europa, dopo la guerra franco-prussiana. Ma già nel primo periodo dell’attuale guerra, allorché sembrava che il patriottismo invadesse tutti gli animi, proprio nel tempo in cui io mi trovavo a Parigi, parlando con uomini politici della borghesia, sentii dire, qua e là, da essi stessi che il risultato di questa guerra sarebbe stato la grande rivoluzione. Costoro, questi uomini politici borghesi, confidando evidentemente di trovarsi pronti a tale evento. Se leggiamo i giornali e le riviste borghesi dei mesi di agosto e settembre o ottobre 1914, cioè del primo anno di guerra, per esempio, quel giornale inglese che si chiama “Economist”, vediamo che già, fin da allora, si prevede che il risultato finale della guerra in tutti i paesi che vi sono coinvolti, sarà il movimento socialista rivoluzionario. Si era ben compreso fin da allora l'ineluttabilità di tutto ciò e ben a ragione; allo stesso modo come avevamo ragione noi quando dicevamo che questa guerra avrebbe inevitabilmente portato la Russia alla rivoluzione e che questa rivoluzione, se potrà esser compiuta fino alla fine, porterà al potere le classi lavoratrici. (…)
Ed ora noi stiamo formando l'esercito rosso degli operai e dei contadini.
Nel Comitato esecutivo centrale dei deputati degli operai e dei soldati e dei cosacchi è già stata approvata la legge sul servizio militare obbligatorio universale. Secondo questa legge ogni cittadino, nel corso di un determinato numero di settimane per ogni anno (sei od otto settimane, per un’ora al giorno), è obbligato a compiere l’istruzione militare sotto la guida di appositi istruttori.
Una questione ci si presenta, o compagni: dobbiamo noi estendere l'obbligo militare anche alle donne?
Facciamo una prova in questo senso: nel progetto di legge è detto che le donne possono compiere l’istruzione militare, come gli uomini, con gli stessi sistemi e con gli stessi principi, qualora lo desiderano. Ma, se una donna avrà compiuto la stessa preparazione degli uomini, con gli stessi sistemi e con gli stessi principi, allora, in caso di pericolo della Repubblica dei consigli, essa sarà obbligata a impugnare le armi, come l’uomo, quando il Governo dei Consigli la chiami.
Voi sapete, o compagni, che noi stiamo formando i quadri dell'esercito rosso. Essi non sono numerosi: non rappresentano, per così dire, che l’ossatura dell'esercito. Ma l’esercito attuale non è costituito da quelle migliaia e migliaia di soldati che ci sono e che hanno bisogno di disciplina e istruzione, bensì da tutto il popolo dei lavoratori dalle innumerevoli riserve di operai istruiti delle città e delle fabbriche e dai contadini della campagna. E qualora, un nuovo pericolo ci minacci da parte della controrivoluzione o di un tentativo degli imperialisti, allora questa ossatura deve di colpo rivestirsi di carne e di sangue, deve cioè completarsi con le riserve dei lavoratori evoluti delle fabbriche e dei contadini dei campi. Per questo, se noi da una parte istituiamo l’esercito rosso, dall’altra insegniamo a tutti gli operai e a tutti i contadini a non trascurare la preparazione generale alle armi.
Sul principio questa deve compiersi con circospezione: non vogliamo armare la borghesia. Alla borghesia, agli sfruttatori che non si rassegnano a rinunciare ai loro diritti e privilegi, non vogliamo dar in mano alcun’arma. Noi diciamo: “Il dovere di ogni cittadino nello stato, di ognuno senza eccezione, è di difendere il paese ogni qualvolta esso sia minacciato da un pericolo. Parlo del paese in cui governa l’onorata classe dei lavoratori, che non desidera nulla di straniero”.
Ma la nostra borghesia non ha ancora rinunciato ai suoi diritti e al suo potere: la borghesia non è ancor disposta a dar tutto alla comunità. E così essa si agita, combatte, dirama i suoi agenti - i menscevichi, e i “socialisti rivoluzionari di destra” - per propugnare l’Assemblea costituente. E così, finché la borghesia non avrà rinunciato alle sue pretese, al potere statale e al dominio del paese, finché non avrà compreso che noi abbiamo abbattuto, annientato una volta per sempre lo spirito borghese, noi non daremo loro nelle mani alcun'arma. Ma stabiliremo anche che la borghesia, che non vuole muovere con noi all’assalto, debba scavare le trincee o compiere altri lavori.
Compagni, noi non dobbiamo ripetere gli errori delle precedenti rivoluzioni. Oggi si nota come la classe lavoratrice sia troppo conciliativa e troppo facilmente dimentichi la potenza della nobiltà, che per secoli l'ha tenuta schiava, l’ha derubata, l’ha spogliata e angariata. Tutto questo troppo facilmente dimentica la classe lavoratrice, incline a generosità e debolezza. (…)
Per istruire l’esercito rosso noi ci serviamo degli antichi generali; ma va da sé che noi scegliamo soltanto quelli che ci convengono e di cui possiamo fidarci.
Tutti ci dicono: “E perché dunque chiamate i generali? Non è pericoloso ciò?” Noi rispondiamo: “Senza dubbio, tutto al mondo ha il suo lato pericoloso. Ma noi abbiamo bisogno di istruttori che conoscano l’arte militare. Noi diciamo ai signori generali: “Ecco il nuovo padrone del paese: la classe lavoratrice. Essa ha bisogno di istruttori per preparare militarmente i lavoratori alla lotta contro la borghesia”
Nei primi tempi i generali erano fuggiti, si erano nascosti nelle fessure, come le tignole, nella speranza che Dio avrebbe forse in qualche modo mutato le cose: il potere dei Consigli, pensavano, durerà una o due settimane e poi precipiterà ed essi, i generali, potranno tornare al loro posto. E i generali si trascinarono dietro alla borghesia che pensava parimenti che la classe lavoratrice, avuto in mano il potere, non l’avrebbe conservato più d’un paio di settimane.
Ed ora vediamo che i sabotatori di ieri, a poco a poco, come tignole, escono fuori dai loro nascondigli, movendo qua e là le loro antenne per tastare il terreno: non si potrebbe, dopo tutto, andar d’accordo coi nuovi padroni?
E noi diciamo: “Siate i benvenuti, signori ingegneri, noi vi invitiamo nelle fabbriche; insegnate agli operai a farle funzionare. Gli operai non ci riescono bene da soli; aiutateli, mettetevi al loro soldo, fate servizio al loro fianco. Finora siete stati al servizio della borghesia: fate adesso servizio alla classe lavoratrice”.
E ai generali diciamo: “Voi avete appreso l’arte militare e l’avete appresa bene, avete studiato all'Accademia di guerra. È una scienza evoluta, una disciplina complessa, specialmente presso i Tedeschi, che sanno in modo straordinario mettere in opera le più grandi macchine per l’assassinio e per la distruzione. E noi dobbiamo imparare; ma per imparare ci occorrono specialisti; signori ex-generali ed ex-ufficiali: noi vi offriamo un posto!”
Ci si obbietta che ciò è pericoloso e può esser causa di controrivoluzioni. Io non so; fors’anche è possibile che qualcuno di costoro lo tenti, ma c’è un proverbio che dice: “Non si può trascurare il necessario per timore di un pericolo possibile".
Dal momento che noi pensiamo di formare un esercito, non possiamo, per raggiungere questo fine, fare a meno di persone competenti. Proviamo dunque ad ammettere al nostro servizio gli antichi generali. Se essi serviranno fedelmente, sarà loro garantita la nostra protezione. Molti di essi, molti generali - io stesso ho parlato con loro - hanno compreso che ora è uno spirito nuovo quello che domina il paese, che adesso tutti coloro che vogliono proteggere, difendere e riordinare la Russia, devono servire fedelmente le classi lavoratrici. Io ho conosciuto molti uomini nella mia vita e credo di saper distinguere un uomo che parla con sincerità da un disonesto. Alcuni di questi generali dicevano, con piena lealtà, di aver compreso come le classi lavoratrici debbano costituirsi una forza armata e di voler sinceramente prestarsi a questo fine. Ma, per coloro che volessero servirsi dell’armamento per una congiura controrivoluzionaria, vi saranno speciali provvedimenti da prendere. Essi sanno benissimo che noi teniamo gli occhi aperti su tutto e, qualora volessero stornare l’organizzazione dell’esercito rosso dagli operai e dai contadini per farla servire ai fini della borghesia, noi sapremmo ben far sentir loro il nostro pugno di ferro e ricordar loro le giornate di ottobre. Essi possono ben cacciarsi in mente che, di fronte a un tradimento noi saremmo inesorabili contro di essi, come contro chiunque volesse volger contro di noi la nostra organizzazione. (...) Compagni, i lavoratori di tutti i paesi volgono a noi gli occhi pieni di speranza e di ansia, chiedendoci se anche noi non precipiteremo e macchieremo la bandiera rossa della nostra classe. Quando la controrivoluzione e la nostra disorganizzazione ci avessero abbattuti, ciò significherebbe che le speranze di tutte le classi lavoratrici degli altri paesi sarebbero perdute e la borghesia potrebbe dir loro: “Vedete come la classe proletaria russa era salita in alto e come invece ora è nuovamente precipitata e giace al suolo crocifissa e annientata?”
Per questo, o compagni, noi dobbiamo difendere la nostra posizione con raddoppiata e triplicata energia e combattere con centuplicato eroismo perché ora non siamo solo i campioni della libertà per noi stessi, ma abbiamo in nostra mano i sogni dell’umanità per la liberazione del mondo. Contro di noi sta la borghesia di tutti i paesi. Con noi sono le speranze della classe lavoratrice.
Rafforziamoci sempre più, o compagni, stringiamoci l’un l’altro le mani per combattere fino alla fine, fino alla piena vittoria pel dominio della nostra classe e quando i lavoratori d’Europa ci chiameranno, allora correremo in loro aiuto, tutti, fino all’ultimo uomo, coi fucili in mano e con bandiere rosse, moveremo loro incontro in nome della fratellanza di tutti i popoli della terra, in nome del socialismo.
Leone D. Trotzky (1918)
 

71 – Come organizzare l’emulazione? (Nicolaj Lenin)

Gli scrittori borghesi hanno imbrattato e imbrattano montagne di carta inneggiando alla concorrenza, alla iniziativa privata e ad altre magnifiche prodezze e bellezze dei capitalisti e del regime capitalistico. Si rimprovera ai socialisti di non voler comprendere l’importanza della “natura dell'uomo”. Ma in realtà, il capitalismo ha da lungo tempo sostituito alla piccola produzione mercantile indipendente, dove la concorrenza poteva sviluppare in proporzioni più o meno larghe l’intraprendenza, l’energia, la iniziativa audace, la grande e grandissima produzione industriale, le società per azioni, i sindacati e altri monopoli. La concorrenza, sotto siffatto capitalismo, vuol dire il soffocamento di una ferocia inaudita, dell’intraprendenza, dell’energia, dell’iniziativa audace delle masse della popolazione, della sua immensa maggioranza, del novantanove per cento dei capaci di lavoro; e significa anche sostituire all’emulazione la truffa finanziaria, il dispotismo, il servismo al sommo della scala sociale.
Il socialismo non soltanto non spegne l’emulazione, ma crea bensì per la prima volta la possibilità di applicarla in modo veramente largo, in proporzioni veramente di massa, di fare entrare realmente la maggioranza dei lavoratori nell’arena di una attività in cui possono manifestare, sviluppare effettivamente le loro capacità, rivelare le doti che sono nel popolo - sorgente dalla quale non si è mai attinto e che il capitalismo calpestava, comprimeva, soffocava a migliaia e milioni.
Il nostro compito, ora che un governo socialista è al potere, è di organizzare l’emulazione.
I reggicoda ed i cagnotti della borghesia hanno descritto il socialismo come una caserma grigia, monotona, abbruttente, uniforme. I lacchè del sacco di scudi, servi degli sfruttatori - i signori intellettuali borghesi - hanno fatto del socialismo uno “spauracchio” per il popolo che, precisamente in regime capitalista, è condannato al bagno e alla caserma, a un lavoro estenuante e monotono, a una esistenza semi-affamata, a una profonda miseria. I primi passi verso la liberazione dei lavoratori da questo bagno penale è la confisca delle terre dei proprietari fondiari, l’istituzione del controllo operaio, la nazionalizzazione delle banche. I passi successivi saranno: nazionalizzazione delle fabbriche e delle officine, organizzazione obbligatoria di tutta la popolazione in società di consumo, che saranno al tempo stesso società per la vendita dei prodotti, monopolio di Stato del commercio del grano e degli altri articoli di prima necessità.
Oggi soltanto appare la possibilità di manifestare ampiamente, con un’estensione veramente di massa, l’intraprendenza, l’emulazione e l’iniziativa audace. Ogni fabbrica dalla quale il capitalista è stato cacciato o per lo meno domato da un vero controllo operaio, ogni villaggio dal quale è stato sloggiato il proprietario fondiario sfruttatore, al quale la terra è stata tolta, sono ora, e ora soltanto, un campo d’azione nel quale l’uomo del lavoro può manifestarsi, può raddrizzare un tantino la schiena, tenersi diritto, sentirsi uomo. Dopo secoli di lavoro per altri, di lavoro servile per gli sfruttatori, per la prima volta appare la possibilità di lavorare per sé e di lavorare inoltre approfittando di tutte le conquiste della tecnica e della cultura moderne.
È evidente che questa sostituzione al lavoro servile del lavoro per sé - la più grande che conosca la storia dell’umanità - non può prodursi senza'attriti, difficoltà e conflitti, senza violenza nei confronti dei parassiti inveterati e dei loro reggicoda. Quanto a ciò, nessun operaio si fa delle illusioni a profitto degli sfruttatori, delle innumerevoli vessazioni e ingiurie da parte di questi ultimi, temprati da una dura miseria, gli operai e i contadini poveri sanno che ci vuole del tempo per spezzare la resistenza degli sfruttatori. Gli operai e i contadini non sono per nulla contaminati dalle illusioni sentimentali dei signori intellettuali, di tutti i rammolliti i quali hanno “vociferato” sino alla raucedine contro i capitalisti, “gesticolato”, “tuonato” contro di essi, per poi scoppiare in lagrime e comportarsi come dei cani bastonati il giorno in cui si è trattato di passare agli atti, di mettere in esecuzione le minacce, di mettere in pratica il rovesciamento dei capitalisti.
La grandiosa sostituzione al lavoro servile del lavoro per sé, del lavoro organizzato metodicamente - su scala gigantesca - secondo un piano nazionale (e in una certa misura, anche su scala internazionale, mondiale), esige per di più - oltre ai provvedimenti “militari” di repressione della resistenza dei sfruttatori - immensi sforzi di organizzazione e di iniziativa da parte del proletariato e dei contadini poveri. Il compito organizzativo si intreccia, in un tutto indissolubile, con il compito di reprimere militarmente, in modo implacabile, la resistenza degli schiavisti di ieri (i capitalisti) e della muta dei loro lacchè, i signori intellettuali borghesi. Noi siamo sempre stati gli organizzatori e i capi, noi abbiamo comandato - dicono e pensano gli schiavisti di ieri e i loro commessi reclutati tra gli intellettuali - noi vogliamo rimanere ciò che eravamo, non ci metteremo a dare ascolto al “popolino”, agli operai, ai contadini; non ci sottometteremo ad essi, faremo del nostro sapere un’arma per difendere i privilegi del sacco di scudi e il dominio del capitale sul popolo.
Così parlano, pensano ed agiscono i borghesi e gli intellettuali borghesi. Dal punto di vista dei loro interessi bassamente egoistici, la loro condotta è comprensibile: anche per i cagnotti e i parassiti dei proprietari fondiari feudali, - i preti, gli scribi e i funzionari descritti da Gogol, gli intellettuali che detestavano Bielinski, - fu difficile separarsi dal servaggio. Ma la causa degli sfruttatori e del loro servitorame di intellettuali è una causa disperata. Gli operai e i contadini stanno spezzando la loro resistenza - con una fermezza, una risolutezza e una implacabilità ancora insufficienti, purtroppo - e finiranno con lo spezzarla.
“Questi signori” pensano che il “popolino”, i “semplici” operai e contadini poveri non sapranno adempiere il grande compito - veramente eroico nel senso storico e universale della parola - di carattere organizzativo che la rivoluzione socialista ha imposto ai lavoratori. “Non si può fare a meno di noi”, si dicono a mo’ di consolazione gli intellettuali abituati a servire i capitalisti e lo Stato capitalista. Il loro cinico calcolo sarà sventato: già ora uomini colti si staccano da loro e passano dalla parte del popolo, dalla parte dei lavoratori e li aiutano a spezzare la resistenza dei servi del capitale. Quanto ai contadini e agli operai, molti sono fra loro gli uomini dotati di capacità organizzative, e questi uomini cominciano solo ora a essere coscienti di questa loro capacità a sentirsi attratti verso un lavoro vivo, creativo, grandioso, ad accingersi essi stessi all’edificazione della società socialista.
Uno dei compiti più importanti, se non il più importante, consiste oggi nello sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai, di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati in generale nell’opera del lavoro creativo nel campo dell’organizzazione. Bisogna distruggere ad ogni costo il pregiudizio assurdo, selvaggio, infame, abominevole secondo il quale soltanto le cosiddette classi superiori, soltanto i ricchi e coloro che sono passati per la scuola delle classi ricche possono dirigere lo Stato e l'edificazione organizzativa della società socialista.
Questo è un pregiudizio. Esso viene sostenuto dal consuetudinarismo putrido, fossilizzato, dall’abitudine alla schiavitù e, più ancora, dalla sordida cupidigia dei capitalisti che hanno interesse ad amministrare derubando e a derubare amministrando. No, gli operai non dimenticheranno nemmeno per un istante di aver bisogno della forza del sapere. Lo zelo straordinario che, precisamente ora, gli operai dimostrano nel campo dell’istruzione attesta che da questo lato non vi sono e non vi possono essere errori nel seno del proletariato. Ma il lavoro di organizzazione è anche alla portata di un comune cittadino, operaio o contadino, che sappia leggere e scrivere, conosca gli uomini e sia provvisto di un'esperienza pratica. Simili uomini sono masse nel “popolino”, del quale gli intellettuali parlano in modo altezzoso e con disprezzo. La classe operaia e i contadini posseggono una sorgente ricchissima - sorgente dalla quale non si è mai attinto - di tali uomini dotati di capacità.
Gli operai e i contadini sono ancora “timidi”, non sono abituati all’idea che essi sono ora la classe dirigente, e non sono ancora abbastanza risoluti. La rivoluzione non poteva dare di colpo queste qualità a milioni di uomini che la fame, la miseria avevano costretto tutta la vita a lavorare sotto il bastone. Ma ciò che precisamente fa la forza, la vitalità e l’invincibilità della Rivoluzione d’Ottobre 1917 è che essa suscita queste qualità, abbatte tutte le vecchie barriere, spezza i legami vetusti, fa entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la nuova vita.
Il censimento e il controllo, tale è il principale compito economico di ogni Soviet dei deputati operai, soldati e contadini, di ogni cooperativa di consumo, di ogni unione o comitato di approvvigionamento, di ogni comitato di officina di ogni cooperativa di consumo o organo di controllo operaio in generale.
La lotta contro la vecchia abitudine di considerare la misura del lavoro e i mezzi di produzione dal punto di vista dell’uomo asservito che si domanda: come liberarsi da un carico supplementare, come strappare almeno qualche cosa alla borghesia? - questa lotta è indispensabile. Gli operai d'avanguardia, coscienti, l’hanno già cominciata ed oppongono una vigorosa resistenza ai nuovi venuti nell’ambiente di fabbrica, che sono apparsi numerosi specialmente durante la guerra e che vorrebbero ora considerare la fabbrica appartenente al popolo, diventata proprietà del popolo, come nel passato, dal punto di vista dell’unico pensiero: “Strappare il più grosso boccone e alzare il tacco”. Tutto ciò che vi è di cosciente, di onesto, di pensante tra i contadini e la masse lavoratrici si ergerà in questa lotta a fianco degli operai di avanguardia.
Il censimento e il controllo, se vengono effettuati dai Soviet operai, soldati e contadini, potere supremo dello Stato, oppure attenendosi alle indicazioni, al mandato di questo potere, - censimento e controllo praticato ovunque, generale e universale, censimento della quantità di lavoro e della ripartizione dei prodotti, - costituiscono la essenza stessa della trasformazione socialista, una volta acquistata e assicurata la direzione politica del proletariato.
Il censimento e il controllo, necessari per il passaggio al socialismo, possono essere soltanto opera delle masse. Soltanto la collaborazione volontaria e cosciente delle masse degli operai e contadini, compiuta con entusiasmo rivoluzionario, nel censimento e nel controllo dei ricchi, dei furfanti, dei parassiti, dei teppisti può vincere queste sopravvivenze della maledetta società capitalistica, questi rifiuti dell’umanità, queste membra incancrenite e putrescenti della società, questo contagio, questa peste, questa piaga che il capitalismo ha lasciato in eredità al socialismo.
Operai e contadini, lavoratori e sfruttati! La terra, le banche, le fabbriche e le officine sono diventate proprietà del popolo! Accingetevi voi stessi al censimento e al controllo della produzione e della distribuzione dei prodotti, questa e soltanto questa è la strada che porta alla vittoria del socialismo, è il pegno della sua vittoria, il pegno della vittoria su qualsiasi sfruttamento, su qualsiasi indigenza e miseria. Poiché in Russia vi è abbastanza grano, ferro, legna, lana, cotone e lino per tutti, purché il lavoro e i prodotti siano ben distribuiti, purché il controllo sia ben organizzato dal popolo intiero, un controllo efficace, pratico di questa ripartizione, purché siano abbattuti, non soltanto in politica, ma anche nella vita economica di tutti i giorni, i nemici del popolo: i ricchi, i loro reggicoda; poi i furfanti, i parassiti e i teppisti. (…)
La Comune di Parigi ha fornito un grand’esempio d’iniziativa, d’indipendenza, di libertà di movimento, di dispiegamento di energia che partono dalla base, combinati con un centralismo volontario, estraneo a qualsivoglia stampo. I nostri Soviet seguono la stessa strada. Ma sono ancora “timidi”, non hanno ancora preso lo slancio, non sono “entrati a fondo” nel nuovo, grande, fecondo lavoro di creazione di un regime socialista. È necessario che tutte le “comuni” - qualsiasi fabbrica, villaggio, società cooperativa di consumo, comitato di approvvigionamento - entrino fra di loro in emulazione, come organizzatori, pratici del censimento e del controllo del lavoro e della ripartizione dei prodotti. Il programma di questo censimento e di questo controllo è semplice, chiaro, comprensibile per tutti: che tutti abbiano del pane, portino delle scarpe solide e dei vestiti in buono stato, abbiano un alloggio caldo, lavorino coscienziosamente; che nemmeno un furfante (compresi gli scansafatiche) sia lasciato in libertà invece di essere rinchiuso in prigione, o di scontare la pena a un duro lavoro; che nemmeno un ricco il quale contravviene alle regole e alle leggi del socialismo possa evitare la sorte del furfante, sorte che giustizia vuole egli debba condividere. (…)
Migliaia di forme e di procedimenti pratici di censimento e di controllo sui ricchi, sui furfanti e sui parassiti debbono essere elaborati e provati al fuoco della pratica dalle comuni stesse, dalle piccole cellule nella campagna e nella città. La varietà è qui una garanzia di vitalità, il pegno del successo nel raggiungimento dell’obiettivo comune e unico: ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi, ecc., ecc.
In un luogo si metterà in carcere una decina di ricchi, una dozzina di furfanti, una mezza dozzina di operai scansafatiche (teppisti scansafatiche, come molti tipografi di Pietrogrado, soprattutto nelle tipografie di partito). In un altro luogo si faranno pulir loro le latrine. In un altro ancora verrà escogitata una combinazione di diversi procedimenti, ad esempio, la liberazione condizionale per ottenere che gli elementi correggibili tra i ricchi, gli intellettuali borghesi, i furfanti e i teppisti si emendino rapidamente. Più vi sarà varietà, tanto meglio, tanto più ricca sarà l’esperienza generale, tanto più sicuro e immediato sarà il trionfo del socialismo, tanto più facilmente la pratica elaborerà - poiché essa solo può farlo - i migliori modi e mezzi di lotta.
In quale comune, in quale quartiere di una grande città, in quale fabbrica, in quale villaggio non vi sono affamati, non vi sono disoccupati, non vi sono ricchi parassiti, non vi sono canaglie, lacchè della borghesia, sabotatori che si dicono intellettuali? Dove è stato fatto di più per aumentare la produttività del lavoro, per costruire case nuove e buone per i poveri, per alloggiarli nelle case dei ricchi? Per distribuire effettivamente una bottiglia di latte ad ogni bambino di famiglia povera?
Ecco, attorno a quali questioni si deve svolgere l’emulazione delle comuni, delle comunità, delle società, e delle associazioni di consumo e di produzione, dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini. È in questo campo di attività che debbono praticamente essere distinti e chiamati a funzioni amministrative gli organizzatori capaci. Essi sono numerosi fra il popolo. Ma sono soffocati. Bisogna aiutarli a farsi valere. Essi, e soltanto essi, sostenuti dalle masse, potranno salvare la Russia e salvare la causa del socialismo.
N. Lenin (1918)

72 - La IIIª Internazionale e il suo posto nella storia (Nicolaj Lenin)

Gli imperialisti dei paesi dell’Intesa bloccano la Russia, mirano a isolare la Repubblica sovietica, come un focolaio d’infezione, dal mondo capitalista. Questa gente che si gloria della “democrazia” delle sue istituzioni, è talmente accecata dall’odio contro la Repubblica Sovietica che non si accorge nemmeno di rendersi ridicola essa stessa. Pensate: i paesi più avanzati, più civili e più “democratici”, armati fino ai denti e che, dal punto di vista militare, dominano, soli, su tutta la terra, temono come il fuoco il contagio ideologico proveniente da un paese in rovina, affamato, arretrato e, secondo le loro affermazioni, perfino semiselvaggio!
Questa sola contraddizione apre gli occhi alle masse lavoratrici di tutti i paesi e contribuisce a smascherare l’ipocrisia degli imperialisti Clemenceau, Lloyd George, Wilson e dei loro governi.
Ma non ci aiuta soltanto il cieco odio dei capitalisti contro i Soviet; ci aiutano anche i loro litigi, che li spingono a darsi reciprocamente lo sgambetto. I capitalisti, che temono più di ogni altra cosa la diffusione di informazioni veridiche sulla Repubblica sovietica in generale e, in particolare, la diffusione dei suoi documenti ufficiali, hanno stretto fra loro una vera e propria congiura del silenzio. Ciononostante, l’organo principale della borghesia francese, “Le Temps”, ha pubblicato un’informazione sulla fondazione a Mosca della III Internazionale, dell’Internazionale comunista.
Per questa pubblicazione, noi presentiamo all’organo principale della borghesia francese, a questo capo dello sciovinismo e dell’imperialismo francese, i nostri più rispettosi ringraziamenti. Siamo pronti a inviare al "Temps” un messaggio solenne, come espressione della nostra riconoscenza per l’aiuto, così proficuo e intelligente, che esso ci dà.
Dal modo come il “Temps” ha redatto la sua informazione in base al nostro radiogramma, si scorge con la più grande chiarezza, quali sono i motivi che hanno ispirato questo organo del sacco di scudi. Esso voleva punzecchiare Wilson, pungerlo: guardate con che razza di gente voi consentite a trattare! Questi sapientissimi che scrivono per eseguire l’ordinazione del sacco di scudi, non si accorgono che il loro tentativo di servirsi dei bolscevichi per spaventare Wilson si trasforma, davanti alle masse lavoratrici, in una pubblicità per i bolscevichi. Ancora una volta: i nostri più rispettosi ringraziamenti all’organo dei milionari francesi!
La fondazione della III Internazionale è avvenuta in una situazione mondiale tale che nessuna proibizione, nessuna piccola e misera astuzia degli imperialisti della “Intesa” o dei servi del capitalismo, come gli Scheidemann in Germania, i Renner in Austria, riesce ad impedire che la notizia della nascita di questa Internazionale e la simpatia per essa si diffondano tra la classe operaia del mondo intero. Questa situazione è stata creata dalla rivoluzione proletaria, che si sviluppa manifestamente dappertutto, non giorno per giorno, ma ora per ora. Questa situazione è stata creata dal movimento sovietico tra le masse lavoratrici, il quale ha già acquistato una tal forza che è diventato effettivamente “internazionale”.
La I Internazionale (1864-1872) aveva gettato le fondamenta dell’organizzazione internazionale del movimento proletario per la preparazione del loro assalto rivoluzionario contro il capitale. La II Internazionale (1889-1914) è stata l’organizzazione internazionale del movimento operaio che si sviluppava in estensione, non senza un temporaneo rafforzamento dell’opportunismo che ha condotto, in fin dei conti, al vergognoso fallimento di questa Internazionale.
La III Internazionale è stata creata di fatto nel 1918, quando il processo di molti anni di lotta contro l'opportunismo e contro il social sciovinismo, particolarmente durante la guerra, ha condotto alla formazione dei partiti comunisti in un buon numero di nazioni. Formalmente la III Internazionale è stata fondata al suo primo Congresso, nel marzo 1919, a Mosca. E il tratto più caratteristico di questa Internazionale, la sua missione, - applicare, tradurre in pratica i comandamenti del marxismo e attuare i secolari ideali del socialismo e del movimento operaio, - questo tratto eminentemente caratteristico della III Internazionale si è subito rivelato nel fatto che la nuova, la terza “Associazione internazionale degli operai” già oggi incomincia a coincidere, in una certa misura, con l’unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
La I Internazionale gettò le fondamenta della lotta proletaria internazionale per il socialismo.
La II Internazionale è stata l'epoca della preparazione del terreno per una diffusione larga, di massa, del movimento in un buon numero di paesi.
La III Internazionale ha assimilato i frutti dell’attività della II Internazionale, ne ha amputato il marciume opportunista, social sciovinista, borghese e piccolo-borghese e ha incominciato ad attuare la dittatura del proletariato.
L’unione internazionale dei partiti che dirigono il movimento più rivoluzionario del mondo, il movimento del proletariato per l’abbattimento del giogo del capitale, ha oggi un fondamento solido come nessun altro mai: alcune Repubbliche sovietiche, le quali incarnano, internazionalmente, la dittatura del proletariato, la sua vittoria sul capitalismo.
L’importanza storica mondiale della III Internazionale, dell’Internazionale Comunista, sta nell'aver essa incominciato a tradurre in pratica la più grande parola d’ordine di Marx, la parola d’ordine che riassume il secolare sviluppo del socialismo e del movimento operaio, la parola d’ordine che si esprime nel concetto: dittatura del proletariato.
Questa geniale previsione, questa geniale teoria diventa realtà.
Oggi, queste parole latine sono tradotte in tutte le lingue nazionali dell’Europa moderna, anzi, in tutte le lingue del mondo.
È incominciata una nuova epoca della storia mondiale.
Il genere umano si libera dell’ultima forma di schiavitù: della schiavitù capitalistica o schiavitù salariata.
Liberandosi dalla schiavitù, il genere umano passa per la prima volta alla libertà effettiva.
Come è potuto accadere che il primo paese il quale ha attuato la dittatura del proletariato, organizzato una Repubblica sovietica, fosse uno dei paesi europei più arretrati? Non sbaglieremo dicendo che appunto questa contraddizione tra l’arretratezza della Russia e il suo “salto” oltre la democrazia borghese, verso la forma più alta della democrazia, la democrazia sovietica o la democrazia proletaria, appunto questa contraddizione (oltre la schiavitù delle abitudini opportuniste e dei pregiudizi filistei che pesano sulla maggioranza dei capi del socialismo), è stata una delle ragioni che hanno ostacolato o rallentato in modo particolare la comprensione della funzione dei Soviet nell'Europa occidentale.
Le masse operaie hanno afferrato per istinto, in tutto il mondo, il significato dei Soviet, come strumenti per la lotta del proletariato e come forma dello Stato proletario. Ma i “capi” corrotti dall’opportunismo continuavano e continuano ad adorare la democrazia borghese, chiamandola “democrazia” in generale.
C’è forse da stupirsi se l’attuazione della dittatura del proletariato ha mostrato prima di tutto la contraddizione tra l’arretratezza della Russia e il suo salto oltre la democrazia borghese? Ci sarebbe invece da stupirsi se nuova forma di democrazia ci fosse regalata dalla storia senza una serie di contraddizioni.
Qualunque marxista anzi chiunque conosce la scienza moderna in generale, se gli vien posto il quesito: “È probabile che il passaggio dei diversi paesi capitalistici alla dittatura del proletariato avvenga in modo uniforme, cioè armonicamente proporzionato?” - darà indubbiamente una risposta negativa. Nel mondo capitalistico non vi sono mai state e non potevano esservi né uniformità né armonia né proporzione. Ogni paese sviluppava con particolare rilievo ora uno ora un altro lato o carattere o gruppo di particolarità del capitalismo e del movimento operaio. Il processo di sviluppo avveniva in modo ineguale.
Quando la Francia fece la sua Grande Rivoluzione borghese svegliando a nuova vita storica tutto il continente europeo, l’Inghilterra si trovò alla testa della coalizione controrivoluzionaria, pur essendo nello stesso tempo molto più sviluppata della Francia dal punto di vista capitalistico. E il mondo operaio inglese di quel tempo anticipava genialmente parecchi aspetti del futuro marxismo.
Quando l’Inghilterra diede al mondo il primo vasto movimento proletario rivoluzionario, un effettivo movimento di massa, politicamente definito, il cartismo, sul continente europeo avvennero - nella maggior parte dei casi – delle deboli rivoluzioni borghesi e in Francia si accese la prima grande guerra civile tra il proletariato e la borghesia. La borghesia sconfisse ad uno ad uno i vari reparti nazionali del proletariato, e in vari modi nei diversi paesi.
L'Inghilterra fornì il modello di un paese nel quale, secondo l’espressione di Engels, la borghesia, accanto alla aristocrazia imborghesita, ha creato uno strato superiore del proletariato più imborghesito. Un paese capitalistico progredito si è dimostrato in ritardo di alcuni decenni dal punto di vista della lotta rivoluzionaria del proletariato. La Francia si direbbe che abbia esaurite le forze del proletariato nelle due eroiche insurrezione della classe operaia contro la borghesia, nel 1848 e nel 1871, le quali diedero un contributo straordinariamente grande dal punto di vista storico mondiale. In seguito, dal decennio 1870-1880, l'egemonia dell’Internazionale del movimento operaio passò alla Germania, la quale, allora, era economicamente in ritardo rispetto all’Inghilterra e alla Francia. E quando la Germania sorpassò nel campo economico entrambi questi due paesi, e cioè all’inizio del secondo decennio del secolo ventesimo, alla testa del partito operaio marxista della Germania, che serviva di modello in tutto il mondo, si trovò un gruppo di perfetti mascalzoni, formato dalle più luride canaglie vendute ai capitalisti - da Scheidemann e Noske a David e Legien, - dai più ripugnanti carnefici provenienti dalle file operaie e passati al servizio della monarchia e della borghesia controrivoluzionaria.
La storia mondiale procede inflessibilmente verso la dittatura del proletariato, ma segue delle vie tutt’altro che piane, facili, diritte.
Quando Carlo Kautsky era ancora un marxista, e non quel rinnegato del marxismo che egli è divenuto nella sua qualità di propugnatore dell’unità con gli Scheidemann e della democrazia borghese contro la democrazia sovietica e proletaria, al principio del sec. XX scrisse un articolo: “Gli slavi e la rivoluzione”. In questo articolo egli esponeva le condizioni storiche che facevano prevedere la possibilità del passaggio agli slavi dell’egemonia nel movimento rivoluzionario internazionale.
Così è avvenuto. Per un certo tempo - soltanto per un breve periodo di tempo, è ovvio – l’egemonia nell’internazionale rivoluzionaria proletaria è passata ai russi, come in diversi periodi del secolo decimonono era stata degli inglesi, poi dei francesi e in seguito dei tedeschi.
Ho già avuto più volte l’occasione di dire: per i russi, in confronto ai paesi più avanzati, è stato più facile iniziare la grande rivoluzione proletaria; ma sarà per essi più difficile il continuarla e il condurla fino alla vittoria definitiva, nel senso della completa organizzazione della società socialista. Per noi è stato più facile incominciare, innanzi tutto perché l’arretratezza politica eccezionale - eccezionale per l’Europa del secolo ventesimo - della monarchia zarista ha dato una forza straordinaria all’assalto rivoluzionario delle masse. In secondo luogo, l’arretratezza della Russia ha fuso in modo originale la rivoluzione proletaria contro la borghesia con la rivoluzione dei contadini contro i proprietari fondiari. Nell’ottobre 1917 noi abbiamo incominciato da questo, e non avremmo vinto allora così facilmente se non avessimo incominciato da questo. Fin dal 1856, a proposito della Prussia, Marx rilevava la possibilità di una combinazione originale della rivoluzione proletaria con la guerra dei contadini. I bolscevichi, dall’inizio del 1905, difesero l’idea della dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. In terzo luogo, la rivoluzione del 1905 contribuì immensamente all’educazione politica delle masse degli operai e dei contadini, tanto nel senso della conoscenza dell’”ultima parola” del socialismo occidentale da parte della loro avanguardia, quanto nel senso dell’azione rivoluzionaria delle masse. Senza una “prova generale” come quella del 1905, le rivoluzioni nel 1917, - la rivoluzione borghese di febbraio come la rivoluzione borghese di ottobre, - non sarebbero state possibili. In quarto luogo, le condizioni geografiche della Russia le permettevano di resistere più a lungo degli altri paesi contro la preponderanza esterna dei paesi capitalistici avanzati. In quinto luogo, l'atteggiamento originale del proletariato verso i contadini facilitava il passaggio dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista, favoriva l’influenza dei proletari della città sugli strati semiproletari, sugli strati poveri dei lavoratori della campagna. In sesto luogo, la lunga scuola di lotta mediante gli scioperi e l’esperienza del movimento operaio di massa europeo, in una situazione profondamente rivoluzionaria che si aggravava con rapidità, hanno facilitato la nascita di una norma di organizzazione proletaria rivoluzionaria originale come i Soviet.
Questo elenco, si capisce, non è completo. Ma per ora possiamo limitarci a questo.
La democrazia sovietica o proletaria è nata in Russia. Rispetto alla Comune di Parigi, si è fatto un secondo passo di importanza storica mondiale. La Repubblica sovietica proletaria e contadina è la prima salda repubblica socialista del mondo. Come “nuovo tipo di Stato” essa non può più morire. Oggi essa non è più sola.
Per continuare il lavoro della costruzione del socialismo e per condurlo a termine, ci vuole ancora moltissimo. Le repubbliche sovietiche nei paesi più civili dove il peso e l’influenza del proletariato sono maggiori, hanno tutte le probabilità di sorpassare la Russia quando si metteranno sulla via della dittatura del proletariato.
La fallita II Internazionale si spegne e va in putrefazione ancor prima di morire.
In pratica, essa fa la parte del servitore della borghesia internazionale. È una vera e propria Internazionale gialla. I suoi maggiori capi ideologici, del genere di Kautsky, esaltano la democrazia borghese, chiamandola “democrazia” in generale, oppure, - e questo è ancora più sciocco e più grossolano – “democrazia pura”.
La democrazia borghese ha fatto il suo tempo, come ha fatto il suo tempo anche la II Internazionale, la quale ha svolto un lavoro storicamente necessario e utile quando si trattava della preparazione delle masse operaie nei limiti di questa democrazia borghese.
La più democratica delle repubbliche borghesi non è mai stata altro, e non poteva esser altro, che una macchina del capitale per schiacciare i lavoratori, uno strumento del potere politico del capitale, la dittatura della borghesia. La repubblica democratica borghese prometteva il potere alla maggioranza, ma non ha mai potuto attuarlo finché esisteva la proprietà privata della terra e degli altri mezzi di produzione.
La “libertà” nella repubblica democratica borghese era, di fatto, la libertà per i ricchi. I proletari e i contadini lavoratori potevano e dovevano servirsene al fine di preparare le loro forze per abbattere il capitale, per sorpassare la democrazia borghese; ma, di regola, le masse lavoratrici, sotto il capitalismo, non potevano utilizzare effettivamente la democrazia.
Per la prima volta nel mondo la democrazia sovietica o proletaria ha, di fatto, creato la democrazia per le masse, per i lavoratori, per gli operai e per i piccoli contadini.
Non c'era mai stato al mondo un simile potere statale della maggioranza della popolazione, un potere effettivo di questa maggioranza, come è il potere sovietico.
Esso reprime la “libertà” degli sfruttatori e dei loro accoliti, strappa loro la “libertà” di sfruttare, la “libertà” di arricchirsi sulla fame, la “libertà” di lotta per la restaurazione del potere del capitale, la “libertà” di una intesa con la borghesia straniera contro gli operai e i contadini del loro paese.
Difendano pure i Kautsky una siffatta libertà. Per fare una cosa simile bisogna essere un rinnegato del marxismo, un rinnegato del socialismo.
In nulla il fallimento dei capi ideologici della II Internazionale, come Hilferding e Kautsky, si è espresso tanto chiaramente quanto nella loro completa incapacità di comprendere il significato della democrazia sovietica o proletaria, il rapporto che intercorre tra essa e la comune di Parigi, il suo posto nella storia, la sua necessità come forma della dittatura del proletariato.
Nel n. 74 del giornale “La Libertà “ (“Die Freiheit”), organo della socialdemocrazia tedesca “indipendente” (leggi piccolo-borghese, filistea), l’11 febbraio 1919, è comparso un appello intitolato “Al proletariato rivoluzionario della Germania”.
Questo appello è firmato dalla direzione del partito e da tutto il suo gruppo all’”Assemblea nazionale”, alla “Costituente” tedesca.
Questo appello accusa gli Scheidemann di voler eliminare i Soviet e propone - non si scherza! - di combinare i Soviet con la “Costituente”, di dare ai Soviet certi diritti statali, un certo posto nella Costituzione.
Conciliare, unificare la dittatura della borghesia con la dittatura del proletariato. Come è semplice tutto questo! Che idea genialmente filistea!
Peccato che essa sia già stata sperimentata in Russia al tempo di Kerenski dai menscevichi e dai “socialisti-rivoluzionari” uniti, questi democratici piccolo-borghesi che immaginano di essere dei socialisti.
Chi, leggendo Marx, non ha capito che nella società capitalistica, in ogni momento grave, in ogni serio conflitto tra le classi, è soltanto possibile o la dittatura della borghesia o la dittatura del proletariato, non ha capito nulla della dottrina economica, né della dottrina politica di Marx.
Ma l’idea genialmente filistea di Hilferding, di Kautsky e consorti, l’idea di una pacifica combinazione della dittatura della borghesia e della dittatura del proletariato, esige un esame speciale se si vuol dar fondo agli assurdi economici e politici accumulati in questo notevolissimo e comicissimo appello dell’11 febbraio. Converrà rinviare questo esame ad un altro articolo.
N. Lenin (Mosca, 15 aprile 1919)
 

73 - Lenin è morto (Iosif Stalin)

Compagni, noi comunisti siamo gente di una fattura particolare. Siamo fatti di una materia speciale. Siamo coloro che formano l’esercito del grande stratega proletario, l’esercito del compagno Lenin. Nulla è più elevato dell’onore di appartenere a questo esercito. Nulla è più elevato dell’appellativo di membro del partito che è stato fondato e diretto dal compagno Lenin. Non ha tutti è dato esser membri di un tale partito. Non a tutti è dato sopportare i rovesci e le tempeste che l'appartenenza a tale partito comporta. I figli della classe operaia, i figli del bisogno e della lotta, i figli delle privazioni inimmaginabili e degli sforzi eroici, - ecco coloro che, innanzi tutto, debbono appartenere a un tale partito. Ecco perché il partito dei leninisti, il partito dei comunisti, si chiama al tempo stesso partito della classe operaia.
Lasciandoci il compagno Lenin ci ha comandato di tener alto e serbar puro il grande appellativo di membro del Partito. Ti giuriamo, compagno Lenin, che noi adempiremo con onore al tuo comandamento!
Per 25 anni Lenin ha educato il nostro partito e ne ha fatto il partito operaio più forte e più temprato del mondo. I colpi dello zarismo e dei suoi sbirri, a rabbia della borghesia e dei proprietari fondiari, gli attacchi armati di Kolciak e di Denikin, gli interventi armati dell’Inghilterra e della Francia, le menzogne e le calunnie della stampa borghese dalle cento bocche - tutti questi scorpioni si sono costantemente scagliati sul nostro partito nel corso di un quarto di secolo. Ma il nostro partito ha resistito, saldo come una roccia, ha respinto gli innumerevoli colpi dei nemici e ha condotto avanti la classe operaia, verso la vittoria. In queste battaglie furibonde, il nostro partito ha forgiato l’unità e la compattezza delle proprie fila. L'unità e la compattezza gli hanno dato la vittoria sui nemici della classe operaia.
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di salvaguardare, come la pupilla dei nostri occhi, l’unità del nostro partito. Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche a questo tuo comandamento!
Grave, insopportabile è la sorte della classe operaia. Penose e gravi le sofferenze dei lavoratori. Schiavi e schiavisti, servi e signori, contadini e proprietari fondiari, operai e capitalisti, oppressi e oppressori, - così attraverso i secoli si fece il mondo, così lo è ancora nella più gran parte dei paesi. Decine e centinaia di volte, nel corso dei secoli, i lavoratori tentarono di rigettare alle loro spalle il giogo degli oppressori e di diventare padroni dei propri destini. Ma ogni volta, sconfitti e avviliti, furono costretti a retrocedere serbando nell’anima l’onta e l’offesa, l’odio e lo scoraggiamento, volgendo gli occhi al cielo ignoto, dove speravano trovare la salvezza. Le catene della schiavitù rimanevano ben salde, oppure le vecchie catene erano sostituite da catene nuove, altrettanto pesanti e avvilenti. Solo nel nostro paese le masse lavoratrici oppresse e schiacciate sono riuscite a rigettare dalle loro spalle il dominio dei latifondisti e dei capitalisti e a instaurare al suo posto il dominio degli operai e dei contadini. Voi sapete compagni, e il mondo intiero oggi lo riconosce, che questa lotta gigantesca è stata guidata da Lenin e dal suo partito. La grandezza di Lenin sta innanzi tutto nel fatto che egli, creando la Repubblica dei Soviet, ha mostrato con ciò praticamente alle masse oppresse del mondo intiero che la speranza della liberazione non è perduta, che il dominio dei capitalisti e dei proprietari fondiari non durerà più a lungo, che il regno del lavoro si deve creare sulla terra e non in cielo. In questo modo egli ha acceso nel cuore degli operai e dei contadini di tutto il mondo la speranza nella liberazione. Così si spiega perché il nome di Lenin è divenuto il nome più amato dalle masse lavoratrici e sfruttate.
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di salvaguardare e rafforzare la dittatura del proletariato. Ti giuriamo, compagno Lenin, che non risparmieremo le nostre forze per adempiere con onore anche questo tuo comandamento!
La dittatura del proletariato è stata creata nel nostro paese sulla base dell’alleanza degli operai e dei contadini. Questa è la base prima ed essenziale della Repubblica dei Soviet. Senza questa alleanza, gli operai e i contadini non avrebbero potuto vincere i capitalisti e i proprietari fondiari. Gli operai non avrebbero potuto battere i capitalisti senza l’appoggio dei contadini. I contadini non avrebbero potuto battere i proprietari fondiari se non fossero stati diretti dagli operai. Ciò è dimostrato da tutta la storia della guerra civile nel nostro paese. Ma la lotta per il rafforzamento della Repubblica dei Soviet è ben lontana dall’essere terminata: essa ha assunto un’altra forma. Prima la alleanza degli operai e dei contadini aveva la forma di un’alleanza militare, poi che era diretta contro Kolciak e Denikin. Adesso l’alleanza degli operai e dei contadini deve assumere la forma di una collaborazione economica fra la città e la campagna, fra gli operai ed i contadini, poiché è diretta contro il mercante e i kulaki, poiché ha per scopo di rifornire reciprocamente contadini e operai di tutto il necessario. Voi sapete che nessuno ha perseguito con tanta tenacia questo compito come il compagno Lenin.
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di rinsaldare con tutte le forze l’alleanza degli operai e dei contadini. Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo comandamento!
La seconda base della Repubblica dei Soviet è l’unione dei lavoratori delle varie nazionalità del nostro paese. I russi e gli ucraini, i basckiri e i bielorussi, i georgiani e i kirghisi, gli usbechi e i turkmeni, - tutti sono ugualmente interessati al rafforzamento della dittatura del proletariato. Non solo la dittatura del proletariato libera questi popoli dalle catene e dall’oppressione ma, a loro volta, questi popoli con la loro indefettibile devozione alla Repubblica dei Soviet, col loro spirito di sacrificio, salvaguardano la nostra Repubblica dalle trame e dagli attacchi dei nemici della classe operaia. Ecco perché il compagno Lenin ci parlava instancabilmente della necessità di una fraterna collaborazione nel quadro dell’Unione delle Repubbliche.
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di rafforzare e di estendere l’Unione delle Repubbliche. Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo comandamento!
La terza base della dittatura del proletariato è il nostro Esercito Rosso, la nostra Flotta Rossa. Più di una volta Lenin ci ha detto che la tregua strappata agli stati capitalistici poteva essere di breve durata. Più di una volta Lenin ci ha detto che il rafforzamento dell’Esercito Rosso e il suo perfezionamento sono uno dei compiti essenziali del nostro partito. Gli avvenimenti legati all’ultimatum di Curzon e alla crisi in Germania, hanno confermato ancora una volta, che come sempre, Lenin aveva ragione. Giuriamo dunque, compagni, che non risparmieremo le nostre forze per rafforzare il nostro Esercito Rosso e la nostra Flotta Rossa!
Il nostro paese è come una roccia gigantesca, circondata dall’oceano degli stati borghesi. Le onde si infrangono l’una dopo l’altra contro di essa, minacciando di sommergerla e di sgretolarla. Ma la roccia è incrollabile. In che cosa consiste la sua forza? Non solo nel fatto che il nostro paese si appoggia sull’alleanza degli operai e contadini, che esso incarna l’unione delle libere nazionalità, che è difeso dalla mano potente dell’Esercito Rosso e della Flotta Rossa. La forza del nostro paese, il suo vigore, la sua fermezza risiedono nel fatto che essa possiede la profonda simpatia e l'appoggio costante degli operai e contadini dal mondo intiero. Gli operai e i contadini di tutto il mondo vogliono salvaguardare la Repubblica dei Soviet, freccia che è stata lanciata dalla mano sicura del compagno Lenin nel campo dei nemici; baluardo delle loro speranze nella liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento; faro sicuro che addita loro il cammino della liberazione. Essi vogliono salvaguardarla; essi non permetteranno che i proprietari fondiari e i capitalisti la distruggano. In ciò sta la nostra forza. In ciò sta la forza dei lavoratori di tutti i paesi e in ciò sta la debolezza della borghesia di tutto il mondo.
Lenin non considerò mai la Repubblica dei Soviet come fine a se stessa. Egli la considerò sempre come un anello necessario per lo sviluppo del movimento rivoluzionario nei paesi dell’occidente e dell’oriente, come un anello necessario per agevolare la vittoria dei lavoratori del mondo intiero sul capitale. Lenin sapeva che solo questa concezione è giusta, non solo dal punto di vista internazionale, ma anche dal punto di vista della semplice salvaguardia della stessa Repubblica dei Soviet. Lenin sapeva che solo in questo modo è possibile infiammare i cuori dei lavoratori di tutto il mondo per le lotte decisive per la liberazione. Ecco perché Lenin, il capo più geniale fra i capi geniali del proletariato, il giorno dopo l’instaurazione della dittatura del proletariato gettò le fondamenta dell’Internazionale degli operai. Ecco perché egli non si stancava mai di estendere, di rafforzare l’Unione dei lavoratori di tutto il mondo, l’Internazionale comunista.
Avete assistito in questi giorni al pellegrinaggio di decine e centinaia e migliaia di lavoratori al feretro del compagno Lenin. Fra qualche tempo assisterete al pellegrinaggio dei rappresentanti di milioni di lavoratori alla tomba del compagno Lenin. Potete essere certi che, dopo i rappresentanti di milioni di lavoratori, verranno i rappresentanti di decine e centinaia di milioni di uomini, da tutte le parti del mondo, per attestare che Lenin fu il capo non solo del proletariato russo, non solo degli operai europei, non solo dell’oriente coloniale, ma dei lavoratori di tutto il mondo.
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di essere fedeli ai principi dell’Internazionale comunista. Ti giuriamo, compagno Lenin, che non risparmieremo la nostra vita pur di rafforzare e di estendere l’unione dei lavoratori di tutto il mondo, l’Internazionale comunista!
Giuseppe Stalin (1879-1953)
(Discorso pronunciato al II Congresso dei Soviet dell’U.R.S.S. il 26 gennaio 1924)

74 - Da “I principi del leninismo” (Iosif Stalin)

I principi del leninismo: vasto argomento. Occorrerebbe un libro intero per esaurirlo. Anzi, occorrerebbe una serie di libri. È naturale, quindi, che le mie lezioni non potranno essere una esposizione esauriente del leninismo. Nel migliore dei casi, potranno essere soltanto un riassunto conciso dei principi del leninismo. Ciononostante, ritengo utile fare questo riassunto per fissare alcuni punti di partenza fondamentali, indispensabili per uno studio proficuo del leninismo.
Esporre i principi del leninismo non vuole ancora dire esporre i principi della concezione del mondo di Lenin. La concezione del mondo di Lenin ed i principi del leninismo non sono, per l’ampiezza, la stessa cosa. Lenin è un marxista e la base della sua concezione del mondo è naturalmente, il marxismo. Ma, da questo non deriva affatto che una esposizione del leninismo debba partire dalla esposizione dei principi del marxismo. Esporre il leninismo significa esporre ciò che vi è di particolare e di nuovo nell’opera di Lenin, ciò che Lenin ha apportato al tesoro comune del marxismo e che naturalmente è legato al suo nome. Soltanto in questo senso parlerò nelle mie lezioni dei principi del leninismo.
Dunque, che cosa è il leninismo?
Gli uni dicono che il leninismo, è l’applicazione del marxismo alle condizioni originali della situazione russa. In questa definizione vi è una parte di verità, ma essa è ben lontana dal contenere tutta la verità. Lenin ha effettivamente applicato il marxismo alla situazione russa e l’ha applicato in modo magistrale. Ma se il leninismo non fosse che l’applicazione del marxismo alla situazione originale della Russia, sarebbe un fenomeno puramente nazionale e soltanto nazionale, puramente russo e soltanto russo. Invece noi sappiamo che il leninismo è un fenomeno internazionale, che ha le sue radici in tutta l’evoluzione internazionale e non è, quindi, soltanto un fenomeno russo. Ecco perché penso che questa definizione pecchi di unilateralità.
Altri dicono che il leninismo è la rinascita degli elementi rivoluzionari del marxismo del decennio 1840-1850, per distinguerlo dal marxismo degli anni successivi, divenuto, a loro avviso, moderato, non più rivoluzionario. A prescindere dalla sciocca e banale divisione della dottrina di Marx in due parti, una rivoluzionaria e una moderata, bisogna riconoscere che anche questa divisione, del tutto insufficiente e insoddisfacente, contiene una parte di verità. Questa parte di verità, consiste nel fatto che Lenin ha effettivamente risuscitato il contenuto rivoluzionario del marxismo, ch’era stato sotterrato dagli opportunisti della II Internazionale. Ma questa non è che una parte della verità. La verità intera è che il leninismo non solo ha risuscitato il contenuto rivoluzionario dal marxismo, ma ha fatto ancora un passo avanti sviluppando ulteriormente il marxismo nelle nuove condizioni del capitalismo e della lotta di classe del proletariato.
Che cosa è dunque, in ultima analisi il leninismo?
Il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e dalla rivoluzione proletaria. Più esattamente: il leninismo è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria e la tattica della dittatura del proletariato in particolare. Marx ed Engels militarono nel periodo prerivoluzionario (ci riferiamo alla rivoluzione proletaria), quando l’imperialismo non si era ancora sviluppato, nel periodo di preparazione dei proletari alla rivoluzione, nel periodo in cui la rivoluzione proletaria non era ancora diventata una necessità pratica immediata. Lenin invece, discepolo di Marx e di Engels, militò nel periodo di pieno sviluppo dell’imperialismo, nel periodo dello scatenamento della rivoluzione proletaria, quando la rivoluzione proletaria aveva già trionfato in un paese, aveva distrutto la democrazia borghese e aperto l’era della democrazia proletaria, l’era dei Soviet.
Ecco perché il leninismo è lo sviluppo ulteriore del marxismo.
Si mette spesso in rilievo il carattere straordinariamente combattivo, straordinariamente rivoluzionario del leninismo. Ciò è del tutto giusto. Ma questa caratteristica del leninismo si spiega con due motivi: in primo luogo, col fatto che il leninismo è sorto dalla rivoluzione proletaria, e non può non portarne l’impronta; in secondo luogo, col fatto che esso è cresciuto e si è rafforzato nella lotta contro l’opportunismo della II Internazionale, lotta che fu ed è condizione necessaria e preliminare per il successo della lotta contro il capitalismo. Non bisogna dimenticare che fra Marx ed Engels da una parte, e Lenin dall’altra, si stende un intero periodo di dominio incontrastato dell’opportunismo della II Internazionale. La lotta spietata contro l’opportunismo non poteva non essere uno dei compiti più importanti del leninismo.
Il leninismo sorse e si formò nelle condizioni del periodo dell’imperialismo, quando le contraddizioni del capitalismo erano giunte al punto più alto, quando la rivoluzione proletaria era diventata un problema pratico immediato, quando il precedente periodo di preparazione della classe operaia alla rivoluzione si era chiuso, e si era entrati nel nuovo periodo dell’assalto diretto al capitalismo.
Lenin chiamava l’imperialismo “capitalismo morente”. Perché? Perché l’imperialismo porta le contraddizioni del capitalismo all'ultimo termine, ai limiti estremi, oltre i quali comincia la rivoluzione. Di queste contraddizioni, tre devono essere considerate come le più importanti.
La prima contraddizione è la contraddizione tra il lavoro e il capitale. L’imperialismo è l’onnipotenza, nei paesi industriali, dei trust e dei sindacati monopolistici, delle banche e dell’oligarchia finanziaria. Nella lotta contro questa onnipotenza, i metodi abituali della classe operaia – sindacati e cooperative, partiti parlamentari e lotta parlamentare - si sono rivelati assolutamente insufficienti. O abbandonarsi alla mercé del capitale, vegetare all’antica e scendere sempre più in basso, o impugnare una nuova arma: così l’imperialismo pone il problema alle masse innumerevoli del proletariato. L’imperialismo avvicina la classe operaia alla rivoluzione.
La seconda contraddizione è la contraddizione fra i diversi gruppi finanziari e le diverse potenze imperialiste nella loro lotta per le fonti di materie prime e per i territori altrui. L’imperialismo è esportazione di capitale verso le fonti di materie prime, lotta accanita per il possesso esclusivo di queste fonti, lotta per una nuova spartizione del mondo già diviso, lotta che viene condotta con particolare asprezza dai gruppi finanziari nuovi e dalle potenze in cerca di un “posto al sole”, contro i vecchi gruppi e le potenze che non vogliono a nessun costo abbandonare il bottino. Questa lotta accanita tra diversi gruppi di capitalisti è degna di nota perché racchiude in sé, come elemento inevitabile, le guerre imperialiste, le guerre per la conquista di territori altrui. Questa circostanza, a sua volta, è degna di nota perché porta all’indebolimento reciproco degli imperialisti, all’indebolimento delle posizioni del capitalismo in generale, perché avvicina il momento della rivoluzione proletaria, perché rende praticamente necessaria questa rivoluzione.
La terza contraddizione è la contraddizione tra un pugno di nazioni “civili” dominanti e centinaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli coloniali e dipendenti del mondo. L’imperialismo è lo sfruttamento più spudorato, l’oppressione più inumana di centinaia di milioni di abitanti degli immensi paesi coloniali e dipendenti. Spremere dei sopraprofitti: ecco lo scopo di questo sfruttamento e di questa oppressione. Ma per sfruttare questi paesi l’imperialismo è costretto a costruirvi delle ferrovie, delle fabbriche, delle officine, a crearvi dei centri industriali e commerciali. L’apparire di una classe di proletari, il sorgere di uno strato intellettuale indigeno, il risveglio di una coscienza nazionale, il rafforzarsi del movimento per l’indipendenza: tali sono gli effetti inevitabili di questa “politica”. L’incremento del movimento rivoluzionario in tutte le colonie e in tutti i paesi dipendenti, senza eccezione, ne fornisce la prova evidente. Questa circostanza è importante per il proletariato perché mina alle radici le posizioni del capitalismo, trasformando le colonie e i paesi dipendenti da riserve dell’imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria.
Tali sono, in generale, le principali contraddizioni dell’imperialismo che hanno trasformato il “florido” capitalismo di una volta in capitalismo morente.
L’importanza della guerra imperialista, scatenatasi dieci anni fa, consiste, tra l’altro, nel fatto che essa ha raccolto in un sol fascio tutte queste contraddizioni e le ha gettate sul piatto della bilancia, accelerando e facilitando le battaglie rivoluzionarie del proletariato.
L’imperialismo, in altri termini, non solo ha fatto sì che la rivoluzione proletaria è diventata una necessità pratica, ma ha pure creato le condizioni favorevoli per l’assalto diretto alle fortezze del capitalismo.
Tale è la situazione internazionale che ha generato il leninismo.
Tutto ciò va benissimo, si dirà; ma che c’entra la Russia, la quale certo non era e non poteva essere il paese classico dell’imperialismo? Che c'entra Lenin, il quale ha lavorato soprattutto in Russia e per la Russia? Perché mai proprio la Russia è diventata il focolaio del leninismo, la patria della teoria e della pratica della rivoluzione proletaria?
Per il fatto che la Russia era il punto nodale di tutte queste contraddizioni dell’imperialismo.
Per il fatto che la Russia era, più di qualsiasi altro paese, gravida di rivoluzione, e perciò soltanto essa era in grado di risolvere queste contraddizioni per via rivoluzionaria.
Innanzi tutto, la Russia zarista era un focolaio di ogni genere di oppressione, - e capitalistica, e coloniale, e militare, - esercitata nella forma più barbara e più inumana. Chi non sa che in Russia l’onnipotenza del capitale si fondeva col potere dispotico dello zarismo, l’aggressività del nazionalismo russo con la ferocia dello zarismo verso i popoli non russi, lo sfruttamento di intere regioni – della Turchia, della Persia, della Cina - con la conquista di queste regioni da parte dello zarismo, con le guerre volte a conquistarle? Lenin aveva ragione di dire che lo zarismo era un “imperialismo feudale militare”. Lo zarismo concentrava in sé i lati più negativi dell’imperialismo, elevati al quadrato.
E non basta. La Russia era un’immensa riserva dell’imperialismo occidentale non soltanto nel senso che dava libero accesso al capitale straniero - il quale teneva in pugno settori decisivi dell’economia russa, come i combustibili e la metallurgia - ma anche nel senso che poteva mettere al servizio degli imperialisti dell’occidente milioni di soldati. Ricordate l’esercito russo di dodici milioni di uomini, che ha versato il sangue sui fronti della guerra imperialista per assicurare favolosi profitti ai capitalisti anglo-francesi.
Ancora. Lo zarismo non era soltanto il cane da guardia dell’imperialismo nell’Europa orientale. Era anche un’agenzia dell’imperialismo occidentale per estorcere alla popolazione centinaia di milioni per il pagamento degli interessi dei prestiti che gli erano stati concessi a Parigi, a Londra, a Berlino e a Bruxelles.
Infine, lo zarismo era l’alleato più fedele dell’imperialismo occidentale nella spartizione della Turchia, della Persia, della Cina, ecc. Chi non sa che la guerra imperialista è stata condotta dallo zarismo in unione con gli imperialisti dell’Intesa, che la Russia è stata un elemento essenziale di questa guerra? Ecco perché gli interessi dello zarismo e dell’imperialismo occidentale si intrecciavano e si fondevano, in ultima analisi, nell’unico gomitolo degli interessi dell’imperialismo. Poteva l’imperialismo occidentale rassegnarsi alla perdita di un così potente appoggio in oriente e di un così ricco serbatoio di forze e di mezzi, quale era la vecchia Russia zarista e borghese, senza impegnare tutte le propria forze per condurre una lotta a morte contro la rivoluzione in Russia, allo scopo di difendere e conservare lo zarismo? Evidentemente, non poteva!
Ma da questo deriva che chiunque voleva battere lo zarismo, inevitabilmente alzava la mano contro l’imperialismo, chiunque insorgeva contro lo zarismo doveva insorgere anche contro l’imperialismo poiché chi voleva rovesciare lo zarismo doveva abbattere anche l’imperialismo, se voleva realmente non solo vincere lo zarismo, ma debellarlo definitivamente. La rivoluzione contro lo zarismo collegava, perciò, alla rivoluzione contro l’imperialismo e doveva trasformarsi in rivoluzione proletaria.
In Russia si scatenava pertanto la più grande rivoluzione popolare, a capo della quale si trovava il proletariato più rivoluzionario del mondo che disponeva di un alleato dell’importanza dei contadini rivoluzionari della Russia. Vi è bisogno di dimostrare che tale rivoluzione non poteva fermarsi a mezza strada, che in caso di insuccesso essa doveva procedere oltre, innalzando la bandiera dell’insurrezione contro l’imperialismo?
Ecco perché la Russia doveva diventare il punto nodale delle contraddizioni dell’imperialismo, non solo nel senso che queste contraddizioni si rivelavano proprio in Russia più che in ogni altro paese - per il loro carattere particolarmente scandaloso e particolarmente intollerabile - e non solo perché la Russia era il punto di appoggio principale dell’imperialismo d’occidente - costituendo un legame tra capitale finanziario dell’occidente e le colonie dell’oriente - ma anche perché solo in Russia esisteva una forza reale, capace di risolvere le contraddizioni dell’imperialismo per via rivoluzionaria.
Ma da questo deriva che la rivoluzione, in Russia, non poteva non diventare proletaria, che essa non poteva non prendere fin dai primi giorni del suo sviluppo un carattere internazionale, che essa non poteva quindi non scuotere le basi stesse dell'imperialismo mondiale.
Potevano i comunisti russi, in questa situazione, contenere il loro lavoro nel quadro strettamente nazionale della rivoluzione russa? Evidentemente no! Al contrario, tutta la situazione tanto interna (profonda crisi rivoluzionaria), quanto esterna (guerra), li spingeva a uscire, nel corso del loro lavoro, da questo quadro, a trasportare la lotta sull’arena internazionale, a mettere a nudo le piaghe dell’imperialismo, a dimostrare l’ineluttabilità della catastrofe del capitalismo, a battere il social-sciovinismo e il social-pacifismo e, infine, ad abbattere il capitalismo nel proprio paese e a forgiare per il proletariato una nuova arma di lotta: la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria, allo scopo di facilitare ai proletari di tutti i paesi il compito dell’abbattimento del capitalismo. I comunisti russi non potevano, del resto, agire in altro modo, poiché solo seguendo questa via si poteva contare su alcune modificazioni della situazione internazionale, atte a garantire la Russia dalla restaurazione del regime borghese.
Ecco perché la Russia è diventata il focolaio del leninismo, e il capo dei comunisti russi, Lenin, ne è diventato il creatore. Per la Russia e per Lenin “è avvenuto” qualche cosa di simile a quel che, tra il 1840 e il 1850, “era avvenuto” per la Germania, e per Marx ed Engels. Come la Russia al principio del sec. XX, la Germania era gravida allora della rivoluzione borghese. Nel “Manifesto dei comunisti” Marx scriveva allora che:
“Sulla Germania rivolgono i comunisti specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel sec. XVII e la Francia nel sec. XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l'immediato preludio di una rivoluzione proletaria”.
In altri termini, il centro del movimento rivoluzionario si spostava verso la Germania.
Non vi può esser dubbio che appunto questa circostanza, segnalata da Marx nel passo sopra riportato, fu probabilmente la causa per cui appunto la Germania fu la patria del socialismo scientifico ed i capi del proletariato tedesco - Marx ed Engels - ne furono i creatori, all’inizio del sec. XX. La Russia si trovava in questo periodo alla vigilia di una rivoluzione borghese; ma doveva compiere questa rivoluzione quando le condizioni dell’Europa erano più progredite, il proletariato più sviluppato che nel caso della Germania (senza parlare dell’Inghilterra e della Francia) e tutti i dati indicavano che questa rivoluzione sarebbe stata il lievito e il preludio della rivoluzione proletaria. Non si può reputare accidentale il fatto che già nel 1902, quando la rivoluzione russa era soltanto all’inizio, Lenin scrivesse nel suo opuscolo “Che fare?” queste parole profetiche:
“La storia pone oggi a noi (cioè ai marxisti russi - G. Stalin) un compito immediato, il più rivoluzionario di tutti i compiti immediati del proletariato di qualsiasi altro paese”. “L’adempimento di questo compito, la distruzione del baluardo più potente della reazione non soltanto europea, ma anche asiatica, farebbe del proletariato russo l’avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale”.
In altri termini, il centro del movimento rivoluzionario doveva spostarsi verso la Russia.
È noto che il corso della rivoluzione in Russia ha più che confermata questa predizione di Lenin.
C’è dunque da meravigliarsi che un paese, il quale ha fatto una tale rivoluzione ed ha un tale proletariato, sia stato la patria della teoria e della tattica della rivoluzione proletaria?
C’è da meravigliarsi che il capo di questo proletariato, Lenin, sia diventato in pari tempo il creatore di questa teoria e di questa tattica e il capo del proletariato internazionale ?.
G. Stalin (1924)

75 - Deviazioni nel campo della questione nazionale (Iosif Stalin)

Il quadro della lotta contro le deviazioni nel partito sarebbe incompleto se non ci occupassimo delle deviazioni nel campo della questione nazionale, esistenti nel partito. Alludo, prima di tutto, alla deviazione verso lo sciovinismo grande-russo e, in secondo luogo, alla deviazione verso il nazionalismo locale. Queste deviazioni non sono così visibili come le deviazioni di sinistra o di destra. Si potrebbero chiamare deviazioni equivoche. Ma questo non vuol dire che non esistano.
Al contrario, esistono e si sviluppano. Su questo non può esservi dubbio. Non può esservi alcun dubbio, poiché l’atmosfera generale di esasperazione della lotta di classe non può non condurre ad un’esasperazione degli attriti nazionali, che hanno il loro riflesso nel partito, perciò bisogna scoprire e mettere in luce le caratteristiche di queste deviazioni.
In che cosa consiste l’essenza della deviazione verso lo sciovinismo grande-russo nelle nostre attuali condizioni?
L’essenza della deviazione verso lo sciovinismo grande-russo consiste nell’aspirazione a non tener conto delle differenze nazionali di lingua, di cultura, di modo di vivere; nella tendenza a preparare la liquidazione delle repubbliche e delle regioni nazionali; nella tendenza a scalzare il principio dell’uguaglianza delle nazioni e ad abbandonare la politica del partito che si prefigge di dare un carattere nazionale all’apparato, alla stampa, alla scuola e alle altre organizzazioni statali e sociali.
Coloro che cadono in deviazioni di questo tipo partono dal presupposto che dovendo le nazioni, con la vittoria del socialismo, fondersi insieme, e le loro lingue nazionali trasformarsi in una lingua comune, sia venuto il momento di liquidare le differenze nazionali e di rinunciare a una politica che favorisca lo sviluppo della cultura nazionale dei popoli precedentemente oppressi.
Per questo si richiamano a Lenin, citandolo in modo sbagliato e talora addirittura deformandolo e calunniandolo: Lenin diceva che nel socialismo gli interessi delle nazionalità si fondono in un tutto unico; non ne consegue che è ora di finirla con le repubbliche e con le regioni nazionali nell’interesse dell’internazionalismo? Lenin diceva nel 1913, in polemica con i membri del Bund, che la parola d’ordine della cultura nazionale è una parola d'ordine borghese; non ne consegue che è ora di finirla con una politica che tien conto delle particolarità nazionali, dei popoli dell’URSS e di passare ad una politica di assimilazione nell’interesse dell’internazionalismo? E così di seguito.
Non ci può esser dubbio, che questa deviazione nel modo di intendere la questione nazionale (che si copre per giunta con la maschera dell’internazionalismo e col nome di Lenin), sia la forma più raffinata e perciò più pericolosa del nazionalismo grande-russo.
In primo luogo, Lenin non ha mai detto che le differenze nazionali debbano sparire e le lingue nazionali debbano fondersi in una lingua comune nei confini di uno Stato, prima della vittoria del socialismo su scala mondiale. Lenin, al contrario diceva qualche cosa, di addirittura opposto e precisamente che “le differenze nazionali e statali tra i popoli e i paesi... si manterranno ancora molto e molto a lungo anche dopo l’attuazione della dittatura del proletariato su scala mondiale”. Come è possibile richiamarsi a Lenin dimenticando questa sua indicazione fondamentale?
È vero che un marxista, oggi rinnegato e riformista, il signor Kautsky, afferma qualche cosa del tutto opposto a quello che ci insegna Lenin. Egli afferma, in contrasto con Lenin, che una vittoria della rivoluzione proletaria nello Stato unificato austro-tedesco a metà del secolo scorso avrebbe condotto alla formazione di una lingua tedesca comune e alla germanizzazione dei ceki poiché “solo la forza di uno Stato che si era liberato dagli intralci dello scambio, solo la forza della cultura contemporanea che i tedeschi portavano con sé, avrebbe trasformato in tedeschi - senza una germanizzazione violenta - i piccolo borghesi, i contadini e i proletari ceki arretrati, ai quali la loro nazionalità decaduta non poteva offrir nulla”.
Si capisce che una simile “concezione” si accordi pienamente col socialsciovinismo di Kautsky. Contro queste opinioni di Kautsky ho lottato anch’io nel 1925 con un discorso pronunciato all’Università dei popoli d’oriente. Ma è mai possibile che per noi, per dei marxisti che vogliono restare fino alla fine internazionalisti, queste chiacchiere antimarxiste di un fradicio socialsciovinista tedesco possano avere un significato positivo qualsiasi?
Chi aveva ragione, Kautsky o Lenin? Se aveva ragione Kautsky, come si spiega allora che certe nazionalità, relativamente arretrate come i Bielorussi e gli Ucraini, più vicine ai Grandi-russi che i Ceki ai Tedeschi, non si siano russificate in conseguenza della vittoria della rivoluzione proletaria nell’URSS ma, al contrario, siano risorte e si siano sviluppate come nazioni indipendenti? Come si spiega che nazioni quali la turkmena, la kirghisa, l’uzbeka, la tagika (per non parlare della georgiana, dell’armena, dell’azerbaigiana, ecc.), nonostante le loro arretrate condizioni, non solo non si siano russificate in conseguenza della vittoria del socialismo nell’URSS, ma al contrario siano risorte e si siano sviluppate come nazioni indipendenti? Non è forse chiaro che i nostri egregi compagni “fuori strada”, andando a caccia di un apparente internazionalismo, son caduti in braccio al socialsciovinismo di Kautsky? Non è forse chiaro che, battendosi per una lingua comune nei confini di uno Stato, nei confini dell’URSS, essi mirano in realtà a ripristinare il privilegio della lingua che dominava prima, e precisamente della lingua grande-russa? Dov’è in questo caso l’internazionalismo?
In secondo luogo, Lenin non ha mai detto che l’eliminazione dell’oppressione nazionale e la fusione degli interessi delle nazionalità in uno Stato unico significhi la soppressione delle differenze nazionali. Noi abbiamo distrutto l'oppressione nazionale, abbiamo distrutto i privilegi nazionali ed abbiamo instaurato l’uguaglianza delle nazioni. Abbiamo soppresso i confini statali nel vecchio senso della parola, i pali di confine e le barriere doganali tra le nazionalità dell’URSS. Abbiamo instaurato l’uguaglianza degli interessi economici e politici dei popoli dell’URSS. Ma questo vuol forse dire che con ciò abbiamo eliminato le differenze nazionali e le lingue, la cultura, il particolare modo di vedere e di vivere delle nazioni, ecc.? È chiaro che non vuol dir questo. Ma se le differenze nazionali, la lingua, la cultura, il particolar modo di vivere delle nazioni rimangono, non è chiaro, forse, che la rivendicazione di eliminare le repubbliche e le regioni nazionali nell’attuale periodo storico è una rivendicazione reazionaria, diretta contro gli interessi della dittatura del proletariato? Non comprendono, questi compagni “fuori strada”, che eliminare ora le repubbliche e le regioni significherebbe privare le grandi masse dei popoli dell’URSS della possibilità di ricevere un’istruzione nella lingua materna, privarle della possibilità di avere una scuola, un tribunale, un’amministrazione, organizzazioni e istituzioni sociali e di altro genere nella lingua materna, privarle della possibilità di partecipare all’edificazione socialista?
Non è chiaro che andando a caccia di un’apparente internazionalismo, questi compagni “fuori strada”, sono caduti in braccio allo sciovinismo grande-russo reazionario e hanno dimenticato, completamente dimenticato, la parola d’ordine della rivoluzione culturale nel periodo della dittatura del proletariato, ugualmente valida per tutti i popoli dell’URSS, sia per i grandi-russi che per i non grandi-russi?
In terzo luogo, Lenin non ha mai detto che la parola d’ordine dello sviluppo della cultura nazionale, nelle condizioni della dittatura del proletariato, sia una parola d’ordine reazionaria. Al contrario, Lenin è stato sempre favorevole ad aiutare i popoli dell’URSS a sviluppare la loro cultura nazionale. Sotto la guida di Lenin e non di chiunque altro è stata elaborata ed approvata al X Congresso del partito la risoluzione sulla questione nazionale in cui si dice chiaramente che:
“Il compito del partito consiste nell’aiutare le masse lavoratrici dei popoli non grandi-russi a raggiungere la Russia centrale più avanzata; nell’aiutarle: a) a sviluppare e rafforzare nel loro territorio lo stato sovietico in forme corrispondenti alle condizioni nazionali di esistenza di questi popoli; b) a sviluppare e a rafforzare nel loro territorio tribunali, amministrazione, organi amministrativi, organi del potere che svolgano le loro funzioni nella lingua materna e siano composti di persone del luogo le quali conoscano la vita e la psicologia della popolazione locale; c) a sviluppare nel loro territorio la stampa, la scuola, il teatro, i club, ed in generale le istituzioni culturali e di istruzione nella lingua materna; d) a creare e sviluppare una larga rete di corsi e di scuole, di cultura generale e tecnico-professionali nella lingua materna”.
Non è chiaro che Lenin era in tutto e per tutto favorevole alla parola d’ordine di sviluppare la cultura nazionale nelle condizioni della dittatura del proletariato?
Non è forse chiaro che negare la parola d’ordine della cultura nazionale nelle condizioni della dittatura del proletariato, significa negare la necessità dell’ascesa culturale dei popoli non grandi-russi dell’URSS, negare la necessità dell’istruzione obbligatoria generale per questi popoli, abbandonare questi popoli allo asservimento spirituale in cui li tengono i nazionalisti reazionari?
Lenin, effettivamente, definiva la parola d’ordine della cultura nazionale sotto il dominio della borghesia come una parola d’ordine reazionaria. Ma, poteva forse essere altrimenti?
Che cos’è la cultura nazionale sotto il dominio della borghesia? Una cultura borghese, per il contenuto, e nazionale per la forma che ha lo scopo di intossicare le masse col veleno del nazionalismo e di rafforzare il dominio della borghesia. Che cos’è la cultura nazionale nelle condizioni della dittatura del proletariato? Una cultura socialista, per il contenuto, e nazionale per la forma che ha lo scopo di educare le masse nello spirito dell’internazionalismo e di consolidare la dittatura del proletariato. Come è possibile confondere questi due fatti fondamentalmente diversi senza rompere col marxismo? Non è forse chiaro che, lottando contro la parola d’ordine della cultura nazionale nell’ordinamento borghese, Lenin colpiva il contenuto borghese della cultura nazionale e non la sua forma nazionale? Sarebbe sciocco supporre che Lenin considerasse la cultura socialista come una cultura a-nazionale, che non avesse una determinata forma nazionale. I “bundisti”, effettivamente attribuivano una volta a Lenin questa teoria assurda. Ma dalle opere di Lenin risulta che egli protestò recisamente contro questa calunnia, respingendo con fermezza una tale assurdità. È mai possibile che i nostri egregi compagni “fuori strada” seguano fino a questo punto le orme dei “bundisti”?
Ma che cos'è rimasto, dopo tutto quello che si è detto, degli argomenti dei nostri compagni “fuori strada”?
Nulla, se non i loro giuochi di destrezza con la bandiera dell’internazionalismo e le calunnie contro Lenin.
Coloro che deviano nel senso dello sciovinismo grande-russo sbagliano profondamente se credono che il periodo dell’edificazione del socialismo nell’URSS sia il periodo di distruzione e di liquidazione delle culture nazionali. Invece è proprio il contrario. In realtà, il periodo della dittatura del proletariato e dell’edificazione del socialismo nell’URSS è il periodo del rigoglio delle culture nazionali, socialiste per il contenuto e nazionali per la forma. Essi, evidentemente, non comprendono che lo sviluppo delle culture nazionali deve procedere con nuova forza introducendo e radicando l’istruzione generale obbligatoria elementare nella lingua materna. Non comprendono che solo grazie allo sviluppo delle culture nazionali le nazionalità arretrate potranno contribuire effettivamente all’opera di edificazione socialista. Non comprendono che appunto in questo sta il fondamento della politica leninista di aiuto e di sostegno allo sviluppo delle culture nazionali dei popoli dell’URSS.
Può sembrare strano che noi, partigiani della fusione, in avvenire, delle culture nazionali in una sola cultura comune (sia per la forma che per il contenuto), con una sola lingua comune, siamo nel tempo stesso fautori del fiorire delle culture nazionali nel momento attuale, nel periodo della dittatura del proletariato. Ma non c’è nulla di strano. Bisogna permettere alle culture nazionali nel momento attuale di svilupparsi e di evolversi, manifestando tutte le loro possibilità, per creare le condizioni per la loro fusione avvenire in una cultura comune con una lingua comune. Sviluppare delle culture nazionali per la forma e socialiste per il contenuto nelle condizioni della dittatura del proletariato in ogni singolo paese, allo scopo di fonderle in una comune cultura socialista per forma e per contenuto, con una lingua comune quando il proletariato vincerà in tutto il mondo e il socialismo diventerà realtà, - appunto in questo consiste la dialettica dell’impostazione leninista della questione della cultura nazionale.
Si può dire che una simile impostazione del problema sia “contradditoria”. Ma non abbiamo forse una “contraddizione” simile anche nella questione dello Stato? Noi siamo per la scomparsa dello Stato. E nel tempo stesso siamo per un rafforzamento della dittatura del proletariato, che rappresenti il più potente e il più forte di tutti i poteri statali finora esistiti, il più alto sviluppo del potere statale allo scopo di preparare le condizioni per la sparizione del potere statale - ecco la formula marxista. È una “contraddizione”? Sì, è una “contraddizione”. Ma questa contraddizione è vitale e rispecchia pienamente la dialettica marxista.
Prendiamo, per es., l'impostazione leninista della questione del diritto delle nazioni all’autodecisione, fino alla separazione. Lenin talora esprimeva la tesi dell’autodecisione delle nazioni con la semplice formula: “separare per unire”. Pensate: separare per unire. Sembra addirittura un paradosso. Eppure questa formula “contradditoria” esprime quella verità vitale della dialettica marxista che dà ai bolscevichi la possibilità di espugnare le fortezze più inaccessibili nel campo della questione nazionale.
Lo stesso bisogna dire per la formula riguardante la cultura nazionale: sviluppare le culture (e le lingue) nazionali nel periodo della dittatura del proletariato in un solo paese, allo scopo di preparare le condizioni per la loro sparizione e la loro fusione in una comune cultura socialista (ed in una lingua comune) nel periodo della vittoria del socialismo in tutto il mondo.
Chi non ha compreso queste originalità e questa “contraddizione” del nostro periodo di transizione, chi non ha compreso questa dialettica dei processi storici è perduto per il marxismo.
La disgrazia dei nostri compagni “fuori strada”, consiste in questo, che essi non comprendono e non vogliono comprendere la dialettica marxista.
Così stanno le cose per quanto riguarda la deviazione verso lo sciovinismo grande-russo.
Non è difficile comprendere che questa deviazione riflette la tendenza delle classi sopravvissute della nazione grande-russa, già dominante, di ricuperare i privilegi perduti. Di qui il pericolo dello sciovinista grande-russo come pericolo principale nel partito, nel campo della questione nazionale.
Qual è l’essenza della deviazione verso il nazionalismo locale?
L’essenza della deviazione verso il nazionalismo locale, consiste nella tendenza a isolarsi e rinchiudersi nel proprio guscio nazionale, nella tendenza a smorzare le contraddizioni di classe nella propria nazione, a difendersi dallo sciovinismo grande-russo abbandonando l’alveo comune dell’edificazione socialista, nella tendenza a non vedere quello che unisce ed avvicina le masse lavoratrici delle nazionalità dell’URSS, ma a vedere solo quello che può allontanarle l’una dall’altra.
La deviazione verso il nazionalismo locale riflette il malcontento delle classi sopravvissute delle nazioni già oppresse contro il regime della dittatura del proletariato, la loro tendenza a isolarsi nel proprio stato nazionale e ad instaurarvi il proprio dominio di classe.
Il pericolo di questa tendenza consiste nel fatto che essa coltiva il nazionalismo borghese, indebolisce l’unità dei lavoratori dei popoli dell’URSS e gioca a favore di coloro che vogliono intervenire nella nostra vita interna.
Questa è l’essenza della deviazione verso il nazionalismo locale. Il compito del partito consiste nel condurre una lotta decisa contro questa deviazione e nell’assicurare le condizioni necessarie per l’educazione internazionale delle masse lavoratrici dei popoli dell’URSS.
G. Stalin (1930)
 

76 – L’ideologia dell'imperialismo (1910) (Rudolf Hilferding)

La ideologia del capitale finanziario è completamente opposta a quella del liberalismo; il capitale finanziario non desidera la libertà, bensì il dominio; non ha nessun amore per l’indipendenza del singolo capitalista, ma domanda piuttosto la sua irreggimentazione; odia l'anarchia della concorrenza e desidera l’organizzazione, ma solo per poter ripristinare la concorrenza in un grado più alto. Per conseguire tutto ciò e, in pari tempo, per mantenere e aumentare il suo potere, il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato, che garantisca il mercato interno con la protezione e faciliti la conquista di mercati esteri. Ha bisogno di uno Stato politicamente saldo, che non sia costretto a tener conto degli opposti interessi degli altri Stati nel formulare la sua politica commerciale. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato forte, che faccia valere all’estero i suoi interessi e usi il potere politico per estorcere trattati favorevoli agli Stati più piccoli; ha bisogno di uno Stato più forte che possa esercitare la sua influenza in tutto il mondo, per essere in grado di trasformare il mondo intero in un campo di investimento del capitale finanziario nazionale. Esso ha infine bisogno di uno Stato che sia forte abbastanza per poter effettuare una politica di espansione e per acquistare nuove colonie. Mentre il liberalismo avversava la politica di potenza dello Stato e desiderava affermarsi contro l’antico potere dell’aristocrazia e della burocrazia, per il qual fine limitava i mezzi coattivi dello Stato entro i limiti più stretti possibili, il capitale finanziario pretende una politica di potenza illimitata e persisterebbe in tale pretesa, anche se le spese per l'esercito e per la marina non assicurassero direttamente ai più potenti gruppi capitalistici un mercato importante con enormi profitti monopolistici.
L’esigenza di una politica di espansione capovolge l’intera “Weltanschauung” della borghesia. La borghesia cessa di essere pacifista e umanitaria. Gli antichi sostenitori del libero scambio credevano nella libertà commerciale, in quanto in essa vedevano non soltanto la migliore politica economica, ma anche l’inizio di un’era di pace. Il capitale finanziario ha da lungo tempo abbandonato tali concezioni. Non crede all'armonia degli interessi capitalistici, ma sa che la lotta della concorrenza si avvicina sempre più a una battaglia politica per il potere. L’ideale della pace svanisce; al posto dell’ideale dell'umanità, avanza quello della forza e del potere dello Stato. Lo Stato moderno, in ogni caso, derivò dalle lotte delle nazioni per raggiungere l’unità. L’aspirazione nazionale che trovò il suo limite naturale nella formazione della nazione come fondamento dello Stato perché essa riconosceva ad ogni nazione il diritto di avere il suo Stato e, quindi, vedeva i confini dello Stato nei confini naturali della nazione - si è ora trasformata nell’aspirazione di una nazione al dominio delle altre. Il nuovo ideale è ora la conquista del dominio del mondo per la propria nazione, il che implica una lotta così illimitata quanto la lotta, dalla quale essa deriva, del capitale per il profitto. Il capitale diviene il conquistatore del mondo, e ogni nuova terra conquistata rappresenta un nuovo confine che deve essere oltrepassato. Questa lotta diventa una necessità economica, l’astenersene abbasserebbe, infatti, il profitto del capitale finanziario, ridurrebbe la sua capacità di concorrenza e, infine, potrebbe ridurre una regione economica meno estesa, in una semplice tributaria di una più ampia. Questa lotta che appare del tutto fondata dal punto di vista economico, viene giustificata dal punto di vista ideologico grazie ad una notevole deformazione dell’idea nazionale, con cui non si riconosce più ad ogni nazione il diritto all’autodecisione e all’indipendenza e che non è più un’espressione dell’idea democratica dell’eguaglianza di tutte le nazionalità. Al contrario, il privilegio economico del monopolio viene a riflettersi nell’idea che la propria nazione debba trovarsi in posizione di preminenza. La propria nazione appare come l’eletta tra tutte. Poiché l’assoggettamento delle nazioni estere avviene per mezzo della forza, vale a dire in un modo del tutto naturale, la nazione dominante pretende di dovere la sua posizione di predominio alle sue speciali qualità naturali, in altre parole alle sue caratteristiche razziali. Così l’ideologia razzista diventa il fondamento pseudo-scientifico della volontà di potenza del capitale finanziario il quale, avvalendosi di tale ideologia, dimostra la causa e la necessità del suo operare. Al posto di un ideale democratico ed egualitario, subentra l’ideale oligarchico del dominio.
Mentre nel campo della politica estera questo ideale sembra includere tutta la nazione, nella politica interna esso si estrinseca in una tirannia sulla classe lavoratrice. Nello stesso tempo, il crescente potere dei lavoratori fa sì che il capitale intensifichi il suo sforzo diretto a estendere il potere statale per costruirsi una garanzia contro le richieste del proletariato.
In questo modo sulla tomba dei vecchi ideali liberali sorge l’ideologia dell’imperialismo. Essa si fa beffe dell’ingenuità del liberalismo. Quale illusione credere a un’armonia di interessi in un mondo di lotte capitalistiche in cui soltanto la superiorità delle armi decide! Quale illusione aspettare il regno della pace perpetua e predicare la legge internazionale, mentre è soltanto la forza a decidere il destino dei popoli! Quale idiozia desiderare di estendere i rapporti legali esistenti nell’interno di uno Stato al di là dei suoi confini! Quanti irresponsabili disordini sono creati da quell’assurdità umanitaria che crea un problema dei lavoratori, scopre delle riforme sociali da attuarsi all’interno dello Stato, e desidera l'abolizione nelle colonie della schiavitù contrattuale e che è l'unica possibilità di sfruttamento razionale! La giustizia eterna è un bel sogno, ma nessuno costruì mai ferrovie a furia di moralizzare. Come possiamo conquistare il mondo se ci si affida alla virtù educatrice della concorrenza?
Al posto degli svaniti ideali della borghesia, l’imperialismo sostituisce la distruzione di tutte queste illusioni, ma solamente per far sorgere una nuova e più grande illusione. L'imperialismo è moderato quando considera i conflitti reali tra i gruppi di interessi capitalistici, siano questi divergenti o comuni. Ma esso si lascia trasportare e si eccita quando rivela il proprio ideale. L'imperialista nulla desidera per sé; tuttavia non è neppure l’utopista e il sognatore che dissolve la confusione disperata delle razze in tutti gli stadi di civiltà ed è sempre pronto a sviluppare l’esangue concetto di umanità. Freddamente e lucidamente, l’imperialista guarda la folla dei popoli e scorge che al disopra di tutti c’è la propria nazione. Essa è reale; essa vive nello Stato forte che diventa sempre più grande e più potente, e la sua glorificazione giustifica tutti gli sforzi dell’individuo. Il sacrificio degli interessi individuali in favore del più alto interesse generale, che costruisce la condizione di ogni ideologia sociale vitale, è in tal modo attuato; lo Stato, che nulla ha a che fare con il popolo, e la nazione sono in tal modo legati insieme e dall’idea nazionale si fa la forza propulsiva della politica. Gli antagonismi di classe sono aboliti al servizio della totalità. L’azione comune della nazione unita verso la meta della grandezza nazionale si sostituisce alla lotta di classe, la quale per la classe abbiente è tanto infruttuosa quanto dannosa.
Questo ideale che apparentemente unisce con un nuovo legame la smembrata società borghese deve trovare una accettazione ancor più estatica dato che la disgregazione della società borghese progredisce rapidamente.
Rudolf Hilferding (1872-1941)

77 – La funzione principale dello Stato (Paul M. Sweezy)

C’è da parte dei teorici liberali moderni una certa tendenza a considerare lo Stato come una istituzione costituita negli interessi della società nel suo complesso, allo scopo di svolgere un’opera mediatrice e conciliatrice tra gli antagonismi ai quali dà inevitabilmente origine l’esistenza sociale. È questa una teoria che, evitando le insidie della metafisica politica, serve a integrare in un modo abbastanza soddisfacente una considerevole quantità di fatti osservati. Essa contiene tuttavia una fondamentale deficienza, il cui riconoscimento conduce alla formulazione di una teoria essenzialmente marxiana nel suo orientamento. Pertanto, una critica di quella che può essere chiamata la concezione dello Stato come mediatore tra le classi costituisce forse la migliore introduzione alla teoria marxista.
La teoria dello Stato mediatore tra le classi sostiene, di solito implicitamente che la struttura classistica costituente il substrato della società o, il che è la stessa cosa, il sistema delle relazioni di proprietà, sia un dato immutabile quanto l’ordine naturale stesso. Essa procede, quindi, a ricercare gli accorgimenti ai quali potranno addivenire le varie classi per tirare avanti insieme l’una accanto all’altra e trova che la costituzione di una istituzione per conciliare i contrastanti interessi è la logica e necessaria risposta a tale problema. A questa istituzione vengono assicurati i poteri per mantenere l’ordine e per dirimere le controversie. Ciò che viene chiamato “Stato” è considerato come l'equivalente, nel mondo reale, di questa costruzione teorica.
Non è difficile scoprire quale sia il punto debole di questa teoria. Esso consiste nel ritenere immutabile e, per così dire, autoperpetuantesi la struttura classista della società.
La superficialità di questo asserto è dimostrata da uno studio anche rapido della storia. Sta di fatto che molte forme di rapporti di proprietà, con le loro concomitanti strutture classiste, sorsero e scomparvero nei tempi passati e non c'è nessuna ragione per sostenere che non continueranno a fare così per il futuro. La struttura classista della società non fa parte dell’ordine naturale delle cose; essa non è che il prodotto del passato sviluppo sociale e cambierà nel corso del futuro sviluppo stesso. Una volta riconosciuto questo, diviene evidente come la teoria liberale abbia torto nella maniera stessa in cui essa inizialmente pone il problema. Non ci si può domandare come – data una determinata struttura classista – si comporteranno le varie classi con i loro divergenti e spesso contrastanti interessi per tirare avanti insieme; ma ci si deve domandare come si sia formata una determinata struttura classista e con quali mezzi venga assicurata la continuazione della sua esistenza. Non appena si tenti di dare una risposta a questa domanda appare evidente che, nella società, lo Stato ha una funzione principale e molto più importante di quella che i liberali attualmente gli attribuiscono. Esaminiamola da vicino.
Un determinato tipo di rapporti di proprietà serve a definire e delimitare la struttura classista della società. Da un tipo di rapporti di proprietà una classe o alcune classi (i proprietari) ricavano vantaggi importanti; le altre classi (i non proprietari) soffrono gravi svantaggi. Una istituzione speciale efficiente e pronta a usare la forza a qualsiasi grado è richiesta come fattore essenziale per il mantenimento di tale tipo di rapporti di proprietà. L’indagine dimostra che lo Stato possiede questa caratteristica al più alto grado e che non c’è nessun’altra istituzione che possa a tal riguardo competere con esso. Ciò di solito si esprime col dire che lo Stato, ed esso soltanto, esercita un potere sovrano, d’imperio sopra tutti i soggetti alla sua giurisdizione. Non è pertanto difficile a questo punto identificare lo Stato come garante di un dato tipo di rapporti di proprietà.
Se ora ci si domanda da dove lo Stato provenga, la risposta è che esso è il prodotto di una lunga e ardua lotta nella quale la classe che occupa nel momento le posizioni-chiave del processo produttivo, acquista vantaggio sopra le sue rivali e forma uno Stato che rafforzerà quel tipo di rapporti di proprietà che è nell’interesse di tale classe mantenere. In altre parole, ogni Stato è la creatura della classe o delle classi della società che beneficiano del particolare tipo di rapporti di proprietà che lo Stato stesso deve rafforzare. Un po’ di riflessione convince che non potrebbe avvenire diversamente. Una volta abbandonato il concetto, storicamente insostenibile, che la struttura classista sia un fatto appartenente all’ordine naturale, è chiaro che uno Stato – che non fosse quello che abbiamo detto – difetterebbe dei requisiti di stabilità. Se le classi non avvantaggiate fossero in possesso del potere statale, esse tenterebbero di usarlo per costituire un ordine sociale più favorevole ai loro propri interessi, mentre una partecipazione al potere statale da parte delle varie classi non farebbe che trasferire la sede del conflitto in seno allo Stato stesso.
Non si vuol negare che tali conflitti in seno allo Stato – corrispondenti ai conflitti fondamentali tra le classi – abbiano avuto luogo in certi periodi storici di transizione. Peraltro, in quei lunghi periodi durante i quali un determinato ordine sociale gode di una esistenza relativamente continua e stabile, il potere statale deve essere monopolizzato dalla classe o dalle classi che sono i principali beneficiari.
Come nella teoria sopraesposta si ha la concezione basilare di uno Stato mediatore tra le classi, qui si delinea l’idea base di quella che è stata chiamata la teoria della dominazione di classe. La prima dà come data l’esistenza di una certa struttura classista e vede nello Stato un’istituzione per conciliare i contrastanti interessi delle varie classi; la seconda, d’altro lato, riconosce che le classi sono il prodotto di sviluppi storici e vede nello Stato uno strumento nelle mani delle classi dominanti per rafforzare e garantire la stabilità della struttura classista stessa.
È importante comprendere che, per quanto riguarda la società capitalistica, dominazione di classe e “protezione della proprietà privata” sono espressioni virtualmente equivalenti. Quindi, quando si afferma con Engels che il più importante scopo dello Stato è la protezione della proprietà privata, si dice altresì che lo Stato è uno strumento per la dominazione di classe. Il che è compreso senza alcun dubbio sufficientemente dai critici della teoria marxiana, che tendono a considerare il concetto della dominazione di classe come qualche cosa di più torbido e di più sinistro che la “semplice” protezione della proprietà privata. In altre parole, essi tendono a ritenere riprovevole la dominazione di classe e meritoria la protezione della proprietà privata. Di conseguenza, non capita mai a essi di identificare i due concetti. Di frequente ciò è dovuto, senza alcun dubbio, al fatto che essi hanno in mente non la proprietà capitalistica, ma piuttosto quella proprietà privata che esiste in una società a produzione mercantile semplice e in cui ciascun produttore è proprietario e lavora con propri mezzi di produzione. Da tali condizioni non vi sono classi di sorta e quindi non vi è dominazione di alcuna classe. In una società capitalistica, tuttavia, la proprietà ha un significato affatto differente; ed è facile dimostrare come la protezione di essa si identifichi con la preservazione della dominazione di classe. La proprietà privata capitalistica non consiste in cose - le cose esistono indipendentemente dalla loro appartenenza - ma in una relazione sociale tra persone. La proprietà conferisce ai suoi titolari la libertà dal lavoro e la possibilità di disporre del lavoro degli altri e questo costituisce il fondamento di ogni dominazione sociale, qualsivoglia forma essa possa assumere. Ne consegue che la protezione della proprietà equivale fondamentalmente ad assicurare ai proprietari le dominazione sociale sui non proprietari. E questo, a sua volta, è ciò che si deve intendere per dominazione di classe in quanto essa è l’oggetto della funzione precipua dello Stato.
L’affermazione che la difesa della proprietà privata è il primo compito dello Stato, è il fattore decisivo e determinante dell’atteggiamento del puro socialismo marxista verso lo Stato. “La teoria comunista - così scrissero Marx ed Engels nel “Manifesto del partito comunista” - può riassumersi in questa sola sentenza: abolizione della proprietà privata”. Poiché lo Stato è il primo protettore della proprietà privata, ne consegue che la realizzazione di questo fine non può essere effettuata senza un urto tra le forze del socialismo e il potere statale.
Paul M. Sweezy (1942)

78 - L’imperialismo (Maurice Dobb)

Fu soprattutto come critica del mercantilismo che l’economia politica classica, e in modo speciale la sua teoria del commercio estero, accese le menti dei contemporanei e conquistò il proprio posto nella storia. La condanna del mercantilismo come sistema e la confutazione dei fallaci ragionamenti dei suoi apologisti fu il motivo dominante di tutti gli scritti sia di Adam Smith che di James Mill e di Ricardo. Data la somiglianza tra il mercantilismo e il moderno imperialismo, è tanto più stupefacente che gli economisti moderni abbiano avuto così poco da dire su quest’ultimo, e lo abbiano considerato un argomento che esulava dalla loro competenza. La somiglianza, tra il colonialismo del sec. XVIII e quello di oggi, almeno sotto un aspetto superficiale, è stata spesso rilevata. Essa consiste non solo nel fatto che ambedue riguardano un sistema coloniale, ma nell’impiego di certe pratiche monopolistiche e nella analogia delle antitesi che le loro ideologie presentano con le dottrine dell’economia classica.
I primi economisti nutrivano ben poche illusioni circa il mercantilismo; e la loro analisi scoprì molto chiaramente i rapporti essenziali che stavano alla base della elaborata sovrastruttura di regolamenti commerciali e le ideologie ideate a sua spiegazione e difesa. Si resero conto che il suo carattere essenziale era una forma speciale di politica monopolistica e che il vantaggio che veniva con esso perseguito era un vantaggio monopolistico, e soprattutto il vantaggio di una classe ristretta. James Mill, che aveva descritto le colonie come “un vasto sistema assistenziale” a favore delle classi più elevate, scrisse che “la madrepatria, costringendo le colonie a venderle le merci più a buon mercato di quanto non le venderebbero ad altri paesi, impone certamente un tributo su di esse; non diretto, certo, ma non meno reale, anche se mascherato”; mentre Say, descrivendo il sistema “come costruito sulla costrizione, restrizione e monopolio”, dichiarava che la “metropoli può costringere le colonie ad acquistare da essa qualsiasi cosa di cui abbiano bisogno; questo monopolio, o questo privilegio esclusivo, mette in grado i produttori metropolitani di far pagare per le merci alle colonie più di quanto esse valgano”. Adam Smith - che aveva dato al problema la sua impostazione classica - denunciava il sistema in questi termini:
“Il monopolio del commercio coloniale, come tutti gli altri meschini e perniciosi espedienti del sistema mercantile, deprime l’industria di tutti gli altri paesi, ma soprattutto quella delle colonie, senza incrementare per nulla quella del paese a cui favore è stabilito (…). Il monopolio, invero, aumenta il saggio del profitto mercantile e, quindi, in certa misura il guadagno dei mercanti (…). Per favorire l’interesse ristretto di un ristretto ceto di persone in un paese, esso danneggia gli interessi di tutti gli altri ceti di persone in quel paese e di tutte le persone negli altri paesi (…). Una grande fonte originaria di reddito, i salari del lavoro, deve esser stata resa in tutti i tempi meno abbondante di quanto sarebbe stata altrimenti, a causa del monopolio”.
(...) Quel che caratterizzava il mercantilismo era un rapporto di commercio regolato tra una colonia e la metropoli, organizzato in modo tale da volgere la ragione di scambio a favore della seconda e a svantaggio della prima. In questo sistema l’investimento nella colonia, quando si verificava, sembra abbia avuto una funzione subordinata. L'imperialismo moderno ripete questo carattere dello sfruttamento attraverso il commercio; e, mentre nei primi stadi dell’imperialismo, questo carattere può essere stato meno rilevante che non fosse nel sistema coloniale dei secc. XVII e XVIII, negli stadi successivi esso assume una notevole e crescente importanza nella forma di politiche neomercantilistiche di “autarchia”, di unità imperiali. Ma, tra il mercantilismo e l’imperialismo, esiste naturalmente tutta una differenza che c’è tra uno stadio primitivo dello sviluppo del capitalismo e lo stadio più avanzato della tecnica industriale su larga scala, dell’associazione della finanza con l’industria e dell’organizzazione politica monopolistica. Di conseguenza, in questo secondo stadio l’esportazione di capitale esercita una funzione dominante, e con essa l’esportazione di beni strumentali e la ipertrofia dell’industria che produce questi ultimi. Anzi, tra i contrasti che distinguono il vecchio dal nuovo sistema coloniale, il fatto dell’investimento di capitali nell’area coloniale sembra sia il principale. Questo investimento assume forme assai varie; e descriverlo come consistente soltanto, o anche prevalentemente, nell’investimento di capitale industriale, nello sfruttamento diretto di un proletariato coloniale, significa dare un quadro semplicistico e inesatto del processo reale. L’investimento nella colonia, assume spesso la forma di prestito in moneta su larga scala o dello sfruttamento in forme primitive di produzione, simile a quanto fece il capitale mercantile nell’Europa occidentale nel periodo del sistema di lavoro a domicilio. Inoltre, la caratteristica fondamentale dell’investimento coloniale sin dalle sue origini è consistita, nell’investimento privilegiato: cioè, nell’investimento in imprese che presentano qualche vantaggio differenziale, preferenza o monopolio effettivo, sotto forma di diritto di concessione, o qualche attribuzione di uno status privilegiato. I diritti di monopolio e le pratiche restrittive, sembra che abbiano costituito sempre la maggiore attrattiva dell’investimento coloniale e che abbiano fornito un elemento essenziale all’imperialismo, come sistema di estrazione del profitto in ampie zone.
Poiché l’investimento nelle zone coloniali rappresenta un trasferimento di capitale ad aree in cui è facile assicurarsi privilegi quasi monopolistici, e dove il lavoro è più abbondante e a buon mercato, e la “composizione organica del capitale” è più bassa, il processo costituisce un’importantissima influenza operante contro la tendenza alla caduta del saggio del profitto nella madrepatria. Inoltre, esso esercita questa influenza in duplice modo. Non soltanto implica che il capitale esportato nella colonia venga investito a un tasso più alto che se fosse investito in patria, ma crea anche una tendenza del saggio del profitto in patria a rimanere più elevato di quanto sarebbe altrimenti. Quest’ultimo effetto si verifica perché viene ridotta l’abbondanza del capitale in cerca di investimento nella madrepatria a causa del redditizio sbocco coloniale, viene allentata la pressione sul mercato del lavoro e il capitalista può acquistare forza-lavoro nella madrepatria a un prezzo più basso. L’esportazione di capitale, in altre parole, rappresenta un mezzo per ricreare l’”esercito industriale di riserva” nella madrepatria, aprendo nuovi campi di sfruttamento all’estero. Il capitale guadagna così doppiamente: attraverso il più alto tasso di profitto che ottiene all’estero e attraverso il più alto tasso di “plus-valore” che può conservare nella madrepatria; e questo duplice guadagno è la ragione per cui fondamentalmente gli interessi del capitale e del lavoro in questo problema sono in contrasto. Per la stessa ragione l’economia capitalistica ha un incentivo alla politica imperialistica che l’economia socialistica non avrebbe.
Che cosa significhi ciò si può intendere supponendo il processo portato all’estremo: se si suppone cioè che nelle colonie esistano illimitatamente strati proletari da sfruttare (e risorse naturali a non finire) e se, inoltre, si suppone che siano rimossi tutti gli ostacoli all’esportazione di capitale. La fine logica del processo (se si tiene a seguire una ipotesi puramente astratta) sarebbe di abbassare i tassi di salario nei più vecchi paesi capitalistici sino al livello dominante nelle aree coloniali e - fino a che rimangano aree coloniali da sfruttare - di mantenere la massa dalla popolazione in tutto il mondo allo stesso livello di vita. Per una serie di ragioni concrete, il processo non raggiunge - e nemmeno si avvicina - a questo astratto limite (che apparentemente sembrerebbe implicare la “decolonizzazione” della colonia, come anche la parziale deindustrializzazione della madrepatria). Ma la tendenza rimane come tendenza parziale, anche se contrastata da altri fattori. (…)
Qui appunto, in questo più stretto controllo della madrepatria sulla politica interna dalla colonia sembra consistere quella logica politica dell’imperialismo che - come la sua stessa storia rivela - consiste nel procedere dalla “penetrazione economica” alle “sfere d’influenza”, dalle “sfere d’influenza” ai “protettorati” o controllo indiretto, e dai “protettorati” - attraverso l'occupazione militare, all’annessione. E appena interviene il controllo politico - come ausiliario dell’investimento - esiste la possibilità di pratiche monopolistiche e preferenziali; e, se questo controllo politico viene usato, presumibilmente sarà usato per favorire quei particolari interessi che rappresenta. Il processo di investimento e di sviluppo economico della colonia non si svolgerà certo in una idillica atmosfera di laissez-faire. (…)
Il detto che “il commercio segue la bandiera” esprime la verità essenziale che un aspetto importante della funzione delle colonie nella economia internazionale è che esse costituiscono in larga parte “mercati privati” per gli interessi del gruppo nazionale che le controlla, anche là dove vige la politica della “porta aperta”. Il numero e l’ampiezza di tali sfere privilegiate che un capitalismo nazionale può sfruttare, determinano in notevole misura, il saggio di profitto che può ottenere e il posto che può tenere nell’economia mondiale. In questo senso, la “ricerca dei mercati”, cui si riferiscono i teorici del sottoconsumo, ha un significato indipendente: cioè, la ricerca di più estese possibilità di ricavare un profitto monopolistico dallo sfruttamento per mezzo del commercio, come distinto dalla estrazione del “normale” plus-valore.
Ma, oggi, anche la conservazione nominale della politica della “porta aperta” si fa sempre più rara. Gli accordi circa le zone di influenza corrono paralleli agli accordi territoriali tra i cartelli internazionali che dividono il mercato in “riserve di caccia”. Appelli politici vengono usati direttamente per influire sulle domande, e vediamo gruppi di interessi sfruttare pregiudizi politici per escludere prodotti rivali (come accadde, per esempio, alcuni anni fa, nella famosa campagna contro il petrolio russo). La politica e l’economia sono così intimamente intrecciate che il semplice odore di una concessione petrolifera sia dimostrato capace di gettare confusione in almeno una conferenza internazionale, le recenti politiche di autarchia, di nazionalismo economico, erigenti barriere doganali intorno alle loro unità nazionali o imperiali e sviluppanti pletoricamente gli accordi di contingentamento, perseguono semplicemente in una forma più perfetta l’ideale del mercato limitato e della riserva monopolistica; mentre gli accordi di scambio bilanciato - venuti ultimamente di moda - e il riesumato vangelo dei saldi attivi di esportazione della bilancia commerciale, sono espliciti riconoscimenti di quel neo-mercantilismo, che è sempre stato latente nel moderno imperialismo. In questo processo, i perturbamenti monetari, su cui prevalentemente si era fissata l’attenzione degli economisti, dovrebbero apparire come effetto piuttosto che come causa: le svalutazioni monetarie soltanto come strumenti di una rivalità nelle esportazioni; e le opposizioni di blocchi monetari rivali - quali il blocco aureo, il blocco della sterlina, il blocco del dollaro - come un aspetto di una manovra per creare aree economiche protette e isolate. Quando un Hitler o un Mussolini proclamano la necessità di sbocchi coloniali, non desiderano realmente abbondanza, ma limitazione; non accesso all’abbondanza per le loro popolazioni, ma riserve monopolizzate per la grande industria.
Rimane l’importante problema di sapere per qual ragione questo nuovo colonialismo dovesse apparire in questo particolare stadio storico, come ha fatto. Lenin affermò che l’imperialismo è la caratteristica del capitalismo nella sua fase monopolistica, specialmente nello stadio in cui si attua l’associazione della finanza con l’industria, con la subordinazione delle decisioni industriali alla strategia finanziaria su larga scala: quello stadio che Hilferding definì “capitalismo finanziario”. Quindi, l'imperialismo implica non solo un’esportazione di capitali in nuove aree, dove ringiovanendosi potrebbe ripercorrere la propria storia, ma un’estensione del capitalismo a nuove aree sotto specifiche condizioni, con la conseguente apparizione di nuovi elementi nella situazione. (…)
L’evidenza della storia mostra che l’imperialismo è associato con il fatto che il capitalismo in un paese abbia raggiunto un certo stadio del suo sviluppo; e che l’imperialismo fiorisce rapidamente una volta raggiunto questo stadio del capitalismo, ma non prima.
I due caratteri dello sviluppo capitalistico cui sembra più ragionevole connettere questa tendenza espansionistica sono i seguenti: da una parte, l'esaurimento, o quasi esaurimento, delle possibilità di quello che si definisce il reclutamento “estensivo” dell’”esercito di riserva industriale” entro i vecchi confini nazionali; dall’altra, l’elevarsi, incoraggiato dal primo, del livello tecnico, ovvero della composizione organica del capitale, sino al punto che esige un considerevole sviluppo dei settori industriali addetti alle costruzioni pesanti. Questo duplice sviluppo sarà probabilmente associato con la tendenza a un piuttosto brusco declino nella redditività del capitale, mentre lo sviluppo tecnico dei mezzi di produzione precostituirà la base per quella concentrazione del capitale da cui possono trarre incremento i grandi gruppi monopolistici. Il capitalismo diventa “ultramaturo”, secondo l’espressione di Lenin, nel senso che il “capitale non trova più occasioni per un investimento redditizio”. Se questi sviluppi sono contrassegnati da una rapida caduta nel rendimento del capitale, questo fatto costituirà uno stimolo sia per l’adozione di pratiche monopolistiche, nelle industrie della madrepatria, sia per la ricerca di nuovi campi di investimenti all’estero, mentre la formazione di grandi gruppi monopolistici soprattutto se connessi con il mondo finanziario, produrrà quel tipo di organizzazione che solo è in grado di intraprendere l’azione strategica di conquiste economiche su larga scala oltremare. Inoltre, c’è un motivo speciale nella logica connessione fra monopolio e colonialismo. Mentre il monopolio in una industria particolare o in un gruppo di industrie può riuscire a elevare il saggio di profitto, esso è incapace, non appena sia divenuto generale, di elevare il saggio del profitto generale, salvo che non possa ridurre il prezzo della forza-lavoro o spremere qualche strato di redditi intermedio nella madrepatria. Nella ricerca del successo è quindi continuamente spinto a estendere all’estero la sfera di sfruttamento. (...)
Il primo di questi importanti risultati del nuovo imperialismo è l’effetto che ha sui rapporti di classe nella madrepatria, il sovrapprofitto e la nuova prosperità che la fortunata nazione è in grado di ottenere, creano per la classe lavoratrice della metropoli, o almeno per sezioni privilegiate di essa, la possibilità di partecipare in qualche misura ai guadagni dello sfruttamento, anche solo nella forma di una minore pressione sui salari rispetto a quella alla quale il capitale sarebbe dovuto probabilmente ricorrere se privo di tali sbocchi.
Là dove l’organizzazione sindacale è forte, essa può strappare concessioni più facilmente di quanto non avrebbe potuto fare altrimenti e assicurarsi una certa posizione privilegiata. Ciò in larga misura serve a spiegare la conservazione di quella che è stata spesso chiamata un’”aristocrazia del lavoro” in Inghilterra e negli Stati Uniti e in misura minore, in Francia e in Germania: di una classe lavoratrice che si trova in una situazione relativamente privilegiata rispetto al proletariato del resto del mondo. Essi sono gli “schiavi di palazzo” della madrepatria a differenza degli “schiavi di piantagione” alla periferia dell’impero, sentono una parziale identità di interessi coi loro padroni e una riluttanza a turbare lo “status quo”: un fatto apparentemente riflesso per un intero periodo (il periodo della seconda internazionale e della socialdemocrazia) nel movimento operaio di questi paesi. Nella sua prefazione alla seconda edizione (1892) della sua opera su “Le condizioni della classe lavoratrice in Inghilterra”, Engels faceva la ben nota affermazione sul movimento operaio britannico: “Durante il periodo del monopolio industriale inglese, la classe lavoratrice inglese ha in una certa misura condiviso i benefici del monopolio. Questi benefici erano divisi molto inegualmente; la minoranza privilegiata ne intascava la parte maggiore, ma anche la gran massa aveva, di tanto in tanto, una partecipazione almeno temporanea. E questo è il motivo per cui, dopo la fine dell’owenismo, non c’è stato socialismo in Inghilterra. Con il crollo di quel monopolio, la classe lavoratrice inglese perderà quella posizione privilegiata e si troverà generalmente allo stesso livello dei suoi compagni lavoratori degli altri paesi. E questo è il motivo perché ci sarà di nuovo socialismo in Inghilterra”. Di fronte agli avvenimenti del 1914, Lenin parlò con parole pungenti della tendenza “dell’imperialismo in Inghilterra a dividere i lavoratori, a rafforzare l’opportunismo fra di essi, a generare una temporanea cancrena nel movimento dei lavoratori”; e si riferiva ai capi della socialdemocrazia contemporanea, ai tribuni dei più rammolliti “schiavi di palazzo” metropolitani, come ai “sergenti-maggiori del capitale nelle file del lavoro”. In pari tempo, nei paesi capitalistici, tendeva a svilupparsi sia una cosiddetta “classe media” vasta e sproporzionata, la cui vitalità dipendeva direttamente o indirettamente dalla sua connessione con l'imperialismo, estendentesi dagli impiegati negli uffici cittadini all’amministrazione coloniale, sia un inflazionato ceto di redditieri prosperante sul reddito degli investimenti esteri.
In secondo luogo, la funzione storica dell’imperialismo nelle aree coloniali fu di creare una struttura di classe simile a quella trovata nei vecchi paesi capitalistici. Come presupposto dell’investimento industriale, esso richiedeva un proletariato rurale e successivamente urbano; e, via via che l'industrializzazione procedeva, si andava anche creando una borghesia coloniale, che progredì dalla condizione di compradores, mediatori ed usurai, speculatori in terreni, organizzatori di industrie indigene, coltivatori abbienti, sino a quella di imprenditori industriali. Appariva inevitabile che questa classe, risentendo i privilegi monopolistici del capitale straniero e l’influenza di interessi non residenti, dovesse entrare in rivalità con gli interessi imperialistici, così come nel sec. XVIII in Inghilterra il capitale industriale di recente formazione aveva intrapreso una campagna antimonopolistica, culminata in una guerra civile. Qui appunto, nel desiderio di spossessare il capitale straniero dei suoi privilegi e di perseguire una politica di sviluppo della industria indigena sotto la protezione dello stato sta la radice del movimento nazionalistico coloniale: di un nazionalismo destinato a riprodurre, in un diverso ambiente storico, i caratteri dei movimenti borghesi democratici in Europa del 1789, del 1830 e del 1848. Allo stesso modo che il mercantilismo condusse alla rivolta delle colonie americane contro l’Inghilterra, così l’imperialismo ha portato alla rivolta coloniale oggi in Asia, domani forse in Africa. L’imperialismo, come si è detto, rappresenta un rapporto non semplice, ma complesso, fra madrepatria e colonia. Non costituisce una riproduzione nella colonia del tipo “puro” di capitalismo industriale, comprendente il semplice rapporto fra proletariato coloniale e capitale industriale, sia indigeno che straniero. (Se fosse così, non vi sarebbe bisogno del nazionalismo coloniale, in quanto la ragione economica, che sta alla base del conflitto, farebbe nascere un “puro” movimento proletario e socialista). Ma comprende altresì un rapporto di sfruttamento monopolistico attraverso il commercio con l’economia coloniale considerata come un unico complesso. Pertanto, larghi settori della borghesia coloniale hanno radici economiche che le portano nell’ambito del movimento nazionalista; e, di conseguenza, il nazionalismo coloniale rappresenta un movimento fortemente interclassista. Il secolo XX era quindi destinato ad assistere ad un nuovo fenomeno storico: sottoforma di rivolte nazional-democratiche nelle province dell’impero che si collegano alla rivolta proletaria nella madrepatria, di cui Marx aveva parlato, per scuotere le fondamenta del dominio capitalistico. In questa nuova epoca può anche accadere che il centro di gravità abbia a spostarsi e le prime, piuttosto che la seconda, determinino il corso degli eventi.
Una terza conseguenza dell'imperialismo sotto forma di eventi nell'economia mondiale, fu un’accentuata disparità di sviluppo fra diversi paesi e diverse aree. Nel sec. XIX sembrava quasi che il processo dell’industrializzazione esercitasse un'influenza livellatrice sulle diverse parti del mondo. L’espansione del mercato mondiale, sia per le merci che per il capitale, si riteneva tendesse generalmente a diminuire le differenze nazionali e a portare progressivamente i diversi paesi a una uniformità di livelli tecnici e anche dei tenori ai vita. È probabilmente vero che questa affermazione fu sempre soggetta a importanti limitazioni. Ma, col sorgere del nuovo sistema coloniale, apparvero certi tipi nuovi di disuguaglianza che erano significativi per la loro influenza, sia sulla struttura interna di classe, sia sulla stabilità interna di vari gruppi nazionali. A considerarlo superficialmente, può sembrare che il monopolio rappresenti un’unificazione, un coordinamento e un più alto grado di ordinata pianificazione. Ciò può essere in parte vero per i rapporti all’interno della sfera di un determinato controllo monopolistico. Ma il monopolio significa essenzialmente privilegio, e privilegio economico significa restrizione ed esclusione, significa necessaria preferenza su qualcun altro, esclusione di qualcun altro; e in ciò sono già contenuti i germi dell’ineguaglianza e della rivalità. Le potenze più fortunate nella politica coloniale sono in grado di conquistare una nuova prosperità (almeno per un certo periodo) e una rafforzata stabilità interna. Quando la rivalità raggiunge lo stadio di conflitto aperto, e il conflitto si tramuta in guerra, l’estensione del territorio di un gruppo sarà realizzabile soltanto a spese dell’altro; come nelle lotte tra banditi il “territorio” di una banda viene inizialmente allargato con l’occupazione di zone vergini, ma più tardi può essere allargato soltanto rubando terreno a una banda rivale. Che questo stadio fosse già raggiunto nel 1914, sembra ampiamente attestato dal trattato di Versailles, coi suoi trasferimenti in blocco di colonie dai vincitori ai vinti, Lenin citava nella sua teoria queste nuove ineguaglianze e rivalità per dimostrare: l’impossibilità di quello che era stato definito “superimperialismo” (un imperialismo di potenze imperiali per sfruttare congiuntamente e pacificamente l'intero globo); la possibilità oggettiva, che, quando una profonda crisi, quale la guerra mondiale minasse l’intera struttura, la rivolta proletaria contro il capitalismo e il trionfo dei socialismo si attuassero, prima che nei più antichi paesi capitalistici (i quali, essendo stati i primi e i più fortunati nella corsa alle colonie, avevano ottenuto una proroga della prosperità), nei paesi che essendo meno sviluppati industrialmente costituivano “l’anello più debole della catena”. In quest’ultima conclusione egli trovava sia una giustificazione per la propria politica in Russia, sia una risposta a quello che era stato continuamente definito “il grande paradosso del marxismo”: che la rivoluzione cioè, che Marx aveva profetizzata settanta anni prima, fosse scoppiata prima in Russia, anziché nei paesi occidentali.
La concezione dell’imperialismo, con le sue rivalità latenti e la sua logica interna di espansione, offre un interessante parallelo all’analisi dell'economia schiavistica fatta dal Cairnes nella sua opera “Slave power”. Il Cairnes vi mise in rilievo come negli stati meridionali dell’America del nord, l'unica forma di nuovo investimento e l’unica maniera di estendere il profitto consistesse nell’acquisto di altre piantagioni e di un maggior numero di schiavi. Per tanto, la difficile economia degli stati sudisti era continuamente sospinta per la necessità d’espandersi, ad acquistare più schiavi e ad estendere il sistema delle piantagioni dell'ovest. Nell’eventualità di una limitazione di questo processo stava l’inevitabilità di un conflitto finale col nord. Una simile brama di espansione scorre chiaramente nel sangue dell’economia capitalistica; e anche questa è una brama che non può essere soddisfatta indefinitamente. La stessa reazione che genera, sotto forma di nazionalismo coloniale, pone ostacoli sempre più forti a qualsiasi intensificazione della sua politica monopolistica e serve anche a rallentare i legami dell’impero. Per il capitalismo nel suo complesso, il colonialismo può costituire soltanto una dilazione transitoria.
Se si colloca la crisi economica del (primo) dopoguerra su uno sfondo di questo tipo, se ne ottiene una interpretazione molto diversa da quella usuale e molto più significativa. Uno sfondo di questo genere sembra anzi necessario se vogliamo trovare un senso nello sconcertante incubo dei recenti avvenimenti, se ci preoccupiamo in sostanza di ricercare le “causae causantes”, e non ci contentiamo del quadro superficiale fornito da un’analisi limitata alle “cause immediate”. Vista in questa più vasta prospettiva, la crisi del nostro mondo postbellico va molto oltre gli “spostamenti di produzione dovuti alla guerra”, le “restrizioni governative al commercio e alle imprese”, i “perturbamenti monetari” e altri analoghi fattori che figurano così cospicuamente nelle trattazioni tradizionali del problema, e che per molti economisti sembrano ancora costituire il limite della loro visuale; e comincia ad emergere una chiara immagine di una “crisi generale”, le cui radici sono più profonde che i movimenti ciclici. Marshall disse che “in economia, né quegli effetti di cause note né quelle cause di effetti noti che sono più palesi, sono in generale i più importanti: molte volte vale più la pena di studiare “quel che non si vede” piuttosto che “quel che si vede” particolarmente quando ci si occupa “non di qualche questione di carattere meramente locale e temporanea”, ma della “elaborazione di una lungimirante politica per il bene pubblico”.
(…) Se qualcosa di quanto è stato detto sopra è vero, una interpretazione di questi avvenimenti, che non sia superficiale, deve chiaramente prender le mosse da un fatto centrale. Questo fatto centrale è che il campo di investimento redditizio per il capitale è molto più ristretto di quanto non fosse sull’altro versante di quello storico spartiacque del 1914-18. È apparentemente più ristretto, non tanto perché si siano raggiunti i limiti dello sfruttamento coloniale, quanto a causa dei limiti che la stessa tensione, creata dall’imperialismo, impone. Durante e dopo la prima guerra mondiale il nazionalismo coloniale divenne una forza imponente...
Connesso con questa restrizione delle frontiere del sovrapprofitto coloniale è un altro fatto: lo stesso sviluppo delle restrizioni e barriere monopolistiche ha avuto per effetto di restringere il campo di ulteriori investimenti. Il profitto che la restrizione raccoglie in prima istanza è ottenuto con la esclusione di qualche capitale che altrimenti sarebbe entrato nello stesso campo; così che l’effetto cumulativo di tali restrizioni è di rendere sovraffollati altri campi e, quindi, di ridurre altrove il rendimento al di sotto di quanto si sarebbe ritenuto possibile. Quindi, come “soluzione” della difficoltà fondamentale in una direzione, esso opera peggiorando la difficoltà in un’altra: è la politica d’impoverimento del vicino”. (…) Inoltre, questa vera e propria riduzione del campo di investimento all’interno delle aree monopolistiche acuisce la passione per le esportazioni di capitale verso aree esterne; infatti, tali esportazioni rappresentano a un tempo l’unico sbocco per il capitale eccedente e la condizione necessaria per conservare il regime monopolistico. (…)
Quella che Marx chiamò “sovrapproduzione di capitale” si manifestò inevitabilmente in forma acuta. L’improvvisa cessazione degli investimenti (dopo il grande crollo del 1929), sia all'estero che all’interno, diede inizio alla paralisi progressiva del 1930-31. E una volta iniziata la depressione, il prevalere delle restrizioni monopolistiche sembra ne abbia accentuato e prolungato gli effetti. In particolare, sembra ch’esso abbia fatto aumentare la perdita puramente materiale di questa crisi e ricadere l’onere della depressione - in una misura senza precedenti - sui lavoratori, sotto forma di disoccupazione e sotto-occupazione. Questo sabotaggio restrittivo si effettuò nella forma di controllo dei prezzi da parte dei cartelli e dei trust, diretto a mantenere inalterato il saggio del profitto sul capitale. Conservare inalterati i prezzi significava restringere la produzione; e a ciò si deve se la depressione assunse in un grado così eccezionale la forma di una crisi di eccesso di capacità e di disoccupazione, con un enorme spreco di mano d’opera e di macchine.
Se l’estensione del campo di investimento attraverso lo sfruttamento coloniale viene bloccata improvvisamente, il problema dell’”esercito industriale di riserva” nella madrepatria si fa di colpo acuto. (…)
I due movimenti degli ultimi anni che più chiaramente hanno le loro radici nelle disfunzioni postbelliche del capitalismo, sono il “fascismo" e la disintegrazione della cosiddetta “classe media”. C’è una evidente connessione fra il fascismo, quale ideologia di nazionalismo economico e politico, e l’imperialismo come sistema caratteristico di un’epoca. Ma il carattere preciso di questa connessione, pur sembrando abbastanza chiaro nei suoi tratti essenziali e diventando sempre più chiaro col procedere degli eventi, non appare sempre a tutt’oggi valutato equamente. Gli avvenimenti degli ultimi anni offrono in abbondanza materiale per giustificare il concetto che la funzione storica del fascismo sia duplice.
In primo luogo, quella di rompere e disperdere le organizzazioni indipendenti della classe lavoratrice, e di farlo non nell’interesse della “classe media” o “dell’uomo della strada” ma, in definitiva, nell’interesse del grande capitale. In secondo luogo, quella di organizzare la nazione sia spiritualmente - attraverso una intensa propaganda - sia praticamente - con la preparazione militare e una centralizzazione autoritaria - per un’ambiziosa campagna di espansione territoriale. (...) Ma la connessione tra fascismo e colonialismo non consiste solo nel fatto che il secondo figura come un prodotto incidentale del primo. La connessione appare fondamentale e riguardante non solo i risultati, ma anche l’origine e le radici sociali del movimento. Il fascismo fu definito un figlio della crisi e in un certo senso è tale; ma il giudizio è troppo semplicistico. Esso è il figlio di un tipo speciale di crisi; cioè una crisi del capitalismo monopolistico, traente la sua gravità dal fatto che il sistema si trova la strada sbarrata, sia per lo sviluppo estensivo, che per uno sviluppo più intensivo del campo dello sfruttamento. Per spezzare questi limiti, nuove e straordinarie misure - misure di dittatura politica - vengono inevitabilmente all’ordine del giorno. Se si dovessero riassumere in breve i presupposti storici del fascismo, si potrebbe parlare di tre fattori dominanti: la sfiducia del capitale di trovare una soluzione normale per le difficoltà create dalla limitazione del campo di investimento; una considerevole e disagiata “classe media”, ovvero elementi declassati che, in assenza di un altro punto di orientamento, sono maturi per essere conquistati al credo fascista; e una classe lavoratrice abbastanza privilegiata e abbastanza forte per resistere a una normale pressione sul suo tenore di vita, ma sufficientemente disunita e priva di coscienza di classe (almeno nella sua direzione politica) per essere politicamente debole nell’affermare la sua forza e nel resistere all’attacco. La prima di queste condizioni è più probabilmente la caratteristica del paese imperialistico, privato dei frutti del colonialismo su cui precedentemente contava. (…) Evidentemente, non è una semplice coincidenza che il fascismo sia sorto in due paesi che erano stati così apertamente delusi nelle loro ambizioni coloniali dai risultati della grande guerra; come è possibile che analoghe tendenze riescano a manifestarsi in Inghilterra, culla della democrazia parlamentare e del movimento sindacale, al primo serio apparire di una “disoccupazione” della classe media, e di sintomi di un declino della posizione dell’Inghilterra come centro finanziario ed esportatore. (...)
Lo stato fascista è acceso da una brama di espansione territoriale, non solo nella direzione dei paesi arretrati, come per l’innanzi, ma anche verso territori vicini, il cui controllo assicurerebbe vantaggi monopolistici alla grande industria della madrepatria. (...) La scena è già chiaramente preparata, il sipario anzi è già alzato per una guerra brigantesca per la spartizione del globo.
Maurice Dobb (1937)
 

79 - Violenza e legalità (1902) (Rosa Luxemburg)

Benché negli ultimi tempi si sia tanto parlato della definitiva invalidazione dei mezzi rivoluzionari vecchio stile, sinora non è mai stato chiaramente spiegato che cosa propriamente s’intenda per mezzi del genere e con che cosa ci si proponga di sostituirli.
Di solito è uso contrapporre ai “mezzi rivoluzionari” – cioè, in sostanza, alla rivoluzione violenta di strada, “l’opera quotidiana di organizzazione e chiarificazione” delle masse lavoratrici. Un tale modo di procedere è tuttavia sbagliato, per il semplice motivo che organizzazione e propaganda non sono ancora in sé ancora lotta, ma semplici mezzi di preparazione ad essa e in quanto tali non più necessari per una rivoluzione che per una qualunque altra forma di lotta. Organizzazione ed educazione di per se stesse rendono ancora così poco superflua la lotta “politica”, quanto la formazione di sindacati e la raccolta di contributi le lotte salariali e gli scioperi. Ciò che si contrappone l’uno all’altro, vantando antiteticamente “mezzi rivoluzionari” e vantaggi dell’organizzazione e della propaganda, è in effetti da un lato rivoluzione violenta, dall’altro riforma legale, parlamentarismo.
“È possibile passare dal capitalismo al comunismo attraverso una serie di forme sociali, di istituzioni giuridiche ed economiche, e perciò è nostro dovere sviluppare questa progressione logica davanti al parlamento. In queste parole di Jaurès è formulata a tutte lettere la concezione su accennata, così come nell’altra sua dichiarazione: “l’unico metodo, che rimane al proletariato, è quello dell’organizzazione legale e dell’azione legale”.
È di estrema importanza per la chiarificazione, tenere a priori per fermo quanto sopra al fine di sfrondare il campo di discussione da ogni banalità sull’utilità dell’organizzazione e della propaganda tra le masse e mettere a fuoco la polemica sull’unico punto effettivamente in contestazione.
Ciò che ci appare anzitutto degno di rilievo nel fermo proponimento di sostituire ogni uso della violenza nella lotta proletaria con l’azione parlamentare, è la rappresentazione di un arbitrario “rivoluzionarismo”. Secondo questa concezione le rivoluzioni, evidentemente a seconda che siano riconosciute utili o superflue e dannose, vengono compiute od omesse, preparate o archiviate, e dipenderà solo da quale convinzione volta a volta abbia la meglio nella socialdemocrazia perché in avvenire si effettuino o meno delle rivoluzioni in paesi capitalisti. Come però la teoria legalitaria del socialismo sottovaluta la potenza del partito operaio in altri settori, così su questo punto la sopravvaluta.
La storia di tutte le rivoluzioni del passato ci mostra che movimenti di violenza popolare, assai lungi dall’essere un prodotto arbitrario e cosciente dei cosiddetti “capi” o dei “partiti”, come si immaginano il poliziotto e lo storico borghese ufficiale, sono piuttosto dei fenomeni sociali del tutto elementari, accavallantisi con la violenza della natura e che trovano la loro origine nella natura di classe della società moderna. A questo stato di cose non ha apportato ancora alcun mutamento neppure l’avvento della socialdemocrazia, ed anche il suo ruolo non consiste nel prescrivere leggi allo sviluppo storico della lotta di classe ma, al contrario, nel piegarsi ad esse e in questa maniera utilizzarle. Se la socialdemocrazia si volesse opporre a delle rivoluzioni proletarie, che rappresentassero una necessità storica, l’unico risultato per essa sarebbe di scadere da una funzione di direzione a una di retroguardia o di trasformarsi in un ostacolo impotente della lotta di classe, che finalmente a un dato momento non potrebbe non svilupparsi, bene o male, senza di essa.
È sufficiente tener presenti questi semplici fatti per rendersi conto che la questione “rivoluzione o passaggio puramente legalitario al socialismo?”, non riguarda la tattica socialdemocratica, ma è anzitutto un problema di “sviluppo storico”. In altre parole: eliminando la rivoluzione dalla lotta di classe proletaria, i nostri opportunisti vengono al tempo stesso a decretare né più né meno che la violenza ha cessato di essere un fattore della storia moderna.
Questo il nocciolo teorico della questione, basta solo formularlo che la follia di un tale punto di vista balza agli occhi: la violenza, non solo con l’avvento della legalità borghese del parlamentarismo, non ha cessato di giocare un ruolo storico, ma è oggi esattamente come in tutte le precedenti epoche la base dell’ordine politico costituito. L’intero stato capitalista riposa sulla violenza e ne è di per sé una prova sufficiente e patente la sua organizzazione militare, e non avvertire ciò costituisce un vero miracolo di abilità del dottrinarismo opportunista. Ma anche gli stessi domini riservati della “legalità”, a più vicino esame, ne forniscono prove sufficienti.
I crediti per la Cina non sono mezzi forniti dalla “legalità”, dal parlamentarismo, per compiere atti di violenza? Sentenze giudiziarie come quelle di Löbtau, non sono un esercizio “legale” della violenza? Anzi, chiediamoci piuttosto: in che consiste propriamente l’intera funzione della legalità borghese?
Se un “libero cittadino”, contro la sua volontà, è posto coercitivamente in uno spazio ristretto e inabitabile, e ivi trattenuto per un certo tempo da un altro individuo, ognuno capisce trattarsi di un atto di violenza. Ma non appena ciò avviene sulla base di un libro stampato, chiamato “codice penale”, e il luogo assume il nome di “regio carcere o penitenziario prussiano”, l’operazione si trasforma in un atto di pacifica legalità. Se un uomo è costretto da un altro, contro la propria volontà, all’uccisione sistematica dei propri simili, si tratta di un atto di violenza. Non appena però la stessa cosa prende nome “servizio militare”, il buon borghese si figura di respirare nella piena quiete della legalità. Se una persona viene defraudata da un’altra contro la propria volontà di una parte dei beni o della mercede, nessuno dubita di essere alla presenza di un atto di violenza; ma se questo modo di procedere ha nome “tassazione indiretta”, allora si tratta semplicemente di esercizio delle leggi in vigore.
In una parola: ciò che ci si presenta come legalità borghese non è altro che la violenza della classe dominante aprioristicamente elevata a norma precettiva. Una volta avvenuta questa fissazione dei singoli atti di violenza a norma obbligatoria, la cosa si può rispecchiare capovolta nella mentalità giuridica borghese come in quella degli opportunisti socialisti: l’ordine legale come una creazione autonoma della giustizia e la violenza coercitiva dello stato semplicemente come una conseguenza, una “sanzione” delle leggi. In effetti è al contrario, proprio la legalità borghese (e il parlamentarismo come la legalità in divenire) a costituire solo una determinata forma sociale fenomenica della violenza politica della borghesia cresciuta sulla base economica.
A ciò va commisurato il fantasioso di tutta quanta la teoria del legalitarismo socialista. Mentre le classi dominanti in tutto il loro ambito d’azione, in tutto il loro fare e disfare, fanno perno sulla violenza, soltanto il proletariato in lotta contro queste classi, dovrebbe aprioristicamente, e una volta per tutte, rinunciarvi. E quale mai terribile spada gli dovrebbe fare da arma per la repressione della violenza organizzata? La stessa legalità, in cui la violenza della borghesia si impronta a violenza costituita, a norma sociale!
Certo, questo terreno della legalità borghese parlamentaristica non si limita ad essere un campo di dominio della classe capitalista, ma è anche il terreno della lotta su cui i contrasti tra proletariato e borghesia pervengono a composizione. Solo che, essendo per la borghesia l’ordinamento giuridico soltanto l'espressione della propria violenza costituita per il proletariato la lotta parlamentare può rappresentare soltanto l’aspirazione ad elevare al potere la propria violenza. Se dietro alla nostra attività legale, parlamentare, non stesse la forza della classe lavoratrice, sempre pronta ad entrare in azione in caso di necessità, l’attività parlamentare della socialdemocrazia si trasformerebbe in una perdita di tempo altrettanto geniale come, per esempio, attingere acqua con un colabrodo. I “realpolitici”, che incessantemente rimandano ai “risultati positivi” dell’attività parlamentare socialdemocratica, per giocarli con un argomento contro la necessità e utilità della violenza nella lotta operaia, non tengono invero conto che questi successi stessi, pur nella loro meschinità, sono pur sempre da considerare come un effetto dell’indivisibile, latente azione della forza.
Ma non basta. Il fatto che alla base della legalità borghese stia ancora solo la violenza, trova espressione nelle vicende della storia particolare del parlamentarismo.
Praticamente ciò si estrinseca nel fatto palpabile che qualora le classi dominanti potessero mai supporre seriamente che dietro ai nostri parlamentari non stessero, al caso, masse popolari pronte all’azione, che le teste rivoluzionarie e le lingue rivoluzionarie non fossero in grado o non ritenessero per opportuno reggere al caso pugni rivoluzionari, in questa eventualità il parlamentarismo stesso e l’intera legalità ci verrebbero prima o poi sottratti sotto i piedi in quanto terreno di lotta politica. Lo dimostra in senso affermativo il destino del diritto elettorale in Sassonia, in senso negativo quello del diritto elettorale al Reichstag. Nessuno può dubitare che in Germania il così frequentemente periclitante suffragio universale non venga “escamoté” non per qualche riguardo verso il liberalismo tedesco, ma principalmente per timore della classe lavoratrice, per convinzione che la socialdemocrazia su questo punto non saprebbe stare allo scherzo. E parimenti anche il maggiore fanatico della legalità non oserebbe contestare che qualora, un giorno il suffragio universale al Reichstag dovesse esso pure essere “escamoté”, non dalle semplici “proteste legali”, quanto piuttosto dall’uso della forza, la classe lavoratrice tedesca potrebbe sperare una riconquista a breve o a lunga scadenza del terreno legale della lotta.
In questo modo già dalle ipotesi pratiche la teoria del legalitarismo socialista viene ridotta all’assurdo, la forza, ben lungi dall'essere detronizzata dalla “legalità”, ne appare piuttosto l’autentica patrocinatrice, più esattamente il fondamento altrettanto dal lato della borghesia come da quello del proletariato.
E viceversa, la legalità si dimostra come il risultato, soggetto a continue oscillazioni, dei rapporti di forza volta a volta intercorrenti tra le classi in conflitto. La Baviera come la Sassonia, il Belgio come il Deutsches Reich, sono altrettanti esempi recentissimi che le regole parlamentari della lotta politica sono accordate o rifiutate, mantenute o revocate, a seconda che gli interessi della classe dominante vi possano essere assicurati o meno nel loro essenziale e, inoltre, a seconda che la forza latente delle masse popolari eserciti con sufficiente efficacia il proprio effetto d’ariete o di arma difensiva.
Ma se dunque la forza in certi casi estremi non può essere evitata in funzione di mezzo difensivo a protezione dell’acquisizione parlamentare, essa risulta non meno mezzo offensivo, in determinati casi insostituibile, là dove compito primo è la conquista del terreno legale della lotta di classe.
I tentativi di revisione dei “mezzi rivoluzionari”, in connessione ai recenti avvenimenti belgi sono piuttosto la prova più notevole di coerenza politica mai offerta da anni, in generale, dalla spinta revisionista. Perfino se si potesse parlare di un fiasco dei “mezzi rivoluzionari”, nel senso di uso della forza, nella campagna belga, la loro sommaria condanna sulla base dell’unica sconfitta belga presuppone evidentemente che l’uso della violenza nella lotta operaia debba comportare incondizionatamente una garanzia di successo in qualunque circostanza e in ogni caso. È chiaro che se fosse lecito argomentare in questi termini da lungo tempo, per esempio, avremmo dovuto archiviare la lotta sindacale, le lotte salariali, che certo ci hanno già fruttato innumerevoli sconfitte.
La circostanza più rimarchevole è tuttavia che nel conflitto belga che dovrebbe averne dimostrato l’inefficacia, non è stato fatto il minimo uso di metodi violenti, qualora non si voglia, all’unisono con la polizia, tacciare di “atto di violenza” il tranquillo sciopero da parte dei lavoratori! E proprio a causa di ciò la sconfitta belga dimostra l’esatto contrario di ciò che le si vuole attribuire: essa dimostra che attualmente, in Belgio, a giudicare dall’insieme, ben scarse si presentano le prospettive di conseguire il suffragio universale paritetico senza il concorso della forza, dato il tradimento dei liberali come la risolutezza clericale a ricorrere a mezzi estremi. Anzi, essa dimostra ancora dell’altro, e cioè che, se perfino forme parlamentari così elementari, così borghesi, per nulla esorbitanti dal quadro dell’ordine esistente, come il diritto elettorale paritetico, non sono procacciabili pacificamente; se le classi dominanti si appellano da parte loro alla forza bruta già per opporsi a una riforma puramente borghese e del tutto naturale per uno stato capitalista, ogni speculazione su una pacifica abolizione parlamentare della violenza statale capitalista, dell’intero dominio di classe, non è dunque che un ridicolo fantastico parto dell’infantilismo politico.
E ancora un’altra cosa la sconfitta belga sta a dimostrare! Dimostra ancora una volta che i legalitari socialisti, prendendo la democrazia borghese per la forma storica predestinata alla graduale realizzazione del socialismo, non operano con una forma concreta di democrazia, con un concreto parlamentarismo, quali conducono una triste e grama esistenza quaggiù sulla terra, ma con una democrazia immaginaria, astratta, concepita al disopra delle classi, in eterno progresso e in continuo sviluppo di autorità.
Sottovalutazione del tutto fantastica della crescente realizzazione e altrettanto fantastica sopravvalutazione delle conquiste della democrazia, si addicono e si completano l’una con l’altra nel modo più felice. Jaurès tripudia nel bel mezzo delle meschine riforme di Millerand e dei microscopici successi del repubblicanismo e interpreta ogni proposta di riforma dell’istruzione ginnasiale, ogni progetto di statistica della disoccupazione come altrettante pietre miliari dell’ordinamento socialista. In questo egli ricorda molto bene il suo conterraneo Tartarin de Tarascon, che nel suo esotico “giardino delle meraviglie”, tra i vasi di fiori con banane “baobab” e alberi di cocco grossi un dito, s’immagina di passeggiare sotto la fresca ombra di una foresta vergine tropicale.
I nostri opportunisti incassano dalla realtà schiaffi sul tipo del recente tradimento del liberalismo belga e poi dichiarano: “caeterum censeo”, il socialismo possa essere realizzato solo mediante la democrazia statale borghese.
Essi non si rendono affatto conto di non far altro che ripetere con parole diverse, vecchie teorie, per le quali la legalità e la democrazia borghesi sarebbero elette a realizzare la libertà, l’uguaglianza e la felicità universale; non teorie della grande rivoluzione francese (le parole d’ordine di questa erano soprattutto espressione di una ingenua fede precedente la riprova storica), ma teorie dei verbosi letterati e avvocati del 1848, degli Odilon Barrot, dei Lamartine, dei Garnier-Pagès, che promettevano di realizzare tutte le promesse della grande rivoluzione per via di semplici ciance parlamentari. Ed era necessario che queste teorie soffrissero un quotidiano fiasco nello spazio di un secolo, che la socialdemocrazia come fallimento fatto carne di queste teorie le seppellisse così radicalmente che perfino il ricordo di esse, dei loro autori, di tutta la loro atmosfera storica fosse sparito per intero, perché potessero ora risorgere sotto la specie di una idea del tutto vergine, ai fini della realizzazione delle mete socialdemocratiche. Ciò che sta alla base delle dottrine opportunistiche non è evidentemente, come si pretende, la teoria dell’evoluzione, ma le ripetizioni periodiche della storia, ogni edizione della quale diventa sempre più noiosa e insulsa.
La socialdemocrazia tedesca ha incontestabilmente realizzato da decenni una revisione estremamente importante della tattica socialista e si è così aggiudicata meriti straordinari presso il proletariato internazionale. La revisione consisteva nell’accantonamento dell’antica fede nella rivoluzione violenta, come unico metodo della lotta di classe e come lo strumento in ogni tempo funzionale per l’introduzione dell’ordinamento socialista. Oggi, come la risoluzione parigina di Kautsky ha ribadito, è divenuta opinione dominante che la presa del potere statale da parte della classe lavoratrice possa essere soltanto il risultato di un periodo più o meno lungo di metodica lotta di classe quotidiana, in quanto gli sforzi per la progressiva democratizzazione dello Stato e del parlamentarismo rappresentano un mezzo estremamente efficace per l’elevazione spirituale e in parte materiale della classe lavoratrice.
Ma ciò è anche tutto quello che praticamente la socialdemocrazia tedesca ha dimostrato. Né in generale la violenza della storia né rivoluzioni violente come strumento di lotta del proletariato sono state con questo bandite una volta per tutte, e il parlamentarismo innalzato a unico metodo della lotta di classe. Tutt’al contrario, la forza è e rimane la “ultima ratio” anche della classe lavoratrice, la legge suprema della lotta di classe, ora allo stato latente, ora in atto. E se noi rivoluzioniam le teste con l’attività parlamentare come con ogni altra, è in fin dei conti, perché in caso di necessità la rivoluzione discenda dalle teste nei pugni.
Non è certamente per predilezione verso le violenze o verso romanticherie rivoluzionarie che i partiti socialisti devono essere preparati, nel caso in cui i nostri sforzi si indirizzino contro interessi vitali delle classi dominanti, anche a cozzi violenti a breve o a lunga scadenza con la società borghese; ma per amara necessità storica. Il parlamentarismo come solo e sacrosanto mezzo politico di lotta della classe lavoratrice, è altrettanto fantastico e in ultima linea reazionario del solo sacrosanto sciopero generale o della sola sacrosanta barricata. Certo, la rivoluzione violenta nelle odierne condizioni è un mezzo di impiego estremamente arduo e a doppio taglio. E dobbiamo anche attenderci che il proletariato faccia uso di questo mezzo solo allorquando esso rappresenti l’unica via pratica per la sua avanzata, e naturalmente solo in circostanze in cui la situazione politica complessiva e il rapporto di forze garantiscano più o meno la probabilità del successo. Ma è “a priori” indispensabile l’aperto riconoscimento della necessità dell’uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe, come per la conquista finale del potere statale; è la forza che può prestare, anche alla nostra attività pacifista, legale, la sua particolare energia ed efficacia.
Se aprioristicamente e una volta per tutte la socialdemocrazia volesse effettivamente rinunziare, come le suggeriscono gli opportunisti, all’uso della forza, e le masse lavoratrici giurassero sulla legalità borghese, prima o poi tutta la loro lotta parlamentare e, in genere, politica, crollerebbe miseramente, per dar via libera allo strapotere della violenza reazionaria.
Rosa Luxemburg (1875-1919)

80 - Formazione dell’”armata di riserva” (1909) (Rosa Luxemburg)

Nel movimento ascendente dell’onere di lavoro e nella compressione del tenore di vita dei lavoratori al livello minimo fisiologico e in parte considerevolmente sotto lo stesso livello, il moderno sfruttamento capitalistico sta alla pari a quanto praticato nell’economia schiavista e in regime di servitù della gleba durante il periodo della loro peggiore degenerazione, quando cioè queste due forme economiche erano prossime alla disgregazione. Ma di esclusiva prerogativa della produzione mercantile capitalistica rimane il fenomeno - in precedenza del tutto sconosciuto – dell’esistenza permanente di uno stato di disoccupazione e conseguentemente di non-consumo tra le file dei lavoratori; vale a dire il fenomeno della cosiddetta armata di riserva del lavoro. La produzione capitalistica dipende dal mercato e non può non seguirne la domanda. Ma questa muta continuamente e dà alternativamente origine ad esercizi annuali, “saisons” e mesi cosiddetti buoni e cattivi. Il capitale deve continuamente adeguarsi a codesti mutamenti congiunturali e conseguentemente impiegare un numero ora maggiore ora minore di lavoratori. Perciò per avere sotto mano in ogni momento la quantità di forze di lavoro necessaria per far fronte anche alle più forti richieste del mercato, accanto a un certo numero di lavoratori occupati occorre tenere costantemente a disposizione un considerevole numero di disoccupati di riserva. In quanto tali, i lavoratori non-occupati non fruiscono di alcun salario, la forza lavoro non è comprata, è semplicemente in deposito; il non-consumo di una parte della classe lavoratrice costituisce dunque una parte essenziale e integrante della legge del salario della produzione capitalistica. Come questi disoccupati si conservino in vita, non riguarda il capitale, ma ogni tentativo di eliminare l’armata di riserva è da questo respinto come un attentato ai propri interessi vitali. Un esempio clamoroso ce lo fornisce la crisi cotoniera inglese dell’anno 1863. Allorché, improvvisamente, per mancanza di cotone grezzo americano, le filande e le fabbriche inglesi di tessuti dovettero interrompere la produzione e quasi 1 milione di popolazione operaia rimase senza pane, per sfuggire alla minaccia della morte per fame una parte di questi disoccupati decisero di emigrare in Australia. Essi chiesero al parlamento inglese la concessione di 2 milioni di sterline, al fine di rendere possibile l’emigrazione di 50.000 operai disoccupati. Contro questa audace richiesta operaia, i cotonieri elevarono grida di indignazione. L’industria non può fare a meno delle macchine e gli operai sono essi pure delle macchine, non si deve dunque rimanerne sprovvisti. “Il paese” avrebbe sofferto una perdita di 4 milioni di sterline, qualora i disoccupati affamati si fossero improvvisamente allontanati. In conformità il parlamento ricusò i fondi di emigrazione e i disoccupati rimasero incatenati al loro digiuno al fine di costituire la riserva indispensabile al capitale. Un altro drastico esempio è quello fornito dai capitalisti francesi nell’anno 1871. Quando, dopo la caduta della Comune, con e senza formalità giuridiche era persistentemente perseguito il massacro degli operai parigini e venivano così assassinati decine di migliaia di proletari - e, naturalmente, i migliori e capaci - coloro che costituivano l’élite operaia, in mezzo al soddisfatto sentimento di vendetta si destò nel padronato una preoccupazione che il capitale non dovesse presto risentire dolorosamente la scarsità di “braccia” sul mercato; proprio allora, infatti, a guerra conclusa, l’industria andava incontro a un fervido risveglio degli affari. Parecchi imprenditori parigini non temettero quindi di adoperarsi presso tribunali a temperare le persecuzioni dei comunardi, in modo da risparmiare la mano d’opera dalla carneficina delle sciabole per il braccio secolare del capitale.
Ma doppia è la funzione che l’armata di riserva ha da svolgere a pro del capitale: in primo luogo, di fornire forza lavoro per ogni eventualità di repentino incremento degli affari, e in secondo luogo, di esercitare attraverso la concorrenza costituita dai disoccupati una costante pressione sui lavoratori occupati, e di abbassare a un minimo i salari di questi ultimi.
Marx distingue nell'armata di riserva quattro diversi strati, la cui funzione per il capitale e le cui condizioni di esistenza si configurano diversamente. Lo strato superiore risulta dalla disoccupazione periodica di lavoratori industriali, un fenomeno che si registra costantemente in tutti i mestieri, inclusi i più favorevoli. La sua composizione muta di continuo, perché ad ogni operaio capita di rimanere, a volte, senza lavoro e a volte di essere occupato; il loro numero è anche fortemente fluttuante a seconda dell’andamento degli affari. Molto elevato in tempo di crisi, minore in congiuntura favorevole; ma non si esaurisce mai e, in generale, si accresce col procedere dello sviluppo industriale. Il secondo strato, è quello del proletariato degli operai non qualificati che affluiscono in città dalla campagna, si presentano sul mercato con minori pretese e, in quanto semplici manovali, non sono legati a uno specifico ramo di lavoro, ma fungono da serbatoio a disposizione di tutti i settori. La terza categoria è quella dei proletari infimi senza regolare occupazione, e costantemente alla ricerca di questo o quel lavoro occasionale. Tra di essi sono da ricercare le più lunghe giornate di lavoro, i salari più bassi, e perciò questo strato non è altrettanto utile dei precedenti più elevati, ma addirittura altrettanto indispensabile al capitale. Esso trova costantemente le sue reclute tra la mano d’opera in soprannumero dell’industria e dell’agricoltura, particolarmente però tra il piccolo artigianato in rovina e i mestieri subalterni morenti. Esso costituisce la vasta base dell’industria a domicilio e in generale agisce, per così dire, dietro le quinte, dietro il palcoscenico ufficiale dell’industria. Ma non solo non ha nessuna tendenza a sparire ma, al contrario, si incrementa, tanto in conseguenza, degli effetti crescenti dell’industria sulla città e la campagna, come per la più forte natalità.
Finalmente il quarto strato dell’armata di riserva proletaria è costituito dai veri e propri “pauperes”, i poveri, in parte abili al lavoro e in periodi di buon andamento degli affari parzialmente occupati nell’industria o nel commercio, da cui sono i primi ad essere cacciati fuori in periodi di crisi; in parte inabili: vecchi operai che l’industria non può più utilizzare, vedove proletarie, orfani, figli di indigenti, mutilati e invalidi della grande industria, dell’industria mineraria, ecc...; da ultimo, elementi disadatti al lavoro: vagabondi e simili. Questo strato dà direttamente nel “Lumpenproletariat”: delinquenti, prostitute, anormali e simili. Il pauperismo, dice Marx, rappresenta l’ospizio di invalidità della classe operaia e il peso morto della sua armata di riserva. La sua esistenza non è meno una conseguenza necessaria e inevitabile dell’armata di riserva, di quanto questa non lo sia dello sviluppo dell’industria. La povertà e il “Lumpenproletariat” sono tra le condizioni d’esistenza del capitalismo e fanno tutt’uno con il suo sviluppo: quanto maggiore la ricchezza sociale, il capitale attivo e la massa dei lavoratori da esso impiegata, tanto maggiore anche il numero di disoccupati disponibile, l’armata di riserva. Quanto maggiore l’armata di riserva in relazione alla massa di lavoratori occupata, tanto maggiore lo strato inferiore della povertà del pauperismo, della delinquenza. Col capitale e la ricchezza cresce inevitabilmente anche la quantità dei disoccupati e dei senza salario e conseguentemente anche il “lazzaretto” della classe lavoratrice - la povertà ufficiale. Questa, dice Marx, la legge assoluta e generale dello sviluppo capitalistico.
Il fenomeno costituito dalla formazione di uno strato permanente e crescente di elementi senza lavoro era sconosciuto, lo abbiamo detto a tutte le precedenti forme sociali. (...)
La storia del passato conosce solo un esempio in cui un grande strato di popolazione sia rimasto senza occupazione e senza pane. È il caso degli antichi contadini romani che, cacciati dalle loro terre e trasformati in proletariato, rimasero privi di occupazione. Questa proletarizzazione dei contadini fu certo una conseguenza logica e necessaria della costituzione dei grandi latifondi come pure della diffusione dell’economia schiavistica. Ma, per l’esistenza dell’economia schiavistica e del grande possesso fondiario il fenomeno non era assolutamente indispensabile. Al contrario, il proletariato romano disoccupato fu solo una calamità, un nuovo onere per la società, e la società di allora cercò di porre rimedio al proletariato e alla sua miseria con tutti i mezzi a lei accessibili: periodica distribuzione di terre, distribuzione di mezzi di sussistenza, regolamentazione di una enorme importazione di grano, e bassi prezzi artificiali delle granaglie. In conclusione, questo grande proletariato dell’antica Roma veniva bene o male mantenuto direttamente dallo Stato.
La produzione mercantile capitalistica è la prima forma di economia nella storia dell’umanità in cui la disoccupazione e l’indigenza di un grande e crescente settore della popolazione e la diretta povertà senza speranze di un altro settore parimenti crescente, sia non soltanto una conseguenza, ma anche una necessità, una condizione di vita di questa economia. Incertezza nell’esistenza di tutta la massa lavoratrice e cronico stato di ristrettezze, in parte miseria vera e propria di determinati larghi strati della popolazione, sono per la prima volta un fenomeno normale della società.
E gli intellettuali della borghesia, che non riescono a immaginarsi altra forma sociale di quella attuale, sono così compresi di questa necessità naturale d’uno strato di disoccupati e affamati, da interpretarla come una legge di natura voluta da Dio. Al principio del sec. XIX, l’inglese Malthus, ne fece il fondamento della sua celebre teoria della sovrapopolazione, secondo la quale la povertà trae origine dalla cattiva abitudine dell’umanità di moltiplicare le progenie più rapidamente dei mezzi di sussistenza.
Ma, abbiamo visto, questi risultati non sono altro che i semplici effetti della produzione e dello scambio mercantili. Questa legge mercantile che formalmente riposa sulla piena uguaglianza e libertà, genera - di assoluta meccanicità, senza alcun intervento giuridico o violento e con ferrea necessità - una disuguaglianza sociale così crassa quale assolutamente mai fu conosciuta in tutti i rapporti sociali precedenti basati sul dominio diretto dell’uomo sull’uomo. Per la prima volta la fame è direttamente il pungolo, che giornalmente mette alla frusta la vita della massa lavoratrice. E anche questo viene spiegato come “legge di natura”.
Il prete anglicano Townsend già nell’anno 1786 scriveva: “Sembra una legge di natura che i poveri siano a un grado tale dei leggeroni da essercene continuamente per l’adempimento delle funzioni più servili, sudici e comuni della comunità. I fondi di umana felicità vengono così assai accresciuti, i più delicati sono liberati dagli strapazzi e possono dedicarsi indisturbati a più alti compiti. La legge sui poveri ha la tendenza a distruggere l’armonia e la bellezza, la simmetria e l’ordine di questo sistema che Dio e la natura hanno creato”.
I “delicati” che vivono a spese degli altri, hanno visto in ciò il dito di Dio e una legge della natura, come sempre del resto, in ogni forma di società che assi curasse loro le gioie della vita, i maggiori spiriti non esclusi da questa illusione storica. Così scriveva - di alcuni millenni precorrendo il sacerdote inglese - il grande pensatore greco Aristotele: “ È la natura stessa che ha creato la schiavitù. Gli animali si dividono in maschi e femmine. Il maschio è un animale perfetto e comanda, la femmina è meno perfetta e obbedisce. Parimenti nella razza umana si danno individui che stanno tanto più in basso degli altri, quanto il corpo rispetto all’anima o l’animale rispetto all’uomo; ci sono esseri che sono esclusivamente capaci di lavori fisici, e sono inetti a portare a termine qualcosa di più perfetto. Questi individui sono per natura destinati alla schiavitù, perché per loro non v’è alcunché di meglio che obbedire ad altri... In conclusione c’è poi un così grande divario tra lo schiavo e l’animale? I loro lavori si eguagliano, essi ci sono utili solo per il loro corpo. Concludiamo dunque da questi principi che la natura ha fatto certi uomini per la libertà e altri per la schiavitù, che è dunque utile e giusto che lo schiavo si rassegni”.
La “natura” che è dunque fatta responsabile di ogni forma di sfruttamento, col tempo in ogni caso deve avere di molto corrotto i propri gusti. Poiché se ancora può valere la pena sottomettere all’ignominia della schiavitù una grande massa di popolo per sollevare sulla schiena di questa un libero popolo di filosofi e geni come Aristotele, la degradazione attuale di milioni di proletari e di grassi dignitari ecclesiastici è uno scopo che si presenta ben poco allettante.
Rosa Luxemburg (1875-1919)

81 - Le tendenze dell’economia capitalistica (1909) (Rosa Luxemburg)

Abbiamo visto come la produzione mercantile sia sorta dopo la graduale dissoluzione di ogni forma di società con una qualche determinata organizzazione pianificata della produzione - società comunistica primitiva, economia schiavistica, economia medioevale. Abbiamo inoltre visto come dall’economia mercantile semplice, ossia dalla produzione cittadina artigianale alla fine del Medioevo si sia sviluppata del tutto meccanicamente, vale a dire senza intervento della volontà e della coscienza degli uomini, l’attuale economia capitalistica. In principio ci siamo posti l’interrogativo: “Com’è possibile l’economia capitalistica?” Questa è in vero anche la questione scientifica fondamentale dell’economia politica. Ora, la scienza ce ne dà una risposta adeguata. Essa ci mostra come si articoli come un tutto e possa funzionare l’economia capitalistica che, in considerazione della sua completa deficienza di pianificazione e della mancanza di ogni cosciente organizzazione, al primo sguardo si presenterebbe come una impossibilità, un inestricabile indovinello. E precisamente in questo modo:
Mediante lo scambio delle merci e l’economia monetaria, con cui congiunge economicamente tutti i singoli produttori e i più remoti paesi della terra e realizza così la divisione del lavoro su tutta la terra;
mediante la libera concorrenza che assicura il progresso tecnico e contemporaneamente trasforma costantemente in proletari i piccoli produttori, così da mettere a disposizione del capitale la forza-lavoro da acquistare;
mediante la legge capitalistica del salario che, da un lato, meccanicamente provvede a che i salariati non si sollevino mai dallo stato di proletari e non si sottraggano al lavoro agli ordini del capitale, dall’altro permette al capitale un sempre maggiore ammassamento di lavoro non pagato, sempre maggior accumolo ed ampiamento dei mezzi di produzione;
mediante l’armata di riserva industriale che concede alla produzione capitalistica ogni possibilità di dilatazione e di regolazione secondo i bisogni della società;
mediante il livellamento del tasso di profitto che condiziona il costante movimento del capitale da un ramo di produzione a un altro e così regola l’equilibrio della divisione del lavoro, infine:
mediante le oscillazioni di prezzo e le crisi, che in parte quotidianamente, in parte periodicamente, portano un aggiustamento tra la produzione cieca e caotica e le necessità sociali.
In questo modo, grazie all’azione meccanica delle suddette leggi economiche, sorte del tutto spontaneamente, senza alcun cosciente intervento della società, l’economia capitalistica sussiste. Vale a dire, in questo modo diviene possibile che, nonostante faccia difetto un qualunque rapporto economico organizzato tra singoli produttori, nonostante la totale mancanza di pianificazione nell’attività, economica degli uomini, la produzione sociale e il circolo che essa attua col consumo procedano, la grande massa della società venga mantenuta al lavoro e assicurato il progresso economico: lo sviluppo della produttività del lavoro umano come fondamento dell’intero progresso civile.
Ma si tratta delle condizioni fondamentali dell’esistenza di una qualunque società umana, e fintanto che una forma di economia storicamente sorta soddisfi a queste condizioni, per quanto dipende da essa, è in grado di sopravvivere, sempre che rappresenti una necessità storica.
I rapporti sociali non sono però delle forme pietrificate, immutabili. Abbiamo visto come nel corso dei tempi essi abbiano subito molteplici variazioni, come siano soggetti a un eterno mutamento, attraverso cui appunto si fa strada il progresso civile umano, l’evoluzione.
Ai lunghi millenni dell’economia comunistica primitiva, che conducono la società umana dai primordi di un’esistenza ancora semianimale a un alto grado di sviluppo civile, alla formazione della lingua e della religione, all’allevamento del bestiame e all’agricoltura, alla vita in sedi stabili e alla costruzione di villaggi, segue la formazione della schiavitù antica che da parte sua porta con sé nuovi e grandi progressi della vita sociale per finire, a sua volta, con la decadenza del mondo antico. Dalla società comunistica dei Germani nell’Europa centrale cresce sulle rovine del mondo antico una nuova struttura: l'economia servile, basata sul feudalesimo medioevale.
Lo sviluppo riprende il suo processo ininterrotto: in grembo alla società feudale medioevale nascono nelle città dei germi di una forma economica e sociale tutt’affatto nuova, si costituiscono le corporazioni artigianali, la produzione mercantile e una regolare attività commerciale, che finiscono per decomporre la società servile feudale; questa va a pezzi per far posto alla produzione capitalistica che, grazie al commercio mondiale, alla scoperta dell’America e della via marittima per le Indie, è venuta crescendo dalla produzione mercantile artigianale.
Da parte sua, il sistema di produzione capitalistico, considerato a priori da tutta l’enorme prospettiva del progresso storico, non è né immutabile né eterno, ma una semplice fase di passaggio a ugual titolo delle trascorse forme sociali, un gradino nella colossale scala dello sviluppo civile umano. E in effetti, osservato più da vicino, lo sviluppo stesso del capitalismo porta con sé le ragioni del proprio tramonto e superamento. Finora abbiamo orientato la nostra ricerca in direzione dei rapporti che rendono possibile l’economia capitalistica: è ora tempo di passare a conoscere quelli che la rendono impossibile.
A questo scopo basta solo trarre le conseguenze ulteriori delle leggi interne del dominio capitalistico. Sono esse stesse a rivolgersi a un certo grado dello sviluppo contro tutte le condizioni fondamentali di esistenza della società umana. Ciò che particolarmente contraddistingue il sistema di produzione capitalistico di fronte a tutti quelli precedenti, è la sua interna spinta a estendersi meccanicamente su tutta la superficie della terra e a eliminare ogni altro ordinamento sociale antecedente. Ai tempi del comunismo primitivo, tutto il mondo, per quanto accessibile alla ricerca storica, era uniformemente coperto di economie comunistiche. Solo che tra le singole comunità e tribù comunistiche non esistevano affatto relazioni, o ne esistevano di debolissime nel caso di prossimità geografica. Ognuna di tali comunità o tribù viveva per sé una vita chiusa e se anche incontriamo fatti sorprendenti, come per esempio la quasi identità di denominazione della comunità comunistica germanica e quella paleoperuviana del Sud America, “Mark” l’una, “marca” questa, sinora la circostanza resta ancora per noi un enigma irrisolto, quando non si tratti di un semplice caso. Anche al tempo della diffusione della schiavitù antica troviamo maggiori o minori somiglianze nell’organizzazione e nella struttura delle singole economie e dei singoli Stati schiavistici dell’antichità, non tuttavia una loro comunione di vita economica. Nello stesso modo la storia dell’artigianato corporativo e della sua liberazione si è ripetuta con maggiore o minore somiglianza nella maggior parte delle città italiane, tedesche, olandesi, inglesi, ecc. medievali; ma si è per lo più trattato della storia isolata di ciascuna città. La produzione capitalistica si estende su tutti i paesi, non semplicemente configurandoli economicamente tutti in egual modo, ma collegandoli a un’unica grande economia mondiale capitalistica.
All’interno di ciascun paese industriale europeo la produzione capitalistica soppianta incessantemente il piccolo esercizio, l’artigiano e il piccolo contadino. Contemporaneamente, essa trascina nell’ambito dell’economia mondiale tutti i paesi europei arretrati nonché l’America, l’Asia, l’Africa, l’Australia in due modi: col commercio mondiale e con le conquiste coloniali. Questi fenomeni cominciarono all’unisono già con la scoperta dell’America, alla fine del sec. XV, si estesero ulteriormente nel corso dei secoli seguenti, ma raggiunsero un maggior vigore particolarmente nel corso del sec. XIX, allargandosi sempre di più. Entrambi - commercio mondiale e conquiste coloniali - agiscono in collaborazione nella seguente maniera. Dapprima portano i paesi industriali capitalistici europei in contatto con ogni specie di forme sociali di altre parti del mondo, a livelli di civiltà e di economia più antichi: economie schiavistiche contadine, economie servili feudali, ma prevalentemente forme comunistiche primitive. Mediante il commercio, in cui vengono attirate queste economie, rapidamente si decompongono e vanno in rovina. Mediante la fondazione di società commerciali coloniali in suolo straniero, o mediante conquista diretta, sia la terra - la più importante base della produzione - come il bestiame, dove esso esiste, cadono nelle mani di Stati europei o delle società commerciali. In questo modo i rapporti sociali originari e il sistema economico degli indigeni vengono dovunque distrutti. Interi popoli in parte sterminati, per il resto proletarizzati e in questa o quella forma come schiavi o come salariati posti al servizio del capitale industriale e commerciale. La storia delle decennali guerre coloniali che si protraggono per tutto il sec. XIX: insurrezioni contro Francia, Inghilterra, Olanda e Stati Uniti in Asia, contro Spagna e Francia in America - è la storia della lunga e tenace resistenza delle vecchie società indigene contro la loro distruzione e proletarizzazione da parte del moderno capitale - una lotta dalla quale, in conclusione, il capitale emerge ovunque vincitore.
In prima linea ciò equivale a un’enorme estensione del campo di dominio del capitale, a uno sviluppo del mercato e dell’economia mondiale, in cui i paesi popolati del globo terrestre sono reciprocamente produttori e acquirenti dei prodotti, lavorano in collaborazione, sono ripartizioni di una e identica economia, che abbraccia tutta la terra.
Ma ecco l’altra faccia della medaglia: l’immiserimento progressivo sulla superficie terrestre di sempre più vasti settori dell’umanità e progressiva incertezza della loro esistenza. Con la sostituzione di antichi rapporti comunistici, contadini o di quelli servili, dalle limitate forze produttive e dal benessere minimo, ma con condizioni di esistenza salde e assicurate a tutti, a pro dei rapporti coloniali capitalistici, con relativa proletarizzazione e schiavitù salariale, per tutti i paesi interessati d’America, Asia, Africa, Australia, sopravviene l’ora della nuda miseria, di dissueto e insopportabile onere di lavoro e per soprammercato di totale incertezza dell’esistenza. Dopo che il fertile e ricco Brasile è stato trasformato per le necessità del capitalismo europeo e nordamericano in un’immensa desolazione e in un’uniforme piantagione di caffè e intere masse di indigeni in schiavi salariati e proletarizzati ad uso delle piantagioni, come se non bastasse, questi schiavi salariati in seguito ad un fenomeno di natura puramente capitalistica - la cosiddetta “crisi del caffè” - vengono improvvisamente abbandonati per un bel tratto di tempo alla disoccupazione e a cruda fame. La ricca ed enorme India, dopo decenni di resistenza disperata, venne assoggettata al dominio del capitale dalla politica coloniale inglese, e da allora carestia e tifo famelico, che mietono ogni volta milioni di vittime, sono ospiti periodici della regione del fiume Gange. Nell’interno dell’Africa, negli ultimi 20 anni la politica coloniale inglese e tedesca ha in parte trasformate in schiavi salariati, in parte fatte morire di fame, intere popolazioni, disperse ai quattro venti le loro ossa. Le disperate insurrezioni e le epidemie di fame nella gigantesca Cina sono le conseguenze della disgregazione della vecchia economia contadina e artigianale di quel paese a causa della penetrazione del capitalismo europeo. La penetrazione del capitalismo europeo negli Stati Uniti fu accompagnata in un primo tempo dalla distruzione degli indiani americani indigeni e dalla rapina delle loro terre da parte degli inglesi immigrati; in seguito dall’installazione, all’inizio del XIX secolo, di una produzione capitalistica di materie prime per l’industria inglese, poi dalla schiavizzazione di quattro milioni di negri africani, che furono venduti in America da mercanti di schiavi europei per essere posti al servizio del capitale come forza lavoro per le piantagioni di cotone, di zucchero e di tabacco.
Così una parte del mondo dopo l’altra e in ogni continente una contrada dopo l’altra, una razza dopo l’altra, cadono fatalmente sotto il dominio del capitale, e sono sempre nuovi innumerevoli milioni di persone che decadono nella proletarizzazione, nella schiavitù, nell’insicurezza dell’esistenza, in breve nell’immiserimento. L'istituzione dell’economia capitalistica porta d’altro canto con sé sempre maggiore miseria, un intollerabile onere di lavoro e una crescente incertezza dell’esistenza su tutta la terra, a cui corrisponde l’accumulo del capitale in poche mani. L’economia mondiale capitalistica significa sempre più l’aggiogamento di tutta l’umanità a un lavoro faticoso in condizioni di privazioni e sofferenze innumerevoli, di degenerazione fisica e spirituale, al fine esclusivo dell’accumulo di capitali. Abbiamo visto: il sistema di produzione capitalistico ha la particolarità che per esso il consumo umano, che nelle precedenti forme economiche era scopo, diventa solo mezzo, ai servizi del fine vero e proprio: l’accumulo di profitto capitalistico. L’autosviluppo del capitale appare principio e fine, scopo assoluto e senso di tutta la produzione. La follia di questi rapporti si rivela tuttavia soltanto nella misura in cui la produzione capitalistica si dilata a produzione mondiale. Qui, alla scala dell’economia mondiale, l’assurdo dell’economia capitalistica raggiunge la sua esatta espressione nel quadro di una umanità intera gemente tra spaventose sofferenze, sotto il giogo di una cieca potenza sociale da lei stessa inconsciamente creata, il capitale. Lo scopo fondamentale di ogni forma sociale di produzione: il sostentamento della società attraverso il lavoro, la soddisfazione dei suoi bisogni appare qui soltanto completamente posta sulla testa, in quanto diventano legge su tutta la superficie della terra la produzione non per amore degli uomini, ma del profitto e regola il sotto consumo, la costante incertezza del consumo e, periodicamente, il diretto non consumo dell’enorme maggioranza degli uomini.
Nello stesso tempo lo sviluppo dell’economia mondiale comporta ancora altri importanti fenomeni e perfino per la produzione capitalistica stessa. Come abbiamo detto, il dominio capitalistico europeo fa il suo ingresso nei paesi in due tappe: anzitutto la penetrazione commerciale e il conseguente inserimento degli indigeni nello scambio mercantile, in parte anche la trasformazione delle forme di produzione indigene preesistenti in produzione mercantile; in seguito, l’espropriazione, in questa o in quella forma delle terre dei nativi e conseguentemente dei loro mezzi di produzione. Questi mezzi di produzione nelle mani degli europei si trasformano in capitale, mentre gli indigeni si trasformano in proletari. A queste due prime tappe, tuttavia, ne segue di regola prima o poi una terza: la fondazione nel paese coloniale di una vera e propria produzione capitalistica, sia per iniziativa di europei immigrati che di indigeni arricchiti. Gli Stati Uniti del Nord America, che dapprincipio furono popolati da inglesi ed altri europei emigrati, dopo la distruzione, nel corso di una lunga guerra, dei pellirossa indigeni, costituirono dapprima un retroterra agricolo dell’Europa capitalistica destinato a fornire all’industria inglese le materie grezze, come cotone e grano, e acquirente, in cambio, di ogni specie di prodotti industriali di provenienza europea. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, sorge negli Stati Uniti una industria locale che non solo subentra all’importazione dall’Europa, ma ben presto entra in dura concorrenza col capitalismo europeo nella stessa Europa e nelle altre parti del mondo. In India, con l'industria tessile, e di altro tipo locale, è sorto parimenti un pericoloso concorrente al capitalismo inglese. L'Australia ha battuto la stessa strada la stessa strada evolutiva, da paese coloniale a paese industriale e capitalistico. In Giappone già alla prima tappa, dietro impulso del commercio mondiale, si è sviluppata un’industria locale, ciò che ha protetto il Giappone dalla ripartizione colonialistica europea. In Cina, il processo di smembramento e saccheggio del paese da parte del capitalismo europeo si complica con gli sforzi interni di fondare, con l’aiuto del Giappone, una propria produzione capitalistica contro quella europea, onde ne risultano anche per la popolazione complicazioni e sofferenze raddoppiate. In questo modo, non solo sono il dominio e l’autorità del capitale ad estendersi su tutta la terra mediante la creazione di un mercato mondiale, ma è il sistema di produzione capitalistico a diffondersi a poco a poco sull’intera superficie terrestre. Ma in questo modo i bisogni di espansione della produzione e il suo mercato, vale a dire la possibilità di vendita, entrano in un rapporto reciprocamente sempre più critico. Come abbiamo visto, è intima esigenza e legge di vita della produzione capitalistica, che essa abbia la possibilità di non rimanere ferma, bensì di estendere sempre più e addirittura, sempre più rapidamente, cioè di produrre sempre più celermente maggiori quantità di merci in sempre più vaste aziende con sempre più perfezionati mezzi tecnici. In sé stessa, questa possibilità di espansione della produzione capitalistica non conosce confini, perché il progresso tecnico e conseguentemente anche le forze produttive della terra non hanno limiti. Solo che questa esigenza di espansione va a cozzare contro limiti ben determinati, cioè contro l'interesse, per il profitto da parte del capitale. La produzione e la sua espansione hanno senso unicamente se, almeno, ne derivi il profitto medio “corrente”. Ma che ciò avvenga, dipende dal mercato, cioè dal rapporto tra la domanda solvente da parte dei consumatori e la quantità delle merci prodotte e i loro prezzi. L’interesse per il profitto da parte del capitale, che da un lato esige una sempre più rapida e sempre maggiore produzione, si crea dunque da se stesso ad ogni piè sospinto dei limiti di mercato che ostacolano la violenta spinta espansiva della produzione. Ne risulta, come abbiamo visto, l’inevitabilità delle crisi industriali e commerciali che periodicamente equilibrano il rapporto tra la spinta produttiva capitalistica - in sé sfrenata e illimitata - e i limiti capitalistici di consumo e rendono possibile la sopravvivenza e l’ulteriore sviluppo del capitale.
Solo che quanti più paesi sviluppano una propria industria capitalistica tanto maggiori sono l’esigenza e le possibilità di espansione dei limiti del mercato. Se si confrontano i progressi compiuti dall’industria inglese negli anni “sessanta” e “settanta”, quando era ancora il paese capitalistico dominante sul mercato mondiale, con il suo sviluppo negli ultimi due decenni, da quando Germania e Stati Uniti del Nord America hanno notevolmente limitato il peso inglese sul mercato mondiale, risulta che in relazione al passato la sua crescita si è fatta assai più lenta. Ma ciò che fu isolatamente il destino dell’industria inglese minaccia inevitabilmente anche l’industria tedesca, nordamericana e finalmente tutta l’industria mondiale. Irresistibilmente, ad ogni passo innanzi del suo proprio sviluppo, la produzione capitalistica si approssima al momento in cui non si potrà espandere e sviluppare che sempre più lentamente e con difficoltà. Certo, lo sviluppo capitalistico ha di per se stesso ancora il tempo per compiere un grande tratto di strada, durante il quale il sistema di produzione capitalistico dominante sul mercato mondiale rappresenterà ancora soltanto la frazione minore della produzione complessiva della terra. Perfino nei più vecchi paesi industriali dell’Europa, accanto a grandi aziende industriali continuano ad esistere numerosi piccoli esercizi artigianali e soprattutto la maggior parte della produzione dell’economia rurale, cioè quella contadina, non esercita su base capitalistica. Inoltre, ci sono in Europa interi paesi, in cui la grande industria è appena sviluppata, mentre la produzione artigianale locale porta un carattere prevalentemente contadino e artigianale. E finalmente, nelle restanti parti del mondo, eccettuato il Nord America, i centri di produzione capitalistica costituiscono solo piccoli punti dispersi mentre interi enormi tratti di paese in parte non sono neppure passati alla semplice produzione mercantile. Certo, la vita economica di tutti questi strati sociali e paesi europei a produzione non capitalistica come quella dei paesi extraeuropei è anch’essa dominata dal capitalismo. Per quanto personalmente possa condurre ancora la più primitiva economia parcellare, il contadino europeo dipende nel modo più completo dall’economia del grande capitale, dal mercato mondiale col quale lo hanno portato in contatto il commercio e la politica fiscale dei grandi Stati capitalistici.
Nello stesso modo, i paesi primitivi extraeuropei vengono portati dal capitalismo europeo e nordamericano, dal commercio mondiale e dalla politica coloniale. Di per se stesso il sistema di produzione capitalistico potrebbe ancora trovare una forte espansione, qualora dovesse eliminare dovunque tutte le forme arretrate di produzione. In linea generale anche l’evoluzione si svolge, come abbiamo già esposto, in questa direzione. Solo che è proprio attraverso questo procedere che il capitalismo si avviluppa nella contraddizione fondamentale; quanto più in luogo di produzioni più arretrate subentra quella capitalistica, tanto più stretti si fanno, per le esigenze di espansione degli esercizi capitalistici già esistenti, i limiti del mercato creati dall’interesse per il profitto. La cosa si fa del tutto chiara se ci rappresentiamo per un momento che lo sviluppo del capitalismo sia progredito così lontano che sulla superficie terrestre tutto quanto prodotto da uomini, lo sia solo capitalisticamente, vale a dire solo da imprenditori privati capitalistici in grandi aziende con moderni lavoratori salariati. È a questo punto che viene chiaramente in luce l'impossibilità (indefinita) del capitalismo.
Rosa Luxemburg
 

82 - Il partito socialista italiano (1911) (Rosa Luxemburg)

L’ultimo Congresso del Partito socialista italiano è stato per ogni socialista un fatto di grandissima importanza nella vita del movimento operaio internazionale. Mai, come allora in Italia, si è palesato con spaventosa chiarezza che il partito socialista ha la sua ragione di vita solo nel fatto di essere l’avanguardia cosciente nella lotta di classe del proletariato e che, venendogli a mancare questa funzione, esso deve necessariamente presto o tardi perire. L'impressione più viva è stata senza dubbio, quella che il partito italiano si avvii sopra una strada che conduce all’abisso. Non questa o quella politica, non l’una o l’altra tendenza, ma l’avvenire, l’esistenza stessa del partito, ha dato al Congresso di Milano la sua eminente e, direi anche, tragica importanza per il socialismo internazionale. Se dibattito vi fu, fu per le cause della decadenza, fu circa i mezzi per combatterla; ma il fatto della decadenza non fu messo in dubbio, si palesò anzi tutti nella sua cruda nudità.
Così il movimento italiano da circa dieci anni a questa parte ha assunto l’importanza di un esempio ammonitore per l’Internazionale tutta. Nel suo attuale disorientamento e nella sua debolezza, esso grida ai socialisti di tutto il mondo: ecco a che cosa si riduce il partito socialista qualora le tendenze opportunistiche prendono il sopravvento e quando sposta il proprio centro di gravità dalla propaganda rivoluzionaria nelle masse all’azione parlamentare.
Dopo pochi anni di questa politica pratica essa si palesa quale la meno pratica di questo mondo perché essa è veramente intenta a segare il ramo sul quale sta seduta. Essa perde il contatto con le masse del proletariato, perde il terreno sotto ai suoi piedi, diventa il trastullo della politica borghese trascinandosi dietro, quale ombra della propria debolezza, il sindacalismo, questa caricatura anarchica del socialismo rivoluzionario. Ma l’esperimento fatto con logica così spietata dall’opportunismo socialista non può avere in Italia che una conseguenza sola, quella di rigenerare il movimento operaio. Le leggi obiettive dell’evoluzione capitalista e della lotta di classe, non hanno cessato di agire e di imporsi solo perché i capi del partito socialista le abbiano perdute di vista per un momento. Queste leggi storiche obbiettive del capitalismo debbono anche in Italia esplicarsi con un movimento rivoluzionario di classe fugando le nebbie dell’opportunismo. E perciò traiamo la certezza della vittoria finale dell’ala rivoluzionaria, per quanto ne possa parere precaria e difficile la posizione. Oggi non è che una minoranza, un terzo all’incirca dell’intero partito socialista, ma essa ne costituisce il virgulto giovane dal quale dovrà nascere la rigenerazione del movimento operaio italiano. L’ala rivoluzionaria, costituisce anche in Italia l’avanguardia dell’Internazionale operaia, che nella sua grandissima maggioranza tiene sempre alta la bandiera della lotta di classe. Perciò il nuovo periodico degli intransigenti italiani sarà raccolto con soddisfazione e gioia dai socialisti di tutti i paesi. Dieci anni fa ancora, l’aristocratica rivista del partito italiano, la “Critica sociale”, portava come sottotitolo quello di “rivista di socialismo scientifico”. In seguito il sottotitolo fu omesso. Anche il socialismo “scientifico” andò in soffitta. Possa esso rivivere nel nuovo giornale. Possa il proletariato italiano, vittima di tanto sfruttamento trarre dalla “soffitta” coi concetti teorici del marxismo le sue armi più efficaci di lotta intransigente senza quartiere contro la borghesia ed il suo dominio di classe!
Rosa Luxemburg

83 - Alla redazione del “Labour Leader” di Londra (Rosa Luxemburg)

Cari compagni,
è con gioia e al tempo stesso con profondo dolore che ogni socialdemocratico tedesco rimasto fedele ai propri principi dell’internazionalismo proletario, non può non cogliere l’occasione per inviare ai compagni stranieri un fraterno saluto socialista. Sotto i colpi omicidi della guerra mondiale imperialistica il nostro orgoglio e la nostra speranza – l’Internazionale della classe operaia - è ignominiosamente crollata; e più ignominiosamente di tutte, certamente, è crollata la nostra sezione tedesca, quella predestinata a marciare alla testa del proletariato mondiale. È necessario esprimere questa amara verità, non per darsi a disperazione e rassegnazione infruttuose ma, al contrario, per trarre i debiti insegnamenti dal riconoscimento spregiudicato degli errori commessi e dallo stato di cose esistente. Nulla riuscirebbe più fatale per l’avvenire del socialismo che se i partiti operai dei vari paesi decidessero di accogliere la teoria e prassi borghesi per le quali dovrebbe essere naturale e inevitabile che i proletari delle diverse nazioni in guerra si scannino reciprocamente agli ordini delle loro classi dirigenti, e successivamente si scambino ancora reciproci fraterni abbracci, come se nulla fosse. Un’Internazionale, che in questo modo riconoscesse scientemente la spaventosa rovina attuale quale prassi normale anche per l’avvenire, e pure pretendesse ancora esistere, sarebbe soltanto una rivoltante caricatura del socialismo, un parto dell’ipocrisia, esattamente nei termini della diplomazia degli Stati borghesi, delle loro alleanze e dei loro trattati internazionali. No! Lo spaventoso macello reciproco di milioni di proletari, al quale oggi con orrore assistiamo, queste orge dell’imperialismo omicida che hanno luogo sotto le ipocrite insegne di “patria”, di “diritto delle genti”, di “civiltà”, di “libertà”, devastano paesi e città, disonorano la civiltà, calpestano la libertà e il diritto delle genti, rappresentano un autentico tradimento del socialismo.
Ma il socialismo internazionale ha radici troppo salde e troppo profonde nella situazione contemporanea per poter persistere in questa situazione di sfacelo. L’imperialismo e le sue mostruose dottrine di questo appunto nutrono timore, che l’Internazionalproletaria risorga dalle ceneri quale unica salvezza dell’umanità dall’inferno di un dominio di classe in sfacelo e storicamente superato. Già ora, a pochi mesi dall’inizio della guerra, sta svanendo anche in Germania la sbornia sciovinistica tra le masse lavoratrici, piantate in asso nelle grandi ore storiche dai loro capi; ritorna la coscienza e giorno per giorno aumenta il numero dei proletari ai quali quanto ora va accadendo, accende in volto un rossore di vergogna e di collera. Da questa guerra le masse popolari ritorneranno sotto la nostra vecchia bandiera con ancora più vivo impulso, non per tradirla nuovamente alla prossima orgia capitalistica, contro le sue mene delittuose, contro le sue infami menzogne e la sua miserabile retorica a base di “patria” e di “libertà”, e per piantarla vittoriosamente sulle rovine dell’imperialismo sanguinario.
Con i più cordiali e fraterni saluti socialisti
Rosa Luxemburg
Berlin-Südende, dicembre 1914

84 - Ai proletari di tutti i Paesi (1918) (Rosa Luxemburg)

Proletari! Lavoratori e lavoratrici! Compagni!
La rivoluzione ha fatto il proprio ingresso in Germania. Le masse dei soldati, da quattro anni spinte al macello per amore dei profitti capitalistici, le masse dei lavoratori, per quattro anni dissanguate, spremute, affamate, si sono sollevate. Il terribile strumento dell’oppressione: il militarismo prussiano, questo flagello dell’umanità, giace a terra spezzato; i suoi rappresentanti più in evidenza e quindi i più palesi responsabili di questa guerra, il Kaiser e il Kronprinz, sono fuggiti dal paese. Ovunque si sono costituiti consigli operai e dei soldati.
Proletari di tutti i paesi, noi non vi diciamo che in Germania tutto il potere sia effettivamente nelle mani dei lavoratori, che la vittoria completa della rivoluzione proletaria sia già un fatto compiuto. Siedono ancora al governo quei socialisti che nell’agosto 1914 hanno sacrificato il nostro bene più prezioso, l’Internazionale, che, per quattro anni hanno tradito ad un tempo stesso la classe operaia tedesca e l’Internazionale.
Ma, proletari di tutti i paesi, ora è il proletariato tedesco che vi parla. Noi crediamo di avere il diritto di presentarci in suo nome di fronte al vostro giudizio. Dal primo giorno di questa guerra ci siamo sforzati di soddisfare i nostri doveri internazionali, combattendo con tutte le nostre forze quel governo criminale e stigmatizzandolo come vero responsabile della guerra.
In quest’ora noi siamo giustificati di fronte alla storia, davanti all’Internazionale e al proletariato tedesco. Le masse ci danno la loro adesione entusiastica, sempre nuovi gruppi di lavoratori condividono la coscienza che è suonata l’ora della resa dei conti col dominio di classe capitalistico.
Questa grande opera non può tuttavia essere portata a termine dal solo proletariato tedesco che può combattere e vincere soltanto appellandosi alla solidarietà dei proletari di tutto il mondo.
Compagni dei paesi belligeranti, noi conosciamo la vostra situazione. Ben sappiamo che i vostri governi, ora che han raggiunto la vittoria, ne accecano con lo splendore, larghi strati popolari. Noi sappiamo che così riesce loro di far dimenticare coi successi le cause e gli obbiettivi della strage.
Ma, sappiamo anche un’altra cosa. Sappiamo che anche nei vostri paesi il proletariato ha sopportato i sacrifici più spaventosi in sangue e in beni, che esso è stanco dell’orrido macello, che il proletariato ora torna a casa, e a casa trova ora uno stato di necessità e di miseria, mentre nelle mani di pochi capitalisti si sono ammucchiati i miliardi. Esso si è accorto e sempre più si accorgerà che la guerra è stata condotta anche dai vostri governi per amore del denaro. E si accorgerà ancora che il vostro governo, quando parlava di “diritto e civiltà”, e di “protezione delle piccole nazioni”, intendeva i profitti capitalistici, non meno del nostro, quando cianciava di “difesa della patria”: che la pace di “giustizia” e della “lega dei popoli” era pari alla stessa bassa pirateria della pace di Brest-Litowsk. Qui come là la stessa svergognata rapacità, la stessa volontà di oppressione, la stessa risoluzione di sfruttare all’estremo la brutale superiorità della spada.
L'imperialismo di tutti i paesi non conosce alcun “accomodamento”, conosce solo una ragione: il profitto del capitale; solo un linguaggio: quello della spada; solo un mezzo: la forza. E se ora va discorrendo in tutti i paesi, da voi come da noi, di “lega dei popoli”, di “disarmo”, di “diritti delle piccole nazioni”, di “autodeterminazione dei popoli”, si tratta del solito frasario senza fondamento dei signori per addormentare la vigilanza proletaria.
Proletari di tutti i paesi! Questa guerra deve essere stata l’ultima. Lo dobbiamo ai 12 milioni di vittime rimaste assassinate. Lo dobbiamo ai nostri figli, lo dobbiamo all’umanità.
L’Europa è stata rovinata dall’infame massacro dei Popoli. Dodici milioni di cadaveri ricoprono i luoghi spaventosi del crimine imperialista. Il fiore della gioventù e la migliore energia dei popoli giace falciata. Innumerevoli forze produttive sono andate distrutte. L’umanità è prossima a morire dissanguata per un salasso senza esempio nella storia del mondo. Vincitori e vinti sono sull’orlo dell’abisso. Minacciano l’umanità la fame più spaventosa, il ristagno di tutto il meccanismo produttivo, epidemie e degenerazione.
I grandi criminali di questa spaventosa anarchia, di questo caos scatenato, le classi dirigenti non sono capaci di padroneggiare la loro opera. La bestia Capitale che ha evocato l’inferno della guerra mondiale, non è più in grado di esorcizzare, di ristabilire un ordine autentico, di assicurare alla tormentata umanità pane e lavoro, pace e cultura, giustizia e libertà.
Ciò che le classi dominanti ci vanno preparando sotto il nome di pace e giustizia, è soltanto una nuova opera della forza bruta, da cui solleva le sue mille teste l’idra dell’oppressione, dell’odio e di nuove guerre sanguinose.
Solo il socialismo è in grado di portare a temine la grande opera di una pace durevole, di lenire le mille sanguinanti ferite dell’umanità, di trasformare in fiorenti giardini le campagne europee calpestate dal passo dell’apocalittico cavaliere della guerra, di evocare decuplicate nuove forze produttive al posto di quelle distrutte, di risvegliare tutte le energie fisiche e morali dell’umanità, e di sostituire l’odio e la discordia con solidarietà fraterna, armonia e rispetto per tutto ciò che ha sembiante umano.
Se rappresentanti dei proletari di tutti i paesi sotto la bandiera del socialismo si porgessero la mano per concordare la pace, questa sarebbe conclusa in poche ore. Allora non ci sarebbero controversie per la riva sinistra del Reno, la Mesopotamia, l’Egitto o le colonie. Allora ci sarebbe solo un popolo: l’umanità lavoratrice di tutte le razze e di tutte le lingue. Ci sarebbe solo una legge: l’uguaglianza di tutti gli uomini. Ci sarebbe solo un fine: prosperità e progresso per tutti.
L’umanità sta davanti a una alternativa: dissoluzione e tramonto nell’anarchia capitalistica o rinascita attraverso la rivoluzione sociale. Se credete nel socialismo, è l’ora di mostrarlo coi fatti. Se siete socialisti, si tratta ora di agire.
Proletari di tutti i paesi, se vi chiamiamo ora a una lotta comune, non è per amore dei capitalisti tedeschi che sotto l’insegna “nazione tedesca” cercano di sfuggire alle conseguenze dei loro crimini: è per noi come per voi. Riflettete: i vostri capitalisti vittoriosi sono pronti a reprimere nel sangue la nostra rivoluzione, che temono non meno della propria. Voi stessi con la “vittoria” non siete diventati più liberi, siete diventati ancora più schiavi. Se le vostre classi dirigenti riuscissero a soffocare la rivoluzione proletaria in Germania e in Russia, si volgerebbero poi contro di voi con peso raddoppiato. I vostri capitalisti sperano che la vittoria su di noi e sulla Russia rivoluzionaria dia loro la forza necessaria per trascinarvi a frustate e per innalzare il millenario regno dello sfruttamento sulla tomba del socialismo internazionale.
Perciò in quest’ora il proletariato tedesco guarda a voi. La Germania è gravida di rivoluzione sociale, ma il socialismo può essere realizzato soltanto dal proletariato mondiale.
E per questo vi incitiamo: Su alla lotta! Su all’azione! Il tempo dei vuoti manifesti, delle rivoluzioni platoniche e delle parole roboanti è trascorso: per l’Internazionale è suonata l'ora dell’azione. Vi esortiamo. Eleggete dovunque dei consigli dei lavoratori e dei soldati, che assumano il potere politico e che assieme a noi ristabiliscano la pace.
Non Lloyd George né Poincaré, non Sonnino né Wilson né Erzberger o Scheidemann possono concludere la pace. La pace deve essere stipulata sotto la bandiera sventolante della rivoluzione mondiale e socialista.
Proletari di tutti i paesi! Noi vi esortiamo a completare l’opera di liberazione socialista, a ridare aspetto umano al mondo deturpato e a inverare quelle parole con cui in vecchi giorni ci siamo spesso salutati e con cui ci separavamo:
L’Internazionale sarà l’umanità!
Viva la rivoluzione mondiale del proletariato!
Proletari di tutto il mondo unitevi!
In nome dello Spartakusbund
Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht,Franz Mehring, Clara Zetkin

85 - La controrivoluzione (Antonio Gramsci)

I nemici delle rivoluzioni proletarie del 1919 hanno costituito una coalizione reazionaria che riproduce nell’Europa odierna le linee generali dell’equilibrio esistente nel 1848, risultante dalla coalizione costituitasi contro le rivoluzioni semiproletarie di quell’anno.
La Prussia rimane sempre il perno della reazione: Scheidemann ed Ebert si sono rivelati servitori delle potenze occidentali non meno zelanti di quanto non siano stati i re di Prussia verso lo zar. La guardia prussiana ha strangolato Berlino prima, a Monaco ultimamente, il movimento comunista per l’instaurazione dello Stato dei Consigli.
(Nota: gruppi e reparti armati, guidati da ufficiali reazionari, avevano soffocato nel gennaio 1919 il movimento spartachista a Berlino e assassinato Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. La repubblica bavarese dei Consigli era caduta ai primi di maggio 1919).
Nel 1848 la coalizione reazionaria era organizzata intorno alla Russia degli zar: il re di Prussia era il fedele vassallo dell'imperatore moscovita, il fedele strumento delle sue imprese di bassa polizia internazionale. Le rivoluzioni di Parigi, di Praga, di Vienna, di Budapest, di Varsavia, di Milano furono allora stangolate, direttamente o indirettamente, dalle forze russo-prussiane che controllavano gli slavi del sud. I prussiano-croati domarono Praga, i croati domarono Milano, i cosacchi domarono Budapest. Dei popoli slavi erano rivoluzionari soltanto i polacchi e i boemi; gli altri erano specializzati nell’assassinare le rivoluzioni.
La Russia zarista, caduta, e sostituita dalla Repubblica dei Soviet, la coalizione odierna si è venuta organizzando intorno alla Francia. Eccettuata la Prussia, la fisionomia generale dell’equilibrio reazionario è oggi simmetricamente in contrapposizione con quello del ’48. La Francia, focolare delle rivoluzioni, è diventata baluardo della conservazione capitalista; la Boemia e la Polonia sono le sue vassalle, con la Prussia, la Finlandia, la Rumenia. La Polonia impedisce il contatto tra i Soviet russi e i comunisti prussiani; la Boemia e la Rumenia minacciano i Soviet ungheresi. La fortuna immediata delle rivoluzioni proletarie in Baviera, in Ungheria e in Russia è riposta nella rapidità con cui le forze comuniste si rafforzano e paralizzano (prima di conquistarlo) lo stato in Prussia, in Rumenia, in Boemia e in Polonia.
Questa configurazione assunta dalle potenze della conservazione capitalista dimostra quanto sia stupida la critica ai comunisti russi che hanno conquistato il potere quando la civiltà russa non era ancora “matura” per il socialismo. La critica è stupida perché basata sulla concezione utopistica della rivoluzione simultanea in tutto il globo. Infatti, se la rivoluzione comunista fosse scoppiata normalmente prima in Inghilterra, nel paese cioè che ha raggiunto l’apice della parabola del processo di sviluppo della produzione capitalista, essa sarebbe stata subito schiacciata dalla Prussia e dalla Russia. La rivoluzione comunista doveva scoppiare in Russia per potersi rassodare ed estendere con minori difficoltà che altrove. I proletariati di Inghilterra, di Francia, di Italia, con tutta la loro forza organizzata, con tutto l’orrore che cinque anni di guerra hanno suscitato contro la guerra, con tutta la loro coscienza rivoluzionaria, non sono riusciti a impedire totalmente la guerra contro la Russia comunista. Si può immaginare che il proletariato russo, in regime zarista o borghese-parlamentare, avrebbe potuto impedire una guerra contro la Germania comunista, o l’Inghilterra comunista? La Russia è davvero la martire dell’Internazionale: essa sconta tutte le nostre debolezze, tutte le nostre esitanze, tutti i nostri baloccamenti bizantini. Il proletariato russo ha aperto l’era delle rivoluzioni proletarie e sostiene su di sé lo scatenarsi furioso dei demoni impazziti del capitalismo. Per quanti errori, per quante colpe il proletariato russo abbia potuto commettere - secondo ciò che dicono i sicofanti delle casseforti - gli operai e contadini dell’Europa occidentale non possono dimenticare che esso soffre la fame, combatte una guerra atroce d’esaurimento per definitivamente creare le condizioni necessarie all’avvento dell’ionale comunista.
Antonio Gramsci (1891- 1937) 15 maggio 1919

86 - L’Internazionale comunista (Antonio Gramsci)

L’Internazionale comunista è nata e si sviluppa dalle rivoluzioni proletarie e con le rivoluzioni proletarie. Già tre grandi stati proletari: le Repubbliche Soviettiste di Russia, di Ucraina e di Ungheria ne formano la base reale storica.
In una lettera a Sorge del 12 settembre 1874, Federico Engels scrisse a proposito della I Internazionale in via di sfacelo: “L’Internazionale ha dominato dieci anni di storia europea e può con fierezza guardare l’opera sua. Ma essa è sopravvissuta nella sua forma antiquata. Credo che la prossima Internazionale sarà, dopo che gli scritti di Marx avranno operato per qualche anno, direttamente comunista e instaurerà i nostri principi.
La II Internazionale non realizzò la fede dell’Engels; dopo la guerra, invece, e dopo le esperienze positive della Russia, si sono disegnati nettamente i contorni dell’Internazionale rivoluzionaria, dell’Internazionale di realizzazione comunista.
La nuova Internazionale ha per base l’accettazione di queste tesi fondamentali, che sono elaborate secondo il programma della Lega Spartaco di Germania e del partito comunista (bolscevico) di Russia:
L'epoca attuale è l’epoca della decomposizione e del fallimento dell’intero sistema mondiale capitalista, ciò che significherà il fallimento della civiltà europea se il capitalismo non verrà soppresso con tutti i suoi antagonismi irrimediabili.
Il compito del proletariato nell’ora attuale consiste nella conquista dei poteri dello Stato. Questa conquista significa: soppressione dell’apparato governativo della borghesia e organizzazione di un apparato governativo proletario.
Questo nuovo governo proletario è la dittatura del proletariato industriale e dei contadini poveri, che deve essere lo strumento della soppressione sistematica delle classi sfruttatrici e della loro espropriazione. Il tipo di stato proletario non è la falsa democrazia borghese, forma ipocrita della dominazione oligarchica finanziaria, ma la democrazia proletaria che realizzerà la libertà delle masse lavoratrici; non il parlamentarismo, ma l’autogoverno delle masse attraverso i propri organi elettivi; non la burocrazia di carriera, ma organi amministrativi creati dalle masse stesse, con la partecipazione reale delle masse all’amministrazione del paese e all’opera socialista di costruzione. La forma concreta, dello stato proletario è il potere dei Consigli o di organizzazioni consimili.
La dittatura del proletariato è la leva dell’espropriazione immediata del capitale e della soppressione del diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione, che devono essere trasformati in proprietà della nazione intera. La socializzazione della grande industria e dei suoi centri organizzatori, le banche; la confisca delle terre dei proprietari fondiari e la socializzazione della produzione agricola capitalista (comprendendo per socializzazione la soppressione della proprietà privata, il passaggio della proprietà allo Stato proletario e lo stabilimento dell’amministrazione socialista a mezzo della classe operaia); il monopolio del grande commercio; la socializzazione dei grandi palazzi nelle città e dei castelli nelle campagne; l’introduzione dell’amministrazione operaia e l’accentramento delle funzioni economiche nelle mani degli organi della dittatura proletaria, ecco il compito del governo proletario.
Al fine di assicurare la difesa della rivoluzione socialista contro i nemici interni ed esterni, e il soccorso ad altre frazioni nazionali del proletariato in lotta, è necessario di disarmare completamente la borghesia e i suoi agenti, e di armare tutto il proletariato, senza eccezione.
La situazione mondiale nell’ora presente esige il massimo contatto fra le differenti frazioni del proletariato rivoluzionario. Come pure il blocco completo dei paesi nei quali la rivoluzione socialista è già vittoriosa.
Il metodo principale di lotta è l’azione delle masse del proletariato fino al conflitto aperto contro i poteri dello Stato capitalista.
Tutto il movimento proletario e socialista mondiale si orienta decisamente verso l’Internazionale comunista. Gli operai e i contadini sentono tutti, anche se confusamente e vagamente che le Repubbliche soviettiste di Russia, Ucraina e Ungheria, sono le cellule di una nuova società che realizza tutte le aspirazioni e le speranze degli oppressi del mondo. L’idea della difesa delle rivoluzioni proletarie dagli assalti del capitalismo mondiale deve servire a stimolare i fermenti rivoluzionari delle masse; su questo piano è necessario concertare un’azione energica e simultanea dei partiti socialisti d’Inghilterra, di Francia e d’Italia che imponga l’arresto di ogni offensiva contro la repubblica dei Soviet. La vittoria del capitalismo occidentale sul proletariato russo significherebbe l’Europa gettata per un ventennio in braccio alla più spietata e feroce reazione. Nessun sacrificio può essere più grande se si riuscirà a impedire che ciò avvenga. Se si riuscirà a rafforzare l’Internazionale comunista, che sola darà al mondo la pace nel lavoro e nella giustizia.
Antonio Gramsci (24 maggio 1919)

87 - Primo: rinnovare il partito (Antonio Gramsci)

Il partito socialista italiano è il partito degli operai e dei contadini poveri. Sorto nel campo della democrazia liberale (nel campo della concorrenza politica, che è una proiezione del processo di sviluppo del capitalismo) come una delle forze sociali che tendono a crearsi una base di governo e a conquistare il potere di Stato per rivolgerlo a beneficio dei loro, la sua missione consiste nell’organizzare gli operai e i contadini poveri in classe dominante, nello studiare e promuovere le condizioni favorevoli per l’avvento di una democrazia proletaria.
Il partito socialista italiano è riuscito ad attuare la più facile ed elementare parte del suo compito storico: è riuscito ad agitare le masse fin negli strati più profondi, è riuscito ad accentrare l’attenzione, del popolo lavoratore sul suo programma di rivoluzione e di Stato operaio, è riuscito a costruire un apparecchio di governo di tre milioni di cittadini che, se consolidato e materializzato in istituti permanenti rivoluzionari, sarebbe stato sufficiente per impadronirsi del potere di Stato. Il partito socialista non è riuscito nella parte essenziale del suo compito storico: non è riuscito a dare una forma permanente e solida all’apparecchio che era riuscito a suscitare agitando le masse. Non è riuscito a progredire e perciò è caduto in una crisi di marasma e di letargia. Costruito per conquistare il potere, costruito come schieramento di forze militanti deciso a dare battaglia, l’apparecchio di governo del partito socialista va in pezzi, si disgrega; il partito perde ogni giorno più il contatto con le grandi masse in movimento; gli avvenimenti si svolgono e il partito ne è assente; il paese è percorso da brividi di febbre, le forze dissolventi della democrazia borghese e del regime capitalista, continuano a operare implacabili e spietate e il partito non interviene. Non illumina le grandi masse degli operai e contadini, non giustifica il suo fare, non lancia parole d’ordine che calmino le impazienze, che impediscano le demoralizzazioni, che mantengano serrati i ranghi e forte la compagine delle armate operaie e contadine. Il partito, che era diventato la più grande energia storica della nazione italiana, è caduto in una crisi di infantilismo politico, è oggi la più grande delle debolezze sociali della nazione italiana. Non fa meraviglia davvero che in tali propizie condizioni, i germi di dissoluzione della compagine rivoluzionaria: il nullismo opportunista e riformista e la fraseologia pseudorivoluzionaria anarchica (due aspetti della tendenza piccolo borghese) pullulino e si sviluppino con rapidità impressionante.
Le condizioni internazionali e nazionali della rivoluzione proletaria si profilano sempre più nette e precise e si consolidano. Ed ecco, proprio nel momento che potrebbe essere decisivo, lo strumento massimo dalla rivoluzione proletaria italiana, il partito socialista, si decompone, aggredito e avviluppato insidiosamente dai politicanti parlamentari e dai funzionari confederali, da individui che rivendicano un potere rappresentativo che non ha base seria e concreta, che si fonda sull’equivoco, che si fonda sull’assenza di ogni continuità d’azione e sulla poltroneria mentale che è propria degli operai come di tutti gli altri italiani. E dalla parte comunista, dalla parte rivoluzionaria, dalla parte degli enti direttivi nominati dalla maggioranza rivoluzionaria, nessuna azione d’insieme per arginare questa decomposizione, per disinfettare il partito, per organizzarlo in compagine omogenea, per organizzarlo come sezione della III Internazionale, inserita fortemente nel sistema mondiale di forze rivoluzionarie che intendono seriamente attuare le tesi comuniste.
La resistenza del blocco imperialista, che era riuscito a soggiogare il mondo a poche casseforti, è spezzata, è disgregata dalle vittorie militari dello Stato operaio russo. Il sistema della rivoluzione proletaria internazionale, che s’impernia sull’esistenza e sullo sviluppo come potenza mondiale dello stato operaio russo, possiede oggi un esercito di due milioni di baionette, esercito pieno di entusiasmo guerriero perché vittorioso e perché consapevole di essere il protagonista della storia contemporanea. Le vittorie e le avanzate dell’esercito della III Internazionale scuotono le basi del sistema capitalista, accelerato il processo di decomposizione degli stati borghesi, acuiscono i conflitti nel seno delle democrazie occidentali. Gli inglesi si preoccupano per l’India, la Turchia, la Persia, l’Afghanistan, la Cina, dove si moltiplicano i focolari di rivolta, e con una lieve pressione fanno sparire Clemenceau dalla scena politica. La caduta del pupazzo antibolscevico rivela immediatamente le incrinature dal blocco reazionario francese, e inizia il disgregamento dello Stato politico; la tendenza comunista e intransigente si rafforza nel movimento operaio. La questione russa pone di fronte l’opportunismo di Lloyd George e l’intransigenza controrivoluzionaria di Winston Churchill, ma il terreno della democrazia britannica, il magnifico campo di manovra per la demagogia radicale lloydgeorgiana, è completamente mutato: la struttura della classe operaia inglese continua a svilupparsi, lentamente, ma sicuramente, verso forme superiori: gli operai vogliono intervenire più spesso e più direttamente nelle deliberazioni dei programmi di azione: i congressi delle Trade Unions si moltiplicano e i rivoluzionari sempre più spesso e più efficacemente vi fanno sentire la loro voce; l’ufficio permanente dei congressi sindacali si trasferisca dalle mani del gruppo parlamentare laburista nelle mani di un comitato centrale operaio. In Germania il governo di Scheidemann si decompone, sente venirsi meno ogni consenso popolare, il terrore bianco imperversa brutalmente: gli operai comunisti e indipendenti hanno riacquistato una certa libertà di movimento e si diffonde la persuasione, che solo la dittatura proletaria può salvare la nazione tedesca dallo sfacelo economico e dalla reazione militarista. Il sistema internazionale controrivoluzionario si dissolve per l’acuirsi delle contraddizioni intime della democrazia borghese e dell’economia capitalista e per le gigantesche spinte del proletariato russo. Lo Stato borghese italiano va in pezzi per gli scioperi colossali nei servizi pubblici, per il fallimento fraudolento, e ridicolo della politica estera e interna. Le condizioni sufficienti e necessarie per la rivoluzione proletaria si attuano e nel campo internazionale e nel campo nazionale. Ed ecco: il partito socialista viene meno a se stesso e alla sua missione; partito di agitatori, di negatori, di intransigenti nelle questioni di tattica generale, di apostoli delle teorie elementari, non riesce a organizzare e a inquadrare le grandi masse in movimento, non riesce a riempire i minuti e le giornate, non riesce a trovare un campo di azione che in ogni momento lo tenga a contatto con le grandi masse. Non riesce a organizzare la propria intima compagine, non ha una disciplina teorica e pratica che gli consenta di rimanere sempre aderente alla realtà proletaria nazionale e internazionale per dominarla, per controllare gli avvenimenti e non esserne travolto e stritolato. Partito degli operai e dei contadini rivoluzionari, lascia che l’esercito permanente della rivoluzione, i sindacati operai, rimanga sotto il controllo di opportunisti che ne incantano, a loro piacere, il congegno di manovra, che sistematicamente sabotano ogni azione rivoluzionaria, che sono un partito nel partito, e il partito più forte, perché padroni dei gangli motori del corpo operaio. Due scioperi, che potevano essere micidiali per lo stato, si sono svolti e lasceranno lunghi strascichi di recriminazioni e di aggressioni polemiche da parte degli anarchici, senza che il partito avesse una parola da dire, un metodo da affermare che non sia quello vieto e logoro della più vieta e logora II Internazionale: il “distinguo” tra sciopero economico e sciopero politico. E così mentre lo Stato subiva una crisi acutissima, mentre la borghesia armata e piena di odio avrebbe potuto iniziare un’offensiva contro la classe operaia, mentre si profilava il colpo di mano militarista, i centri rivoluzionari operai furono lasciati in balia di se stessi, senza parola d’ordine generale; la classe operaia, si trovò rinchiusa e imprigionata in un sistema di compartimenti stagni, smarrita, disillusa, esposta a tutte le tentazioni anarcoidi.
Siamo noi scoraggiati e demoralizzati? No, ma è necessario dire la verità nuda e cruda, è necessario rivelare una situazione che può, che deve essere mutata. Il partito socialista deve rinnovarsi, se non vuole essere travolto e stritolato dagli avvenimenti incalzanti; deve rinnovarsi perché la sua disfatta significherebbe la disfatta della rivoluzione. Il partito socialista deve essere sul serio una sezione della III Internazionale, e deve incominciare con attuarne le tesi nel suo seno, nel seno della compagine degli operai organizzati. Le masse organizzate devono diventare padrone dei loro organismi di lotta, devono “organizzarsi in classe dirigente” prima di tutto nei loro propri istituti, debbono fondersi col partito socialista. Gli operai comunisti, i rivoluzionari consapevoli delle tremende responsabilità del periodo attuale, devono essi rinnovare il partito, dargli una figura precisa e una direzione precisa; devono impedire che gli opportunisti piccolo borghesi lo riducano al livello dei tanti partiti del paese di Pulcinella.
Antonio Gramsci – 24-31 gennaio 1920
 

88 - Lo Stato italiano (Antonio Gramsci)

In un articolo pubblicato recentemente sul “Resto del Carlino”, Enrico Ferri, che è professore di diritto penale all’università ed è stato per tante legislature deputato al Parlamento, “manifesta l’opinione che non si capisce perché, la direzione generale delle carceri sia sotto il ministero dell’Interno e non debba andare invece sotto il ministero di Grazia e Giustizia”. A quanto pare, il prof. Ferri “manifesta l’opinione” che il perché sia solamente strano e casuale e creda, pertanto, sia possibile cassarlo con un decreto ministeriale. Poiché il prof. Enrico Ferri per tanti anni è stato il “leader” del movimento operaio italiano, non fa meraviglia che gli operai e i contadini italiani debbano fare tanti sforzi per giungere a concepire lo stato come sviluppo storico, a concepirlo come organizzazione massima della classe proprietaria, concepirlo come strumento nelle mani della classe-operaia, rivolto a soffocare la borghesia tanto nel campo politico quanto nel campo economico, per coordinare e sistemare le condizioni di avvento del comunismo e garantire incontrastata libertà di sviluppo alla società comunista. Se poi si pensa che l’on. Filippo Turati, altro “leader” (anti-Ferri per ragioni di dottrina e di comprensione marxista!), dopo cinque anni di guerra e dopo il massacro di 15 milioni di uomini, ottiene un grande successo parlamentare intrattenendo l’assemblea dei rappresentanti del popolo italiano con un elegante discorso sul diritto di voto delle prostitute (il profondo spirito marxista dell’on. Filippo Turati ha trovato modo, non pertanto, di manifestarsi nella identificazione e definizione della categoria sociale: “salariate dell’amore”), la meraviglia sminuisce ancora e si comprendono perfettamente le tendenze anarcoidi del proletariato italiano; si comprende che per la classe operaia italiana, Carlo Marx non sia stato altro che “un santo al capezzale”, un nome senza soggetto che non sia una medaglia, una cartolina illustrata, un liquore.
Cos'è lo Stato italiano? E perché è quello che è? Quali forze economiche e quali forze politiche sono alla sua base? Ha subito un processo di sviluppo? Il sistema di forze che ha determinato il suo nascere è rimasto sempre lo stesso? Per l’azione di quali fermenti interni si è svolto il processo? Quale posizione occupa l’Italia nel mondo capitalistico e come hanno influito le forze esterne al processo interno? Quali forze nuove ha rivelato e fatto sviluppare la guerra imperialista? Che direzione probabile prenderanno le attuali linee di forza della società italiana?
Il nullismo opportunista e riformista, che ha dominato il partito socialista italiano per decine e decine di anni, e oggi irride con lo scetticismo beffardo della senilità agli sforzi della nuova generazione ed al tumulto di passioni suscitate dalla rivoluzione bolscevica, dovrebbe fare un piccolo esame di coscienza sulle sue responsabilità e la sua incapacità a studiare, a comprendere e a svolgere azione educativa. Noi giovani dobbiamo rinnegare questi uomini del passato, dobbiamo disprezzare questi uomini del passato. Quale legame esiste tra noi e loro? Cosa hanno creato, cosa ci hanno consegnato da tramandare? Quale ricordo di amore e di gratitudine, per averci aperto e illuminato la via della ricerca e dello studio per aver creato le condizioni di un nostro progresso, di un nostro balzo in avanti? Tutto abbiamo dovuto fare da noi, con le nostre forze, con la nostra pazienza: la generazione socialista italiana attuale è figlia di se stessa; non ha il diritto di irridire ai suoi errori e ai suoi sforzi chi non ha lavorato, chi non ha prodotto, chi non le può lasciare nessun’altra eredità che non sia una mediocre raccolta di mediocri articolucci da giornale quotidiano.
Lo Stato italiano che, parlamentare, starebbe alla repubblica dei Soviet, come la città all’orda barbarica, non ha mai tentato neppure di mascherare la dittatura spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo Statuto albertino sia servito a un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della Corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni infatti che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. La Costituzione non ha creato nessun istituto che presidii almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione. Negli Stati capitalistici, che si chiamano liberali democratici, l’istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario: nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è un ordine, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della Corona e della classe proprietaria.
Si capisce quindi perfettamente che la direzione generale delle carceri, come le direzioni particolari, come gli agenti della pubblica sicurezza, come tutto l’apparato repressivo dello Stato dipendano dal ministero degli interni e si capisce anche, perfettamente come in Italia il presidente del Consiglio si riservi sempre gli Interni, voglia cioè che tutto l’apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani: il presidente del Consiglio è l’uomo di fiducia della classe dei proprietari; alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri, lo stato maggiore; egli si prepara la maggioranza parlamentare con la frode, con la corruzione; il suo potere è illimitato, non solo di fatto, come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici, ma anche di diritto; il presidente del consiglio è l’unico potere dello Stato italiano.
La classe dominante italiana non ha neppure avuto la ipocrisia di mascherare la sua dittatura; il popolo lavoratore è stato da essa considerato come un popolo di razza inferiore, che si può governare senza complimenti come una colonia africana.
Il paese è sottoposto a un permanente regime di stato d’assedio. In ogni ora del giorno e della notte, un ordine del ministro dell’interno di prefetti può fare entrare in movimento l’amministrazione poliziesca. Gli agenti vengono sguinzagliati nelle case e nei locali di riunione; senza mandato dei giudici, che sono passivi, in pura via amministrativa, la libertà individuale e di domicilio è violata. I cittadini sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è indifesa contro la brutalità e i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati, per il semplice ordine di un commissario di polizia, un locale di riunione viene invaso e perquisito, una riunione viene sciolta. Per il semplice ordine di un prefetto, un censore cancella uno scritto, il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate dai decreti generali. Per il semplice ordine di un prefetto i dirigenti un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere un’associazione.
La Russia era portata ad esempio di Stato dispotico sotto lo zar; effettivamente non c’era differenza alcuna tra lo Stato zarista e lo Stato italiano, tra la Duma e il parlamento. C’era una differenza di cultura politica e di sensibilità umana tra il popolo russo e il popolo italiano: i russi liberali e socialisti denunciavano al mondo gli abusi del potere; gli italiani, meno sensibili, si lamentavano solo per gli episodi più mostruosi, meno colti politicamente non riuscivano a identificare, negli episodi singoli una continuità dipendente dalla costituzione dello stato. Non esistendo in Italia la giustizia come potere indipendente, non essendo in Italia la giustizia come potere indipendente, non essendo in Italia l’apparato repressivo agli ordini della giustizia, il potere parlamentare non esiste, la legislazione è una truffa, nella realtà e nel diritto esiste un solo potere, quello esecutivo, esiste la Corona, esiste la classe proprietaria che vuole essere difesa a tutti i costi.
Lo Stato dello zar era lo Stato dei proprietari terrieri: ciò spiega la rozzezza dei ministri dello zar: i contadini dicono pane al pane e sopprimono a colpi di randello i loro nemici. La rivoluzione del marzo 1917 è stato il tentativo di introdurre nello Stato un equilibrio tra industriali e contadini. Lo Stato liberale nasce dall’equilibrio di queste due forze della proprietà privata. La divisione dei poteri, cioè il sorgere accanto al parlamento di un potere giudiziario che garantisca l’uguaglianza politica dei partiti borghesi di governo, che impedisca ai singoli partiti al potere di servirsi dell’apparecchio statale per perpetuare le condizioni della loro permanenza al potere, è la caratteristica dello Stato liberale. Il popolo lavoratore russo, entrato in movimento nel marzo 1917, ha impedito che la rivoluzione si cristallizzasse alla fase liberale borghese: gli operai dell’industria hanno continuato l’opera iniziata dai proprietari dell’industria, e hanno soffocato tutti i proprietari, e hanno emancipato tutte le Classi oppresse.
Lo Stato unitario italiano si è costituito per impulso dei nuclei borghesi industriali della Alta Italia; si è consolidato con lo svilupparsi dell’industria a danno dell’agricoltura, con un soggiogamento brutale dell’agricoltura agli interessi dell’industria; lo stato italiano non fu liberale, perché non nacque da un sistema di equilibrio; ma i ministri del re d’Italia, educati alla fraseologia liberale inglese, al randello del contadino russo preferiscono il sacchetto di sabbia dell’”apache” londinese per sopprimere i nemici dell’industriale.
Già prima della guerra i rapporti interni della classe proprietaria italiana si erano modificati: Salandra, che dichiarò la guerra, era il primo presidente del Consiglio meridionale dello Stato italiano: Nitti è il secondo. Il potere esecutivo si stacca dal vecchio sistema di forze capitalistiche: la sostanza economica dello Stato italiano è diventata fluida, è entrata in movimento. La campagna si impadronisce dello Stato: essa ha un grande partito, il Partito popolare. Lo Stato liberale, la repubblica borghese dovrebbe essere lo sbocco normale delle forze capitalistiche in movimento, se non esistesse in Italia una classe operaia rivoluzionaria, anche essa in movimento, decisa ad attuare la sua missione storica, a sopprimere la classe proprietaria, a instaurare la democrazia operaia.
Tra la repubblica dei Soviet e la repubblica borghese, tra la democrazia operaia e la democrazia liberale, i riformisti e gli opportunisti scelgono la repubblica borghese e la democrazia liberale. La gioventù intellettuale socialista italiana, che non ha legami alcuni con questi uomini del passato, con questi intellettuali piccolo-borghesi, che è libera da pregiudizi e tradizioni, che ha acquistato maturità nella passione della guerra e carattere rivoluzionario nello studio della rivoluzione bolscevica, è chiamata a creare quella produzione che è specifica della sua attività storica; idee, miti, audacia di pensiero e di azione rivoluzionaria per la fondazione della Repubblica soviettista italiana.
Antonio Gramsci - (7 febbraio 1920)

89 - Partito e frazione (Palmiro Togliatti)

Nella prima discussione che si svolse tra la Centrale del partito russo e il compagno Trotzki, la questione delle “frazioni” venne trattata esplicitamente. Uno dei capitoli del “nuovo corso” è dedicato ad essa. Nella seconda discussione, chiusa di recente con le decisioni note, la questione delle frazioni non è stata trattata in modo esplicito, ma è sottintesa, si può dire a tutto il dibattito. Lo scritto sugli “Insegnamenti dell’ottobre” può infatti, con un piccolo sforzo di logica, essere tratto alla dimostrazione non solo della ineluttabilità, ma della necessità che in seno al partito della classe operaia si svolga una lotta di frazioni. La tesi sostenuta dal “Nuovo corso” è quella della inevitabilità pratica delle frazioni, dimostrata con esempi storici presi dalla vita del partito russo e integrata con l’affermazione che l’esistenza di frazioni è un “minor male” in confronto con la burocratizzazione e con la perdita del contatto tra partito e classe operaia. Gli “Insegnamenti dell’Ottobre” generalizzano la tesi e le danno una base teorica, ponendo la formazione di tendenze e il contrasto di frazioni, in rapporto con lo sviluppo politico del partito e con le situazioni oggettive cui esso deve adattare la propria tattica. Ogni svolta tattica, ed a più forte ragione ogni svolta strategica, cioè ogni mutamento di situazioni oggettive il quale imponga un cambiamento di direttive strategiche o tattiche, provoca delle “frizioni” tra le necessità nuove e le vecchie consuetudini, provoca quindi una formazione di tendenza e di gruppi e una lotta di frazione.
Solo in conseguenza di questa formazione e di questa lotta, il nuovo riesce, fortunatamente, a spezzare l’involucro entro il quale lo si vorrebbe costringere, e a trionfare.
Il problema è tra i più delicati della nostra dottrina. Esso riguarda in modo diretto l’origine, lo sviluppo e la funzione del partito comunista ed i suoi rapporti con le forze che spontaneamente si creano e muovono in seno alla classe lavoratrice. E vi è una parte della dottrina svolta o adombrata da Trotzski che deve essere accettata perché pienamente rispondente alla realtà. È la parte che riguarda appunto i rapporti che corrono tra il partito, la classe operaia e le situazioni oggettive in cui l’uno e l’altra si muovono.
Il partito è una parte della classe operaia. Esso è quindi soggetto a una serie di influenze esercitate da forze e correnti che in seno alla classe operaia, si determinano. Il partito inoltre ha una tattica la quale deve adeguarsi di continuo alle situazioni reali e al loro svolgimento. Negare l’esistenza e la necessità dell’influenza sopra il partito di questo doppio ordine di fattori è negare l’esistenza del partito stesso come organismo vivente. All’infuori di questa influenza i nostri problemi perdono il loro valore, le nostre soluzioni e le nostre parole d’ordine perdono il loro significato per diventare formule aride e vuote. Nell’esame dei nostri problemi, anzi, la dialettica marxista consiste nel ritrovare di continuo le connessioni tra di essi. Le situazioni oggettive e i raggruppamenti di forze che si producono in seno alla massa lavoratrice. L’errore fondamentale delle “tesi di Roma”, ad esempio, è di non riconoscere le influenze e le connessioni di cui parliamo, o di ritenere possibile che essi siano regolate e “neutralizzate” mediante la codificazione di certi confini che la strategia e la tattica del partito non dovrebbero mai superare. La concezione del partito che ne risulta, ha potuto essere tacciata di antimarxismo, e non a torto. La dialettica ha infatti qui ceduto il posto a una visione del tutto formalistica e giuridica della realtà. Da Hegel a Marx si è tornati indietro, a Kant e al kantismo.
Il confine che le “tesi di Roma” si affannano a stabilire è destinato di volta in volta ad apparire vano di fronte alla mutevole realtà della storia. Di volta in volta, il problema dei “limiti” della nostra tattica assume nuove forme e richiede soluzioni originali, e colui il quale aveva creduto di risolvere ogni cosa con lo scrivere un codice di norme assolute, valide per ogni tempo e per ogni luogo, ed efficaci a preservare di qualsiasi deviazione, è condannato, se non vuol modificare la sua posizione, a cadere nel pessimismo.
Ma affermata la esistenza di forze “esterne” le quali influiscono sopra il partito, affermata anzi la necessità che questa influenza si faccia sentire, e che il partito abbia la forza di subirla e di dominarla nello stesso tempo, cioè che esso, tenendo continuamente il contatto con le masse lavoratrici e adattando la propria tattica alle situazioni oggettive, eserciti la sua funzione di guida rivoluzionaria, ed escluso che la soluzione del problema sia da trovare nella direzione indicata dalle “tesi di Roma”, occorre esaminare se essa non si trovi invece nell’ammettere la lotta delle frazioni, affidandole il compito di richiamare al momento opportuno il partito all’adempimento del suo dovere rivoluzionario.
Vi è in proposito un precedente storico di enorme importanza: - quello datoci dal modo come i partiti e la internazionale comunista si sono formati uscendo dal seno della Seconda Internazionale. Il precedente non ha però nessun valore, perché è relativo allo stesso modo come la Internazionale socialista era costituita e funzionava. In seno alla Seconda Internazionale ed ai partiti che vi aderivano, la lotta di frazione era l'unica forma possibile di controllo dell’indirizzo politico e di elaborazione di nuove direttive, l’unica forma, cioè nella quale nuove forze sorte dal seno della classe operaia potevano cercare di inserirci nell’organismo esistente per trasformarlo, e l’unica forma nella quale esso poteva venir richiamato ai compiti impostogli da una nuova situazione politica. Nei partiti della Seconda Internazionale la lotta di frazione era quindi una regola. La questione dell’indirizzo del partito era sempre aperta come lotta di una minoranza di opposizione per la conquista della maggioranza e del potere. Ogni congresso si riduceva al dibattito di un punto solo, e questo punto era l’approvazione dell’operato e il voto di fiducia per la Centrale eletta dal precedente congresso. Finito il congresso con questo voto, la minoranza ritenevasi automaticamente costituita in frazione, anche se la discussione non continuava in modo aperto. Essa veniva esclusa di regola dalla partecipazione agli organi centrali e non si riteneva responsabile degli atti del partito. Ogni errore della maggioranza dirigente diventava, in questa situazione, un successo della minoranza oppositrice, e mediante l’accumulazione di questi “successi” si veniva creando o si cercava di creare la nuova situazione, che doveva avere uno sbocco nella nuova lotta di congresso con il suo nuovo voto.
Questo metodo di vita del partito e della Internazionale veniva e viene tuttora giudicato da alcuni come un metodo “dialettico”. In realtà esso non ha niente di dialettico, se non è il susseguirsi di posizioni estreme contraddittorie. Ciò che costituisce l’essenza della dialettica non è però il fatto che le posizioni contraddittorie si seguono e si sostituiscono l’una all’altra, ma il fatto che esse “si risolvono” l’una nell’altra, cioè sono legate assieme in una “unità” che è loro premessa e loro risultato. Dove è lotta di frazione quello che manca è appunto, invece, l’unità e il processo di sviluppo unitario. Al posto della dialettica che è la base della dottrina rivoluzionaria marxista noi troviamo qui, ancora una volta, la logica formale, la logica kantiana, secondo la quale sono edificati la dottrina e gli istituti della democrazia. Le radici del sistema di vita dei partiti della Internazionale basato sul frazionismo sono infatti da ricercare nel sistema parlamentare inglese, basato sul regime del Gabinetto, del “voto di fiducia” e della rotazione dei partiti al governo. Siamo in piena democrazia formale: cosa assai comprensibile, del resto, trattandosi della Seconda Internazionale socialista, di cui tutti sanno quale fu la fondamentale deviazione dal marxismo rivoluzionario.
Ciò che aveva un valore per questa internazionale, non lo ha dunque più per noi e lo stesso compagno Trotzki, negli esempi di costituzione di frazioni tratti dalla storia del partito comunista russo prima e dopo l’ottobre, non ne cita uno nel quale la soluzione del problema pendente si sia avuta “attraverso” la lotta frazionistica. Questa appare quindi piuttosto come residuo di un costume non del tutto superato, anziché come necessità, per lo sviluppo continuo e per l’esatto orientamento del partito. Il contatto con le masse e l’adattamento della tattica alle situazioni reali, in tutti i casi indicati da Trotzki, vengono trovati non per la via “parlamentare” del frazionismo, ma attraverso altre vie, cioè attraverso il funzionamento regolare degli organi dirigenti e degli organi di base del partito comunista il quale è riuscito a ordinare se stesso in modo da non essere più “il parlamento”, ma la organizzazione politica della classe operaia.
Siamo così giunti al centro del problema. La lotta di frazione è incompatibile con un partito che sia “partito rivoluzionario della classe operaia” e tende a impedire che esso lo diventi perché sposta i problemi della sua vita e del suo sviluppo dal terreno sul quale essi sono risolubili, ad un terreno sul quale non potranno mai ricevere una soluzione che non sia esteriore e formale.
Il problema della utilizzazione per il partito ed entro il partito, delle forze che spontaneamente sorgono tra le masse è risolubile solo mediante il contatto organico e profondo con le masse del proletariato d’officina. Il problema dell’esattezza dell’indirizzo politico è risolubile soltanto sul terreno della continuità di un processo storico rivoluzionario, della inserzione in esso e della diretta collaborazione ad esso di tutti i fattori di una determinata situazione di partito.
Al di fuori di queste soluzioni il frazionismo può dare l’apparenza della fedele custodia del principio rivoluzionario e del contatto ininterrotto con le sorgenti dell’energia e della spontaneità proletaria, ma questa “apparenza” viene pagata con la distruzione della realtà e della possibilità di ogni lavoro rivoluzionario e con la sostituzione ad esso di uno scenario da vacua e stolta commedia parlamentare.
Palmiro Togliatti - (1 marzo 1924)

90 - Contro il pessimismo (Antonio Gramsci)

Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario della Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, più che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza e un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell’immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e grave nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti più qualificati e responsabili, e rappresenta un grande pericolo, il più grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l’avvenire.
Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega; ma non lo giustifica, naturalmente, che differenza esisterebbe tra noi e il partito socialista, se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera? Che differenza esisterebbe tra noi e il partito socialista se anche noi, partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e canali da noi predisposto, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso? È questo il nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare che ci sia una linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a scavare meritoriamente.
L’Internazionale comunista è stata fondata il 5 marzo 1919, ma la sua formazione ideologica e organica si è verificata solo al Secondo Congresso, nel luglio-agosto 1920, con l’approvazione dello Statuto e delle 21 condizioni. Dal Secondo Congresso comincia in Italia la campagna per il risanamento del partito già iniziata nel marzo precedente dalla sezione di Torino con la mozione di presentare all’imminente Conferenza nazionale del partito che appunto a Torino doveva tener si, ma non aveva trovato ripercussioni notevoli (alla conferenza di Firenze della frazione astensionista, tenuta nel luglio 1920, prima del Secondo Congresso, fu respinta la proposta fatta da un rappresentante dell’”Ordine Nuovo” di allargare la base della frazione, facendola diventare comunista, senza la pregiudiziale astensionista che praticamente aveva perduto gran parte della sua ragione d’essere). Il Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno furono riallacciati al Secondo Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni formali del Secondo Congresso. Fu questo un errore e oggi possiamo valutare tutta l’estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità, le deliberazioni del Secondo Congresso erano l’interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al secondo Congresso, che erano una parte e delle più importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal Secondo congresso, noi, però, ci limitammo a battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione, non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare la nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato. Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti, fummo senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiuolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo Livorno: la necessità, che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, del dilemma di vita o morte. Dovemmo organizzarci in partito nel fuoco della guerra civile, cementando le nostre sezioni col sangue dei più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell’atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamento per la guerriglia, nella più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscì tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito: esso è una falange d’acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le forze avversarie, ma sufficiente per diventare l’armatura di una più vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto.
Ecco il problema attuale che si pone, inesorabilmente: costituire un grande esercito per le prossime battaglie, costituirlo inquadrandolo nelle forze che da Livorno a oggi hanno dimostrato di saper resistere senza esitazioni e senza indietreggiamenti, all’attacco violentemente sferrato dal fascismo. Lo sviluppo dell’Internazionale comunista, dopo il secondo Congresso ci offre il terreno adatto a ciò, interpreta, ancora una volta - con le deliberazioni del Terzo e del Quarto congresso, deliberazioni integrate da quelle degli Esecutivi allargati del febbraio e giugno 1922 e del giugno 1923, - la situazione, e i bisogni della situazione italiana. La verità è che noi, come partito, abbiamo già fatto alcuni passi in avanti in questa direzione: non ci rimane che prendere atto di essi e arditamente continuare. Che significato hanno infatti gli avvenimenti svoltisi in seno al partito socialista, con la scissione dai riformisti in un primo tempo, con l’esclusione del gruppo di redattori di “Pagine rosse” in un secondo tempo e col tentativo di escludere tutta la frazione terzinternazionalista in un terzo e ultimo tempo? Hanno questo preciso significato: che mentre il nostro partito era costretto, come sezione italiana, a limitare la sua attività alla lotta fisica di difesa contro il fascismo e alla conservazione della sua struttura primordiale, essa, come partito internazionale, operava, continuava ad operare per aprire nuove vie verso il futuro, per allargare la sua cerchia di influenza politica, per far uscire dalla neutralità una parte della massa che prima stava a guardare indifferente o titubante. L'azione dell’Internazionale fu, per qualche tempo, la sola che abbia permesso al nostro partito di avere un contatto efficace con le larghe masse, che abbia conservato un fermento di discussione e un principio di movimento in strati cospicui della classe operaia che a noi era impossibile nella situazione data, altrimenti raggiungere. È stato indubbiamente un grande successo l’aver strappato dalla ganga del partito socialista dei blocchi, aver ottenuto, quando la situazione pareva peggiore, che dall’amorfa gelatina socialista si costituissero i nuclei i quali affermavano di aver fede, nonostante tutto, nella rivoluzione mondiale i quali, coi fatti se non con le parole che pare brucino più dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22. È stata questa una sconfitta del fascismo e della reazione: è stata, se vogliamo esser sinceri, l’unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana.
Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro partito, anche dei più responsabili e qualificati. Esso rappresenta, in questo momento, il più grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislazione fascista. Si approssimano grandi lotte, forse le più sanguinose e pesanti di quelle degli anni scorsi: è necessaria perciò la massima energia nei nostri dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione della massa di partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza nella decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima ... e che credevamo definito. Bisogna dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione. Certo, bisognerà ancora lottare fortemente: certo il compito del nucleo fondamentale del nostro partito costituitosi a Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa). Ma non ci troveremo più in una situazione pre-Livorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo più quelli del 1920 e non lo vorremmo mai più ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata e non sarà più la cosa più semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi da stufa, dopo averle intronato le orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere massimaliste. Perché esiste il nostro partito, che è pur qualcosa, che ha dimostrato di essere qualcosa, e nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte migliore, più sana, più onesta del proletariato italiano.
Antonio Gramsci - (15 marzo 1924)

91 - Sulla contraddizione (Mao Tse Dun)

La legge della contraddizione insita nelle cose, nei fenomeni, ossia la legge dell'unità degli opposti, è la legge fondamentale della dialettica materialistica. Lenin afferma: “Nel senso proprio della parola la dialettica è lo studio delle contraddizioni nell’essenza stessa degli oggetti...” Questa legge è detta ripetutamente da Lenin l’essenza della dialettica. Perciò studiando questa legge, non possiamo non toccare una vasta cerchia di problemi, non possiamo non toccare molte questioni filosofiche. Se comprenderemo queste questioni, ci saranno chiare le basi stesse della dialettica materialistica. E si tratta delle questioni seguenti: le due concezioni del mondo, il carattere universale della contraddizione, l’identità e la lotta degli opposti, il posto dell’antagonismo nella contraddizione. (...)
La causa fondamentale dello sviluppo delle cose non si trova fuori di esse, nella natura contradditoria intimamente pertinente alle cose stesse. Ad ogni cosa e fenomeno sono intimamente inerenti le contraddizioni. Queste appunto generano il movimento e lo sviluppo delle cose. Le contraddizioni inerenti alle cose e ai fenomeni sono la causa fondamentale del loro sviluppo, mentre il nesso e l’azione reciproca delle cose e dei fenomeni tra loro, rappresentano una causa secondaria. Così, la dialettica materialistica ha respinto decisamente la dottrina meta-fisica della causa esterna o dell’impulso, avanzata dai sostenitori del materialismo meccanicistico volgare. È assolutamente chiaro che le cause meramente esterne sono capaci soltanto di generare il movimento meccanico delle cose, cioè di modificare il volume e la quantità, ma non possono spiegare perché le cose e i fenomeni sono qualitativamente diversi in infiniti modi e perché le cose si trasformano l’una in un’altra. (...) Così lo sviluppo della società, è determinato principalmente non da cause esterne, ma interne.
Molti Stati che si trovano in condizioni climatiche e geografiche quasi uguali, si differenziano radicalmente l’uno dall’altro per il grado del loro sviluppo, si sviluppano in modo estremamente ineguale. Perfino grandi trasformazioni sociali avvengono in un solo Stato sebbene non si abbiano, in questo paese, cambiamenti geografici e climatici. (...)
Per comodità di esposizione mi soffermo dapprima sul carattere universale della contraddizione e poi sul suo carattere particolare. In realtà dopo la scoperta della concezione materialistica e dialettica del mondo da parte dei grandi fondatori del marxismo, Marx ed Engels, e dei continuatori della loro opera, Lenin e Stalin, la dialettica materialistica è stata applicata con grande successo in numerosi campi d’indagine della storia dell’umanità e della natura, in molti campi della trasformazione della società e della natura; il carattere universale della contraddizione è oramai riconosciuto da molti e perciò non occorrono troppe parole per illustrare tale questione; il problema del carattere particolare della contraddizione, invece, non è stato ancora compreso da numerosi compagni, e in ispecial modo dai dogmatici. Essi non comprendono che nelle contraddizioni l’universale esiste nel particolare. Essi non comprendono quale enorme importanza per la direzione della nostra pratica rivoluzionaria abbia lo studio del carattere particolare delle contraddizioni insita nella cose e nei fenomeni concreti del nostro tempo. Perciò il problema del carattere particolare delle contraddizioni richiede uno studio serio, e all’esame di esso deve essere dedicato sufficiente spazio. (...)
La questione del carattere universale o assoluto della contraddizione presenta due aspetti: in primo luogo, le contraddizioni esistono nei processi di sviluppo di tutte le cose e fenomeni; in secondo luogo, nel processo di sviluppo di ogni cosa e fenomeno il movimento delle contraddizioni esiste dal principio alla fine.
Engels afferma: “Lo stesso movimento è una contraddizione...” Lenin definisce la legge dell’unità degli opposti come “il riconoscimento (la scoperta) delle tendenze contraddittorie opposte, che si escludono reciprocamente, in tutti i fenomeni e processi della natura (dello spirito e della società inclusi)”.
Sono giuste queste affermazioni? Sì, sono giuste. L’interdipendenza e la lotta degli opposti, proprie di ogni fenomeno, determinano la vita di tutte le cose e di tutti i fenomeni, e ne promuovono lo sviluppo. Non esistono cose che non contengano contraddizioni. Se non esistessero le contraddizioni, non vi sarebbe sviluppo dell’universo.
La contraddizione è la base delle forme semplici del movimento (per esempio, del movimento meccanico) e a maggior ragione la base delle forme complesse del movimento. (…)
Nella guerra l’attacco e la difesa, l’avanzata e la ritirata, la vittoria e la sconfitta sono fenomeni contradditori. Senza l’uno non esiste neppure l’altro. La lotta e il nesso reciproco di questi due lati costituiscono il tutto unico della guerra, progrediscono con lo sviluppo di essa, ne decidono l’esito.
Ogni divergenza nelle concezioni umane deve essere considerata come un riflesso delle contraddizioni oggettive. Le contraddizioni oggettive, riflettendosi nel pensiero soggettivo, formano il movimento contraddittorio dei concetti, promuovono lo sviluppo del pensiero, risolvono continuamente i problemi che si pongono di fronte al pensiero umano.
Contrapposizione e lotta tra varie opinioni sorgono continuamente nel partito; esse sono il riflesso nel partito delle contraddizioni di classe esistenti nella società e della contraddizione tra il nuovo e il vecchio. Se nel partito non ci fossero né contraddizioni né lotta ideologica, nel corso della quale le contraddizioni vengono superate, la vita del partito stesso cesserebbe. (...)
Fin dal loro apparire borghesia e proletariato, lavoro e capitale sono stati in contraddizione; ma questa contraddizione non era ancora acuta. Persino nelle condizioni sociali dell’Unione Sovietica tra gli operai e i contadini esiste una differenza. La differenza tra di loro è una contraddizione, la quale però non può acuirsi e diventare antagonismo, non può assumere la forma di lotta di classe, non è equivalente alla contraddizione tra lavoro e capitale; gli operai e i contadini nel corso dell’edificazione del socialismo hanno stabilito fra loro una solida alleanza, e la contraddizione sopra indicata viene progressivamente superata nel processo del passaggio dal socialismo al comunismo. Qui possiamo parlare soltanto di differenza nel carattere delle contraddizioni, ma non della loro presenza o assenza. (…)
Che cosa significa nascita di un nuovo processo? Significa che la vecchia unità e gli opposti che la costituivano lasciano il posto a una nuova unità e ai nuovi opposti che la costituiscono; così nasce il nuovo processo che sostituisce il vecchio. Il vecchio processo si conclude, il nuovo sorge. Il nuovo processo, che contiene nuove contraddizioni, inizia la storia dello sviluppo delle proprie contraddizioni.
Lenin rileva che Marx ha dato nel “Capitale” un modello di analisi del movimento degli opposti, che passa attraverso tutto il processo di sviluppo della cosa, del fenomeno dal principio alla fine. Questo metodo deve essere applicato nello studio del processo di sviluppo di ogni fenomeno. Lo stesso Lenin ha applicato in modo appropriato questo metodo, che permea tutte le sue opere.
I comunisti cinesi debbono assimilare questo metodo; solo così potranno analizzare giustamente la storia e la situazione attuale della rivoluzione cinese e determinarne le prospettive. (…)
Ci soffermeremo adesso sul carattere particolare e relativo della contraddizione. Questa questione deve essere considerata sotto vari aspetti.
Anzitutto, in tutte le diverse forme di movimento della materia le contraddizioni hanno un carattere particolare. La conoscenza della materia da parte dello uomo è la conoscenza delle forme di movimento della materia, perché nel mondo non esiste nulla tranne la materia in movimento, e il movimento della materia assume sempre forme determinate. Considerando ogni singola forma in movimento, occorre tenere presente gli elementi che essa ha in comune con le altre forme di movimento.
Ma è ancora più importante - ed è questo il fondamento della nostra conoscenza delle cose - tener conto del carattere particolare proprio di ogni forma di movimento, cioè tener conto della sua differenza qualitativa dalle altre forme di movimento. Solo in questo modo è possibile distinguere un fenomeno dall’altro. Ogni forma di movimento contiene le sue contraddizioni particolari che costituiscono l’essenza particolare del fenomeno; e quest’ultima differenzia un fenomeno dagli altri. In questo consiste la causa interna o base della varietà infinita delle cose e dei fenomeni esistenti nel mondo. Nella natura vi sono numerose forme di movimento: il movimento meccanico, il suono, la luce, il calore, l’elettricità, l’associazione, la dissociazione, ecc. Tutte queste forme di movimento della materia si trovano in un rapporto di interdipendenza, ma nella loro essenza si differenziano l’una dall’altra. L’essenza particolare di ogni forma di movimento è determinata dalle contraddizioni particolari che essa sola contiene. Tale situazione non si riscontra soltanto nella natura: essa esiste egualmente nei fenomeni sociali e ideologici. Ogni forma sociale, ogni forma della conoscenza contiene le sue contraddizioni particolari e possiede una sua essenza particolare.
La classificazione delle discipline scientifiche si fonda appunto sulle contraddizioni particolari insite negli oggetti dell’indagine scientifica. Lo studio di determinate contraddizioni, insite soltanto in una determinata sfera di fenomeni, costituisce appunto l’oggetto di questa o quella scienza. (…) Naturalmente, se non si riconosce il carattere universale della contraddizione è impossibile scoprire la causa universale o base universale del movimento, dello sviluppo dei fenomeni; ma se non si analizza il carattere particolare delle contraddizioni è impossibile determinare l’essenza particolare che distingue un fenomeno dagli altri, scoprire le cause o basi particolari del movimento, dello sviluppo dei fenomeni, delimitare i campi dell’indagine scientifica.
Se si considera la continuità del movimento nel processo della conoscenza umana, si osserva che esso si estende sempre progressivamente dalla conoscenza del generale. Gli uomini conoscono dapprima l’essenza particolare di molti fenomeni diversi e solo in seguito possono passare alla generalizzazione, alla conoscenza dell’essenza generale dei fenomeni. Soltanto dopo aver conosciuto questa essenza generale, guidati da questa conoscenza e indagando in seguito le diverse cose concrete, che non sono ancora state studiate superficialmente, e cogliendone l’essenza particolare è possibile completare, arricchire e sviluppare la conoscenza di una data essenza generale, evitando che tale conoscenza si trasformi in qualcosa di arido e fossilizzato. Queste sono quindi le due fasi del processo della conoscenza: la prima, dal particolare al generale, la seconda, dal generale al particolare. Lo sviluppo della conoscenza umana è sempre un movimento a spirale, e ogni ciclo eleva la conoscenza a un livello superiore, la approfondisce continuamente (purché si rispetti rigorosamente il metodo scientifico). L’errore dei nostri dogmatici a questo proposito consiste nel fatto che essi, da una parte, non comprendono che, solo indagando il carattere particolare delle contraddizioni e dopo aver conosciuto l’essenza particolare delle singole cose, è possibile conoscere appieno il carattere universale delle contraddizioni, l’essenza generale delle cose; e, d’altra parte, non capiscono che, conoscendo l’essenza generale delle cose, è necessario proseguire l’indagine delle cose concrete, che non sono ancora state studiate a fondo o si sono presentate di recente. I nostri dogmatici sono degli scansafatiche, respingono ogni lavoro minuzioso di ricerca sulla cose concrete, considerano le verità generali come cose cadute dal cielo, le trasformano in qualcosa di incomprensibile, in formule meramente astratte, negano completamente l’ordine normale, attraverso cui l’uomo giunge alla conoscenza della verità. Essi non comprendono nemmeno il nesso reciproco della conoscenza, dal particolare al generale e dal generale al particolare. Non comprendono affatto la teoria marxista della conoscenza. (...)
Tutte le forme di movimento in ogni processo reale e non immaginario di sviluppo sono qualitativamente diverse; nel nostro lavoro di ricerca dobbiamo rivolgere particolare attenzione a questo punto e da esso cominciare. Le contraddizioni qualitativamente diverse possono essere superate solo con metodi qualitativamente diversi. Ad esempio, la contraddizione fra le masse popolari ed il regime feudale, si risolve con il metodo della rivoluzione democratica borghese. La contraddizione fra il proletariato e la borghesia, con il metodo della rivoluzione socialista. La contraddizione tra le colonie e l’imperialismo, con il metodo della guerra nazionale rivoluzionaria. La contraddizione tra la classe operaia e i contadini nella società socialista, si risolve con il metodo della collettivizzazione e meccanizzazione dell’agricoltura. Le contraddizioni all’interno del partito comunista, con il metodo della critica e dell’autocritica. Le contraddizioni tra la società e la natura con il metodo dello sviluppo delle forze produttive, il processo cambia, il vecchio processo e le vecchie contraddizioni, vengono liquidati, sorgono un nuovo processo e nuove contraddizioni; in corrispondenza mutano anche i metodi per il superamento delle contraddizioni. (...) La soluzione di contraddizioni diverse con metodi diversi è un principio che i marxisti-leninisti debbono rigorosamente rispettare. (...) Lenin afferma: “Per conoscere effettivamente l’oggetto occorre abbracciare, studiare tutti i suoi lati, tutti i nessi e le ‘mediazioni’: noi non raggiungeremo mai ciò pienamente, ma l’esigenza della multilateralità ci premunirà dagli errori e dallo schematismo”.
Noi dobbiamo ricordare queste parole.
Nel processo generale di sviluppo dei fenomeni, noi dobbiamo studiare non soltanto le peculiarità del movimento degli opposti nel loro nesso reciproco e tenendo conto della posizione di ciascuna delle parti; ma anche le caratteristiche particolari delle diverse fasi di questo processo di sviluppo, che anch’esse non possono venir trascurate. (...) Inoltre, fra le numerose contraddizioni grandi e piccole, condizionate dalla contraddizione fondamentale o che si trovano sotto la influenza di essa, alcune divengono più acute, altre divengono momentaneamente o parzialmente risolte o attenuate, altre poi sorgono ex novo. Appunto per questo il processo consiste di diverse fasi. Chi non rivolge la sua attenzione alle fasi del processo di sviluppo di un fenomeno, non è in grado di risolvere in modo giusto le contraddizioni insite in esso. (...) Da ciò deriva che nello studio della natura specifica di ogni contraddizione bisogna evitare ogni arbitrarietà soggettiva e attenersi all’analisi concreta. Senza l’analisi concreta è impossibile conoscere la natura specifica di qualsiasi contraddizione. Dobbiamo sempre ricordare la parole di Lenin: analisi concreta della situazione concreta.
Quando Marx ed Engels applicarono allo studio del processo storico sociale la legge della contraddizione insita nei fenomeni, essi scoprirono le contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione, tra la classe degli sfruttatori e la classe degli sfruttati, e la contraddizione che ne scaturiva tra la base economica e la sovrastruttura politica, ideologica, ecc. Essi videro che tali contraddizioni producono inevitabilmente nelle diverse società classiste rivoluzioni sociali di diverso carattere.
Quando Marx applicò questa legge allo studio della struttura economica della società capitalistica, vide che la contraddizione fondamentale di tale società è la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione. Tale contraddizione si manifesta nella contraddizione tra il carattere organizzato della produzione nelle singole imprese e il carattere disorganizzato della produzione nella società presa nel suo insieme. Nei rapporti di classe tale contraddizione si manifesta nella contraddizione tra la borghesia e il proletariato.
A causa dell’enorme varietà dei fenomeni e dell’illimitato loro sviluppo ciò che in un determinato caso è universale può in un altro caso trasformarsi in particolare. E viceversa, ciò che in un caso determinato è particolare, può in un altro caso trasformarsi in universale.
La contraddizione, propria del regime capitalistico, tra il carattere sociale della produzione e la proprietà privata dei mezzi di produzione è generale per tutti i paesi in cui esiste e si sviluppa il capitalismo. Per il capitalismo tale contraddizione ha un carattere universale.
Ma questa contraddizione propria del capitalismo rappresenta un fenomeno inerente a una determinata fase storica nello sviluppo della società classista in generale; riguardo alla contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione nella società classista in generale, essa costituisce il carattere particolare della contraddizione. Ma, scoprendo il carattere particolare di tutte le contraddizioni della società capitalistica, Marx svelò in modo ancor più approfondito, completo e multilaterale il carattere universale delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione nella società classista in genere.
Poiché il particolare è legato all’universale, poiché ad ogni fenomeno è interamente pertinente non solo l’elemento particolare della contraddizione ma anche l’elemento universale, l’universale esiste nel particolare. Perciò nello studio di un determinato fenomeno occorre scoprire ambedue questi aspetti e il loro nesso reciproco, individuare il particolare e l’universale che sono insiti in un dato fenomeno e il loro nesso reciproco, scoprire il legame reciproco tra il fenomeno e i numerosi altri fenomeni fuori di esso. Stalin, nella sua famosa opera “Principi del leninismo”, analizzando le radici storiche del leninismo, esamina la situazione internazionale in cui il leninismo è nato, le contraddizioni del capitalismo, giunte all’estremo nella fase imperialistica; mostra come queste contraddizioni abbiano fatto sì che la rivoluzione proletaria è divenuta una questione di azione immediata, e come abbiano creato le condizioni favorevoli per il diretto abbattimento del capitalismo. (…)
Il rapporto fra carattere universale e carattere particolare della contraddizione è il rapporto tra generale e individuale. Il carattere universale consiste nell’esistenza delle contraddizioni in tutti i processi dal principio alla fine, contradditori sono i movimenti, le cose, i processi, i pensieri. Questa legge generale è valida per tutti i tempi e luoghi senza eccezione. Perciò la contraddizione è universale, assoluta. Tuttavia questo universale esiste attraverso l’individuale, e senza l’individuale non può esservi l’universale. Può forse esistere l’universale se si esclude tutto l’individuale? L’individuale nasce dal fatto che ogni contraddizione ha particolarità proprie. Tutto l’individuale è condizionato, temporaneo e perciò relativo.
Questo principio dell’universale e dell’individuale, dell’assoluto e del relativo è la quintessenza della questione delle contraddizioni insite nei fenomeni; non comprendere tale principio equivale a rinunciare alla dialettica.
Mao Tse-Dun (1937)

92 - Il movimento (cinese) del 4 Maggio 1919 (Mao Tse-Dun)

Venti anni fa, il movimento del 4 maggio mostrò che la rivoluzione democratica borghese contro l’imperialismo e il feudalesimo era entrata in una nuova fase. Ma il movimento del 4 maggio, semplice movimento di rinnovamento culturale, fu soltanto uno degli aspetti della rivoluzione democratica borghese contro l’imperialismo e il feudalesimo in Cina. Il sorgere e lo svilupparsi, in quel periodo, di nuove forze sociali, portò al costituirsi di uno schieramento che divenne più tardi una forza importantissima della rivoluzione democratica borghese: lo schieramento composto dalla classe operaia, dalle masse studentesche e dalla giovane borghesia nazionale. Nel corso del movimento del 4 maggio combatterono nelle prime file centinaia di migliaia di eroici studenti; e per questo aspetto il movimento del 4 maggio rappresentò un passo avanti in confronto alla rivoluzione del 1911.
La rivoluzione democratica borghese in Cina - se ne ripercorriamo il cammino a cominciare dalla sua origine - è passata attraverso diverse fasi: la guerra dell’oppio, la guerra dei “taiping”, la guerra cino-giapponese del 1894, il movimento per le riforme del 1898, la rivolta dei “boxers”, la rivoluzione del 1911, il movimento del 4 maggio, la spedizione del nord e la guerra rivoluzionaria agraria. L’odierna guerra antigiapponese è una fase ulteriore di questo sviluppo, la fase più grandiosa, più vigorosa e più costruttiva. La rivoluzione democratica borghese si potrà considerare compiuta, solo quando ci saranno sostanzialmente le forze imperialiste straniere e le forze feudali interne, e si sarà creato in Cina uno Stato democratico indipendente. A partire dalla guerra dell’oppio, ognuna delle fasi di sviluppo della rivoluzione cinese ha avuto caratteristiche sue proprie. Ma ciò che contraddistingue in maniera sostanziale queste fasi tra di loro è il fatto che esse siano avvenute prima o dopo la nascita del partito comunista. Tuttavia, nel loro insieme, tutte queste fasi hanno il carattere di una rivoluzione democratica borghese. Questa rivoluzione democratica mira alla creazione di un sistema sociale che non ha precedenti nella storia della Cina, cioè di un regime democratico; questo tipo di società è stato preceduto dalla società feudale (che, negli ultimi cento anni, si trasformò in una società semicoloniale e semifeudale), e sarà seguito da una società socialista. Se chiediamo a un comunista perché egli lotta, prima per un sistema sociale democratico borghese e solo dopo per un sistema sociale socialista, vi risponderà: perché risponde al corso ineluttabile della storia.
Il compimento della rivoluzione democratica cinese dipende da forze sociali determinate. Tali forze sono la classe operaia, i contadini, gli intellettuali e la parte progressista della borghesia: o, in altre parole, operai, contadini, soldati, intellettuali e commercianti e industriali rivoluzionari, con gli operai e i contadini come forze rivoluzionarie fondamentali e la classe operaia come guida della rivoluzione. Senza queste forze rivoluzionarie fondamentali, senza la direzione della classe operaia, è impossibile portare a termine la rivoluzione democratica antimperialista e antifeudale. Oggi i nemici principali della rivoluzione sono gli imperialisti giapponesi e i loro collaboratori cinesi, e base della politica rivoluzionaria è la formazione di un fronte unico nazionale antigiapponese, fronte unico composto da tutti gli operai, i contadini, i soldati, gli intellettuali e i commercianti e industriali antigiapponesi. La vittoria finale della guerra antigiapponese sarà raggiunta solo quando il fronte unico degli operai, dei contadini, dei soldati, degli intellettuali e dei commercianti e industriali sarà stato sufficientemente rafforzato e sviluppato.
Nel movimento per la rivoluzione democratica cinese, gli intellettuali furono all’avanguardia del risveglio nazionale. Sia la rivoluzione del 1911 che il movimento del 4 maggio, misero chiaramente in luce questa loro funzione, e nel movimento del 4 maggio la loro partecipazione fu più numerosa e più attiva che nella rivoluzione del 1911. Ma se gli intellettuali non si uniranno con le masse degli operai e dei contadini, essi non potranno giungere ad alcun risultato. La linea di demarcazione tra gli intellettuali rivoluzionari, da una parte, e gli intellettuali non rivoluzionari e controrivoluzionari dall’altra, è segnata dalla volontà o meno di unirsi strettamente, in teoria e in pratica, alle masse degli operai e dei contadini. Soltanto ciò e non altro, non certo di chiacchierare dei “Tre principi popolari” o di marxismo, segna la linea di demarcazione tra gli uni e gli altri. Vero rivoluzionario è chi è pronto a unirsi strettamente in teoria e in pratica, con le masse degli operai e dei contadini.
Sono ora passati venti anni dal movimento del 4 maggio, e quasi due anni dallo scoppio della guerra antigiapponese. Gravi responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione democratica e della guerra antigiapponese ricadono sui giovani e sugli uomini di cultura del nostro paese; io spero che ciascuno di loro saprà comprendere la natura e il carattere delle forze motrici della rivoluzione cinese e, legando strettamente la propria azione a quella delle masse operaie e contadine, saprà andare tra queste masse come propagandista e organizzatore. Il giorno in cui, in tutto il paese, il popolo si solleverà come un sol uomo, sarà il giorno della vittoria nella guerra antigiapponese.
Al lavoro dunque, giovani di tutta la Cina!
Mao Tse-Dun

93 - Contro il “liberalismo (Mao Tse-Dun)

(Le pagine che seguono furono scritte il 7 settembre 1937)
Noi siamo per un dibattito ideologico, che è l’arma per raggiungere la solidarietà nel partito e nelle organizzazioni rivoluzionarie, e per prepararle alla lotta. Ogni comunista e ogni rivoluzionario deve impugnare quest’arma.
Il “liberalismo” nega invece la lotta ideologica ed è per una pace senza principi; nasce da ciò uno stile di lavoro decadente e ipocrita e, in conseguenza, alcune unità e alcuni individui nel partito e nelle organizzazioni rivoluzionarie hanno cominciato a degenerare politicamente.
Il liberalismo si manifesta in vari modi.
Sebbene si sappia chiaramente che un certo individuo è in torto, tuttavia per la vecchia amicizia, o perché è un compaesano, o un amico di scuola, o un caro e amato compagno, o un antico collega, o un ex subordinato, non si sente il bisogno di discutere con lui sulla base dei principi, ma si lascia correre per conservare la pace e l’amicizia. Oppure si tratta la questione di sfuggita, senza approfondirne seriamente gli aspetti sempre per conservare l’armonia. Come risultato, si danneggia l’organizzazione e l’individuo stesso. Questo è il primo tipo di liberalismo.
Indulgere in un irresponsabile criticismo in privato, senza dare suggerimenti positivi alla organizzazione. Non dire le cose in faccia alla gente, ma mormorare alle sue spalle; stare zitti alle riunioni, ma chiacchierare dopo. Non preoccuparsi del principio della vita collettiva, ma esser pieni solo di illimitata autoindulgenza. Questo è il secondo tipo.
Non prendere in considerazione le cose che non hanno un interesse personale; parlare il meno possibile di cose di cui si sa bene che sono sbagliate; essere pieni di cautele per salvare se stessi, e ansiosi solo di evitar grane. Questo è il terzo tipo.
Disubbidire agli ordini e porre le proprie opinioni al disopra di ogni cosa. Chiedere alle organizzazioni facilitazioni speciali e respingerne la disciplina. Questo è il quarto tipo.
Impugnare dispute e questioni contro i punti di vista sbagliati, ma non per amore della compattezza, per far progredire e migliorare il lavoro, ma per portare attacchi personali, per sfogarsi, per rifarsi di torti subiti e vendicarsi. Questo è il quinto tipo.
Ascoltare opinioni errate senza discuterle, non controbattere quando si ascoltano opinioni controrivoluzionarie, ma tollerarle placidamente come se niente fosse. Questo è il sesto tipo.
Non impegnarsi nell’azione di propaganda e di agitazione, non interessarsi della vita delle masse e non preoccuparsi conoscerla, ma lasciare le masse sole, senza interesse per il loro benessere e la loro infelicità; dimenticare di essere comunista e comportarsi come se un comunista fosse un individuo come un altro. Questo è il settimo tipo.
Non indignarsi di fronte ad azioni che vanno a detrimento delle masse, né dissuadere o fermare chi è responsabile di tali azioni, né cercare di insegnargli la via giusta, ma lasciarlo perseverare nell’errore. Questo è l’ottavo tipo.
Lavorare senza entusiasmo e senza un piano o una direzione definita, lavorare con negligenza e lasciar andare le cose alla deriva. “Finché sarò bonzo, suonerò le campane”. Questo è il nono tipo.
Pensare di aver ben meritato della rivoluzione per i servizi prestati e darsi arie da veterano; essere incapace di fare le cose più grandi e disdegnare i piccoli compiti; essere trascurato nel lavoro e distratto nello studio. Questo è il decimo tipo.
Essere conscio dei propri errori ma non cercar di correggerli, e avere un atteggiamento liberale verso se stesso. Questo è l’undicesimo tipo.
Potremmo enumerarne molti altri, ma questi undici sono i tipi principali.
Tutte queste sono manifestazioni di liberalismo.
Nelle organizzazioni rivoluzionarie il liberalismo è estremamente dannoso. È un corrosivo che distrugge l’unità, che mina la solidarietà, che induce all’inattività e crea disaccordo. Esso priva le file rivoluzionarie di compattezza nell’organizzazione e di serietà nella disciplina, si oppone a che le nostre direttive politiche siano fermamente portate avanti e separa le organizzazioni di partito dalle masse che esse dirigono. È una tendenza estremamente pericolosa.
Il liberalismo germoglia sull’egoismo piccolo-borghese, che pone in primo piano i propri interessi personali e in secondo piano gli interessi della rivoluzione, producendo così il liberalismo ideologico, politico e organizzativo.
I liberali considerano i principi del marxismo come dogmi astratti; essi li approvano, ma non sono pronti a metterli in pratica pienamente; essi non sono capaci di mettere il marxismo al posto del loro liberalismo. Queste persone hanno appreso il marxismo, ma insieme hanno appreso il liberalismo; parlano di marxismo ma praticano il liberalismo; applicano il marxismo agli altri e il liberalismo per se stessi. Hanno in riserva l’una e l’altra merce, e trovano modo di usare l’una e l’altra. Così lavora la mente di certe persone.
Il liberalismo è una manifestazione di opportunismo ed è fondamentalmente in conflitto con il marxismo. Ha una caratteristica di passività, ed ha oggettivamente l’effetto di aiutare il nemico; per questo il nemico è soddisfatto ch’esso si conservi in mezzo a noi. Essendo questa la sua natura, non deve aver più posto nelle file rivoluzionarie.
Noi dobbiamo servirci dello spirito attivo del marxismo per respingere il liberalismo e la sua passività. Un comunista deve essere franco, fedele e attivo, considerare gli interessi della rivoluzione come la sua vera vita e subordinare i suoi interessi personali a quelli della rivoluzione; un comunista deve aderire, sempre e ovunque ai principi giusti e condurre una lotta instancabile contro tutte le idee e le azioni sbagliate, in modo da consolidare la vita collettiva del partito e rafforzare i legami tra il partito e le masse; un comunista deve interessarsi più della vita del partito e delle masse che della propria vita, più degli altri che di stesso. Solo così può essere considerato comunista.
Tutti i comunisti leali, onesti, attivi e tenaci devono unirsi per contrastare le tendenze liberali evidenti in alcuni di noi, e indirizzare questi individui nella direzione giusta. Questo è uno dei compiti del nostro fronte ideologico.
Mao Tse-Dun

94 - Il volto del nazifascismo (1941) (Palmiro Togliatti)

Una volta, parecchi anni or sono, Mussolini proclamò che il fascismo non è merce di esportazione. Egli sentiva che il giorno in cui si fosse proposto di esportare i metodi fascisti al di là dei confini d’Italia, quel giorno sarebbe stato l’inizio della sua fine, perciò quando si rivolgeva al pubblico degli altri paesi egli era tutto lattemiele. Non parlava che di progresso e di civiltà. Che cosa significassero per il disgraziato popolo italiano quella civiltà e quel progresso, venissero a vederlo, gli inglesi e gli americani, se ci riuscivano. Il bastone e l’olio di ricino degli squadristi, il pugnale di Dumini, l’incendio delle Camere del lavoro e di migliaia di case di braccianti e di operai, il saccheggio a man salva, l’assassinio in dieci contro uno e più tardi, la dilapidazione del tesoro dello Stato e lo scorticamento sistematico della popolazione lavoratrice, tutto questo doveva essere riservato all’uso interno. A noi accadde, perfino, alle volte, mentre battevamo le dure vie dell’esilio, e ci sforzavamo, come era nostro dovere, di suscitare l’orrore contro questo spaventoso ritorno alla barbarie, che è il regime fascista, di incontrare della incredulità. È possibile, anzi, che persino in Italia, oggi, soprattutto fra le nuove generazioni avvelenate da venti anni di propaganda fascista, ci sia chi ha dimenticato gli orrori dei primi tempi e non comprenda la vera natura del regime mussoliniano.
Hitler si è incaricato di aprire gli occhi a tutti. Egli ha lanciato il suo esercito alla conquista dell’Europa e del mondo e alla luce delle gesta di questo esercito, tutti ora possono vedere che cosa il fascismo è nella realtà, a che cosa esso riduce gli uomini, a quale sorte esso condanna i popoli che sottopone al suo giogo. Le maschere cadono, e un grido di raccapriccio si leva, da tutti i paesi civili. Ricordiamo le cose che si dissero dell’esercito tedesco all’inizio della grande guerra imperialista mondiale, soprattutto durante l’invasione del Belgio. Mussolini fu uno degli uomini che più si adoperarono allora per rendere popolari quei racconti che del resto, pare, si riferissero a fatti di eccezione e che non sempre poterono essere accertati. Oggi non si tratta più, né di fatti isolati né di racconti la cui autenticità possa essere messa in dubbio. Dalla Francia all’Ucraina, da Leopoli a Belgrado, dai villaggi della Bielorussia alle capanne dei pescatori della Norvegia, un quadro uniforme di terrore, di rapina, di bestialità appare agli occhi sbigottiti dell’Europa. La parola che Guglielmo II aveva dato ai suoi soldati: “Siate degli Unni”, Hitler l’ha tradotta in atto. Egli ha avuto bisogno, per riuscirci, di pervertire profondamente l’animo del popolo tedesco, e soprattutto della sua gioventù. Tutti i mezzi sono stati impiegati a questo scopo: la propaganda dell’odio e gli emblemi superstiziosi della morte, la brutalità e la corruzione, la stupida disciplina della caserma e l’incitamento delle passioni più volgari. I restii - coloro che protestavano in nome della civiltà contro questa impresa di imbestiamento di tutta una generazione, di tutto un popolo - sono stati soppressi fra le torture. I libri che predicavano ideali umani, che parlavano di libertà, di uguaglianza, di fratellanza, sono stati bruciati sulle piazze, in mezzo a macabre danze di squadristi ubriachi. Sgozzare col pugnale esseri senza difesa, torturare l’avversario dopo averlo legato a un palo perché non si possa muovere, violentare le donne inermi, rubare, incendiare le case altrui, ridurre popoli armati alla schiavitù, questi sono gli ideali che Hitler ha inculcato alla gioventù tedesca. Così il nazionalismo ha ottenuto il suo scopo che era di crearsi un esercito di attacco non più di uomini ma di bestie feroci.
I soldati hitleriani non sono più dei soldati secondo il significato comune di questo termine. Non è un soldato colui che dirige la mitraglia contro le donne e i bambini, come fecero i tedeschi in Polonia, nel Belgio, in Francia, lungo le strade affollate di fuggiaschi. Non sono soldati i bruti che, dopo aver conquistato un villaggio riuniscono la popolazione atterrita, si fanno consegnare le ragazze di 14 e 15 anni, le violentano a turno sotto gli occhi dei genitori e dopo averle violentate le schiacciano sotto i cingoli dei tank. Non sono soldati coloro che, a Leopoli, fucilano a centinaia gli operai colpevoli di essere stati iscritti al sindacato, le donne ree di aver fatto parte delle organizzazioni di soccorso alle vittime politiche. Non sono soldati coloro che seppelliscono vivi in Ucraina, gli attivisti delle organizzazioni politiche dei lavoratori. Non sono soldati coloro che mettono a sacco le case dei paesi conquistati, che rubano gli orologi e gli stivali ai morti, che caricano i loro tank di indumenti femminili da mandare alle loro amanti nelle retrovie.
No, questi non sono soldati. Queste sono delle belve! Questi sono dei fascisti. E nulla è più sacro del grido di odio che da tutti i paesi d’Europa si leva, oggi contro coloro che hanno ridotto un popolo a essere strumento di barbarie.
Morte ai fascisti tedeschi! - gridano le madri di Parigi che hanno visto i loro figlioli fucilati presso la tomba del Milite Ignoto, dove manifestavano il loro amore per la loro patria immortale. Morte ai fascisti tedeschi! - grida il contadino serbo, croato, boemo, giurando vendetta per il suo villaggio saccheggiato, per la sua casa data alle fiamme. Morte ai tedeschi fascisti! - gridano i popoli della Grecia, del Belgio, della Norvegia, che vogliono vivere sulle terre loro, come greci, come belgi, come norvegesi, e non come schiavi della Germania. Morte ai fascisti tedeschi! - grida il polacco che si è vista strappare la figlia, la sposa, per mandarle alle case di prostituzione destinate agli ufficiali di Hitler. In nome di tutte le libertà calpestate, in nome delle sofferenze inaudite di milioni di uomini di null’altro colpevoli che di aver difeso la loro libertà e la loro vita; in nome di tutto quello che di caro e di sacro sempre hanno avuto gli uomini - morte ai fascisti tedeschi!
Noi non abbiamo mai predicato l’odio fra i popoli. Nella comprensione reciproca e nella collaborazione tra tutti i popoli vediamo il futuro dell’umanità, ma perché questo futuro sia possibile, è necessario spezzare la strada che oggi è sbarrata dal nazionalsocialismo hitleriano e dal fascismo. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Chi ha predicato l’odio, la distruzione e la morte, sarà travolto dall’odio e dalla vendetta dei popoli. Tragico sarà il destino del popolo tedesco se, in uno sforzo supremo di liberazione e di redenzione, esso non insorgerà a tempo contro i despoti, che lo hanno ridotto alla barbarie. Questo dobbiamo comprendere bene noi italiani. Chi vuole legare il destino dell’Italia a quello della Germania hitleriana, condanna il proprio paese a subire la stessa catastrofe verso cui Hitler spinge il popolo tedesco. Questo non deve essere. Questo non sarà. Lo impediranno i soldati italiani, gli operai, gli intellettuali. Lo impediranno le donne d’Italia, nel cui animo arde il fuoco dei migliori sentimenti umani. Lo impedirà tutto il popolo nostro, levandosi come un sol uomo per la difesa della sua civiltà, del suo avvenire, della sua vita.
Palmiro Togliatti

95 - La classe operaia e la partecipazione al governo (giugno 1944) (Palmiro Togliatti)

Nell’Italia d’un tempo, cosiddetta democratica e liberale, precedente alla usurpazione fascista del potere, intorno al problema della eventuale partecipazione al governo di rappresentanti del partito socialista, si discusse e lottò per decenni. La posizione dell’ala marxista del movimento operaio fu sempre, in proposito, chiarissima. Ogni partecipazione al potere venne considerata inammissibile; ogni proposta di accettare gli inviti a collaborare al governo, provenienti da gruppi e uomini politici borghesi, giustamente denunciata come tentativo di asservire il movimento operaio a finalità e interessi contrastanti con i suoi propri. Su questa posizione si mantenne la grande maggioranza delle masse lavoratrici in modo incrollabile, tanto che tutti gli esponenti del movimento socialista i quali vollero deviare per altro cammino furono respinti dalle masse stesse e dalle loro organizzazioni come traditori.
Oggi, dopo il crollo del fascismo, l’ingresso nel governo non solo di rappresentanti socialisti, ma comunisti, è stato deciso in pochi giorni, e i partiti che lo hanno deciso non solo non hanno visto diminuita la loro autorità fra le masse lavoratrici, ma hanno raccolto il consenso generale e vedono crescere la loro autorità e il loro prestigio di giorno in giorno. Regna fra gli operai e fra tutti gli elementi di avanguardia la convinzione profonda che la partecipazione al governo dei partiti proletari era una necessità imperiosa, e questo vuol dire che la massa, stessa del popolo intuisce, anche se non sarebbe capace di esprimerla chiaramente, la profonda differenza che passa tra la situazione odierna del nostro paese e quella del primo periodo di sviluppo e affermazione del movimento socialista, quando la partecipazione al potere fu considerata inammissibile da tutta la parte sana e vitale di questo movimento.
La situazione del nostro paese è determinata oggi da due elementi. Il primo è la guerra di liberazione nazionale contro i tedeschi; l'altro è la necessità di far seguire al crollo del regime fascista - che si produsse in quel modo che tutti sanno - la distruzione effettiva e completa di tutti i residui di questo regime. La classe operaia, - è bene ripeterlo, quantunque mi sembri che nessuno lo metta in dubbio, oggi, tra noi - non è contro tutte le guerre. Essa lotta risolutamente contro le guerre ingiuste “il cui scopo è di assoggettare altri paesi, altri popoli”; ma sostiene le guerre giuste, le guerre di liberazione, il cui scopo è “la difesa del popolo contro le aggressioni esterne e i tentativi di assoggettarlo”. La guerra del popolo italiano contro gli invasori hitleriani e contro i traditori fascisti è, fra tutte, la più giusta. Essa è tale perché l’Italia fu presa alla gola e aggredita a tradimento quando, spossata da otto anni di brigantaggio internazionale fascista, aveva chiaramente espresso la sua volontà di cercare nella uscita dalla guerra un inizio di rinnovamento. Essa è tale perché l’invasione hitleriana, oltre ad, avere …

         … qui si interrompe la battitura a macchina.